Il ruolo strategico dell’Asia centrale
La partita centroasiatica
La regione centroasiatica, che qui considereremo composta dalle cinque repubbliche ex sovietiche di Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan (indicati collettivamente di seguito quali Nuovi Stati indipendenti, NSI), si presenta sulla scena mondiale del 21° sec. quale uno spazio critico, dove interessi strategici ed energetici attirano tutte le potenze che aspirano a far sentire la loro voce nell’ordine internazionale in transizione dall’equilibrio bipolare. L’imprevista scomparsa dell’Unione Sovietica ha sconvolto in profondità l’intero profilo geopolitico dell’Asia centrale: la più grande porzione di spazio ex sovietico al di fuori dei confini della Russia si è ritrovata in questo modo frammentata fra cinque regimi autoritari.
Il venir meno del sistema federale sovietico ha causato il crollo delle economie locali, con un’enorme massa di popolazione più che quadruplicatasi dagli anni Cinquanta del 20° sec. a oggi (pari a 58.114.000 di abitanti nel 2005), sbalzata a vivere al di sotto dei livelli di sussistenza – condizione dell’83% dei cittadini del Tagikistan e del 68% del Kirghizistan, le repubbliche più colpite. L’onda lunga del boom demografico continuerà inoltre a manifestarsi ancora a lungo (si stima che la popolazione supererà gli 80 milioni per la metà del 21° sec.), rendendo la regione una delle più attive del pianeta sul piano migratorio. In contrasto con la situazione dei suoi vicini, con una superficie corrispondente all’incirca a quella dell’Europa occidentale, il Kazakistan è divenuto uno degli spazi più inabitati del pianeta in seguito all’abbandono di milioni di slavi.
Nel resto della regione, la crescita della popolazione acuisce i numerosi problemi ecologici (in primis la scomparsa del Lago d’Aral) e la generale scarsità di risorse idriche, una costante della vita locale, in un ambiente al 60% desertico, dove l’uomo ha sempre dovuto lottare contro l’aridità tramite il controllo delle acque. La sintesi dei problemi della regione si concentra nella Valle di Fergana, terra ritrovatasi divisa dopo il 1991 fra Tagikistan, Kirghizistan e Uzbekistan. Frontiere artificiali unite a condizioni di grave crisi ecologica e pauperizzazione estrema rendono la Fergana, dove risiede almeno un quinto della popolazione complessiva della regione, uno dei punti più critici dello spazio postsovietico. In particolare quale incubatrice di forme virulente di contestazione, manifestatesi in particolare nel 2005, quando proteste di massa portarono il Kirghizistan vicino al collasso delle istituzioni, mentre l’Uzbekistan dovette reprimere nel sangue il contagio del caos ormai in atto nel Paese confinante (strage di Andijan, maggio 2005). Tali eventi indicano come il problema chiave dell’Asia centrale risieda nella chiusura dei suoi sistemi politici autoritari e nazionalisti, in cui il monopolio del potere da parte di alcuni clan spinge le forze emergenti a ingrossare le fila di un’opposizione clandestina dominata dal fattore fondamentalista islamico. Quest’ultimo ha prosperato fra il dissesto sociale seguito alla fine del welfare sovietico, coadiuvato da fattori quali la parallela chiusura dell’economia da parte delle autocrazie e la struttura tribale delle società centroasiatiche. Questi elementi hanno inoltre facilitato il radicamento in determinate aree di strutture mafiose attive nella droga e in altri settori dell’economia sommersa. Grazie alla porosità delle frontiere e alla capacità di adattamento alle reti clandestine islamiste, il narcotraffico è riuscito a ritagliarsi nella regione diverse vie della droga, lungo le quali, secondo dati UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime), si muove il 20% dell’eroina prodotta in Afghānistān (pari al 90% della produzione mondiale), parte della quale si riversa successivamente in Europa.
La fase postsovietica dell’Asia centrale è stata altresì caratterizzata dalla scoperta di nuovi giacimenti di idrocarburi. Questi, nei tre Stati dell’area caspica dove sono presenti, hanno parzialmente alleviato la stretta socioeconomica ma, causando un aumento della corruzione e delle sperequazioni sociali, hanno contribuito a peggiorare il clima sociopolitico.
Lo stesso è avvenuto sul piano delle relazioni regionali fra i regimi successori dell’URSS. Le risorse centroasiatiche si concentrano intorno al bacino del Caspio, per oltre due secoli un condominio russo-iraniano chiuso a influenze esterne. L’apparizione di tre nuovi soggetti (Kazakistan, Turkmenistan e Azerbaigian), galvanizzati dal sostegno delle compagnie energetiche occidentali, ha spezzato questo regime consolidato creando una contesa sullo status del bacino (mare o lago, poiché la decisione comporta l’applicazione di diverse regole internazionali e dunque di schemi differenti di evacuazione). A tale proposito, non va dimenticato che, in qualità di spazio idrogeologico assolutamente unico, le problematiche relative al Caspio posseggono anche una forte componente ambientale, per cui potrebbero rivelarsi fatali le prospezioni off-shore e la posa di condotte sottomarine. Tuttora irrisolta, la disputa ostacola le prospezioni e i progetti di esportazione delle risorse, ciascuno dei quali è favorito da sponsor stranieri.
Il vuoto di potere centroasiatico ha accelerato la competizione delle forze esterne attirate dalla presenza di risorse e dalla necessità di fare fronte all’aumento dei consumi. Insieme magmatico e in via di ridefinizione, diviso fra soggetti incapaci di garantire la propria sicurezza in modo autonomo, l’Asia centrale è circondata dalle principali potenze della scena mondiale: Russia, Cina e Irān vi confinano direttamente, separati da un Afghānistān a cui la presenza della NATO (North Atlantic Treaty Organization) non impedisce di essere sempre più una deliquescente terra di nessuno. Anche India e Pakistan proiettano qui la loro rivalità tentando di ritagliarsi sfere d’influenza. Tenuto conto dell’acquisizione dell’arma atomica da parte di questi ultimi due Paesi, la regione si presenta altresì come la maggiore area d’intersezione al mondo di potenze nucleari.
In particolare, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti hanno cercato di definire l’equilibrio regionale, accelerando ricomposizioni di alleanze e trasformazioni interne. Nella scia dell’intervento statunitense, anche Turchia, Israele, Europa e Giappone seguono attentamente l’evolversi della situazione, soprattutto perché interessati in maniera crescente ai giacimenti presenti nella regione. La spinta occidentale guidata dagli Stati Uniti si scontra quindi con quella della Russia, determinando una situazione simile alla contrapposizione russo-britannica del 19° sec., da cui il ritorno dell’espressione grande gioco per definire l’odierno braccio di ferro fra russi, americani e anche cinesi, forze a cui, nella loro debolezza intrinseca, sono obbligate a far riferimento le repubbliche centroasiatiche. Queste sono quindi, e diverranno sempre più, l’oggetto di una competizione i cui esiti potrebbero rivelarsi critici.
Il carattere indefinito dell’appartenenza
Comprendere l’entità della sfida centroasiatica significa in primo luogo rendersi conto delle singolarità della geopolitica regionale. Per secoli la regione è stata caratterizzata da frammentazione e instabilità, segnata dalla dialettica fra i popoli nomadi che dalle steppe a nord attraversavano la regione in direzione del Mediterraneo e dell’India, e i sedentari che ne subivano il passaggio, assorbendoli con il tempo all’interno della loro civiltà. Alla dialettica tra nomadi e sedentari va aggiunta quella fra l’elemento turco e iranico, con il secondo prima dominante e poi gradualmente sommerso dall’accumularsi delle migrazioni turco-mongole per rimanere infine confinato all’attuale Tagikistan. Quale risultato di tali incessanti movimenti e sovrapposizioni, i popoli centroasiatici non hanno mai conosciuto confini netti e definiti, trovandosi di volta in volta divisi dall’espansione delle diverse civiltà confinanti. Con queste l’Asia centrale è unita da legami etnici e culturali, così da presentarsi come una regione naturalmente ‘estroversa’.
