Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’incapacità e l’impossibilità di superare i particolarismi e lo squilibrio fazionario come carattere originario rende più grave la comune e sostanziale stagnazione – quando non “decadenza” – dell’economia in tutti gli Stati italiani, dovuta alla rottura dell’equilibrio tra popolazione e risorse e alla cristallizzazione della vita civile e politica. Lo scomporsi e restringersi degli agglomerati urbani è il segnale di un arretramento complessivo che, nel corso del XVII secolo, corrode e infine rende incompatibili con lo sviluppo gli stagnanti apparati corporativi, e difficile la crescita: l’aria della città non rende più liberi. Una popolazione invecchiata e impaurita, costretta a spendere solo per mangiare e vestirsi, subisce il circolo vizioso di un’economia spaventata e con scarsa propensione al rischio e la crisi, specialmente dagli anni Trenta, comincia a dilagare: un tessuto economico di lungo periodo si sfalda, insieme alla perdita del primato produttivo e commerciale. In realtà, più che di crisi, si tratta di un declino tendenziale, di un mutamento di equilibri, di un rallentamento della produzione, della decadenza di modelli obsoleti di governare e produrre in una fase, peraltro, di difficile congiuntura internazionale, di riorganizzazione delle gerarchie, di policentrismo nel dominio del mondo e di eccezionalità bellica: nella seconda metà del secolo, infatti, in alcune aree del Paese e indipendentemente dalla forma di governo, si manifestano segnali di riorganizzazione e crescita.
L’estate di san Martino
Nel XVII secolo, ancora una volta, gli Stati italiani si discostano dalle esperienze politiche e dall’economia europee; ma, stavolta, non lo fanno per accelerare e porsi alla testa dello sviluppo, dell’arte, della cultura, dell’economia. Al contrario, e di contro a un’Europa che sembra vivere come una necessità ineludibile il processo di nazionalizzazione e di accentramento sia nelle forme della Monarchia composita o assoluta sia nelle repubbliche, il destino degli Stati italiani appare accomunato – anche se non ovunque – non soltanto dalla persistenza delle dominazioni straniere quanto piuttosto e vieppiù dall’incapacità e dall’impossibilità di superare i particolarismi delle antiche identità medievali e lo squilibrio fazionario come carattere originario: la penisola italiana si mostra dunque unitaria non solo perché obbligata da una geografia costrittiva, ma anche da una comune e sostanziale stagnazione – quando non “decadenza”– dell’economia dovuta alla rottura dell’equilibrio tra popolazione e risorse e da una cristallizzazione della vita civile e politica. Certo, questo processo non è uniforme e, certamente, non è rapido. Ma, alla fine del secolo, ben poche aree della penisola sembrano essersi sottratte a un destino di sostanziale declino o, comunque, di ridefinizione del proprio ruolo nella gerarchia internazionale.
Sul piano sociale, infatti, si è consumato il codice culturale umanistico-cavalleresco di virtù e fortuna e i profili di comportamento e di consumo, come pure gli apparati simbolici, mostrano un sostanziale irrigidimento delle gerarchie e una verticalizzazione di ruoli in una generale serrata che rafforza le prerogative di accesso ai ranghi nobiliari: l’intera struttura del privilegio – che altrove appare increspata, se non mossa – spaventata dalla progressiva erosione e dalla minaccia incombente dell’inflazione dei titoli o da una sovranità sciolta da vincoli, nella penisola si àncora nello status quo: e, nel defluire complessivo, fa tracimare con sè le possibilità della crescita, dello sviluppo e del mutamento. Ma, prima che negli assetti istituzionali e negli equilibri sociali, nel potere diffuso e plurale che permane e talvolta si dilata, è nella demografia e nell’economia, nello scomporsi e restringersi degli agglomerati urbani il segnale di un arretramento complessivo che, nel corso del XVII secolo, corrode e infine rende incompatibili con lo sviluppo gli stagnanti apparati corporativi, e difficile la crescita. Il principio della conservazione politica fa aggio e logora, fin quasi a sradicarlo, il futuro.
