Il sacco di Partitopoli
A vent’anni da Tangentopoli (1992) uno scandalo di grandi proporzioni scuote la politica italiana con i casi Lusi e Belsito. Ma questa volta sono i partiti che rubano a se stessi i rimborsi elettorali.
«C’era la delegazione di Craxi in visita in Cina, erano a cena, mangiavano. A un certo punto Martelli ha chiesto a Craxi: ‘Senti, ma davvero qui sono un miliardo, tutti socialisti? Ma se sono tutti socialisti, a chi rubano?’». Nello studio di Fantastico applaudono a stento, Beppe Grillo chiude con questa battuta la sua carriera di comico alla RAI. È il 15 dicembre 1986, per la risposta bisognerà attendere più di un quarto di secolo.
Quando nella tarda serata di lunedì 30 gennaio 2012 l’ANSA batte una notizia incredibile: esiste un tesoriere di partito che ha rubato a se stesso. «L’ex tesoriere della Margherita e senatore del PD Luigi Lusi è indagato dalla Procura di Roma per appropriazione di somme relative ai rimborsi elettorali», riassume l’agenzia. «Non è nota l’entità della somma di cui Lusi si sarebbe appropriato». Margherita, Belsito, Fiorito.
Nomi da poema bucolico, se non fosse che nascondono pratiche poco idilliache. «Il più grave saccheggio politico della storia repubblicana», così Arturo Parisi definisce la razzia dei rimborsi operata da Lusi. A 20 anni esatti di distanza da Tangentopoli, ma con una differenza, sottolinea il sindaco di Firenze Matteo Renzi: «All’epoca si rubava per il partito, oggi si ruba al partito, è una drammatica evoluzione della specie...». Quanti sono i milioni di cui si è impossessato il tesoriere della Margherita? Come i baci di Catullo: mille, deinde centum, deinde usque altera mille... Tredici milioni, si scopre a inizio inchiesta, poi 20, quindi 27. Palazzi nel centro di Roma, il villone burino ai Castelli, i viaggi in aerotaxi, gli spaghetti al caviale che indignano l’accusato: «Mai mangiati, non mi piacciono!». Con i soldi di un partito che è morto nel 2007 ma che continua a incassare denaro pubblico. Li chiamano rimborsi elettorali: 2,3 miliardi di euro in 18 anni. Un trucco per aggirare il referendum del 1993 che ha eliminato il finanziamento pubblico. Perché in realtà i partiti spendono soltanto un quarto di quanto incassano: le spese documentate sono appena 580 milioni. Alle elezioni del 2006 e del 2008 i partiti hanno investito 2,97 euro per cittadino e ne hanno ricevuti indietro 10,5. Tanti, troppi soldi, senza controlli e senza limiti. «Tutti i bilanci dei partiti sono falsificabili», si giustifica l’ex leader della Margherita Francesco Rutelli, per non dire che sono tutti falsi. «Un partito può benissimo buttare i soldi dalla finestra, non c’è nessun reato», ripete Umberto Bossi quando spunta un Lusi in Padania. Si chiama Francesco Belsito, un ex autista piazzato ai vertici di Fincantieri e come sottosegretario nel governo Berlusconi; nella Lega giurano di non conoscerlo, eppure è lui che ha investito i rimborsi del Carroccio in Tanzania e che foraggia con gli schei di Roma ladrona i bisogni della famiglia Bossi: la benzina per i figli del capo, gli alimenti per l’ex moglie, la laurea di Renzo comprata in Albania... Su Belsito si infrange la creatura bossiana, che nel 1993 sventolava il cappio nell’aula della Camera incitando al linciaggio dei politici corrotti e che finisce agitando le ramazze contro se stessa. «Il futuro è Fiorito», faceva scrivere sulle magliette il massiccio capogruppo PDL alla Regione Lazio che trasferisce i fondi pubblici destinati al suo gruppo su conti all’estero, e li investe in barche, cene e nei soliti villoni, ancora più burini. Così fan tutti, si difende Franco Fiorito detto Francone, che pubblica le spese degli altri consiglieri: book fotografici, interviste tv, tutto a spese del contribuente. E c’è che il consigliere (di tasca sua, giura) ha organizzato una festa in costume sul tema dell’Odissea: 2000 invitati vestiti da antichi greci, odalische, ancelle, maiali... «Ma quali cene? 2000 euro di porchetta la chiama cena? Ne prendi una, la metti in mezzo, quelli se la magnano e so’ tutti contenti», si giustifica Fiorito. Lo scandalo porta giù la giunta di Renata Polverini e, in un gigantesco effetto domino, coinvolge tutte le altre regioni. Seguono annunci di restituzione, di rimborsi dimezzati, di tagli ai consigli regionali.