Il carattere indefinito dei confini centroasiatici è particolarmente evidente in Afghānistān, le cui regioni limitrofe sono in maggioranza abitate dagli stessi gruppi etnici (tagiki, uzbeki e turkmeni) predominanti in Asia centrale. Questi gruppi si ritrovano interconnessi con quella che è l’etnia dominante nel resto dell’Afghānistān, i Pashtun, a loro volta divisi dalla frontiera pakistana. Tale incastro umano costituisce un ulteriore fattore che spinge il Pakistan, e al suo seguito l’India, a interessarsi delle ricomposizioni in atto sulla scacchiera centroasiatica.
A est lo stesso scenario si ripete nei territori oggi parte della Repubblica popolare cinese, la provincia dello Xinjiang (o Turkestan orientale), dove vivono più di un milione di kazaki insieme ai rappresentanti di tutte le altre etnie postsovietiche confinanti. Queste sovrapposizioni contribuiscono a chiarire il motivo della crescente presenza in Asia centrale della Cina, la cui civiltà definisce da millenni i confini orientali della regione, fonte di ataviche paure al suo interno.
Di fronte alla frammentazione interna e alle pressioni esterne, la penetrazione dell’islam si è a tratti imposta quale elemento unificante il sostrato culturale dell’Asia centrale, definendo, anche in virtù di numerose reti umane che legano le due aree, una percezione esterna dello stesso quale appendice del Medio Oriente. La religione islamica non annulla tuttavia l’eterogeneità intrinseca della regione: salda nei contesti urbani e nella Valle di Fergana, essa è solo una tenue sovrastruttura nelle regioni di recente sedentarizzazione, così da riconfermare lo spartiacque culturale fra nomadi e sedentari.
L’islam marca il contesto centroasiatico soprattutto sul piano politico segnando l’evoluzione del principale Stato della regione, l’Uzbekistan, il cui regime ha promosso un nazionalismo estremista ideologicamente fondato sul richiamo degli elementi islamici della tradizione popolare. Come visto, però, l’islam è divenuto il campo d’aggregazione anche degli oppositori di un sistema sempre più oppressivo nei confronti della società. Del pari in Tagikistan l’islamismo ha contribuito a esacerbare la guerra civile che ha insanguinato il Paese fra il 1992 e il 1997. Il fattore islamico si è inoltre inserito in quello che fu in primo luogo un conflitto frutto di rivalità tra fazioni regionali interne. Esso ha poi contribuito a saldare le vicende di questa repubblica con quelle dell’Af;ghānistān, divenuto rifugio per gli oppositori al regime tagiko. Questi ultimi, insieme ad altri fuggitivi provenienti dall’Uzbekistan e da altre regioni centro;asiatiche, hanno dato vita in seguito alla guerriglia del Movimento islamico dell’Uzbekistan, protagonista di violente incursioni armate fra il 1999 e il 2001. Nonostante l’islamismo sia tuttora marginale, i regimi compiono periodiche repressioni nei confronti dei suoi esponenti, ingigantendone dimensioni e potenzialità. In tal modo essi si pongono quali alfieri contro la minaccia islamica, un argomento che sin dai primi giorni dell’indipendenza si è rivelato importante nell’attirare attenzione e finanziamenti da parte degli attori esterni alla regione.
Oltre che in Russia e negli Stati Uniti i NSI, presentandosi quale argine contro l’islam radicale, hanno trovato una sponda anche in Europa, dove vengono considerati una zona cuscinetto nei confronti delle minacce, reali oppure soltanto percepite, alla cui intersezione si trovano. Di conseguenza, in quanto successori dell’Unione Sovietica, i NSI fanno parte di strutture multilaterali atlantiche quali l’OECD (Organ-ization for Economic Cooperation and Development) e le architetture di cooperazione istituite in ambito NATO – il Consiglio di cooperazione nord-atlantico (1991), il Partenariato per la pace (1994), il Consiglio di partenariato euroatlantico (1997) – che permette loro di vantare aspirazioni ‘europee’ limitando la dimensione islamica della propria identità.
L’interdipendenza tra Russia e Asia centrale
Negli ultimi due secoli Mosca ha definito il profilo geopolitico della regione, modernizzandola e sottraendola alla condizione di ‘buco nero’ in cui si era trasformata dopo il declino della via della seta. Per la Russia, l’Asia centrale costituisce un elemento fondamentale della propria posizione strategica globale, innanzi tutto per l’interdipendenza strutturale fra le due aree, specialmente in termini economici e di sicurezza. Dopo il 1991, nell’assenza di qualsiasi barriera naturale, il territorio russo si è ritrovato completamente esposto all’instabilità che ha iniziato a espandersi dalla regione e che viene determinata, in primo luogo, dal narcotraffico, ormai filtrato, insieme ad altri fenomeni criminali amplificati dall’adiacente imbroglio afghano, con gravi conseguenze all’interno della vasta Federazione.
L’interdipendenza fra Russia e Asia centrale è forte e destinata a crescere anche sul piano umano. Da un lato, un’importante comunità etnica russa – che contava nel 1991 quasi 10 milioni di persone, a cui vanno aggiunte le altre diaspore nazionali (slavi, tartari, tedeschi, per non citare che le principali) assimilate alla civiltà russa – continua a risiedere in territorio centroasiatico, dove costituisce il nucleo essenziale degli indispensabili quadri tecnici. Dall’altro, il drastico peggioramento delle condizioni di vita all’interno della regione si è tradotto in una massa migratoria da sud verso nord che ormai interessa milioni di persone. Questo fenomeno assume un’importanza notevole in rapporto al crollo demografico russo. In tal modo l’Asia centrale si presenta quale serbatoio di risorse umane indispensabili all’economia della Russia e complementari con la sua disponibilità di territorio. Inoltre, per la classe politica russa, in cui rimangono forti le spinte in favore di un mondo multipolare, la regione, come già nel periodo sovietico, rappresenta una piattaforma importante da cui coordinare iniziative di politica estera verso mondo musulmano, Irān, Cina e subcontinente indiano.
Nel corso degli anni Novanta è sembrato che l’influenza di Mosca nella regione fosse destinata a esaurirsi rapidamente. Tuttavia, dopo anni di negligenza, la politica di Vladimir Putin ha riportato l’Asia centrale nel cuore della diplomazia russa. La volontà russa di porsi quale forza preponderante su questo scacchiere cruciale della scena internazionale va inquadrata alla luce dell’arrivo delle forze statunitensi e della conseguente accelerazione nella competizione fra i diversi Paesi. Per la Russia la questione centroasiatica è parte del confronto in atto con la NATO nel suo complesso: Mosca ha infatti cercato di avanzare un suo diritto speciale a sovrintendere alla difesa della regione – fino a ipotizzare l’intervento nelle questioni interne degli Stati, giustificato eventualmente con la necessità di proteggere le comunità ‘russofone’ – proponendosi quale interlocutore unico per ogni questione di sicurezza.
Proprio in Asia centrale la Russia ha installato le prime strutture militari all’estero dai tempi sovietici (una, molto significativamente, in Kirghizistan, a qualche decina di chilometri dalla base aperta dagli statunitensi in quello stesso Paese dopo l’11 settembre 2001, più una seconda in Tagikistan), mentre sforzi sono stati profusi al fine di inquadrare gli eserciti della regione nell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (OTSC) della Comunità degli Stati indipendenti (CSI), istituzione dai meccanismi simili a quelli NATO di cui fanno parte attualmente Russia, Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan (assieme ad Armenia e Bielorussia).
Al di là della difesa, Mosca è presente in tutte le strutture multilaterali regionali mentre, sempre con l’eccezione del Turkmenistan, l’Asia centrale forma uno spazio economico unificato con Russia e Bielorussia nel quadro della Comunità economica eurasiatica (CEEA). Tramite il rafforzamento di questi organismi Mosca si propone di ricomporre quanto più possibile questa sezione dello spazio postsovietico minimizzando il ruolo degli altri attori internazionali oggi presenti. Questo soprattutto alla luce delle tendenze più recenti, segnate dall’importanza sempre maggiore degli idrocarburi per l’economia e la posizione internazionale del Paese. In tale prospettiva, l’accesso ai giacimenti centrasiatici (di gas, in primo luogo) ha assunto un peso crescente nella stabilizzazione della produzione e delle forniture russe verso Asia ed Europa. Per mantenere tale accesso, tramite il gigante gassifero Gazprom, la Russia manovra affinché le repubbliche centroasiatiche aderiscano a un cartello delle esportazioni, un progetto chiaramente finalizzato a controbilanciare l’attrazione delle risorse ex sovietiche verso i corridoi alternativi che la diplomazia occidentale sta parallelamente sforzandosi di creare. Un ulteriore schema di cartello eurasiatico è auspicato da Mosca per lo sfruttamento dell’uranio, materia prima che può rappresentare la vera risorsa del futuro per l’Asia centrale.