L’inizio del Seicento, tuttavia, è un’“estate di san Martino”: nell’insieme degli Stati italiani l’agricoltura non mostra segni di regresso, anzi, la cerealicoltura ha un rendimento elevato nonostante si sviluppi raramente su terreni pianeggianti e fertili; le attività non agricole – in primo luogo la seta e la lana – continuano ad aumentare la produzione e indirizzano l’economia verso lo sviluppo delle attività manifatturiere di trasformazione e i beni di lusso; il livello di redditi e salari è complessivamente alto; il numero di abitanti dei diversi Stati, pur con varianti locali legate a un’orografia condizionante, è in equilibrio con le risorse e sollecita una domanda edilizia consistente e, talora, di prestigio. Certo, è un’“Italia” che comincia ad avere velocità differenziate, ma a macchia di leopardo, nonostante si faccia sentire la diversa dotazione di fattori: le reti commerciali e finanziarie – in ispecie veneziane e genovesi – la innervano tutta e portano sia al nord che a sud, sia nelle repubbliche che nei viceregni o ducati, dinamismo, ricchezza e scambi. Il cambiamento comincia, tuttavia, con i numeri.
La rottura di un equilibrio
Secondo Paolo Malanima agli inizi del Seicento la popolazione della penisola è di circa 13 milioni di abitanti, con una concentrazione superiore in un’Italia centro-settentrionale caratterizzata peraltro da un tasso di urbanizzazione tre volte superiore alla media europea, che sollecita un’agricoltura di tipo estensivo e una vivace attività del settore secondario. A metà Seicento la popolazione è scesa a circa 11 milioni: il sistema produttivo non è riuscito a sostenere l’alta pressione demografica perché la produttività del lavoro e della terra hanno superato l’equilibrio, sconvolto anche dalla lunga guerra e dalle frequenti epidemie, aggravate proprio da quell’alto tasso di urbanizzazione e dalle carestie che ritmano con più frequenza la prima metà del secolo: alla fine degli anni Venti del XVII secolo, Venezia perde il 33 percento dei suoi abitanti, Milano il 47 percento.
Ma la fase di recessione demografica non produce, come in altre occasioni, un aumento della domanda di lavoro e quindi dei salari permettendo di innescare nuovamente il circuito della crescita e dello sviluppo: al contrario, anche per la difficile congiuntura politica, si innalza l’età al matrimonio mentre il tasso di mortalità resta elevato. Una popolazione invecchiata e impaurita, costretta a spendere solo per mangiare e vestirsi, subisce il circolo vizioso di un’economia spaventata e con scarsa propensione al rischio: tranne le reti internazionali del denaro, che volgono altrove i propri interessi e investimenti, negli Stati italiani la contrazione della domanda e la sua povertà fomentano quella dell’allevamento e dei terreni sempre più volti alla monocoltura cerealicola in un vortice che ruota sempre più velocemente. E la crisi comincia a dilagare.
Certo, fenomeni analoghi si registrano in tutta Europa già dalla fine del Cinquecento: anche altrove la caduta della domanda produce la diminuzione dei prezzi agricoli e una sostanziale inversione di tendenza rispetto ai livelli cinquecenteschi, né il vino o la carne subiscono come il grano la crisi; anche altre zone subiscono i contraccolpi della crisi castigliana. Ma non ovunque la risacca e la guerra producono lo squilibrio malthusiano e il declino quanto, piuttosto, una nuova gerarchia che vede le realtà dell’Italia – specie centro-settentrionale – costrette a una ridefinizione: i panni-lana, ad esempio, subiscono la concorrenza di quelli meno costosi olandesi e inglesi e tracollano, come pure la già fiorente industria serica: in tutte le città italiane in cui si svolgono lavorazioni tessili si assiste a una caduta produttiva compresa tra il 60 e l’80 percento. Le merci italiane, di ottima qualità ma costose, patiscono la competitività e l’aggressività di produttori più dinamici e innovativi e perdono il secolare vantaggio comparato: un tessuto economico di lungo periodo si sfalda, insieme alla perdita del primato produttivo e commerciale; le esportazioni pian piano si contraggono alle sole derrate agricole (vino, olio, uva passa, talvolta grano) e a materie prime come la seta greggia, grazie all’introduzione e allo sviluppo – specialmente nel Mezzogiorno – della gelsibachicoltura. Nelle sue aree più disponibili all’innovazione e al cambiamento, che pure non mancano, si sceglie un movimento compensatorio di ritorno alle campagne, alle sicurezze corporative, ad assetti fondiari e tipologie colturali di sicuro guadagno.
