Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Durante il XIX secolo la questione della trasformazione delle forme di vita nel corso della storia, o attraverso le varie regioni del globo, rappresenta uno dei temi più discussi nelle scienze della vita, sia all’interno di un ampio spettro di discipline scientifiche (dall’anatomia comparata alla paleontologia, dall’embriologia alla biogeografia), sia all’interno del dibattito filosofico, teologico, politico e culturale in senso lato.
Nessun termine scientifico del XIX secolo risulta più ambiguo, e più difficile da definire, di “evoluzione”. È significativo a questo proposito che il termine “evolution” non appaia mai nella prima edizione dell’opera di Charles Robert Darwin, L’origine delle specie (1859); solo in seguito, e non senza riluttanza, il naturalista inglese accetta che la sua teoria venga definita “evoluzionistica”. In effetti, per tutta la prima metà del secolo e nella tradizione delle scienze naturali dei secoli precedenti, il termine “evoluzione” indicava le fasi dello sviluppo dell’embrione ed era carico di connotazioni di tipo teleologico, se non addirittura teologico: una volta fecondato, l’uovo sarebbe passato attraverso fasi di differenziazione e di sviluppo successive, sempre eguali, “programmate” sin dall’atto del concepimento.
L’evoluzione era dunque il dispiegamento di un piano, il procedere verso un fine, l’attuazione di un progetto creativo insito nei poteri delle forze della vita o determinato da un atto del creatore.
La teoria darwiniana, al contrario, esclude che il processo di accumulazione di variazioni tramite la discendenza, per effetto della selezione naturale, costituisca il dispiegamento di un qualunque piano o segua una qualche direzione privilegiata di sviluppo: a ogni ciclo riproduttivo, secondo Darwin, sopravvivono solo gli individui portatori di minime differenze favorevoli alla loro esistenza in quel particolare momento, differenze che vengono poi trasmesse alla prole; il semplice fatto che solo i portatori di quelle minime differenze favorevoli abbiano un tasso di riproduzione elevato, garantisce il lento accumularsi di tratti vantaggiosi per quella forma di vita.
Nonostante gli sforzi di Darwin per affermare una visione della natura vivente dominata dal caso e dalla storia – vista come il risultato di precedenti stadi di variazione e selezione – il dibattito ottocentesco sulle modificazioni successive delle forme di vita è caratterizzato dal prevalere di concezioni di tipo teleologico e da una grande varietà di proposte alternative, se non dichiaratamente opposte, al modello darwiniano.
Sul finire del XVIII secolo, diversi filoni di pensiero naturalistico avevano in qualche misura accettato il principio che prevedeva una variabilità delle forme di vita al mutare delle condizioni di esistenza: con i cambiameni climatici e con le variazioni dei rapporti predatore-preda o della composizione del suolo, animali e piante potevano subire delle modificazioni anche considerevoli. Così, il mammut scoperto da Peter Simon Pallas nelle pianure gelate della Siberia era per molti un elefante asiatico che si era adattato a vivere a latitudini inusuali per la sua specie. La questione era allora determinare quali fossero i limiti delle variazioni che una forma di vita poteva subire: se cioè la variazione si fermasse alla soglia della specie, se investisse il genere o se, nel corso di epoche di durata indefinita, le forme di vita fossero in grado di subire modificazioni sostanziali, se, ad esempio, un animale marino potesse trasformarsi in un animale terrestre.
La prima teoria sistematica sulla trasformazione delle forme di vita viene proposta a partire dall’anno 1800 da Jean-Baptiste de Lamarck. Egli propone di considerare le forme di vita come sistemi fisici governati da processi di dinamica di fluidi vitali. Il sangue, la linfa, il fluido nervoso si aprono strade e intagliano, per così dire, i tessuti degli esseri viventi, proprio come fiumi e ruscelli solcano la superficie del globo; al mutare delle condizioni geoclimatiche, le sollecitazioni ambientali costringono gli esseri viventi a modificare le proprie abitudini, il che obbliga il sistema di circolazione dei fluidi vitali a mutare il proprio percorso o a rafforzare l’apporto di sostanze nutritive verso una certa parte piuttosto che un’altra. Un organo sottoposto a sollecitazioni particolari richiama verso di sé una maggiore quantità di fluidi, e dunque modifica il proprio aspetto, rafforzandosi a volte in modo straordinario; viceversa, la mancanza di esercizio provoca nel tempo un deflusso dei fluidi vitali e l’organo si atrofizza, come testimoniano gli occhi ormai ridotti a meri abbozzi in animali che vivono sottoterra o in profonde caverne. Ma una sollecitazione particolarmente importante da parte dell’ambiente può anche provocare la formazione di un nuovo organo e trasformare completamente l’essere vivente.