Il successo delle manovre moscovite, e il volto della regione nel nuovo secolo, dipenderà dal grado d’intesa politica che riuscirà a mantenersi fra le due parti. Al momento l’intesa appare particolarmente solida in reazione alle pressioni politiche occidentali sui regimi centroasiatici (v. oltre), le quali hanno fatto emergere una concezione comune di sicurezza ‘ideologica’ scandita intorno alla vaga dottrina della democrazia sovrana e al principio di non interferenza negli affari interni. In ogni caso, la politica futura della Russia sarà decisiva per l’avvenire della regione per la quale rimane il principale vettore di sviluppo accessibile, mentre la lingua russa costituisce un fondamentale sostrato comune in qualità di veicolo della vita amministrativa ed educativa, nonché della comunicazione interetnica e fra le differenti burocrazie nazionali. Tuttavia la politica regionale russa sembra mancare della necessaria visione strategica di lungo periodo in grado di rispondere alle numerose sfide che l’incertezza del teatro centroasiatico pone alla propria sicurezza nazionale, assenza della quale è spia la passività nel regolare le spinte migratorie.
Mosca è poi particolarmente gravata dal sostegno incondizionato agli attuali regimi che si è trovata a dover fornire per controbilanciare la penetrazione statunitense nella regione, in particolare con l’Uzbekistan, il cui sciovinismo può nuocere ai contatti fra la Russia e le altre repubbliche. Questo significa inoltre non fare nulla per contrastare la massiccia corruzione e il dispotismo dei regimi, un dato che lavora contro qualsiasi prospettiva di stabilità futura della regione dove l’irreversibilità dei processi di degradazione politica diventerà sempre più evidente, mettendo in questione la sopravvivenza stessa delle entità centroasiastiche quali soggetti internazionali.
L’ingresso degli Stati Uniti nella regione: il fattore energia
Dopo essere rimasti a lungo esitanti sulla linea da seguire nei loro contatti con la regione, gli Stati Uniti ne hanno rivoluzionato il profilo strategico intervenendo decisamente al suo interno con la guerra in Afghānistān, guerra che ha proiettato quest’area al centro dell’attenzione internazionale. Il fattore energia è quindi emerso a giustificazione dell’attenzione per una regione totalmente lontana dagli interessi nazionali. Tuttavia va premesso che lo sfruttamento di tali risorse presenta un ampio ventaglio di difficoltà, di natura tanto tecnico-logistica quanto politica, le quali ne rendono relativo il valore commerciale. Se di per sé le risorse del Caspio appaiono insufficienti a giustificare l’offensiva dispiegata dagli Stati Uniti sin dalla seconda presidenza Clinton (1997-2001), le ragioni vanno piuttosto cercate sul piano strategico. Tenendo altresì presente l’interesse che la Cina ha iniziato a manifestare verso la regione, è chiaro che la strategia statunitense utilizza il tema dell’energia da più punti di vista. Innanzitutto essa presuppone la costruzione di nuovi oleodotti oltre a quelli esistenti attraverso il territorio russo. A loro volta questi nuovi corridoi, considerati l’isolamento e la crisi economica dei NSI, modificano il loro tipo di apertura geoeconomica, e forniscono ai Paesi in cui sboccano una potente leva per influenzarne la geopolitica. Il fulcro della strategia statunitense, l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC, inaugurato nel maggio 2005), è stato concepito in modo da connettere l’Asia centrale al Caucaso facendoli gravitare entrambi verso la Turchia. Quest’ultima è stata strettamente associata all’impresa in modo da consolidare la sua fedeltà atlantica spostando gli equilibri regionali a suo favore. Nei fatti, la visione statunitense considera l’Asia centrale il tassello finale di una catena che parte dall’Europa orientale snodandosi attraverso i Balcani, il Mar Nero (inclusa l’Ucraina) e il Caucaso. Nel quadro del rinato confronto con Mosca, tale dispositivo mira al contenimento della Federazione Russa per prevenire la riaffermazione del suo ruolo lungo la ex periferia sovietica. Gi Stati che compongono questa regione sono infatti privi di risorse energetiche, per cui si pensa al Caspio come area di approvvigionamento alternativa. Inoltre, e si tratta di una preoccupazione fondamentale per gli Stati Uniti, le linee che collegano i vari tasselli del puzzle eurasiatico concepito da Washing;ton attraversano molteplici aree di crisi, così che tale strategia energetica richiede una parallela architettura di sicurezza. Il tema della sicurezza energetica fornisce così una motivazione per l’espansione della NATO sempre più a est e, a tal fine, gli Stati Uniti hanno ottenuto che i NSI venissero associati all’Alleanza sin dal 1994 tramite il programma Partenariato per la pace. Infine, l’accento sull’energia permette d’influire sul modello di sviluppo delle neorepubbliche, incoraggiate a ristrutturarsi sul modello delle monarchie petrolifere del Golfo. Proprio tale esempio dimostra però che gli Stati del petrolio sono soggetti a una serie di fragilità di tipo strutturale, con regimi tendenti ad appropriarsi privatamente delle risorse pubbliche ed economie sottosviluppate soggette alle variazioni dei prezzi delle materie prime.
Ugualmente controverso risulta poi l’altro elemento su cui gli statunitensi hanno dichiarato di voler fondare la propria politica regionale: la promozione della democrazia. Tale obiettivo è rimasto formale. La parabola seguita dal sistema politico del Kazakistan suggerisce un legame fra il rafforzamento dell’autoritarismo e la ristrutturazione economica promossa dalla politica degli Stati Uniti. Questi inoltre hanno a lungo eletto a principale alleato regionale l’Uzbekistan, il più repressivo dei regimi ma anche la più efficace barriera contro l’influenza russa e iraniana in Asia centrale. Giustificato con l’esigenza della lotta al terrorismo, l’appoggio ai regimi, oltre a discreditare l’idea di democrazia, ha distolto ulteriormente l’attenzione dai problemi sociali favorendo una tendenza generale alla militarizzazione. Tale pretesto ha consentito inoltre a Washington di avviare programmi di cooperazione che le hanno dato accesso ai sistemi di controllo frontaliero e di raccolta dati dei Nuovi Stati indipendenti.
Come dimostra la perdita d’influenza in seguito ai disordini del 2005, le prospettive statunitensi in Asia centrale appaiono incerte. Se i regimi locali continuano ad apprezzare la presenza di Washington quale contrappeso a russi e cinesi, nondimeno essi le hanno in più occasioni posto delle limitazioni, soprattutto a causa dell’ingerenza esercitata nei loro affari interni con il pretesto del rispetto delle libertà fondamentali.
La Cina: i limiti dell’intesa di Shanghai
La Cina è con ogni evidenza l’attore internazionale che, dopo la Russia, è nel lungo periodo più suscettibile di influire sulla collocazione internazionale della regione. I disordini in Tibet del 2008 hanno messo in evidenza la debolezza geopolitica del colosso cinese, immenso Stato in cui il nucleo storico han (cinese etnico) è circondato da una corona di territori culturalmente ‘alieni’ in cui l’autorità del centro si confronta con serie pulsioni separatiste. Posta fra il Tibet e la Mongolia, la provincia dello Xinjiang (rinominata Nuova frontiera con la riaffermazione del potere cinese alla fine del 19° sec.) pone Pechino a diretto contatto con i problemi sorti in seguito all’indipendenza delle repubbliche ex sovietiche. Questa ha infatti rianimato il nazionalismo della principale etnia di ceppo turco della Repubblica cinese, gli Uiguri, investiti da una massiccia immigrazione di Han (passati dai 300.000 del 1949 agli oltre 9 milioni stimati ai giorni nostri, ossia la metà della popolazione dello Xinjiang). Così come in Tibet, la Cina non intende rinunciare alla propria sovranità su uno spazio che, nonostante le proibitive condizioni di un ambiente prevalentemente desertico, possiede un enorme valore strategico. Da qui il potere cinese può proiettarsi, oltre che in tutta l’area centroasiatica, verso il Medio Oriente, il subcontinente indiano e la Siberia. Sempre qui sono presenti risorse energetiche indispensabili all’economia cinese, risorse a cui potrebbe aggiungersi una parte di quelle scoperte nel Caspio, facendo dello Xinjiang la chiave dell’approvvigionamento nazionale.