Pax hispanica
La pace di Cateau-Cambrésis instaura una fase di stabilità sconosciuta da secoli per gli Stati italiani: da allora, e per molto tempo, le guerre per la supremazia europea lambiscono soltanto, e di riflesso, la penisola, mentre la sostanziale, comune religione mette al riparo dai conflitti di fede e il Paese viene percepito al di fuori come unitario, grazie all’egemonia nelle arti, nella poesia e nella scienza; né la frammentazione politica, né la dominazione “straniera” intaccano infatti un comune parlare, sentire ed essere percepiti: la ridefinizione del primato culturale è più lenta di quella economica e, spesso, non ha gli stessi esiti. Giovano certamente, in tal senso, la quiete controriformistica e il prestigio del papato dopo le lotte di religione: e anche se, qua e là, non pochi fermenti maturano e talora si accendono, tra il 1559 e il 1714 nella penisola delle comunità, delle repubbliche, degli Stati regionali, dell’impero e del papato, è pace e tutto si gioca nelle relazioni tra le nuove dinastie medicea e farnesiana, la corte madrilena, il papa e i patriziati, innervati dai mercanti-finanzieri di Genova e Venezia, e tra questo mosaico politico e le “comunità” e i poteri locali, che sovente si alleano e sostengono ora l’uno, ora gli altri. Un insieme “unitario disunito” disposto dalla pax hispanica per oltre un secolo e mezzo.
La Spagna controlla, infatti, il Regno di Napoli e lo Stato di Milano, la Sicilia e la Sardegna, lo Stato dei Presidi e le piazzaforti di Talamone, Orbetello e l’Argentario: in queste aree si ingenerano certo, sovente, conflitti e tensioni: ma la natura della Monarchia composita, e le modalità di governo che la sostanziano e caratterizzano, riescono a mantenere un sostanziale equilibrio con i poteri locali, le comunità e i corpi intermedi, la cui autonomia viene fondamentalmente rispettata. Ciò che conta, per Madrid, è che dalle terre d’Italia arrivi denaro per compensare gli esosi genovesi e finanziare le guerre. Da questo punto di vista il Consejo de Italia non svolge una funzione di garanzia, delegata piuttosto alla contrattazione segmentata con i poteri locali, qua e là più forti; ma, soprattutto, la certezza arriva dal cambiamento attuato nella politica degli hombres de negocios genovesi che, constatata la sostanziale insolvibilità della Monarchia asburgica impegnata a trovar denaro più che a restituire i debiti, dal 1612 ma soprattutto dal 1627 recuperano i loro crediti e, attraverso il loro riversarli nel mondo finanziario ed economico della penisola, controllano e indirizzano l’economia e ne garantiscono i flussi.
Certo, nel tempo la corte di Madrid costruisce rapporti privilegiati, ora con il ceto togato napoletano ora con il gruppo dirigente lombardo, interessati entrambi sia a garantire il gettito fiscale, sia a limitare la progressiva erosione di poteri e privilegi, mentre Sicilia e Sardegna vantano una continuità di relazioni politiche con la Spagna o con alcune sue regioni come la Catalogna. Comune, in un impero polisinodiale quale quello spagnolo, è comunque la modalità di operare al fine di garantire, in qualunque modo e mediante qualunque alleanza o concessione, la voragine di debiti aperta dalle guerre: l’insostenibile inasprimento fiscale che ne deriva, insieme alle difficoltà economiche conseguenti alla crisi demografica e alla riorganizzazione degli spazi commerciali, conduce alla radicalizzazione delle componenti più restie a produrre innovazione e ampliamento delle relazioni. Ne conseguono rifeudalizzazione e accentuarsi dei privilegi – cui si sottrae solo parzialmente il Ducato di Milano dopo il 1659 – e la condanna postuma che tende ad identificare il dominio spagnolo come causa di decadenza e di perdita del “primato” della ormai “provincia” italiana.
