Il ruolo mondiale della Cina
Le nuove impressionanti infrastrutture e la foresta di gru delle città in continua espansione, sia sulla costa sia all’interno, simboleggiano per molti la nuova storia della Cina. Il più popoloso Paese del mondo ha avviato un inarrestabile processo di trasformazione ed è determinato ad allontanarsi il più possibile dalla tradizionale immagine di regno delle biciclette nella quale fino a pochi decenni fa era confinato. Grandi cambiamenti sono infatti avvenuti da quando è stata inaugurata, alla fine degli anni Settanta, una politica di apertura e di riforme economiche. Si è affrancata dalla povertà molta più gente di quanto sia mai stato fatto in qualsiasi altro Paese e in qualsiasi altra epoca. La Cina, inoltre, è diventata il centro mondiale della produzione ed è sempre più difficile immaginare qualcosa che non sia stato fabbricato lì. Infine, il suo imporsi come il nuovo ‘fattore X’ in qualsiasi discussione e decisione da prendere – che riguardi il futuro della politica e dell’economia mondiale o la salvaguardia dell’ambiente, il processo di pace regionale o il prezzo delle materie prime – mostra che essa è diventata la seconda potenza mondiale dopo gli Stati Uniti e che è in grado di influenzare le decisioni politiche ed economiche di Paesi grandi e piccoli.
La scelta della Cina come Paese ospitante dei Giochi olimpici del 2008 e dell’Expo mondiale del 2010 è stata un’ulteriore conferma del suo status di potenza mondiale. I dati e le statistiche sulla Cina e gli effetti a catena che questi producono sull’economia globale spesso generano timore reverenziale sia nei Paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo e pongono questioni cruciali nell’ambito del dibattito internazionale. La politica del ‘Washington consensus’ (ossia l’identità di vedute tra Fondo monetario internazionale, Banca mondiale e Tesoro statunitense sulle politiche riguardanti i Paesi in via di sviluppo), incentrata sul libero mercato e sulla good governance, è stata messa in discussione da quella del ‘Pechino consensus’, basata sul capitalismo di Stato e sul non interventismo politico. Per rispondere alla sfida e trarre vantaggio dalle opportunità di una Cina ‘risorta’, Paesi ricchi e Paesi poveri hanno adattato le loro strategie al paradosso di uno Stato autoritario che sostiene un’economia di libero mercato pur abbracciando il socialismo. La Cina riveste un ruolo determinante come motore di crescita dell’economia mondiale ed è diventata un riferimento centrale nella catena dell’offerta globale. Il Paese mantiene dal 2002 una crescita a due cifre del PIL, con tassi di incremento delle esportazioni del 20% o anche superiori. Nel 2007 ha fatto registrare un aumento del PIL dell’11,4%. La sua capacità di attrarre investimenti diretti dall’estero è stata impressionante e dal 2002 si è costantemente distinta come una delle prime tre destinatarie di tali risorse. Nel 2007 il flusso di investimenti esteri diretti è stato di circa 84 miliardi di dollari in partecipazioni azionarie. In tutto il mondo è vista come una potenza emergente con enormi riserve valutarie.
Sebbene il suo peso politico sia considerato relativamente minore rispetto alla sua influenza economica, l’intervento nella crisi scoppiata nel 2003 in occasione dell’annunciato riarmo nucleare della Corea del Nord e le aspettative riguardo al suo ruolo in Dārfūr indicano che è diventata una pedina importante della politica globale. La sua autorità è limitata anche nell’ambito della sicurezza, ma gli esperti del dipartimento della Difesa statunitense identificano e considerano la Cina come una possibile superpotenza rivale.
L’impatto della Cina sulla politica economica globale
Le enormi riserve valutarie della Cina, la sua rapida industrializzazione e la sua integrazione nel contesto economico mondiale comportano quattro importanti conseguenze. In primo luogo è aumentata la competizione per l’accaparramento delle risorse. Nel 2006 la Cina era tra i principali consumatori delle più importanti materie prime, utilizzando il 32% dell’acciaio mondiale, il 25% dell’alluminio, il 23% del rame, il 30% dello zinco e il 18 % del nichel. Già dal 2005 aveva superato il Giappone nel consumo di petrolio, ponendosi nella graduatoria mondiale al secondo posto, subito dopo gli Stati Uniti. Fino al 1992 la Cina era ancora un Paese che esportava petrolio. Il suo consumo di combustibile è cresciuto del 100% tra il 1990 e il 2001, periodo nel quale ha iniziato ad attrarre ingenti investimenti dall’estero. La produzione nazionale di petrolio è rallentata dal 1995 a causa di una diminuzione delle riserve petrolifere (secondo gli esperti cinesi se l’attuale tasso di consumo rimarrà costante, tali riserve si esauriranno entro 14 anni). Nel 2006 la Cina ha importato 195 milioni di tonnellate di petrolio, pari al 6% del volume totale del commercio mondiale di petrolio greggio e si prevede che le importazioni raddoppieranno entro il 2010. Il consumo del carbone nel 2007 è stato di 2,39 miliardi di tonnellate con una produzione di energia non rinnovabile che ha raggiunto i 2,06 milioni di tonnellate.
Un’altra conseguenza dell’ascesa della Cina è stata l’aggravarsi del degrado ambientale. Il Paese consuma più carbone degli Stati Uniti, dell’Europa e del Giappone messi insieme, ed è già il maggior produttore mondiale di ‘gas serra’. Secondo l’International energy agency nel 2015 le sue emissioni probabilmente saranno destinate a diventare di un terzo maggiori di quelle degli Stati Uniti. Pechino è inoltre la maggiore produttrice di biossido di zolfo, che è all’origine delle piogge acide. Gli studiosi cinesi attribuiscono la responsabilità di tale situazione alla rapida crescita economica del Paese, al suo ruolo di ‘fabbrica del mondo’ e al fatto che utilizza carbone per il 70% del suo fabbisogno energetico.
Una terza conseguenza è stata la riconfigurazione del mercato mondiale. La Cina è diventata la seconda maggior esportatrice mondiale di merci dopo la Germania. Le sue esportazioni lorde annuali, pari a circa 250 miliardi di dollari, nel 2000 sono cresciute di quasi 5 volte raggiungendo i 1218 miliardi di dollari nel 2007. Nel 2006 importazioni ed esportazioni risultavano pari complessivamente a 2168 miliardi di dollari, una cifra, questa, ancora al disotto del livello degli Stati Uniti, pari a 4558 miliardi di dollari, e dell’Unione Europea (escluso il commercio interno), pari a 3644 miliardi. Tra gli analisti, tuttavia, è condivisa l’aspettativa che nel 2020 Pechino potrebbe sorpassare gli Stati Uniti e l’Unione Europea come potenza commerciale. La Cina è inoltre diventata un’enorme esportatrice di capitali. Secondo il rapporto della Banca mondiale del 2007 il suo attuale surplus delle partite correnti ha raggiunto l’11,7% del PIL; tre anni prima, nel 2004, il livello corrispondente era il 3,6% del PIL. Si prevede che presto il suo attivo di partite correnti diventerà il più grande al mondo: pari a quello della Germania e del Giappone messi insieme. Gli enormi surplus delle partite correnti, combinati con il continuo afflusso di investimenti esteri diretti, hanno permesso l’accumulazione di ingenti riserve di valute straniere, passate da circa 170 miliardi di dollari all’inizio del 2000 a 1531 miliardi di dollari nel 2007 e a oltre 1900 miliardi di dollari nel 2008, corrispondenti a circa un quarto delle riserve valutarie mondiali e a poco più del 40% del reddito nazionale prodotto. In rapporto al PIL, il surplus è pari a più del doppio del massimo raggiunto dal Giappone.
