Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel 1584 muore Ivan il Terribile; gli succede il figlio Fëdor, postosi sotto la tutela di Boris Godunov, uno dei boiari più ricchi e potenti della Moscovia, che nel 1598, alla scomparsa del sovrano, avendo già fatto uccidere il legittimo ed unico erede diretto al trono (1591), viene eletto zar da uno Zemskij Sobor convocato dal patriarca. Alla sua morte nel 1605 prende forma uno dei più straordinari eventi dell’immaginazione politica, a ogni livello sociale, che abbia conosciuto la Russia: Dmitrij, il figlio di Ivan, è vivo.
La credenza dei Dmitrij
Il modello, che si va costituendo già nel 1591 e inizia a circolare con insistenza attirando interessi contrastanti, è relativamente semplice: al posto del principe era stato ucciso un altro giovane e Dmitrij si trova in Polonia pronto a ritornare in patria per rivendicare il trono. Contemporaneamente i Polacchi, coinvolta nell’iniziativa la Chiesa cattolica, ma con l’opposizione di una parte importante della szlachta, e presentato il “proprio” Dmitrij nel 1601, cominciano a fare circolare una versione che dà credito alla “voce” del popolo russo. Anche il contromodello messo in circolazione da Godunov e dalla sua corte è relativamente semplice, consistendo nel rovesciamento del precedente: il figlio di Ivan era morto e il suo posto era stato preso da un impostore (samozvanec) al soldo di Sigismondo re di Polonia. Nell’estate del 1604 Dmitrij inizia la sua “invasione” della Moscovia con un cospicuo esercito privato, messo insieme da nobili che si ripromettono grandi vantaggi dal possibile successo dell’iniziativa e ingrossato per strada da ogni sorta di avventurieri, ma anche da uomini che credono che Dmitrij sia lo zarevic.
L’epoca che segue la morte di Godunov, di suo figlio Fëdor, di Šuiski (zar dal 1606 al 1610) e l’insediamento nel 1613 sul trono russo del primo Romanov, Michail, è denominata smuta: una sequenza di eventi “torbidi” che mette lo stato moscovita in pericolo di disfacimento, poiché Dmitrij è riuscito a entrare nel Cremlino con la sua armata e ad essere incoronato zar. Regna in modo non spregevole dal 30 luglio 1605 al 17 maggio 1606, quando viene rovesciato e assassinato dai boiari che l’hanno appoggiato nelle sue rivendicazioni e che adesso vogliono salvare la Russia dalla dominazione polacca e cattolica. E qui si costruisce, più o meno con gli stessi ingredienti, la seconda scena del testo: Dmitrij non è morto nell’assalto al Cremlino; è stata uccisa una “controfigura” e lo zar si è rifugiato nei Paesi baltici. Bisogna trovarlo, cosa che avviene in Polonia, da dove il nuovo impostore parte per la conquista di Mosca, alleato di Sigismondo che vuole diventare zar. Ma ancora una volta la Russia riesce a uscirne vincitrice e a trovare nei Romanov la dinastia di cui era alla ricerca.
I Romanov
Con i Romanov, scrive uno storico, “il suolo produttivo dell’Impero moscovita” smette del tutto di appartenere ai contadini e diventa proprietà della “minoranza dominante”: il sovrano, la nobiltà di servizio, la Chiesa. È quanto proclama lo zar Alessio, succeduto nel 1645 al padre Michele, nel Sobornoe uloženie, uno dei codici fondamentali della storia russa (1649). Esso fissa il quadro istituzionale dello Stato moscovita riunificando e sistemando la produzione legislativa precedente, dispersa in una congerie di raccolte, ordinanze e atti (anche di carattere consuetudinario) di cui non esiste nemmeno un testo a stampa. Fa seguito a una pericolosa insurrezione popolare (a Mosca nel maggio del 1648 e successivamente in altre importanti città) contro l’inasprimento della politica tributaria (culminata nell’imposizione di una nuova tassa sul sale) e contro la riduzione dei salari dell’amministrazione pubblica a opera del tutore del giovane sovrano, il boiaro Boris Morozov che, anche a causa del matrimonio con la sorella della zarina avvento dieci giorni dopo la celebrazione di quello del sovrano, nel 1648 ha raggiunto il massimo potere nella corte e la massima influenza su Alessio. Morozov non manca di una certa capacità di governo nella riorganizzazione dei dipartimenti e ha una qualche venatura occidentalistica, anche se forse si tratta soltanto di un effetto delle sue spregiudicate relazioni economiche con i mercanti stranieri cui concede sempre nuovi privilegi.
Dopo l’insurrezione Morozov viene estromesso e sostituito dal principe Nikita Odoevskij, ma partecipa alla formazione del nuovo codice.
Il corpus giudiziario russo
La necessità di procedere alla revisione della legislazione russa e riorganizzare l’intero corpo giudiziario si manifesta congiuntamente nella Duma dei boiari e nel Consiglio del patriarcato ortodosso. La Duma ha soprattutto a che fare con le leggi, spesso contraddittorie, emanate da Ivan III e Ivan IV. Il patriarcato non riesce più a governare le norme, ammassate caoticamente, del diritto canonico. L’Odoevskij è il vero organizzatore del lavoro che porta all’approvazione e pubblicazione del codice che appare, per molti versi, come un monumento alle “libertà” dell’ordine nobiliare e rispecchia in modo esemplare la struttura “feudale” dei rapporti sociali dell’epoca, malgrado nei preamboli dell’iniziativa si menzioni la necessità di assicurare il principio d’uguaglianza di tutte le classi del popolo davanti alla legge dello Stato.