Pechino guarda quindi all’Asia centrale da una duplice prospettiva, energetica e di sicurezza. Dal primo punto di vista, la Cina, che importa oggi oltre l’80% del proprio fabbisogno energetico via mare, lungo linee che potrebbero facilmente venire interrotte in caso di confronto con gli Stati Uniti e i loro alleati asiatici, lavora per inserire la regione nella propria strategia globale di approvvigionamento. I frutti sono stati colti negli ultimi anni con la costruzione del primo oleodotto della regione alternativo ai condotti russi, che collega Atasu (Kazakistan) ad Alašan’kou (Cina): 962 km di lunghezza, una capacità a regime di 20 milioni di tonnellate all’anno, in attività da fine 2005 e in corso di ulteriore potenziamento.
Sbloccando intese già stipulate da anni con il Turk;menistan, la Cina si è inserita anche nel settore del gas. Nel 2007 i due governi hanno concordato l’esplorazione e lo sfruttamento congiunto di giacimenti nonché il trasporto sul lungo periodo del gas estratto in Cina, su un plafond di 30 miliardi di m3 di gas per trent’anni, con annessa costruzione di un gasdotto dal Turkmenistan allo Xinjiang.
Il deciso ingresso della Cina ha ulteriormente esasperato la battaglia degli oleodotti del Caspio, evidenziando una volta di più la fragilità della posizione dei regimi, i cui volumi di estrazione non sembrano sufficienti a rispettare tutti gli impegni presi. Non è chiaro se il Kazakistan, che attualmente esporta quasi al 100% attraverso il territorio russo e che ha aderito al BTC su insistenza di Washington, sarà in grado di soddisfare tutti i suoi partner. Al di là delle imponenti difficoltà della sua attuazione, la costruzione del gasdotto dal Turkmenistan potrebbe acuire il confronto fra interessi russi e cinesi. Pur essendo la produzione di gas turkmena in crescita, essa si è attestata nel 2006 su 68 miliardi di m3. Dal momento che il Paese è vincolato a fornire alla Russia 50 miliardi di m3 all’anno fino al 2028 e almeno 10 all’Irān, da dove verrà il gas da inviare in Cina?
Idrocarburi a parte, i cinesi si sono inseriti nello sfruttamento di quasi tutte le risorse centroasiatiche: idroelettriche in Tagikistan e Kirghizistan, metallifere (alluminio, minerale di ferro in Kazakistan, metalli rari in Tagikistan). Un ruolo chiave potrebbe assumere l’uranio, risorsa di cui il Kazakistan possiede il 17% delle riserve mondiali. Secondo accordi conclusi fra l’agenzia nucleare cinese (China national nuclear corporation) e la sua omologa kazaka (Kazatomprom), il Paese si avvia a divenire il principale fornitore di uranio e combustibile nucleare.
La penetrazione cinese a tutto campo si spiega alla luce delle considerazioni strategiche che animano la politica centroasiatica di Pechino. I cinesi infatti non si muovono secondo una logica commerciale. Forti del supporto statale, le compagnie nazionali non esitano a sottoscrivere accordi anche per i progetti dalla redditività più incerta, evitati dalle compagnie occidentali. Il fine è quello di ‘prenotare’ il più largo numero di risorse in vista della costituzione di riserve nell’ambito di un approccio di lungo periodo. Queste considerazioni spiegano altresì l’interesse della Cina a essere presente nei mercati centroasiatici. Di per sé marginali rispetto all’interscambio cinese con il resto del mondo, questi mercati sono però importanti per alimentare lo sviluppo del contiguo Xinjiang, la cui produzione, in virtù della posizione continentale isolata, non sarebbe concorrenziale sui mercati mondiali. Da qui lo sforzo cinese di fare dei vicini uno sbocco per l’economia delle proprie regioni interne, sforzo largamente riuscito dato che si stima che l’80% delle merci presenti sui mercati dei NSI centroasiatici venga da est. Il risultato va contro le prospettive di sviluppo delle economie locali dato che questo tipo d’interscambio, basato sullo scambio fra beni di largo consumo (di bassa qualità anche secondo gli standard cinesi) contro materie prime, spiazza la produzione centroasiatica. A fianco della distorsione delle economie locali, la crescita cinese pone considerevoli problemi ai vicini in termini dell’uso delle acque dei fiumi transfrontalieri. I cinesi stanno effettuando notevoli deviazioni per alimentare le esigenze dello Xinjiang. Le conseguenze ecologiche potrebbero essere particolarmente gravi per il Kazakistan, quasi totalmente dipendente da acque internazionali nascenti al di fuori del suo territorio, il quale condivide con la Cina ventiquattro fiumi transfrontalieri.
Queste e altre incertezze che gravano sui rapporti tra Cina e Paesi centroasiatici sono finora rimaste in secondo piano rispetto all’interesse delle due parti a fornirsi reciproco sostegno politico di fronte alla comune minaccia rappresentata dalle pulsioni irredentiste e islamiste delle numerose minoranze etniche. Una situazione che se non controllata avrebbe potuto scoperchiare un vaso di Pandora dalle conseguenze drammatiche; situazione ben chiara alla stessa Russia alle prese con il separatismo ceceno. Da questa preoccupazione comune è fuoriuscito un meccanismo diplomatico multilaterale che, dopo una serie di vertici, si è formalmente istituzionalizzato nel 2001 con il nome di Shanghai cooperation organisation (SCO), di cui fanno parte, insieme a Russia e Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. Nata con lo scopo di risolvere i contenziosi frontalieri fra l’ex URSS e la Cina, l’intesa di Shanghai ha progressivamente ampliato le proprie competenze. Sul piano della sicurezza l’Organizzazione fornisce un quadro per la cooperazione fra le intelligences nella repressione dei gruppi clandestini estremisti (a tal fine è stato costituito un centro ad hoc con sede a Taškent in Uzbekistan) nonché per l’organizzazione di manovre militari congiunte di largo respiro.
Tale cooperazione ha fatto da contrappunto al significato politico che l’Organizzazione ha assunto nelle dichiarazioni congiunte dei suoi capi di Stato: rifiuto dell’unilateralismo nella diplomazia internazionale e primato dei meccanismi multilaterali, dell’ONU in primo luogo, con l’obiettivo di far presente agli Stati Uniti e alla NATO che la sicurezza dell’Asia centrale non necessita di protettori esterni.
La SCO suscita inquietudini in Occidente soprattutto da quando ha aggregato quali osservatori ai suoi vertici annuali attori del calibro di Pakistan, India e Irān, con i quali ha ulteriormente allargato i suoi orizzonti in tema di sicurezza energetica. In tal modo, l’Organizzazione rappresenta oggi una potenziale alternativa alla politica occidentale nella regione, capace di spiazzarne le aspettative. Nella realtà, le possibilità della SCO restano bloccate da molte contraddizioni. Al di là della difficoltà nel definire regole comuni per soggetti talmente diversi e su questioni talmente delicate (in primo luogo il settore energetico), il problema centrale è quello della competizione fra i due principali attori dell’organizzazione: Russia e Cina. Le due potenze si sono finora mosse di concerto sulla base di una comune valutazione negativa della presenza americana nella regione. Tuttavia, dopo il ridimensionamento dell’influenza degli Stati Uniti, Mosca appare sempre più sospettosa delle iniziative cinesi, la piena affermazione delle quali potrebbe in effetti mettere in questione la sua riaffermata posizione di leadership nell’area. Dal canto suo, la diplomazia cinese – a disagio di fronte al crescente atteggiamento di confronto della Russia – ha insistito sul minimizzare la portata dell’intesa militare.