Infine, l’ingresso della Cina nel sistema economico internazionale ha profondamente modificato il rapporto mondiale tra stock di capitale finanziario e lavoro. Ciò si avverte soprattutto nella regione asiatica, dove è avvenuta una repentina rilocalizzazione delle industrie ad alta intensità di lavoro verso i Paesi caratterizzati da un più basso costo della manodopera. Dal 2001, gli investimenti diretti esteri di Stati Uniti, Unione Europea e Giappone si sono spostati dal Sud-Est asiatico verso la Cina, facendo di questo Paese la nuova base industriale delle multinazionali. La Cina ha rimpiazzato le ‘tigri asiatiche’ come Malesia, Thailandia, Filippine e Indonesia. La disponibilità di un vasto esercito di lavoratori efficienti e a buon mercato nel sistema internazionale della produzione e del commercio, posto sotto il controllo del capitale monopolistico mondiale, ha intaccato il potere contrattuale dei lavoratori nei Paesi sviluppati e in quelli in via di sviluppo. D’altronde, i profitti al netto di imposte delle imprese statunitensi, europee e giapponesi che hanno investito in Cina si sono incrementati considerevolmente. La Cina si trova in una posizione di surplus commerciale nei confronti di Stati Uniti, Giappone e Unione Europea, e rappresenta inoltre il loro principale partner commerciale bilaterale. Gli Stati Uniti importano più prodotti da Pechino che dal Messico, in passato il loro più stretto partner commerciale, e costituiscono per la Cina il più grande mercato oltreoceano e la seconda maggiore fonte di investimenti diretti dall’estero. La relazione tra l’economia cinese e quella statunitense è stata definita da Walden Bello come chain-gang economics, nel senso che le economie dei due Paesi risultano incatenate l’una all’altra: da un lato la crescita cinese dipende dal sensibile aumento delle spese degli indebitati consumatori del ceto medio americano; dall’altro la crescita dei consumi statunitensi dipende dalle enormi quantità di dollari prestate da Pechino al Tesoro statunitense grazie all’accumulo delle riserve valutarie derivanti dalle elevatissime eccedenze commerciali cinesi (Bello 2006). Nel 2004 Pechino ha rimpiazzato Washington come maggior partner commerciale del Giappone e nel 2006 la Cina è subentrata agli Stati Uniti anche come principale partner commerciale dell’Unione Europea. Il volume degli scambi Unione Europea-Cina ha raggiunto nel 2006 i 28 miliardi di dollari, facendo registrare una crescita superiore al 150% tra il 2000 e il 2006. Le esportazioni verso l’Unione Europea sono cresciute tra il 2005 e il 2006 di quasi il 60%, per un valore corrispondente di 4,3 miliardi di dollari, mentre le importazioni sono aumentate rapidamente del 21%, pari a un incremento di circa 1,6 miliardi di dollari.
La Cina si è guadagnata lo status di dialogue partner con l’ASEAN (Association of South East Asian Nations) durante il 29° vertice dei ministri degli Esteri dei Paesi membri, svoltosi nel 1996 a Djakarta. Oltre agli accordi commerciali stipulati con l’organizzazione e a quelli individuali con i singoli Stati, in quell’occasione alcuni incontri sono stati dedicati alle questioni politiche e della sicurezza, come la ASEAN-China senior officials political consultation. È stato inoltre stilato un codice di comportamento riguardante il Mar Cinese meridionale in modo da prevenire i conflitti e promuovere la pace nella regione. Durante il summit dell’organizzazione svoltosi nel 2004 a Vientiane, in Laos, è stata inoltre creata una struttura allargata, la ‘ASEAN più tre’, finalizzata a stabilire relazioni privilegiate tra ASEAN e Cina, Giappone e Corea del Sud. Il commercio tra la Cina e gli Stati membri dell’ASEAN si è intensificato dopo la crisi finanziaria del 1997 e Pechino è diventata uno dei quattro più importanti partner commerciali dei singoli Paesi aderenti all’organizzazione. Questo incremento dei traffici merita un’analisi più attenta. Bisogna considerare che la maggior parte delle importazioni cinesi dai Paesi dell’ASEAN riguarda componenti e materie prime necessarie alle esportazioni manifatturiere e per questo motivo la Cina si colloca in una posizione di deficit commerciale nei confronti dei suoi partner asiatici. Varie fonti stimano che più della metà dei prodotti esportati dalla Cina siano riconducibili a società di proprietà straniera. Questo incremento del commercio con i vicini asiatici è dunque alimentato dagli scambi intrasocietari delle compagnie multinazionali che utilizzano il Paese come base di produzione manifatturiera. Nel 2001 la Cina ha ricevuto il 9% degli investimenti diretti esteri mondiali contro l’1,7% ricevuto dai dieci Paesi dell’ASEAN.
I governi africani hanno accolto con entusiasmo gli investimenti cinesi che si dirigono soprattutto verso i Paesi più dotati di risorse energetiche. Le compagnie cinesi hanno esplorato il continente per acquistare attività minerarie. Più di 800 imprese statali, agenti della politica commerciale estera della Cina, operano sul territorio e la maggioranza di queste è attiva nel comparto dell’industria estrattiva. Il forum sulla cooperazione Cina-Africa svoltosi a Pechino nel novembre 2006, al quale hanno partecipato quarantotto capi di Stato, e il meeting annuale della Banca di sviluppo africana, tenutosi a Shanghai nel maggio 2007, indicano l’importante ruolo che il Paese riveste nel continente. Il commercio sino-africano ha iniziato a crescere intorno al 2000. Tra il 2001 e il 2006 le esportazioni dell’Africa in Cina sono aumentate a un tasso annuo di circa il 40% passando da 3,2 a 19,2 miliardi di dollari nel 2006, mentre le importazioni africane dalla Cina sono quadruplicate, raggiungendo i 17,8 miliardi di dollari.
Messi a confronto con quelli relativi alla presenza della Cina in Africa e Asia, i dati della World trade organization (WTO) relativi al 2005 mostrano che solo il 2,3% delle esportazioni cinesi è destinato all’America Latina che invece fornisce a Pechino il 20% dei prodotti agricoli consumati e il 10% dei prodotti minerari, inclusi i carburanti. La crescita delle esportazioni verso la Cina è aumentata di 8 volte tra il 1995 e il 2005 e alla fine del 2006 l’America Latina godeva di un attivo della bilancia commerciale di circa due miliardi di dollari.
I risultati raggiunti da Pechino non sono occasionali, ma piuttosto sono il frutto di un processo in atto da trent’anni. Tuttavia le conquiste di questo repentino balzo economico sono l’equivalente di quanto l’Occidente ha realizzato in oltre un secolo. È importante dunque capire come sia avvenuta la trasformazione e con quali costi.
La grande trasformazione
La transizione dei Paesi socialisti dall’economia pianificata di stile sovietico all’economia di mercato è uno dei passaggi più importanti verificatisi nella storia contemporanea. La Cina è stata riconosciuta come il caso più riuscito di riforma economica del 21° sec. rispetto a tutti gli altri Paesi comunisti a economia pianificata. Analisti di vari indirizzi politici hanno espresso un certo apprezzamento riguardo alle strategie di riforma del mercato messe in atto da Pechino, considerandole un buon modello da imitare. Rispetto alla Russia, si è cercato di evitare quella che l’economista Jeffrey Sachs definisce shock therapy, cioè una brusca liberalizzazione delle forze di mercato interne ed esterne. La Cina ha imparato dai giapponesi come gestire il processo di un graduale ingresso delle società straniere, preparando contemporaneamente le aziende locali alla transizione. Come si è visto nell’ultimo ventennio del 20° sec., si è consentita l’attività delle industrie straniere per permettere alle società cinesi di apprendere le moderne tecniche di produzione e acquisire le competenze dirigenziali, nonché più elevati livelli tecnologici. La transizione è stata avviata dalle riforme economiche varate alla fine degli anni Settanta. Si è trattato di interventi attuati un po’ per volta, in maniera parziale, marginale, spesso sperimentale, e soprattutto senza la realizzazione di privatizzazioni su larga scala. La liberalizzazione è avvenuta gradualmente, in settori selezionati e all’inizio confinati in aree ben determinate. Quando gli esperimenti fallivano il progetto era sospeso o rivisto, invece in caso di successo era rapidamente esteso e replicato in altre zone. La principale lezione che si desume dall’esperienza cinese, rispetto a quella delle altre economie in via di sviluppo, è il ruolo centrale assunto dallo Stato nel gestire la transizione.