Ma è troppo tardi. Lusi, Belsito e Fiorito sono l’espressione più compiuta della gens che prospera al crepuscolo della seconda Repubblica. Razza predona, desiderosa di arraffare tutto e subito. Nel 1992 Tangentopoli, con la scoperta del Partito unico della tangente, segnò la fine drammatica della prima Repubblica, tra arresti, suicidi, stragi. Nel 2012 Partitopoli con il Partito unico della porchetta uccide la residua fiducia dell’opinione pubblica stremata dalla crisi in una politica grottesca come un bunga-bunga, leggerissima come i suoi leader agili nel cambio di maglia, di valori, di identità e pesante solo in una cosa: il dolce fardello dei soldi. Sigle fantasma, morte da anni ma viventi nella spartizione. Ditte collettive oppure imprese individuali che prosperano in una girandola di correnti e di fondazioni. Partiti senza più militanti o elettori, ridotti a rubare a se stessi. Come aveva previsto Beppe Grillo un quarto di secolo fa. Quando era ancora un comico. E faceva soltanto ridere.
Il precedente di Mani pulite
Le inchieste avviate dal pool Mani pulite della Procura di Milano, sotto la guida di Francesco Saverio Borrelli e del suo vice Gerardo D’Ambrosio, furono uno dei fattori che catalizzarono la fine della prima Repubblica e dell’intero sistema politico a essa collegato. Iniziate nel febbraio 1992, con l’arresto in flagrante di Mario Chiesa, esponente del Partito socialista italiano e presidente del Pio Albergo Trivulzio, le indagini giudiziarie portarono alla luce un vasto sistema di finanziamento illecito dei partiti (la cosiddetta Tangentopoli), grazie anche all’appoggio che il pool di Milano trovò nel presidente Oscar Luigi Scalfaro (eletto nel maggio 1992). Il 15 dicembre 1992 l’ex premier Bettino Craxi ricevette il primo avviso di garanzia, e nel febbraio del 1993 fu costretto a lasciare la guida del partito. Poco dopo toccò al ‘delfino’ di Craxi, Claudio Martelli, costretto a dimettersi da ministro della Giustizia e ad autosospendersi dal partito. Nel frattempo, attraverso il tesoriere Severino Citaristi (al quale furono recapitati oltre 70 avvisi di garanzia), le indagini avevano investito la Democrazia cristiana, principale pilastro della ‘prima Repubblica’. Gli effetti politici delle inchieste si ebbero con le elezioni amministrative del giugno 1993, che segnarono la scomparsa del PSI, il tracollo della DC e l’ascesa della Lega Nord nel Settentrione, che portò un suo esponente, Marco Formentini, a Palazzo Marino. La coincidenza tra l’emergere di casi di corruzione e una grave crisi economica si dimostrò fatale per un sistema politico già indebolito dalla fine della guerra fredda. A Tangentopoli fece seguito l’abolizione per via referendaria, nell’aprile 1993, del finanziamento pubblico ai partiti, poi sostituito dal regime, tuttora vigente, dei rimborsi elettorali.