La chiave del contrasto fra i due principali partner della SCO sta nel fatto che Pechino vorrebbe svilupparne la componente economica fino a costituire un mercato comune, mentre Mosca vorrebbe piuttosto il consolidamento della dimensione politico-militare da sfruttare contro la pressione atlantica esercitata nel proprio perimetro di sicurezza. In tale contrasto, i NSI giocano il ruolo di soci minori, lieti del ritorno d’immagine e delle prebende economiche che la partecipazione all’Organizzazione assicura loro, ma timorosi tanto dei rischi per le loro economie che derivano dal peso crescente del vicino orientale quanto dell’intensificarsi dell’iniziativa russa.
Allo stesso tempo la SCO costituisce un fondamentale spazio di dialogo che ha finora permesso di risolvere spinose questioni in via consensuale ed è come tale destinato a restare un elemento chiave del panorama geopolitico mondiale.
La ‘fascia meridionale’ islamica
In quanto zona di passaggio delle millenarie migrazioni turco-mongole e poi terreno di espansione delle fedi buddhista e islamica, l’Asia centrale è unita da legami etnici e culturali con soggetti chiave del mondo musulmano posto a sud di essa, in primo luogo con Irān, Turchia e Pakistan, quest’ultimo alleato dell’Arabia Saudita. Tali legami hanno ricominciato a manifestarsi sul piano geopolitico già prima della fine della guerra fredda, anzi proprio per effetto di quest’ultima, dato che la situazione in Afghānistān alla fine degli anni Settanta venne utilizzata dagli angloamericani dapprima per provocare l’intervento sovietico nel Paese e, una volta verificatosi questo, per indebolire l’URSS stimolando i sentimenti islamisti e separatisti dei suoi popoli musulmani.
Scomparsa l’URSS, le correnti islamiste installatesi nella regione non hanno naturalmente smesso di operare al suo interno. Nonostante il fatto che per Washington queste si siano ufficialmente trasformate da alleati in nemici, Irān, Turchia e Pakistan continuano a sfruttare i canali aperti dalle reti islamiche per espandere la propria influenza sulla scacchiera centroasiatica. Di concerto, i tre Stati hanno cercato di creare un programma di mercato comune per l’Asia centro-meridionale, rianimando l’Organizzazione di cooperazione economica (già costituita per iniziativa dell’Irān ancora ai tempi dello scià), inserendovi i Paesi dell’Asia centrale, insieme ad Afghānistān e Azerbaigian. Queste e altre iniziative non hanno sortito gli effetti desiderati così che i tre soggetti continuano oggi i loro sforzi su base individuale.
Il tema della minaccia islamica, evoluto in guerra al terrore dopo il 2001, e utilizzato da parte russa e occidentale per giustificare la propria presenza nella regione, continua a rappresentare un serio fattore di disturbo nell’instaurazione di rapporti normali con gli Stati della regione.
Paradossalmente, proprio l’Irān, fra i tre citati, è il soggetto che fa meno ricorso al tema della solidarietà musulmana nella sua diplomazia centroasiatica. Questo perché, a differenza degli altri attori, l’Irān è quello a rischiare gli interessi più concreti da un’eventuale evoluzione negativa della nuova equazione regionale. Si tratta in primo luogo della sicurezza delle proprie frontiere nord-orientali, da tempo investite dall’instabilità dell’Afghānistān. Ciò implica un supporto incondizionato alla stabilità dei NSI, nonché la necessità di sfruttare le occasioni determinate dall’emersione dei nuovi soggetti per cercare di uscire dall’isolamento diplomatico e rafforzare i contatti con Europa e Asia orientale agendo nelle dinamiche dei teatri chiave del Caspio, dell’Afghānistān e del Caucaso. Il terreno centroasiatico è così divenuto un luogo d’intesa e coordinazione con la politica della Russia (come testimoniato dalla mediazione congiunta che ha condotto alla cessazione del conflitto civile in Tagikistan nel 1997). Con Mosca, Teherān condivide in particolare l’interesse a evitare che il Caspio divenga un’arena di scontro limitando l’ingresso di attori estranei alla regione. A tal fine, sin dal 1992, gli iraniani sostengono la creazione di un’organizzazione regionale del Mar Caspio, la cui ratio si basa anche sulle sfide ecologiche che gli Stati rivieraschi devono affrontare. Con il tempo sono apparse tuttavia divergenze. La Russia si è infatti accordata con Azerbaigian e Kazakistan sulla divisione dei rispettivi settori del bacino (pari al 64% di esso), isolando l’Irān che insiste per il mantenimento di un regime condominiale. L’Irān è altresì interessato a saldare le proprie infrastrutture con le reti energetiche russe e centroasiatiche. Infatti, in virtù della difficile posizione dei giacimenti locali centroasiatici e della qualità non eccelsa del loro greggio, è evidente che la via iraniana costituirebbe la variante ottimale per diversificare l’esportazione delle risorse. Tale variante è però stata ostacolata in ogni modo dalla politica statunitense. Sullo sfondo della costante pressione degli Stati Uniti, l’Irān ha trovato un’importante risorsa politica nella SCO, in cui siede quale osservatore, alimentando così il confronto latente fra l’Organizzazione e la NATO, elemento da cui deriva la riluttanza da parte di Russia e Cina ad accogliere il Paese quale membro a pieno titolo. Organizzatore nel 2007 di un vertice dei Paesi del Caspio chiusosi con un comunicato congiunto contro la presenza di forze armate straniere all’interno del bacino, l’Irān ha compiuto notevoli passi avanti verso un embrione di accordo di sicurezza regionale. In generale, se la questione dello status del Caspio non assumerà toni di divergenza troppo accentuati, la regione diverrà in misura crescente un terreno di espansione per la politica estera iraniana.
In contrasto con le vicende iraniane, la diplomazia della Turchia è stata sospinta in ogni modo da quella statunitense a interessarsi del destino dei Nuovi Stati indipendenti. I turchi hanno cercato di mettere in risalto le comuni radici etniche, espresse oggi soprattutto nelle lingue parlate nella regione (con esclusione del Tagikistan, che è parte del mondo iraniano). Sono così riemersi i fantasmi del panturchismo, l’ideologia che asseriva l’unificazione dei popoli di ceppo turco sponsorizzata nel quadro del grande gioco dalle potenze interessate all’indebolimento della Russia zarista (in primo luogo Gran Bretagna e Germania), sotto il cui scettro la maggioranza di questi popoli si era ritrovata a vivere. Su tale sfondo, Ankara ha cercato di impostare con i NSI uno spazio economico uniforme, a essa funzionale. Seguendo lo slogan statunitense per una «via della seta del 21° secolo», i turchi hanno organizzato numerose riunioni di un gruppo informale dei ‘Sei’ (la Turchia, l’Azerbaigian più le quattro repubbliche turcofone centroasiatiche). I contatti hanno così assunto molteplici dimensioni: da quella energetica – vitale per Ankara, interessata a essere attraversata dal nuovo asse est-ovest sottinteso ai nuovi oleodotti – a quella culturale e finanche, nonostante il laicismo ufficiale dello Stato turco, religiosa.
Tuttavia, i notevoli sforzi profusi non hanno per il momento portato che magri risultati. Oltre che Cina, Russia e Irān, le prospettive di unificazione panturca proposte da Ankara hanno infatti messo sul chi vive le dirigenze postcomuniste della regione, avverse a nuove relazioni di patronato esterno dopo la lunga tutela russa. In tal modo, i turchi non hanno potuto mettere a frutto l’appoggio occidentale, comunque rarefattosi dopo aver preso atto che l’Irān non poteva costituire un pericolo per la regione. Inoltre, per Ankara i numerosi canali aperti nella periferia centroasiatica hanno rischiato di trasformarsi in un boomerang. Questi sono stati infatti utilizzati anche da gruppi islamisti turchi, i quali si sono installati in Asia centrale costituendo differenti imprese commerciali e soprattutto educative, utilizzate per una discreta ma incisiva opera d’islamizzazione delle società locali. Tali attività sono giunte a preoccupare le autorità turche, poiché la loro espansione è sovente servita da copertura per traffici illegali (narcotici inclusi). Oltre a non portare i vantaggi auspicati, l’espansione turca in Asia centrale rischia così di avere effetti negativi nella delicata evoluzione del panorama sociopolitico interno turco, favorendo il consolidamento dei contatti fra l’estrema destra e i gruppi islamisti. Il tutto dà una misura dell’estrema ambiguità che caratterizza l’azione centroasiatica turca: se infatti la diplomazia di Ankara vive con preoccupazione l’attività dei gruppi islamisti e panturchisti, considera allo stesso tempo la loro penetrazione a est come una risorsa, soprattutto in termini di futura influenza sulle classe dirigenti dei Nuovi Stati indipendenti.