Nel corso di diverse formulazioni della propria teoria, a ragione di un linguaggio non sempre perspicuo, Lamarck sembra accentuarne il carattere finalistico e volontaristico. La natura sembra allora tendere al perfezionamento delle forme di vita: grazie all’esercizio della “volontà” dei singoli esseri, per adattarsi al mutare delle circostanze, il “potere della vita” rende passo passo sempre più complessa l’organizzazione dei viventi.
A partire dai primi due decenni del XIX secolo, il dibattito sulla trasformazione delle forme di vita interessa un numero crescente di naturalisti, dalla Francia all’Inghilterra, dall’Italia alla Germania e alla Russia. Le tesi di Lamarck, e in misura minore quelle di Erasmo Darwin, nonno di Charles e autore di una teoria analoga a quella lamarckiana, vengono discusse in opere collettive, come il Nuovo dizionario di storia naturale, edito da Julien-Joseph Virey (1775-1847) che per altro è il primo autore ad applicare il termine “evoluzione” alla storia della vita sulla Terra in un contesto teleologico e provvidenziale; ma queste tesi vengono discusse anche nei corsi universitari di Franco Andrea Bonelli (1784-1830) all’università di Torino e nei cicli di conferenze tenute da Joseph Henry Green (1791-1863), medico e amico del poeta Samuel Taylor Coleridge, al Royal College of Surgeons di Londra.
A partire dai primi anni Trenta, grazie all’opera di Charles Lyell Principi di geologia – contenente una lunga confutazione delle tesi lamarckiane e un loro esaustivo riassunto – la questione delle specie diviene un aspetto cruciale del dibattito inglese sulla geologia e le scienze naturali, un dibattito che solleva immediatamente questioni di ordine filosofico, teologico, politico e sociale. A dispetto delle confutazioni di Lyell, il lamarckismo – spesso in forme marcatamente diverse dall’insegnamento del naturalista francese – diviene il credo di giovani riformatori della medicina londinesi, trova ospitalità nell’allora radicale rivista medica “The Lancet”, si affaccia su giornali clandestini del nascente movimento operaio inglese, interessa persino alcuni teologi anglicani, desiderosi di coniugare la nuova economia politica con la visione di una natura retta non più da un Dio padre, ma da un Dio legislatore. Sottoporsi alle leggi dell’economia politica significa così accettare le leggi della natura, non la volontà del padronato o delle autorità costituite; Dio stesso ha perciò iscritto nell’ordine naturale delle leggi che avrebbero garantito il lento ma sicuro adattamento delle forme di vita organica e sociale al mutare degli eventi.
Non rivoluzione, dunque, ma evoluzione.
È nel 1844 che in Inghilterra appare, anonimo, un lungo pamphlet dal titolo The Vestiges of the Natural History of Creation. Tra gli altri, il libro viene attribuito ad Alberto, consorte della regina Vittoria, alla nipote di Lord Byron, Lady Lovelace, a scrittori e scienziati. Il vero autore, in realtà, è il famoso editore scozzese Robert Chambers. Geologo dilettante, amico di scrittori quali Charles Dickens e George Eliot, egli gode in silenzio i notevoli proventi che riceve con la vendita del volume, contento di aver dimostrato che è una sola legge di sviluppo e di progresso a legare l’ordine cosmico dalle nebulose al sistema solare, dalle prime forme di vita all’uomo, dalle religioni primitive alle forme più sofisticate di pensiero teologico, in grado di contemplare finalmente il grande disegno di una creazione talmente perfetta da non richiedere più alcun intervento da parte dell’onnipotente architetto-legislatore.
In quegli stessi anni, Charles Darwin lavora alla sua grande opera, preoccupato di non venire confuso con gli usi materialistici ed eversivi delle teorie evoluzionistiche da parte della stampa operaia e con i romanzi filosofici alla Chambers. A partire dalla metà degli anni Cinquanta, filosofi come Herbert Spencer elaborano sistemi che esaltano il primato della componente biologica nella comprensione del sociale e dei fenomeni culturali, e un teologo come Baden-Powell – padre dell’oggi più famoso fondatore del movimento dei Boy Scouts – nel 1855 dichiara che dal punto di vista filosofico la questione della trasformazione delle forme di vita è risolta: la vita evolve, l’evoluzionismo non è affatto contrario alla fede, ed è tempo che una nuova teologia naturale concili scienza e religione nel nome del progresso scientifico e sociale.