Il processo di riforma cinese può essere diviso in quattro fasi: graduale apertura all’economia mondiale e riformulazione politica (1978-1986); applicazione delle cosiddette 22 disposizioni, che hanno creato un contesto più favorevole per gli investitori stranieri (1986-1992); affermazione della Cina come potenza commerciale mondiale e maggiore destinataria degli investimenti diretti esteri (1992-2001); ingresso nella WTO nel 2001 e successive iniziative. Questo tipo di sviluppo ha permesso al governo di mantenere il suo ruolo di forza stabilizzatrice durante la transizione e di facilitare una decentralizzazione cadenzata. In contrasto con i sostenitori della linea neoliberista, la graduale trasformazione della Cina mostra che questo modello è meno dannoso dello shock totale provocato da una repentina e generale privatizzazione. Sin dalle prime riforme capitalistiche, nel 1978, si è verificato nel Paese un fondamentale cambiamento nelle relazioni tra le classi sociali. Il sistema collettivo è stato dissolto, le industrie di Stato sono state smantellate (trasformate cioè in corporation) e nel 1984 sono state privatizzate le proprietà statali. La produzione per l’esportazione è iniziata in quattro special economic zones, lungo il delta del Fiume delle Perle. Nel settore agricolo la privatizzazione è stata avviata offrendo ai contadini la possibilità di produrre e vendere individualmente i loro prodotti.
Stando a quanto scrivono Martin Hart-Landsberg e Paul Burkett (2005), la perdita di redditività delle aziende statali è connessa con il crescente affidamento riposto sugli investitori esteri. Dal momento che le imprese statali hanno cominciato a essere gravate da aliquote fiscali relativamente alte e da pesanti obblighi in materia di occupazione, investimenti e legislazione sociale (pensioni, abitazioni, salute), esse sono risultate sempre più inefficienti e meno competitive rispetto alle nuove imprese private. La diminuita redditività delle aziende statali e i problemi di gestione legati alla diffusa corruzione hanno portato al loro indebitamento. Poiché il volume dei loro debiti insoluti è aumentato, il governo non ha avuto altre alternative se non la privatizzazione per cercare di ridurre i propri oneri. Le privatizzazioni hanno aumentato ancora di più la dipendenza dagli investitori stranieri, gli unici in grado di acquistare le malandate imprese statali. La quota di produzione industriale delle imprese statali è scesa dal 64% del 1995 al 30% del 2002. Secondo alcune analisi del 2008, le imprese statali operano in condizioni di perdite corrispondenti a circa l’1% del PIL ogni anno (Jackson 2008).
Le esportazioni hanno avuto un ruolo fondamentale e l’economia cinese per continuare la rapida crescita ha fatto affidamento sempre di più sulle industrie estere, specialmente nei settori high-tech. La centralità crescente delle esportazioni e degli investimenti esteri ha reso evidente la dipendenza dell’economia dal mercato globale e dagli accordi sugli investimenti, ma soprattutto dalla WTO. Dopo quindici anni di negoziati, di preparativi istituzionali e procedurali concernenti il commercio internazionale e gli investimenti, la Cina è infine diventata membro della WTO. Il mercato nazionale è stato aperto alle merci e ai servizi esteri, e sono state garantite condizioni favorevoli agli investimenti. La liberalizzazione dell’economia in due decenni può essere facilmente compresa prendendo in considerazione la quota percentuale delle esportazioni cinesi attribuibili alle imprese a capitale estero: questa è passata dall’1,9% del 1986 al 57% del 2004. Da quando la Cina è entrata nella WTO nel 2001, per soddisfarne le disposizioni sono stati già emendati più di 2500 regolamenti e leggi e ne sono stati aboliti altri 800. Prima delle riforme tutta la popolazione godeva dell’accesso alla terra, alla sanità e all’educazione primaria. Dopo le riforme e l’integrazione nell’economia del mercato globale, le relazioni di classe e le condizioni sociali sono drammaticamente mutate. Il Paese è diventato il destinatario privilegiato degli investitori esteri grazie agli allettanti vantaggi che offre: aliquote fiscali ridotte per gli investimenti esteri diretti (corrispondenti alla metà di quanto pagano le imprese di Stato) e condizioni atte a garantire profitti alle società transnazionali come bassi affitti, risorse naturali a basso costo, bassi salari, assenza di un autentico e libero sindacato, leggi a sfavore degli scioperi e altro ancora.
Nel corso del primo decennio del 21° sec. il ruolo della Cina nella politica economica globale è entrato in una nuova fase poiché è iniziata l’esportazione di capitali. Sorpassato il Giappone nel 2006, il Paese è diventato il più grande detentore di riserve di valuta straniera del pianeta; il 70% di tali riserve è denominato in dollari statunitensi e circa un terzo è investito in titoli del Tesoro statunitense. Nel 2007 la Cina ha istituito il fondo China investment corporation, con un capitale iniziale di 200 miliardi di dollari, destinato a essere investito in tutto il mondo.
La nuova diplomazia cinese
Agli inizi del 21° sec. la Cina ha iniziato ad avere un approccio più articolato, più sicuro e al tempo stesso più costruttivo nei confronti degli affari regionali e globali. Rispetto a un decennio fa è molto più integrata e agisce in più ampia misura entro il sistema internazionale: ha riconosciuto la maggioranza delle istituzioni internazionali e ha adottato l’insieme di leggi e norme degli organismi di governo mondiale con l’intenzione di assicurare e promuovere gli interessi nazionali. In alcuni casi e in certi contesti ha tentato persino di modellare l’evoluzione dell’attuale sistema internazionale. In poco tempo Pechino ha fatto in modo di trasformare la sua politica estera ed economica da quella introiettiva di un Paese in via di sviluppo a una politica in grado di sfidare il dominio delle vecchie potenze economiche in varie aree geografiche. I responsabili dei rapporti internazionali hanno riposizionato la Cina al livello di una grande potenza emergente con molteplici interessi e responsabilità: un’enorme differenza dalla ‘vittimizzata’ nazione in via di sviluppo dell’era di Mao Zedong e Deng Xiaoping. I leader cinesi chiamano la loro visione heping jueqi, il sorgere pacifico della Cina, da perseguire attraverso il commercio, l’attuazione di provvedimenti finalizzati a costruire consenso, la cooperazione e l’assistenza allo sviluppo. L’obiettivo della politica estera cinese è creare un Paese forte, indipendente, potente e unito, che assurga a grande potenza mondiale. La diplomazia precisa che la Cina non persegue ambizioni egemoniche o guerrafondaie, ma insiste nel rivendicare la sua piena sovranità territoriale e non permette a nessun partner diplomatico di intrattenere relazioni ufficiali con Taiwan, con il governo del Tibet in esilio o con il Movimento di indipendenza del Turkistan dell’Est (Xinjiang). Pechino ha cercato di assumere un profilo più alto all’interno dell’ONU attraverso il suo seggio permanente nel Consiglio di sicurezza e attraverso altre organizzazioni multilaterali. A partire dalla metà degli anni Novanta si è sempre astenuta dalle risoluzioni del Consiglio che, appellandosi all’art. 7 dello Statuto, autorizzavano l’uso della forza: ciò al fine di segnalare la sua opposizione all’erosione della sovranità nazionale implicita in tali decisioni. Negli anni recenti, però, ha iniziato a sostenere tali misure, come dimostra, per es., il voto favorevole dato, nel novembre 2002, alla risoluzione 1441 riguardante ispezioni agli armamenti in ῾Irāq. È stata una delle poche volte, da quando è entrata a far parte dell’ONU nel 1971, in cui la Cina ha appoggiato le disposizioni previste dall’art. 7. Pechino ha inoltre ampliato la sua partecipazione nelle operazioni di pace inviando contingenti a Timor Est, nella Repubblica Democratica del Congo e in altre zone.