Ambiguità e utilizzo di reti informali caratterizzano altresì l’interazione centroasiatica con il terzo soggetto del mondo islamico più direttamente interessato dall’apertura dell’arena locale dopo il big bang del 1991, il Pakistan. Già da prima dell’indipendenza, Islāmābād aveva iniziato a considerare la regione una retrovia strategica, da attivare nel suo confronto con l’eterno rivale indiano. Le mosse pakistane in direzione dell’Asia centrale sono in parte dettate dalla geopolitica dello spazio posto alle frontiere settentrionali del Paese. In primo luogo dal complesso intreccio di autonomie create dagli inglesi lungo il confine con l’Afghānistān – le Aree tribali e la Provincia della frontiera del Nord-Ovest – che sfuggono in buona parte all’autorità statuale per sovrapporsi alle dinamiche interne dell’Afghānistān, anche in virtù del fatto che da entrambi i lati della frontiera domina l’etnia pashtun. Non va inoltre dimenticato il Kashmir, un’altra piaga geopolitica aperta che segna i confini a nord del Pakistan e richiede una continua mobilitazione di truppe, regolari e non, per impedire il ritorno all’India di questa regione separatista.
Il caos afghano ha permesso al Pakistan di perseguire un duplice obiettivo. Da un lato risalire la catena d’interconnessioni etniche e religiose per affermare via Kābul la propria influenza in Asia centrale. Dall’altro riversare all’esterno le tensioni causate dai numerosi gruppi fondamentalisti che agitano la scena politica interna. Attori chiave di tale politica sono i potenti servizi segreti dell’esercito, l’ISI (Inter Service Intelligence), già organizzatori per conto di Washington del supporto alla guerriglia islamista antisovietica, divenuti, anche in virtù di tale politica, un autentico Stato nello Stato. Dopo che i tentativi di agganciare le repubbliche ex sovietiche alla propria economia si sono rivelati chimerici, in particolare poiché naufragati nella faida delle fazioni afghane, Islāmābād ha ricominciato a giocare ‘sporco’, tentando di controllare la situazione tramite i gruppi fondamentalisti pashtun. Da tali tentativi si sviluppò la spinta dei Ṭālibān verso nord negli anni Novanta, impresa anch’essa rapidamente rivelatasi fallimentare e conclusasi nel 2001 con l’intervento degli Stati Uniti e della NATO in Afghānistān. Nel momento in cui anche quest’ultimo tentativo di risolvere l’imbroglio afghano appare votato all’insuccesso, il Pakistan si ritrova coinvolto in una situazione che non riesce più a controllare e che non può abbandonare, pena lo scaricarsi dei suoi effetti perniciosi sui fragili equilibri interni. Pressati dalla presenza della NATO nell’area transfrontaliera afghano-pakistana, i gruppi fondamentalisti, fra cui vi sono anche i fuoriusciti centroasiatici del Movimento islamico dell’Uzbekistan, appaiono orientati, soprattutto a seguito della crisi politica dell’inverno 2007-08, a rivolgersi contro l’autorità di Islāmābād per respingere l’intervento statunitense nella regione. Si può dunque osservare come il boomerang islamista lanciato un tempo dalle autorità di Islāmābād verso nord si ritorca ora contro di esse.
L’intervento internazionale in Afghānistān
Presi a pretesto per la mobilitazione angloamericana e poi internazionale in Afghānistān, gli eventi dell’11 settembre 2001 hanno causato un’accelerazione delle dinamiche centroasiatiche.
Il principale dato nuovo è senza dubbio l’arrivo dell’apparato militare atlantico nella regione (apertura di tre basi in Afghānistān e di due in Asia centrale, di cui una evacuata nel 2005), un fatto che segna un netto cambio di strategia da parte di Washington: da un tentativo di affermare la propria influenza senza diretto coinvolgimento, quasi per procura, all’affermazione di una presenza continua sul terreno. Quest’ultima non può essere disgiunta dalle manovre di Washington nei teatri adiacenti di Medio Oriente e Asia meridionale, manovre che hanno avuto altresì l’effetto di causare un’impennata dei prezzi delle materie prime, la quale a sua volta ha avuto un impatto diretto sugli equilibri regionali. Quale risultato della congiunzione dei due eventi, i regimi centroasiatici hanno visto aumentare notevolmente la propria importanza geopolitica, sia come retrovie dell’Afghānistān sia in qualità di detentori di risorse energetiche divenute economicamente più appetibili. In conseguenza al nuovo interesse nei loro confronti, essi sono andati alzando sempre più il prezzo della loro cooperazione nei due campi. Sul piano energetico lo stacco è stato netto. Se fino al 2002 tutto era stato fatto per offrire condizioni vantaggiose agli investitori stranieri, da quel momento in poi si è registrata una crescente ingerenza governativa nell’attività degli operatori presenti, anche per effetto delle alternative create dalla massiccia inserzione dei capitali provenienti dalla Cina. Sul piano politico, la retorica dei regimi sul rispetto delle procedure democratiche si è ulteriormente allontanata dalle loro pratiche dittatoriali.
Nel momento in cui ha constatato che Russia, Cina e Irān continuavano a rafforzare le proprie posizioni regionali, Washington ha cercato di favorire la sostituzione dei regimi applicando la tattica delle ‘rivoluzioni colorate’ usata dagli Stati Uniti con apparente successo in altre sezioni dello spazio postsovietico (Georgia, 2003; Ucraina, 2004). Tuttavia, nel 2005 la tattica del regime change ha provocato esiti disastrosi in Kirghizistan e Uzbekistan. Quale risultato gli Stati Uniti si sono ritrovati estromessi dal bastione della loro influenza centroasiatica, l’Uzbekistan, riallineatosi con la politica di Mosca, e hanno dovuto rivedere i parametri della propria geopolitica nella regione. Nel 2006 gli Stati Uniti hanno lanciato una nuova iniziativa d’influenza regionale, la Great central Asia (GCA), pendant del Great Middle East; oltre che ennesimo tentativo di ridefinizione dall’esterno dei confini della regione, il nuovo progetto statunitense fa leva sulla crescente fame di risorse energetiche di India e Pakistan per dare forma a un grande partenariato fra l’Asia centrale e meridionale, con l’Afghānistān al centro a fare da snodo. Va da sé che lo sviluppo di tale direttrice ha nella prospettiva statunitense lo scopo essenziale di contenere l’influenza crescente dei propri antagonisti russi, cinesi e iraniani. Anche nel quadro CGA si ritrova una tensione fra progetti alternativi di corridoi energetici: Washington sostiene un gasdotto Turkmenistan-Afghānistān-Pakistan (TAP), già alla base della complicità statunitense in occasione dell’ascesa dei Ṭālibān al potere dieci anni prima e ora importante per consolidare la nuova intesa raggiunta con l’India. Ma, data la permanente instabilità afghana, al TAP si contrappone il progetto Irān-Pakistan-India (IPI), in cui sono in gioco anche gli interessi russi.
L’attuale congiuntura dell’Asia centrale è anche caratterizzata dall’ambizione da parte dell’Unione Europea (UE) di porsi quale attore a sé stante al suo interno. Tale interesse deriva dallo spostamento verso est del baricentro dell’UE prodotto dall’allargamento del 2004, dalla presenza degli eserciti europei in Afghānistān così come da una crescente inquietudine per la propria sicurezza energetica. Quest’ultima si è imposta dopo le crisi intervenute nei rapporti fra Russia, Ucraina e Bielorussia (attraverso cui passa l’essenziale delle esportazioni energetiche russe verso l’Europa), e ha portato a individuare nell’Asia centrale una fonte alternativa a Mosca. A tale svolta ha contribuito anche la scomparsa nel dicembre 2006 di Saparmurat Niyazov, il dittatore che per ventun’anni ha dominato la vita pubblica del Turkmenistan. A differenza del suo predecessore, il nuovo leader turk;meno, Gurbanguly Berdimuhamedov, ha dichiarato di essere pronto a diversificare le proprie esportazioni al di là della Russia, un’apertura inattesa che ha richiamato tutte le forze interessate a consolidare le proprie posizioni nel bacino del Caspio.