Un’analoga condanna postuma, e un analogo bisogno di denaro, è dello Stato della Chiesa: ma qui il potere religioso si coniuga con una potenza cosmopolita e universale che – superati gli scogli del concilio – vede alle soglie e nel corso del XVII secolo il dispiegarsi della politica e delle arti, nonché l’estendersi delle aree del proprio dominio diretto con l’annessione di Ferrara e del Ducato di Urbino. Quella del “sovrano-pontefice” è una Monarchia elettiva che vede progressivamente accentrare il potere dal collegio dei cardinali alla Camera Apostolica; il papa non è più primus inter pares giacché già da metà Cinquecento, con la creazione di congregazioni destinate ora al governo delle anime ora a quello dei territori, si è indebolito il potere del Concistoro a vantaggio di un sistema di Congregazioni – in primo luogo la Sacra Consulta e il Buon Governo – presieduto dal Papa. Roma, che nel Seicento vede mutare radicalmente fisionomia, è “teatro del mondo”, camera di compensazione e coagulo di affari e relazioni internazionali cui è delegata la funzione di governo cittadino e dei territori, nel crescere anche qui della pressione fiscale anche a causa dello smarrirsi delle decime, quasi ovunque alienate dagli Stati e condizionate dai rapporti con l’aristocrazia nel crescere tuttavia della clericalizzazione dello Stato.
Né il Granducato di Toscana, né il piccolo Ducato dei Savoia possono, per dimensioni, essere paragonati ai domini spagnoli o allo Stato della Chiesa: i due Stati rappresentano nel corso del secolo, tuttavia, due diversi modi di ridefinire i ceti dirigenti e le relazioni tra le strutture statali consolidate e le reti di privilegi e giurisdizioni tradizionali. Colpiti meno dalla crisi economica e demografica, e costretti entrambi a un pericoloso vicinato con grandi potenze, nel primo caso, quello del Granducato Toscano, si conferma un sistema caratterizzato da forme pattizie, da autonomie statutarie ed amministrative che convivono – in una continua contrattazione – con l’innervamento dello Stato nel territorio e producono un restringimento relativo dei processi di aristocraticizzazione; nell’altro, quello del Ducato Sabaudo, che vede nel Seicento ingrandire i propri domini con l’acquisizione di Saluzzo e poi – sia pur in piccola misura – del Monferrato, l’eredità formale e materiale del passato, nonché un territorio diviso dalle montagne e dalla lingua, producono una lacerazione interna alla stessa dinastia –durante la reggenza di Cristina – che prelude però alle riforme “assolute” poi realizzate da Vittorio Amedeo II.
Le Repubbliche di Venezia e Genova vivono, intanto, in un sistema speculare e specularmente armonizzato: nel confermare nella forma repubblicana la camera di compensazione e riscontro della politica fazionaria e degli affari, sono costrette a relazionarsi e a un continuo negoziare ora con le grandi e piccole monarchie, dove hanno allocato i propri investimenti, ora con i propri operatori commerciali e finanziari che – pur vivendo lontano o acquisendo altre cittadinanze – nella Repubblica trovano il punto necessario da cui dipanare la ragnatela di interessi e rilanciarne e consolidarne il network. In un complessa holding che vede le stesse famiglie e le stesse oligarchie operare nella Repubblica e nel mondo, l’istituzione repubblicana non è, tuttavia, il guscio vuoto di privati interessi quanto – piuttosto – l’involucro che li garantisce.