I responsabili politici ed economici cinesi sostengono che in quanto Paese in via di sviluppo la Cina condivide la sua condizione con quella degli altri Paesi emergenti; per questo i suoi rapporti commerciali e finanziari con questi Stati sono animati dallo spirito della cooperazione Sud-Sud. Com’è emerso negli ultimi anni, l’impegno della Cina in Africa rappresenta un’importante occasione per la sua politica estera e per la costruzione di nuove alleanze. Pechino ha sempre guardato all’Africa come probabile alleato e fin dagli anni Settanta ha tentato di attirare nella sua orbita di influenza i Paesi africani che avevano ottenuto l’indipendenza, in competizione con la Russia (ex Unione Sovietica). La Cina ha chiamato il 2006 l’Anno dell’Africa, per celebrare 50 anni di relazioni diplomatiche con i Paesi africani. La China’s African policy, adottata nel gennaio 2006, può essere interpretata come uno strumento per realizzare il rafforzamento di un ordine mondiale multipolare e per cementare l’unione tra i Paesi in via di sviluppo.
L’avanzata economica in Africa è stata presentata come la strada per realizzare una nuova diplomazia, basata sul principio dell’equità e dei mutui benefici, sugli accordi reciproci e su una pacifica cooperazione allo sviluppo. Allo stesso tempo si è ripetutamente sottolineata la propensione ad attenersi al principio di non interferenza negli affari interni degli altri Paesi: e questo è uno dei principali argomenti usati per giustificare la politica ‘senza condizioni’ riguardo agli aiuti e all’assistenza offerta ai Paesi in via di sviluppo. La Cina è costantemente preoccupata di dare garanzie sulla natura non minacciosa della sua crescita e rassicura i Paesi in via di sviluppo suoi partner che, in quanto nazione che ha già sofferto a causa di un passato semicoloniale simile al loro, non diventerà una potenza colonizzatrice o dominante. Il governo insiste nel ribadire il carattere istituzionale dell’influenza politica sempre maggiore acquisita dal Paese, basata sulla cooperazione e sulla crescente integrazione nella comunità internazionale.
Sono stati rinsaldati anche i legami con l’Asia. In questo contesto Pechino ha messo in rilievo di non aver mai adottato una politica aggressiva nei confronti dei Paesi vicini, considerando l’ASEAN come un suo importante partner. Nell’ottobre 2003 il governo ha firmato il Trattato di amicizia e cooperazione, a sottolineare il suo impegno al rispetto degli ideali da sempre condivisi dall’organizzazione: sovranità e non interferenza reciproca negli affari interni, pacifica risoluzione delle dispute. In termini di cooperazione militare ha promosso conferenze sulla politica di sicurezza nell’ambito del Forum regionale asiatico (a Pechino nel 2004 e a Vientiane nel 2005); esercitazioni militari congiunte con l’Australia, le Filippine e la Thailandia; l’istituzione di corsi di formazione dei funzionari dell’ASEAN e di corsi di lingua per il personale militare proveniente dai Paesi membri dell’organizzazione. Tutto ciò a dimostrazione di una comunità di intenti sui temi della sicurezza regionale. Sono rimaste tuttavia insolute alcune questioni che costituiscono una sfida per i Paesi dell’ASEAN e dell’Asia in generale. Uno dei nodi cruciali riguarda Taiwan. L’insistenza delle autorità sulla one China policy, che esclude l’ipotesi di una concessione di indipendenza ad altre entità regionali, potrebbe non sempre accordarsi con gli imperativi economici dell’ASEAN. Per es., la visita del primo ministro di Singapore Lee Hsien Loong (figlio dell’ex leader Lee Kuan Yew) a Taiwan nel luglio 2004 ha irritato Pechino e ha provocato la cancellazione della visita del governatore della Banca centrale cinese Zhou Xiaochuan a Singapore. Ci vorrà ancora del tempo per verificare se l’atteggiamento della Cina di non interferenza, cooperazione militare e ‘inserimento’ non si tradurrà invece nel ruolo che gli Stati Uniti rivestono nelle varie regioni dove godono della leadership in materia di sicurezza. Il rapporto quadriennale del dipartimento della Difesa statunitense, pubblicato nel 2006, ribadisce che gli Stati Uniti non consentiranno l’emergere di una superpotenza competitrice. Infatti Washington ha intrapreso nuove iniziative per ristabilire le relazioni con i Paesi dell’ASEAN. Tuttavia la risposta militare alla sfida del terrorismo, sulla quale si è prevalentemente concentrata l’attenzione dell’amministrazione Bush, ha accresciuto in generale i sentimenti antiamericani tra i musulmani dell’Asia.
Il fatto di ospitare i Giochi olimpici del 2008 è stato un ulteriore test dell’influenza politica della Cina, dal momento che la questione del Tibet è diventata un problema internazionale, e ha permesso contemporaneamente di verificare come il Paese viene percepito dal resto del mondo. La corsa a staffetta della torcia olimpica, progettata come la più lunga e ambiziosa nella storia dei Giochi, è stata intercettata in molte città da manifestanti scesi in piazza a sostegno di varie cause come i diritti umani, la lotta contro il degrado ambientale, la necessità di risolvere la questione del Tibet e del Dārfūr, o per denunciare le condizioni dei lavoratori delle società multinazionali che operano in Cina o altro ancora. Le controproteste organizzate dagli studenti cinesi e le notizie sulle vessazioni subite dai simpatizzanti con la causa dei tibetani da parte dei loro connazionali hanno evidenziato la profondità e la natura del nazionalismo cinese. In Asia, la questione più rilevante per l’opinione pubblica non è che tipo di potenza globale, ma che tipo di vicino la Cina stia diventando. Il divieto imposto dalle autorità ai giornalisti stranieri e agli osservatori indipendenti di entrare liberamente nel Paese e la censura della stampa nazionale indipendente hanno dimostrato come il comportamento reale prevalga sugli slogan.
Negli ultimi anni del 20° sec. gli Stati Uniti hanno agito per riconfigurare gli equilibri di potere nella regione Asia-Pacifico, nella speranza di circondare la Cina con basi militari statunitensi e Paesi alleati. Per cercare di contenerla, inoltre, Washington ha approfondito e incrementato le relazioni militari con l’India alla quale è stato fornito l’accesso alla tecnologia nucleare e assicurato l’utilizzo delle basi militari statunitensi; sono state inoltre organizzate esercitazioni militari congiunte. Dal punto di vista economico gli analisti sostengono che i benefici dell’alleanza della Cina con gli Stati Uniti prevalgono ancora sui possibili guadagni derivanti da una sfida all’egemonia politica e militare statunitense. In evidente risposta alle azioni degli Stati Uniti e dei suoi alleati, Cina e Russia hanno avviato la costituzione della Shanghai coop-eration organization (SCO). La SCO è un’organizzazione internazionale intergovernativa fondata a Shanghai il 15 giugno del 2001 da sei Paesi: Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. Gli Stati membri coprono complessivamente un’area di più di 30 milioni di km2, con una popolazione che supera un miliardo e mezzo di persone; le lingue ufficiali dei lavori sono il cinese e il russo.
La complessa situazione determinata dalla costituzione promossa dagli Stati Uniti di una coalizione di fatto anticinese, dal riposizionamento di Cina e Russia che perseguono i propri interessi come potenze in ascesa, nonché dalla crescente competizione sulle riserve energetiche e sulle altre risorse genera un nuovo senso di insicurezza. Ancora una volta il pianeta potrebbe conoscere una protratta fase di competizione geopolitica, che potrebbe a sua volta incrementare il riarmo e la prospettiva di una guerra: tutti fattori che impediscono la pace e la sicurezza.