Di fatto l’UE agisce di concerto alla linea statunitense. Al cuore della sua proposta, un gasdotto transcaspico destinato a integrare il cosiddetto progetto Nabucco per il trasporto di gas in Austria, attraverso Caucaso meridionale e Turchia, evitando il territorio della Russia. Toccata nei propri interessi, quest’ultima ha immediatamente reagito riuscendo nel 2007 a vincolare nuovamente a sé i presidenti kazako, turkmeno e uzbeko nella ristrutturazione dell’intera infrastruttura gasifera che connette i quattro Paesi. L’impatto dell’accordo è stato tale da eliminare virtualmente le prospettive del Nabucco, per il quale non sembrano esistere risorse sufficienti (tenuto conto degli impegni contratti dai turkmeni con Cina e Irān), ma che continua tuttavia a essere oggetto di negoziato.
L’attuale congiuntura è quindi nuovamente segnata da un’ennesima fase di stallo della strategia statunitense di penetrazione nell’Asia centrale con l’Europa al seguito, incerta sulla via da seguire. Dalla linea di Bruxelles si dissociano sia un buon numero degli Stati membri sia le stesse compagnie petrolifere europee, in primo luogo l’Eni S.p.A. (già ENI, Ente Nazionale Idrocarburi). Particolarmente attiva nel bacino del Caspio, l’Eni basa la propria posizione su una cooperazione organica e di lungo periodo con il gigante dell’energia russo Gazprom, nell’ambito della quale rientrano sviluppo, produzione e distribuzione dell’energia. Difficilmente le compagnie europee potrebbero rinunciare a partenariati di questo tipo per sostenere progetti rischiosi politicamente e incerti dal punto di vista commerciale quali il proposto Nabucco – che se mai fosse completato fornirebbe volumi (fra i 16 e i 20 miliardi di m3 di gas su un consumo previsto pari a oltre 550 miliardi di m3) non in grado comunque di modificare la dipendenza europea dal gas russo.
Se l’Asia centrale non presenta un interesse vitale per l’Europa sul piano energetico, la situazione in Afghānistān, dove i contigenti militari europei si trovano in un’impasse strategica simile a quella sovietica negli anni Ottanta, rende la regione importante dal punto di vista logistico quale corridoio terrestre per i rifornimenti NATO. Ma di nuovo, questo potenziale non sembra attuabile senza la cooperazione della Russia, la quale, come visto al vertice NATO di Bucarest del 2008, fa leva sulle difficoltà della NATO in Afghānistān per ottenere contropartite sulle altre questioni in cui l’Alleanza le si contrappone (per es., il sistema missilistico AMD, il Kosovo), oltre che per affermare la sfera d’influenza dell’OTSC, riuscendo infine a guadagnare il riconoscimento occidentale per questa struttura. Una tale linea di negoziato è indirizzata ad accentuare il legame fra la politica centroasiatica e occidentale della Russia influenzando la ridefinizione in atto della politica estera del Paese su scala globale. Se dovesse mantenersi la pressione da parte della NATO, l’Asia centrale è destinata a diventare la base del rafforzamento dell’intesa russo-sino-iraniana, il test della quale sarà anche nella loro capacità di apportare ordine in Afghānistān.
Un partenariato economico basato su oggettive necessità reciproche potrebbe anche fare da apripista a una più ampia intesa geopolitica fra l’Europa e i membri del triangolo di potenze eurasiatiche. Irān e Russia hanno già segnalato di voler fare leva sugli interessi europei nella regione per creare una frattura fra la componente franco-tedesca e la componente anglo-americana della NATO. In particolare dopo la crisi caucasica del 2008, crescono le capacità di manovra dell’Irān che, tramite la sua partecipazione alla SCO e il consolidarsi delle reti energetiche con la Turchia (avvio di un gasdotto nel 2007), ha aumentato il proprio peso nella bilancia energetica della regione, quale snodo dei flussi sia verso ovest sia verso est. In tal senso resta da valutare il ruolo che assumerà nella competizione in atto l’India, la quale tenta d’installarsi militarmente in Tagikistan, spinta da obiettivi fattori strategici a contrapporsi alla Cina nella definizione degli equilibri dell’Asia centrale.
I trasporti: la regione quale nodo logistico
Una possibile via d’uscita dagli scenari di confronto che si annunciano per la regione nel 21° sec. potrebbe venire dalla valorizzazione del suo potenziale di crocevia per una nuova rete di trasporti intercontinentali. Tale prospettiva è oggettivamente favorita dalle dinamiche economiche positive che negli ultimi anni si sono estese dalla regione est asiatica all’area ex sovietica. Se si considera poi il fattore energia, risulta più intenso anche l’interscambio fra queste aree e l’Europa, con volumi sempre più difficili da smaltire lungo le tradizionali linee marittime. Di conseguenza, aumenta l’attrattiva del trasporto continentale attraverso l’Asia centrale, la quale, in virtù della propria posizione mediana fra Europa e Pacifico, oltre che fra questi e l’Asia meridionale, vede un’opportunità strategica per divenire un ponte fra Oriente e Occidente, un richiamo alla situazione esistente in epoca premoderna con il transito della Via della seta, rotta commerciale che univa il Mediterraneo all’Asia orientale, il cui declino con l’apertura delle rotte marittime mondiali nel 15° sec. fu tra le cause della decadenza della regione fino all’arrivo dei russi.
L’odierna sfida consiste nella realizzazione di Corridoi di trasporto internazionali (CTI), sistemi integrati che prevedono investimenti in un complesso di infrastrutture così da stimolare in profondità le economie delle regioni continentali e agire inoltre quali corridoi di sviluppo. In tal modo, aprendo nuovi collegamenti con il mondo esterno, i CTI prospetterebbero non solo la fuoriuscita dalla stagnazione economica postcomunista ma fornirebbero altresì garanzie per la sicurezza dell’Asia centrale. Il complesso di misure necessario ai CTI è tale infatti da richiedere la stipulazione di intese multilaterali di lungo periodo sia con i vicini sia fra gli stessi NSI, cosa che rafforzerebbe la coesione interna di queste fragili entità moderandone le molteplici situazioni di tensione. L’obiettivo dello sviluppo tramite la cooperazione è perseguito dal CAREC (Central Asian REgional Cooperation program), fondato nel 1997 dagli Stati della regione (insieme ad Afghānistān, Azerbaigian, Cina e Mongolia) con il supporto dell’Asian development bank, oltre che di tutte le organizzazioni regionali citate di cui sono parte i Nuovi Stati indipendenti. Una particolare enfasi, nel progetto, è posta da parte della SCO, spia del fatto che è la Cina, che da anni investe massicciamente nelle proprie infrastrutture di trasporto, a premere in questa direzione. Pechino investe anche nelle infrastrutture del Pakistan, il quale cerca di fare dei propri porti lo sbocco meridionale dei NSI ma, oltre che con lo stallo in Afghānistān, si è dovuto confrontare con severi limiti strutturali e fisici.
Dal suo canto l’Irān ha altresì investito nella valorizzazione della propria rete di trasporto per creare un corridoio (Mashhad/Bandar-e Abbas) fra l’Asia centrale e il Golfo. Accanto, la Turchia spera di beneficiare dei nuovi flussi per divenire lo snodo verso il Mediterraneo delle vie di comunicazione centroasiatiche. I tentativi turchi hanno trovato sostegno da parte europea, tramite il progetto TRACECA (TRAnsport Corridor Europe-Caucasus-Asia), prefigurante un corridoio verso l’Asia centrale attraverso il Mar Nero e il Caucaso, sempre basato sulla preoccupazione di evitare Russia e Irān.