Secondo Baden-Powell, manca una teoria scientifica adeguata, in grado di sostituirsi alle confuse profezie di Lamarck ed egli non dubita che l’elaborazione di una simile teoria sia solo questione di tempo.
L’opera di Darwin scatena, al suo annuncio, attese spasmodiche: finalmente un grande scienziato si pronuncia sul tema più scottante del secolo. A partire dall’ottobre del 1859, tre edizioni di L’origine delle specie si susseguono nel giro di pochi mesi e il dibattito riprende vigore anche a livello europeo, non senza suscitare una profonda disillusione nello stesso Darwin. Quel ricco tessuto di dottrine evoluzionistiche che si intreccia in Europa a seguito del dibattito su Lamarck e sui suoi epigoni – tra cui Etienne Geoffroy Saint-Hilaire, Jean-Baptiste Bory de Saint-Vincent – riemerge all’attenzione della stampa culturale e scientifica, spesso etichettato come “darwiniano”, ma in realtà portatore di istanze teoriche e di implicazioni culturali e politiche molto diverse. L’equivoco terminologico del termine “evoluzione” – ancora legato a connotazioni teleologiche e teologiche – si complica nelle traduzioni dell’opera di Darwin. Così, la traduzione francese rende il termine “selection” con “élection”, che nell’edizione italiana diviene “elezione naturale”, accentuando il rischio antropomorfico insito nel termine “natural selection”. Per alcuni anni, Darwin raccoglie con cura le recensioni alla sua opera, rivedendone e ampliandone il testo edizione dopo edizione. Nel 1871 getta la spugna, convinto che nulla di quanto egli possa dire sia in grado di dissipare gli equivoci e il proliferare di visioni darwiniane della natura, della società, delle religioni, della politica, del colonialismo, della guerra e della letteratura che di darwiniano hanno solo il nome.
Il “lungo ragionamento”, puntiglioso, cauto e spesso autocritico, sviluppato in L’origine delle specie, lascia il posto a frasi a effetto, tra cui la celeberrima “sopravvivenza del più adatto” che Spencer conia per il suo idolo, o a frasi tolte dal contesto originale, come “lotta per la vita”, che assumono immediatamente facili e spesso tragiche connotazioni ideologiche.
Gli ultimi decenni del secolo sono caratterizzati dal proliferare di teorie evoluzionistiche caratterizzate dal rifiuto della selezione naturale, spesso portate a esaltare un finalismo provvidenziale nei fenomeni della vita e nel loro progredire verso forme sempre più perfette, fenomeno che alcuni storici hanno definito come “l’eclissi del darwinismo”.
Le opere di Spencer conoscono una diffusione mondiale superiore a quella delle opere di Darwin, troppo restie ad affrontare misteri della natura o l’enigma dell’universo, come recita il titolo di una fortunatissima opera di Ernst Haeckel, considerato il più grande scienziato “darwiniano non darwiniano” della seconda metà del secolo. Haeckel dichiara di porsi al seguito di una tradizione di pensiero inaugurata da Goethe, perfezionata da Lamarck e da Darwin e, ovviamente, pienamente dispiegata nelle sue stesse opere. Da una “monera”, organismo primitivo spontaneamente generatosi in un mondo primordiale, si sviluppa – secondo Haeckel – l’intero albero della vita, mentre lo sviluppo embrionale degli organismi più complessi “ricapitola” la storia della vita sulla Terra.
Gli sviluppi delle scienze biomediche di laboratorio e i primi studi sull’eredità e sulla genetica, paiono relegare l’opera di Darwin, e a maggior ragione i romanzi filosofici di Spencer e di Haeckel, nel regno dell’approssimazione e dell’imprecisione. I misteri della vita non si risolveranno certo con lunghi ragionamenti o con accorate dichiarazioni di fede nella legge di ricapitolazione organica, ma col ricorso a rigorosi protocolli sperimentali. Per le nuove generazioni di specialisti del microscopio, lo sguardo sulla natura vivente di Darwin costituisce oggetto di avvincente lettura, che conviene lasciare a quelle torme di commentatori politici, culturali, teologici e filosofici che riempiono riviste e biblioteche di esaltazioni, confutazioni, aggiornamenti e revisioni di un darwinismo raramente attinto alle fonti primarie e piegato, in ogni caso, ai bisogni del momento.