Il commercio e gli investimenti della Cina
Molti interpretano l’aggressiva pressione della Cina sugli altri Paesi in via di sviluppo per la stipulazione di accordi bilaterali di libero scambio come il segnale di una crescente competizione che potrebbe trasformarsi in aperta rivalità tra Pechino e gli altri tradizionali centri del potere capitalistico (Stati Uniti, Unione Europea, Giappone). Per i Paesi del Sud del mondo la domanda più pressante è se tale rivalità li renderà più prosperi e stabili o se porterà a una più disperata competizione tra poveri. La crescita della Cina è avvenuta dopo vent’anni di enorme afflusso di investimenti diretti dall’estero. L’analisi cinese del processo di sviluppo individua due fasi complementari per il raggiungimento della modernizzazione: la prima fase corrisponde al periodo in cui un Paese favorisce l’afflusso di maggiori investimenti dall’estero allo scopo di sviluppare un’eccedenza di capitale per le esportazioni; fa seguito una seconda fase durante la quale l’afflusso di capitali esteri interagisce con successo con il mercato interno e rende possibile e necessaria la creazione di società transnazionali e la realizzazione di investimenti diretti verso l’estero. Nel 2001 il premier Zhu Rongji, nel suo discorso politico all’Assemblea nazionale del popolo riguardo la strategia delle multinazionali cinesi, ha usato ufficialmente il termine going out, in riferimento ai deflussi degli investimenti diretti e degli investimenti di portafoglio verso l’estero. Going out è l’altra metà, o la strategia complementare, dell’inviting in (afflusso di investimenti diretti dall’estero) del piano di crescita economica della Cina. Le strategie di inviting in e going out integrano il Paese nella globalizzazione economica. L’inviting in è la base per il going out, e il going out è il necessario risultato dell’inviting in. La strategia going out mira a creare ed espandere lo spazio di mercato per le esportazioni, a incrementare le competenze commerciali delle società transnazionali, ad assicurare risorse, ottenere tecnologia e accrescere il prestigio internazionale dei marchi cinesi. La Cina incide per circa il 5% sul PIL mondiale e ha ormai raggiunto la posizione di Paese a medio reddito. Ha negoziato vari accordi di libero scambio nella regione Asia-Pacifico inclusi i Paesi dell’ASEAN, l’Australia e la Nuova Zelanda. L’intraprendenza della Cina nello stabilire accordi di libero scambio è determinata da due obiettivi: assicurare rifornimenti energetici a lungo termine e garantire altre fonti di risorse naturali necessarie alle sue industrie di esportazione; espandere il suo mercato ad altri ambiti regionali per consentirne una continua crescita.
La necessità di trovare rifornimenti sicuri di petrolio, provenienti da fonti diversificate, ha portato Pechino a negoziare accordi petroliferi e sul gas con vari Paesi del Sud-Est asiatico, come Indonesia e Myanmar, con i Paesi dell’Asia centrale ricchi di fonti energetiche, così come con il Sudan e con alcuni Stati dell’America Latina. La Cina, dunque, partecipa agli accordi di libero scambio per assicurarsi le risorse naturali e incrementa le sue esportazioni per pagare il petrolio e le altre risorse d’importazione. Il credito all’esportazione della Cina e le agenzie di controllo, in particolare Eximbank e Sinosure, giocano un ruolo cruciale nel promuovere la rapida espansione del commercio e degli investimenti cinesi all’estero. La Eximbank è diventata la terza maggiore banca di esportazione del mondo. La China development bank, la più grande istituzione mondiale di sviluppo per disponibilità finanziarie, ha investito soprattutto nell’espansione estera delle imprese cinesi e in particolare in progetti che riguardano le risorse naturali. L’emergere della Cina come nuova fonte di finanziamenti è avvertita in particolar modo dai suoi vicini asiatici, ma si fa sentire anche in Africa, della quale Pechino è diventata il maggiore partner economico e commerciale: ha infatti finanziato in diverse aree del continente la realizzazione di miniere, dighe e molti altri progetti infrastrutturali.
Numerosi governi dei Paesi in via di sviluppo considerano la Cina come un’alternativa alla pressione occidentale e una fonte di finanziamento non condizionata dai tradizionali vincoli imposti dalle altre istituzioni finanziarie come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Tuttavia molti denunciano proprio questo tipo di approccio, sostenendo che si sta incoraggiando un investimento regionale incurante degli impatti sociali e ambientali, dei diritti umani, della corruzione dei governi, e altro ancora. L’intenzione di Pechino di estendere il credito senza condizioni sulla base del principio di non interferenza negli affari degli altri Stati è un bersaglio costante delle critiche da parte dei tradizionali donatori. Organizzazioni non governative e movimenti di opinione temono inoltre che ciò possa essere usato dai regimi autoritari per rimanere al potere e prolungare l’agonia delle popolazioni soggette. La mancanza di parametri di riferimento per gli investimenti e i finanziamenti finalizzati allo sviluppo appare dunque allarmante, anche se c’è da chiedersi se la crescente preoccupazione sia frutto di un genuino interesse nei confronti dei Paesi in via di sviluppo e delle condizioni dei lavoratori o se sia generata dalla volontà di proteggere gli interessi occidentali. Allo stesso tempo non è ancora chiaro quale sarà l’effettivo ruolo della Cina nel promuovere lo sviluppo, dato che sembra riproporre l’approccio occidentale senza preoccuparsi delle pratiche di corruzione. Nelle Filippine, lo scandalo scoppiato nella prima metà del 2008 intorno a undici progetti finanziati da Pechino, nel quale sono rimasti coinvolti esponenti di governo accusati di aver intascato tangenti, ha gettato il Paese in un’altra grave crisi politica, alimentando la campagna contro il presidente.
La Cina è in grado di mobilitare un volume di investimenti in capitale di circa 1500 miliardi di dollari e la cifra è destinata a crescere e a superare presto la metà del PIL. Sarà interessante seguire in che modo questa enorme massa monetaria trasformerà le società cinesi in competitori globali attraverso fondi azionari stranieri e nazionali privati. Se il trend dei flussi di capitale mondiale e di accumulazione non subirà modifiche la Cina diventerà un Paese esportatore di capitali con un impatto globale pari a quello che ora ricopre come principale esportatore mondiale di merci. Sebbene l’economia cinese sia sempre più integrata nel sistema capitalistico mondiale, il governo indirizza ancora il 70% delle spese di investimento all’interno del Paese e mantiene un controllo strategico sul settore energetico e delle telecomunicazioni, sull’industria navale e su quella legata alla difesa. Le società transnazionali cinesi sono sempre più percepite in tutto il mondo come se fossero alla ricerca di nuovi mercati. Esse sono principalmente di quattro tipi: società commerciali, imprese manifatturiere, istituzioni finanziarie e società di costruzioni. Nel 1995 «Fortune» aveva incluso nella sua classifica annuale sulle 500 aziende più importanti del mondo due società transnazionali cinesi: nel 2008 queste sono salite a 29. A parte Lenovo, che ha comprato la divisione dei personal computer dell’IBM, Haier si è imposta nel settore degli elettrodomestici, mentre Huawei Technologies è diventata competitiva nel settore delle telecomunicazioni, soltanto per fare alcuni nomi.
Molti analisti sostengono che si sia avviato un processo di ribilanciamento dell’economia mondiale, che presenta le stesse caratteristiche dei secoli che precedettero la Rivoluzione industriale, quando Cina e India rappresentavano le maggiori potenze del mondo.
La bomba ecologica
In termini di produzione mondiale la Cina fornisce più di un terzo dell’acciaio, metà del cemento e circa un terzo dell’alluminio. Le autorità cinesi riconoscono che i successi economici conseguiti dal Paese, così come il suo ruolo di centro di produzione mondiale hanno causato molti rischi ambientali e sociali. La Cina è diventata la maggior produttrice di CO2 e di emissioni di COD (Chemical Oxygen Demand). Molti studiosi nazionali e stranieri sono d’accordo nel ritenere che l’insostenibile e sconsiderato approccio alla crescita della Cina ha posto il Paese e il mondo intero sull’orlo della catastrofe ambientale. Nell’ambito del dibattito sulle crescenti ripercussioni ambientali dell’attività cinese negli altri Paesi in via di sviluppo, due aspetti sono raramente affrontati. Il primo è che la maggior parte delle risorse naturali importate in Cina sono riesportate nella forma di valore aggiunto incorporato in prodotti finali destinati a essere consumati in altri Paesi, in gran parte occidentali. In effetti, l’emergere della Cina come ‘fabbrica del mondo’ è dovuto al consumo insostenibile e ai modelli di produzione dei Paesi sviluppati. Le esportazioni cinesi sono dominate in larga parte dalle società straniere. Il governo di Pechino deve ovviamente essere considerato responsabile e deve assicurare al mondo che l’estrazione delle risorse venga condotta in maniera sostenibile. Si deve tuttavia tener presente il reale potere detenuto dalle società transnazionali nel mantenere l’attuale modello di produzione e consumo. Il secondo aspetto spesso misconosciuto riguarda il legittimo diritto della Cina, e di ogni altro Paese in via di sviluppo, di affrancare dalla povertà la propria popolazione e di migliorare le sue condizioni di vita, cosa che sta facendo a rapidi passi. Ciò comporterà un incremento della domanda di risorse. Pechino deve infatti far fronte a risorse naturali limitate che stanno rapidamente esaurendosi.