Queste brevi considerazioni suggeriscono come il potenziale dei CTI eurasiatici sia finora rimasto inattuato: ciò è avvenuto soprattutto a causa di ostacoli geopolitici legati alle possibilità d’influenza degli attori esterni che controllano le infrastrutture. La Russia, perdurando il clima di confronto con l’Europa, resta sospettosa delle nuove iniziative. Mosca ha comunque lanciato un proprio CTI fra il Baltico e l’area del Golfo (corridoio ‘Nord-Sud’ San Pietroburgo-Bombay, attraverso Caspio, Irān e ῾Omān). I progetti Nord-Sud e TRACECA soffrono entrambi della tortuosità dei rispettivi percorsi (richiedenti numerosi passaggi mare-terra con ripetuti cambi del vettore). Da non trascurare, infine, i dati tecnici, visto che le infrastrutture di collegamento necessitano di tempo e capitali per funzionare efficientemente, anche in considerazione delle difficoltà dell’ambiente fisico di alta montagna che spesso devono attraversare.
L’ostacolo principale dei corridoi sembra comunque risiedere nella strutturale incapacità a intendersi fra loro delle entità postsovietiche così che i potenziali corridoi sono rimasti frammentati in sezioni nazionali, senza un interlocutore unico per gli speditori. Anche qui si è ripresentato il problema che più in generale ha bloccato finora lo sviluppo della regione: ovunque prevalgono gli egoismi nazionali e gli interessi immediati con poco riguardo per i vantaggi complessivi di lungo periodo.
Le incertezze del futuro
Nel quadro di cronica incapacità a risolvere le tensioni sul piano politico, il futuro dell’area centroasiatica permane incerto. Critiche appaiono in particolare le prospettive di Tagikistan, Kirghizistan e Uzbekistan. Nei tre Paesi – e più che mai nella loro area d’intersezione, la Valle di Fergana –, data la perdurante pressione demografica e la riduzione delle risorse di base, le condizioni di vita della maggior parte della popolazione continueranno a generare tendenze estremiste e tale situazione è destinata a permanere nei NSI, così come le strutture criminali alimentate dal narcotraffico proveniente dall’Afghānistān. Tutto ciò influisce pesantemente sulle capacità locali di risposta alle crescenti sfide con cui la regione si confronta. Queste, oltre al miglioramento dell’economia, includono i conflitti territoriali aperti e la sempre più cruciale questione della gestione delle risorse idriche. La scarsità di queste ultime mette in forse la sicurezza alimentare: nel febbraio 2008, sullo sfondo della crisi divenuta avvertibile a livello mondiale, il Tagikistan si è dovuto rivolgere alla comunità internazionale perché impossibilitato a nutrire la propria popolazione.
L’autoritarismo pone seri problemi anche alla tenuta esterna dei Nuovi Stati indipendenti. Il dissesto politico dei regimi è evidenziato dal loro perdurante tentativo di fondare l’unità nazionale su visioni etnonazionaliste. Oltre a contribuire allo scollarsi delle società dall’interno, tali concezioni si ripercuotono sulle relazioni fra le entità statali, dove giocherà un ruolo anche l’indebolirsi della formazione comune sovietica propria alle attuali élites.
La politica uzbeka, in particolare, verrà vissuta come una minaccia da parte dei vicini, oltre che per il potenziale militare di Taškent, per via della diaspora di comunità uzbeke sparse in tutta l’Asia centrale. Inoltre, il regime di Taškent perdurerà a essere a rischio d’implosione. Questa avrebbe un effetto destabilizzante tale da investire l’insieme dell’ex URSS pregiudicando lo sviluppo dell’intera regione – con un effetto domino in cui prima cadrebbe il Kirghizistan (in effervescenza costante dal 2005 in poi) e poi il Tagikistan, dove si assiste a una ricomposizione dell’opposizione islamista, anche clandestina, contro il regime del presidente Emomali Rahmon (Rahmonov fino al 2007). La frammentazione che oggi regna in Afghānistān si estenderebbe così in profondità verso nord in una combinazione esplosiva di conflitti religiosi, sociali, tribali ed economici.
Su tale sfondo, il Kazakistan si afferma quale leader regionale, ma la sua stabilità è anch’essa minata da lotte intestine ed egoismi nazionali. Dopo oltre vent’anni, l’uscita di scena dell’attuale presidente Nursultan Nazarbaev si annuncia particolarmente rischiosa. Inoltre, assieme al Turkmenistan, il Kazakistan potrà trovarsi a subire gli effetti delle distorsioni strutturali dovute alla dipendenza della propria economia dalle risorse energetiche. La leadership del Kazakistan viene al momento riconosciuta in funzione antiuzbeka da parte di kirghizi e tagiki, dominati, questi ultimi in particolare, da un senso di minaccia alla propria identità etnoculturale. Su tali basi un acutizzarsi delle tensioni intestine alla regione sembra inevitabile. I pretesti abbondano nelle dispute per il controllo dei territori frontalieri (larga parte dei quali non è stata delimitata da trattati) o per la gestione dell’acqua.
Quale effetto della congiunzione di fattori interni ed esterni l’involuzione di questi regimi in Stati falliti con una frammentazione dell’autorità pubblica è una prospettiva più che reale per i Nuovi Stati indipendenti. In un simile contesto è essenziale il ruolo che le potenze possono svolgere dall’esterno. Potenzialmente Mosca possiede le chiavi della stabilizzazione regionale. In primo luogo in quanto meta dei processi di migrazione che costituiscono la principale valvola di sfogo delle tensioni interne dell’Asia centrale, oltre a rappresentare il canale attraverso cui si manifesta ancora nella regione l’influenza della Russia quale modello economico e di società multiculturale. Tuttavia è difficile che questo potenziale positivo si realizzi se Mosca non elaborerà una propria strategia regionale che includa i molteplici fattori che definiscono l’equilibrio di potere dell’Asia centrale, in particolare in modo da mantenere l’attuale funzione unificante della lingua russa anche nel nuovo secolo. Il ruolo della Russia sarà poi insufficiente se non saprà armonizzarsi con quello delle altre potenze affacciatesi sulla regione dopo il 1991. Le potenzialità maggiori sono quelle nel quadro dell’intesa di Shanghai, la quale, attraverso lo sviluppo del potenziale dei CTI e agendo in controtendenza alle spinte alla militarizzazione, potrebbe effettivamente convogliare le risorse per lo sviluppo a lungo termine dell’Asia centrale e per il suo inserimento in una dinamica internazionale virtuosa. Vi sono tuttavia rischi che la competizione per le risorse e i percorsi di esportazione contribuiscano a minare l’intesa strategica russo-cinese su cui si regge la Shanghai cooperation organisation.
La questione dell’energia continuerà a fare da catalizzatore di tensioni nel rapporto fra gli interessi occidentali e quelli degli attori locali in un contesto suscettibile d’innalzare il livello dello scontro. Al di là del contrasto ormai consolidato a proposito delle rotte verso occidente, si annuncia di rilievo la concorrenza fra i progetti TAP e IPI, banco di prova del ruolo futuro dell’Irān e della sua intesa con Mosca. I tentativi occidentali volti a inserire i NSI in un insieme regionale consolidabile politicamente tramite l’attrazione del modello UE non sembrano destinati a concludersi con successo; queste manovre potranno forse ostacolare l’attrazione russa e cinese sulle élites locali, ma a tutto svantaggio della stabilità generale alimentando presso le potenze asiatiche rappresentazioni negative dell’azione altrui in una logica da gioco a ‘somma zero’ che mina le possibilità di cooperazione internazionale. Determinante sarà infine l’evoluzione della tendenza tuttora dominante a considerare la regione in una prospettiva di guerra al terrorismo. È evidente che i diversi attori presenti manipolano minacce che hanno in primo luogo un’origine socio;economica per proiettarle in una prospettiva di sicurezza militare atta a perseguire i propri fini geopolitici. Proprio il perdurare di una tale logica poliziesco-militare rende estremamente difficile elaborare le strategie diplomatiche necessarie a far fronte agli immani problemi della regione. Inoltre, perdurando una simile impasse, determinanti nel definire sul lungo periodo il profilo della regione potrebbero risultare la Cina e/o le forze fondamentaliste alimentate dal Pakistan e dai suoi sponsor del Golfo.
Sebbene non decisivo per gli sviluppi della politica mondiale del 21° sec., l’Asia centrale si presenterà sempre più quale un luogo d’incontro e di scontro delle strategie dei maggiori attori internazionali.
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