E specularmente si mostrano anche le relazioni tra le due Repubbliche, l’una costretta a farsi da parte nelle reti di potere del mondo mantenendo e ingenerando il proprio mito nello stupore dei palazzi e nel pietrificarvi le ricchezze, l’altra agìta dal proprio antimito che dipana – una volta tolto il lacciuolo spagnolo – gli spazi di contaminazione di un sistema che vede nella non contiguità territoriale il baricentro di un modo di essere stato: l’imperfetta Repubblica di Genova, nonostante gli insolventi spagnoli, “non ha mollato la preda”.
Decadenza italiana?
Una consolidata tradizione culturale vede nella risacca verso le campagne, coniugata alla perdita della libertà, la causa dello smarrirsi del primato: la “crisi del Seicento” assumerebbe pertanto, per gli Stati italiani, il significato di un ineludibile e inarrestabile declino cui solo la caduta e il successivo costituirsi come Stato nazionale avrebbero posto, due secoli dopo, rimedio. La “crisi del Seicento” rappresenterebbe pertanto, per la penisola, uno iato irreversibile, nel detrimento dell’indipendenza e della libertà e nell’offuscarsi dell’economia, delle scienze e delle arti.
È indubitabile che gli Stati italiani abbiano subito la difficile congiuntura conseguente al rarefarsi della popolazione e al ridisporsi delle gerarchie economiche e commerciali, coniugate a irrigidimento in soluzioni – in primo luogo tecniche – obsolete; la scelta delle oligarchie e degli Stati è la chiusura impaurita, che produce lo smantellamento manifatturiero, l’ipertrofia dei centri e dei ceti decisionali e uno sclerotizzarsi dell’economia accompagnato da un restringimento delle basi produttive. Invece che la diversificazione, la monocoltura; invece che l’assolutismo, le fazioni; invece che l’esercito, i mercenari; invece che lo Stato, le comunità.
Va tuttavia osservato come, sia pur nelle variabili locali, tutto ciò non tenga conto delle economie di scala e di quanto l’altezza del primato mostri un declino più ampio della realtà, a beneficio di una costruzione lineare e progressiva. In realtà, più che di crisi, si tratta di un declino tendenziale, di un mutamento di equilibri, di un rallentamento della produzione, della decadenza di modelli obsoleti di governare e produrre in una fase, peraltro, di difficile congiuntura internazionale, di riorganizzazione delle gerarchie, di policentrismo nel dominio del mondo e di eccezionalità bellica.
Subito dopo Westfalia, infatti, le vicende dei singoli Stati non conoscono solo stagnazione e regresso sia sul piano politico che economico: il “sogno di libertà” di Masaniello mostra, ad esempio, la vivacità e la ricchezza delle opzioni politiche; il principio di conservazione cede progressivamente il passo alle riforme degli organi di controllo delle finanze e delle giurisdizioni a vantaggio dei poteri centrali, nell’emergere di nuove oligarchie che attraverso il potere del principe acquisiscono la possibilità di una legittimazione e di un’ascesa politica; l’introduzione dell’uso del mais e del riso, il cambiamento delle tecniche di coltivazione e dei vitigni mostrano – insieme all’aumento delle terre coltivate conseguente a nuove bonifiche – che il “ritorno alla terra” non significa ineludibile arretramento. Certo, la pressione fiscale resta altissima e il progetto controriformistico di una società prona e senza differenze religiose accende – nel secolo di Galilei – i roghi, mentre la mendicità dilaga. Ma, anche, Luigi XIV è costretto a bombardare Genova per ottenere, e non per sempre, le ricchezze dei suoi finanzieri; il Senato di Milano, nel 1688, permette di non perdere la condizione aristocratica esercitando – sia pur a mezzo di terzi – il commercio o lo scambio; il porto di Ancona, nello Stato della Chiesa, intensifica le proprie attività commerciali, ponendo le premesse della crescita settecentesca. La crisi seleziona, qui come altrove, e penalizza le inerzie, le resistenze al cambiamento, il rassicurante rannicchiarsi in nicchie ormai superate da un mondo diventato grande.