Per quanto riguarda la questione sociale, i risultati raggiunti nella lotta alla povertà, in termini sia di portata sia di velocità, sono impressionanti. Stando alla Banca mondiale la Cina, da quando ha avviato l’apertura politica alla fine degli anni Settanta, è riuscita ad affrancare dalla povertà assoluta circa 400 milioni di persone, con il risultato che da sola incide con più del 75% sul tasso complessivo di riduzione della povertà nei Paesi in via di sviluppo degli ultimi 20 anni. Dal 1990 la quota stimata di popolazione che vive con meno di un dollaro al giorno è passata dal 60% al 16% e l’obiettivo del governo è quadruplicare il livello di PIL del 2000 entro il 2020. Eppure, non tutti stanno godendo dei benefici della crescita: circa 208 milioni di persone, quasi un decimo della popolazione, vive ancora sotto la soglia della povertà fissata, secondo i criteri internazionali, a un dollaro al giorno. Sebbene le difficoltà siano simili a molti Paesi in via di sviluppo, le organizzazioni cinesi che si occupano dell’ambiente e della riduzione della povertà sostengono che la scala del problema è enorme date le dimensioni della Cina. C’è una grandissima disuguaglianza tra la popolazione urbana e quella rurale, ed è cresciuto il divario tra poveri e ricchi. Il crescente numero di proteste (terminate in incidenti di massa) è generato sia da motivi ambientali sia dalla percezione delle ingiustizie esistenti. Se tali questioni rimangono insolute potrebbero mettere in serio pericolo il progetto del governo di uno ‘sviluppo armonioso’, hexie fazhan, e alla fine anche erodere il monopolio politico del Partito comunista.
Gli studiosi cinesi criticano la rapida crescita economica e l’urbanizzazione perché comportano problemi ambientali sempre maggiori. Le terre coltivate stanno rapidamente diminuendo mentre il numero delle città cresce. Ogni anno una media di 767,42 km2 viene edificata, e la cifra cresce intorno al 5,8% ogni anno (Gaoming, Jixi 2007). La capitale del Paese, Pechino, si espande di circa 20 km2 l’anno. Per supplire a tale espansione sono stati bonificati boschi, pascoli e mari, con profonde ricadute sugli ecosistemi. Nel 2006 il rapporto sullo sviluppo umano delle Nazioni Unite rilevava il peggioramento dell’inquinamento idrico della Cina e il suo fallimento nell’imporre limitazioni ai principali responsabili. La Cina possiede circa il 7% delle risorse mondiali di acqua e approssimativamente il 20% della popolazione mondiale. L’approvvigionamento idrico è concentrato in alcune ristrette regioni: circa 4/5 delle risorse idriche sono infatti situati nella parte meridionale del Paese. Il 60% delle 669 città ha scarsa disponibilità d’acqua e di queste 110 hanno seri problemi di rifornimento. Più di 300 milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile. Circa il 60% dell’acqua nei sette maggiori sistemi fluviali è stato classificato come inadatto al contatto umano e più di un terzo dei rifiuti idrici industriali e due terzi dei rifiuti idrici cittadini sono rilasciati nei corsi d’acqua senza alcun trattamento. Il delta del Fiume delle Perle e quello del Fiume Azzurro, due regioni ben sviluppate a causa della recente crescita delle esportazioni, soffrono dell’estensiva contaminazione di metalli pesanti e di inquinanti organici persistenti. Le sostanze inquinanti provengono dalle aziende delocalizzate dei Paesi sviluppati e dai rifiuti elettronici che sono illegalmente importati dagli Stati Uniti. Secondo un’inchiesta condotta nel 2006 su documenti ufficiali dall’Istituto di affari pubblici e ambientali, un’organizzazione ambientale nazionale non governativa, 33 società multinazionali con basi operative in Cina hanno violato i protocolli di controllo dell’inquinamento idrico. Queste multinazionali comprendono anche la Pepsi Cola, la Panasonic e il gruppo Foster Ltd. I dati dell’Istituto sono basati sui documenti degli organi di governo sia a livello locale sia a livello nazionale.
I più seri ed evidenti costi ambientali della crescita economica cinese sono quelli causati dall’inquinamento atmosferico. La Cina basa sul carbone il 70% dei suoi fabbisogni energetici. Più di 300.000 morti premature l’anno sono attribuite all’inquinamento dell’aria. Il cambiamento di stile di vita di un crescente numero di famiglie della classe media ha ulteriormente contribuito al problema. Nella sola Pechino ogni giorno ci sono sulle strade 1000 macchine in più. Sette delle dieci città più inquinate del mondo si trovano in Cina. Le emissioni continuano a crescere poiché i trattamenti per gli agenti inquinanti sono inadeguati e i meccanismi di protezione ambientale adottati hanno scopi limitati.
Aumenta tuttavia la consapevolezza che il processo di sviluppo non sia esente da costi. Secondo l’Ente statale per la protezione ambientale e la Banca mondiale l’inquinamento dell’aria e dell’acqua costa al Paese il 5,8% del PIL. Per rispondere a queste sfide il governo ha dovuto modificare le sue politiche. A partire dal 2003 le nuove linee guida sono state ‘sviluppo scientifico’ e ‘sviluppo centrato sulle persone’, mentre è stata accantonata la precedente concezione dello sviluppo come ‘necessità assoluta’, alla quale subordinare tutto il resto. Le autorità prevedono di raggiungere in un prossimo futuro un generale benessere, o società xiaokang. Il termine xiaokang indica una divisione più equa della prosperità, piuttosto che un semplice miglioramento nelle prospettive di crescita o di stabilità sociale. Questo richiede di porre le persone in primo piano e raggiungere un equilibrio tra le diverse tipologie di sviluppo: urbano e rurale, delle varie regioni, economico e sociale, tra uomo e natura e sviluppo interno con più ampie aperture al mondo esterno. Tuttavia, le differenti fazioni presenti nella leadership del partito sono in contrasto sull’interpretazione del reale significato di queste nuove parole d’ordine così come anche sui possibili modi di tradurle in politiche concrete.
Sono emerse anche altre forme di ripensamento. L’Agenzia di Stato per la protezione ambientale (SEPA, State Environmental Protection Administration) ha promosso un’iniziativa, ‘PIL verde’, per misurare l’impatto del degrado e dell’inquinamento ambientale. Sfortunatamente la diffusione dei dati dell’Agenzia per l’intero Paese è stata rimandata a tempo indeterminato, decisione che riflette i conflitti tra le differenti opinioni all’interno del governo. Il documento approvato durante il 17° Congresso del Partito comunista, svoltosi nell’ottobre 2007, stabilisce comunque chiaramente che «un importante aspetto di una società armoniosa è la sintonia tra uomo e natura».
Quando il governo cinese nel 2004 cominciò a porsi l’obiettivo di contenere l’impiego di energia e tagliare le emissioni, l’idea di adottare un modello di crescita più lento e le previsioni di un incombente disastro ambientale non furono accolte inizialmente con entusiasmo. Dal 2007, tuttavia, sono stati stabiliti i criteri per il passaggio a un’energia rinnovabile, per attuare la conservazione dell’energia e per adottare sistemi di controllo delle emissioni. L’obiettivo è produrre il 16% del fabbisogno energetico da fonti alternative (idriche o altre risorse rinnovabili) entro il 2020.
Troppa crescita, poco sviluppo
Sebbene il governo cinese parli di economia di mercato socialista, la liberalizzazione che è seguita dopo l’ingresso nella WTO, congiunta agli effetti della privatizzazione delle imprese statali e all’accresciuto potere delle élites locali e delle industrie straniere nell’economia del Paese, sta generando grandi tensioni e contraddizioni. Il rapporto sullo sviluppo umano delle Nazioni Unite del 2005, che evidenzia un’allarmante crescita della disparità delle entrate, è stato per molti cinesi rivelatore. Il coefficiente Gini (che misura la disuguaglianza nella distribuzione del reddito di una nazione) nel 1981 era intorno allo 0,29, ma ha raggiunto lo 0,39 a metà degli anni Novanta e ha superato lo 0,46 nel 2005. Dal 1995 al 2001 il numero dei lavoratori nelle imprese statali si è ridotto del 40% (46 milioni), mentre nelle imprese collettive urbane del 60% (18,6 milioni). I lavoratori statali licenziati (registrati) sono circa 34 milioni. Molti di loro hanno ricevuto solo un parziale indennizzo quando le imprese statali sono state chiuse. A livello locale i problemi si sono acutizzati per l’incerto futuro di 23 milioni di imprese urbane e di villaggio che impiegano circa 135 milioni di persone. Tali imprese, che avevano rappresentato il motore trainante dell’economia locale nel corso degli anni Ottanta, sono in crisi a causa dei costi crescenti e della competizione con le imprese straniere. In totale, il tasso di disoccupazione urbana e rurale è stimato intorno al 30%.
La crescita economica è risultata particolarmente diseguale e iniqua per gli addetti al settore agricolo, spinti verso le città dalla stagnazione dei salari e dalla crescente disoccupazione. Nel 2005 la cosiddetta popolazione fluttuante di sottoccupati e disoccupati nelle aree rurali si aggirava intorno a 100-120 milioni. Secondo alcune stime, più di 700 milioni di persone occupate nell’agricoltura sono destinati a subire adattamenti per fronteggiare l’urbanizzazione. Il modello di migrazione nelle aree urbane è comparabile all’esperienza vissuta dal Giappone nel periodo di industrializzazione del dopoguerra. Nel 1947 circa sette milioni di famiglie, il 50% della forza lavoro giapponese, lavoravano nell’agricoltura; nel 2002 gli addetti erano meno del 3%. Il caso cinese è più rapido e più drammatico e, rispetto all’esperienza giapponese, richiede maggiori sforzi di adattamento e pone maggiori problemi alle città che si espandono. Secondo il rapporto di Amnesty international del 1° marzo 2007, dagli anni Ottanta il numero degli emigranti è passato da 2 milioni a 150-200 milioni. Si stima che entro il 2015 supererà i 300 milioni. Questa potrebbe essere quindi una delle più grandi migrazioni umane della storia, se non addirittura la più grande.
In molte città, in particolare quelle lungo il delta del Fiume delle Perle, gli immigrati costituiscono la maggioranza della popolazione. Molti, tuttavia, sono privi del diritto alla casa, allo studio e alle cure mediche in quanto si possono registrare solo come residenti temporanei. Poiché lavorano per lo più illegalmente il loro potere contrattuale è molto basso. Le condizioni di lavoro della manodopera cinese – che rifornisce il mondo di tutti i prodotti che il consumatore desidera, dalle t-shirts agli elettrodomestici ai computer – sono particolarmente dure: spesso l’orario di lavoro va dalle 60 alle 70 ore settimanali. Nelle città come Shenzhen nella provincia di Guangdong, la modernità ha due facce: da una parte ci sono i dirigenti aziendali educati negli Stati Uniti e i periti tecnici che lavorano in impressionanti grattacieli, dall’altra le moltitudini che svolgono lavori manuali dequalificati e ripetitivi nelle special economic zones. Coloro che appartengono alla seconda categoria ricevono paghe minime che a volte non superano i 100 dollari al mese. Vivono in condizioni miserevoli e affollano dormitori che ospitano 10-20 lavoratori in una piccola stanza. Si tratta in maggioranza di emigranti provenienti dalle aree rurali, zone prive di molte prestazioni sociali di base, con scarse possibilità di mobilità sociale e nessuna sicurezza di occupazione. Questo esercito di popolazione fluttuante è spinto in città dalla situazione senza speranza del villaggio di provenienza e dal crescente divario tra le condizioni di vita rurali e quelle urbane. Le lavoratrici migranti devono affrontare una triplice discriminazione in quanto povere, donne e di origini rurali. L’urbanizzazione sta producendo nelle città sovraffollate vari problemi sociali come la criminalità, la prostituzione, il traffico di stupefacenti. Le prospettive della Cina di risolvere il problema del surplus di manodopera sono molto scoraggianti poiché la sua economia si è andata indirizzando sempre più verso il terziario. Del resto non è facile creare impieghi produttivi per una forza lavoro di 744 milioni di persone. La Cina ha bisogno di creare 300 milioni di nuovi posti di lavoro entro il prossimo decennio per assorbire o riassorbire coloro che hanno perso l’occupazione nel settore agricolo o nelle ex imprese di Stato, e per procacciare impieghi ai nuovi aspiranti lavoratori.
Il futuro del settore agricolo è stato uno dei temi principali affrontati durante i negoziati della WTO svoltisi nel 2005 a Hong Kong. In Cina alcuni economisti ritengono che l’agricoltura sia relativamente meno importante rispetto a settori più promettenti e utili, dato che il Paese non è tra i maggiori esportatori di prodotti agricoli. Il settore agricolo contribuisce solo per il 15% al PIL, tuttavia il numero delle persone che dipendono dall’agricoltura per la sopravvivenza è ancora enorme. La mancanza di lavoro e le misere condizioni delle aree rurali sono certamente il risultato delle scarse prospettive di sviluppo della già limitata zona coltivata e della diminuzione dei redditi dovuta all’eccessiva tassazione. L’11° piano quinquennale, varato nel marzo 2006, ha preso atto di questa realtà e ha cercato di trovare una risposta all’acutizzarsi delle disparità e delle contraddizioni sociali. Un certo numero di provvedimenti adottati per migliorare la situazione nelle campagne ha iniziato a produrre risultati positivi, tuttavia lo sviluppo generale nelle aree rurali è ancora in ritardo di dieci anni rispetto alle aree urbane. Nelle campagne sono all’ordine del giorno proteste e rivolte generate da un diffuso malessere sociale e dall’aggravarsi dei problemi ambientali. Uno studio del 2005 della Banca mondiale rileva che i contadini cinesi soffrivano per la diminuzione del proprio reddito già prima dell’ingresso nella WTO. Tuttavia il collegamento delle fortune cinesi ai mercati esteri ha aggravato il trend, anche perché la Cina ha abolito le tariffe che un tempo proteggevano i contadini dalle importazioni. Pechino ha ridotto le sue tariffe agricole dal 54% nel 2001 al 15,2% nel 2006. Nessun membro della WTO ha mai realizzato una riduzione così rilevante in un periodo tanto breve. La media mondiale delle tariffe agricole è ora del 62%.
Sarebbe difficile sostenere che lo sviluppo cinese non è reale, ma rimangono aperte molte questioni e crescono i dubbi e gli interrogativi sull’opportunità di considerarlo un esempio di successo economico e un modello da imitare.
Consapevolezza sociale e ambientale
I cinesi sono sempre più interessati alla questione sociale. Meno dell’1% delle famiglie controlla più del 60% della ricchezza nazionale. La disparità è più pronunciata quando si confrontano città e campagna per reddito pro capite: il rapporto era di 1,8 a 1 nei primi anni Ottanta, di 3,23 a 1 nel 2003 (la media mondiale era tra l’1,5-2 a 1). Date le attuali condizioni della Cina questa disuguaglianza riveste importanza? Per le élites cinesi sì. Infatti negli ultimi anni il problema è stato al centro del dibattito politico interno e il governo non sembra sottovalutare la possibilità di adattare e indirizzare i cambiamenti in atto, specialmente se sono in gioco la sua legittimità e la sua capacità di sopravvivenza a lungo termine. Il governo è consapevole dell’impatto ambientale e sociale delle sue strategie di crescita e sa bene che l’incremento della disuguaglianza è incompatibile con la stabilità sociale. Tuttavia il rapporto tra la creazione di ricchezza e l’attenzione alle questioni di giustizia sociale lascia ancora molto a desiderare.
L’aumento della disparità economica e la crescente pressione sull’habitat naturale sono particolarmente avvertiti dagli strati più bassi della società. I poveri, che dipendono dalla terra per la loro sopravvivenza, sono molto più in grado di comprendere la relazione tra la loro povertà e i problemi ambientali. Il Ministero della Sicurezza pubblica ha registrato nel 2005 circa 87.000 casi di ‘incidenti di massa’, termine ufficiale cinese per indicare le proteste pubbliche. Le statistiche del Ministero del Lavoro, inoltre, mostrano che nel 2002 le vertenze sono state più di 120.000, cifra 14 volte superiore a quella del 2001 (si va dal semplice disaccordo contrattuale alla sospensione del lavoro, allo sciopero). Considerando l’ambiente politico cinese, le notizie relative alle proteste pubbliche denotano una crescente, per quanto disorganizzata, domanda di migliori condizioni sociali. La popolazione cinese reclama a gran voce che i frutti dei passati decenni di crescita siano più equamente ridistribuiti. L’allarme lanciato da vari circoli politici, comunità accademiche e gruppi di attivisti scaturisce dal fatto che la Cina sembra riproporre lo stesso modello economico socialmente ed ecologicamente distruttivo già adottato dall’Occidente. Nonostante le difficoltà di opporsi al governo, il numero di quanti protestano contro ciò che viene percepito come un’ingiustizia ai propri danni è in costante aumento. È ancora difficile, tuttavia, trasformare la mobilitazione in azioni nazionali. I gruppi di opposizione e gli individui che cercano di sfidare l’autorità del partito rimangono isolati e impotenti. Dal canto suo, il Partito comunista continua a condurre con successo la campagna di reclutamento dell’intellighenzia neutralizzando politicamente in tal modo i ceti sociali che in genere costituiscono le forze della democratizzazione.
Nella società civile si sono formati gruppi che rappresentano le aspirazioni delle comunità rurali, delle donne, dei lavoratori, degli ambientalisti e altro ancora. Il numero di accademici politicamente impegnati è aumentato, specialmente quelli appartenenti alla ‘nuova sinistra’, fautori di una «alternativa cinese all’economia di mercato neoliberista», e anche nel settore dei media ci sono alcuni progressisti. Esistono inoltre numerosi movimenti che cercano di promuovere gli ideali di giustizia sociale. Molti gruppi ambientalisti hanno cominciato a stabilire una correlazione tra le questioni legate all’ambiente e quelle legate allo sviluppo e alcuni hanno anche iniziato a comprendere la necessità di collegare le loro iniziative locali con le richieste regionali e globali di giustizia sociale. Tuttavia, l’interesse per la disuguaglianza sociale, di genere e regionale continua ancora a rimanere una questione prevalentemente locale.
Per analizzare lo stato della società civile cinese è importante tenere presenti le condizioni in cui essa si trova ad agire. Bisogna innanzi tutto considerare che i cinesi hanno un sistema molto particolare di organizzare ed esprimere il dissenso che corrisponde al loro ambiente politico. I modi per manifestare l’opposizione e denunciare le ingiustizie sono molto pochi e non sono ben definiti. Allo stesso tempo non ci sono meccanismi a disposizione delle autorità per rispondere adeguatamente alle proteste individuali e di gruppo che fanno ricorso a tattiche dirompenti come le incursioni (per es., quelle perpetrate dagli abitanti dei villaggi contro le miniere o altri agenti inquinatori), le rivolte e persino i suicidi. I mass media sono sottoposti a un severo controllo e non è permesso loro di occuparsi delle manifestazioni collettive. Ignorati dai media, le proteste e i loro messaggi difficilmente riescono a trasformarsi in eventi nazionali. Internet, che all’inizio era considerato un canale libero e praticabile per l’informazione, si è rivelato deludente. Esemplare il caso del giornalista cinese Shi Tao che ha coinvolto nel 2004 la società Yahoo. Shi Tao, che aveva diffuso via Internet le direttive del partito per censurare le iniziative dei dissidenti in occasione della ricorrenza dei fatti di piazza Tian’anmen, fu rintracciato dalla polizia grazie alla collaborazione fornita dalla società Yahoo. Lungi dal fornire al pubblico uno spazio sicuro, la tecnologia di Internet può dunque offrire un ulteriore strumento a largo raggio per controllare il libero scambio di idee. Mentre le autorità godono ancora dell’assoluta legittimità di reprimere le proteste, coloro che le organizzano e vi partecipano non hanno uno status legale che definisca i loro diritti e per questo normalmente quando vengono arrestati trascorrono lunghi anni in prigione.
Molti esperti della Cina e studiosi dei movimenti sociali vedono gli eventi di piazza Tian’anmen come un punto di svolta nell’affermazione della società civile. Zhao Dingxin ha spiegato che Tian’anmen è il frutto della confluenza di due fattori. Il primo va fatto risalire al periodo di Mao, quando alcuni politici di sinistra incoraggiarono la formazione di intellettuali filodemocratici, che hanno poi creato un ambiente universitario favorevole al movimento studentesco. Il secondo è legato al fatto che, mentre le riforme scolastiche statali hanno prodotto molti laureati, i canali di mobilità sociale sono stati bloccati (Dingxin 2001). Negli anni Novanta la leadership delle azioni collettive è passata ai contadini e ai lavoratori delle industrie cittadine. Essi sono diventati i principali attori in quasi tutte le manifestazioni di piazza. Le proteste dei villaggi sono il più delle volte causate da una tassazione ingiustificata e da confische spesso violente della proprietà. I lavoratori urbani, dal canto loro, organizzano azioni collettive contro la direzione corrotta per domandare pagamenti arretrati, per protestare contro il taglio di benefit o per le insufficienti compensazioni date ai lavoratori licenziati.
Gruppi non-profit e di pubblico interesse
Gli attivisti sindacali sostengono che il 2005 sembra aver dato avvio a una seconda ondata di proteste operaie. La prima ondata è stata quella dei lavoratori delle industrie di Stato agli inizi degli anni Novanta. I due casi più famosi di quel periodo furono le agitazioni operaie contro la privatizzazione scoppiate nel campo petrolifero di Da Qing e a Liao Yang. Sebbene ci siano stati numerosi scioperi nelle export processing zones, in generale pochi lavoratori sono coinvolti in un’opera di organizzazione a lungo termine anche quando le loro azioni riescono a ottenere dei risultati. Gli scioperi scoppiano spontaneamente e poi finiscono bruscamente dopo la repressione o dopo qualche concessione da parte della direzione.
Le multinazionali hanno escogitato misure per introdurre codici di condotta aziendale che stabiliscono standard lavorativi. Questo è un effetto del movimento mondiale contro le aziende che sfruttano i loro dipendenti. Le industrie straniere, persino la Wal-Mart, hanno iniziato a consentire l’organizzazione di elezioni sindacali in vari comparti aziendali. Lo sviluppo di un forte movimento di lavoratori ha un enorme potenziale dal momento che dei 30 milioni di lavoratori impiegati nel mondo nelle export processing zones, 20 milioni lavorano in Cina dalle 12 alle 14 ore al giorno. Di questa forza lavoro, il 70% è rappresentato da donne. Il problema è che molti di questi lavoratori hanno uno status soltanto temporaneo nelle città e possono essere facilmente costretti a tornare nel loro Paese di origine. Negli anni Novanta molte organizzazioni non governative e gruppi ambientalisti hanno goduto del supporto morale anche del governo, poiché non erano considerati pericolosi per la leadership del partito. Questi gruppi sono diventati i protagonisti delle proteste esplose nel corso del primo decennio del 21° sec., alimentate dalla diffusa opinione che lo sviluppo della Cina debba essere fermato rapidamente se non si vogliono arrecare danni irreversibili all’ambiente. Ancora in fieri, questo movimento potrebbe costituire una solida base del futuro movimento antineoliberista o antiglobalizzazione del Paese.
Le organizzazioni non governative, specialmente a Pechino, stanno ora iniziando a promuovere iniziative di cooperazione e solidarietà tra la società civile e i movimenti regionali e internazionali per i diritti civili. Anche gli attivisti internazionali ritengono indispensabile una collaborazione con i movimenti già attivi all’interno del Paese per esercitare pressioni sul governo in difesa delle popolazioni locali, l’ambiente, i diritti umani e altro ancora. Si va infine sempre più radicando la consapevolezza che nel dibattito volto a trovare soluzioni e costruire alternative sia indispensabile la partecipazione della società civile.
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Tutte le pagine web si intendono visitate per l’ultima volta il 27 maggio 2009.