Un importante storico fa notare, a questo proposito, che in Russia erano sempre mancati e mancavano quegli uomini di sapere che avevano condizionato con il diritto la formazione dello Stato moderno. E forse ha in mente quello che avviene nella società inglese proprio nell’anno della formazione del nuovo codice. Il ceto dei giurisperiti può infatti svilupparsi “soltanto dove il cittadino è considerato non quale oggetto d’arbitrio, ma come possessore di diritti personali intangibili”. Si è detto che il codice del 1649 fissa, specie attraverso le disposizione di diritto pubblico che sembrano includere il diritto penale, il quadro istituzionale dello Stato. La parte nuova della codificazione, emergente accanto e in sostituzione della stratificazione antica, marca il fatto che la nobiltà terriera di servizio si costituisce come soggetto di diritti di proprietà sempre più ampi riguardo alla servitù della gleba (abolizione della prescrizione per i fuggiaschi) e nei confronti della Chiesa (stante l’elusione delle norme stabilite alla fine del XVI secolo viene riproposto il divieto di aumentare l’enorme estensione dei suoi possedimenti fondiari). A rigore, la servitù della gleba entra con questo codice a far parte del diritto positivo russo concludendo una fase caotica, ma costante nel tempo, iniziata alla fine del Quattrocento. Importanti misure restrittive atte a favorire l’industria nazionale riguardano anche il controllo del commercio con l’estero, che è in prevalenza gestito dai mercanti stranieri residenti in Russia, i quali avrebbero dovuto limitarsi a trasferire le loro agenzie ad Archangel’sk. Da segnalare infine la riorganizzazione del sistema delle riscossioni delle imposte e l’abolizione dei dispositivi legali che garantiscono ai contadini ricchi postisi sotto la commenda, trasformatisi cioè in soggetti volontariamente servi di coloro che godono d’immunità tributaria, la sottrazione agli obblighi d’imposizione fiscale che, in questo modo, ricade interamente sulle comunità. Eppure questo documento, che segna – secondo molti autori – l’apogeo della cultura nobiliare russa della prima età moderna e sembra disegnare un quadro “perfetto” della società fondata sulla servitù della gleba, si pone all’inizio di una crisi della società moscovita che evolverà e si risolverà solo quando Pietro il Grande assumerà la piena sovranità (1696).
Forse per questo motivo la seconda metà del XVII secolo viene vista come ambiguo germinaio di quel processo di modernizzazione che caratterizzerà il tentativo della Russia d’inserirsi nella storia dell’Europa occidentale.
Il nuovo assetto geografico dell’Europa orientale
Gli anni tra l’approvazione del codice e la morte di Alessio (1676) sono segnati da una serie di ribellioni interne (Novgorod e Pskov nel 1650) e da guerre esterne al Paese. Il conflitto con la Polonia, nel 1654, è provocato da una decisione che modifica la geografia dell’Europa orientale: il territorio ucraino, su richiesta dei cosacchi, ribellatisi con Bogdan Chmiel’nickij alla dominazione polacca che sta smantellando il loro sistema di governo e intende trasformare la libera popolazione di agricoltori in servitù della gleba, viene “accolto” nell’Impero russo con la promessa che sarebbe stata conservata la sua autonomia. L’ingresso dei moscoviti in Ucraina segna invece, violando i trattati del 1654, uno smantellamento della sovranità del Paese cui una parte dei cosacchi risponde aprendo una lunga fase di guerre civili, la più famosa delle quali resta quella che ha per protagonista Sten’ka Razin.
La riforma della Chiesa ortodossa
Durante il regno di Alessio si verifica una scissione nella Chiesa ortodossa, che vede emblematicamente di fronte l’uno all’altro Nikon – nominato patriarca nel 1652 dopo essere stato metropolita di Novgorod, dove ha introdotto delle importanti riforme nel culto – e Avvakum (un protopope). Bisogna concepire l’istituzione ecclesiastica moscovita – scrive uno storico tedesco – come una “corporazione di diritto pubblico legata nella maniera più stretta non solo a tutti i settori della vita sociale e politica”, ma anche alla sfera economica per via dei monopoli di produzione industriale a lato dei monasteri e soprattutto della sua sterminata proprietà di terre. E, siccome il prodotto agricolo ha bisogno di un notevole apparato di distribuzione, ciò significa che la Chiesa esercita un importante ruolo commerciale che consente l’accumulazione di capitali, permettendole anche di agire come sistema bancario per i prestiti.
L’autonomia del potere religioso da quello politico non fa parte né della cultura della Chiesa, né della cultura dello Stato. Questo non vuol dire che non ci siano eresie e separazioni. Basti pensare alla fine del XV e al XVI secolo, periodo che resta contrassegnato da una serie di infiltrazioni “valdo-hussite” e poi protestanti in diversi territori settentrionali dell’ortodossia moscovita (il caso di Novgorod è il più famoso). E non vuol dire nemmeno che non ci si verifichino conflitti e secessioni di gruppi. È sufficiente evocare lo scontro epocale tra il metropolita e lo zar all’epoca di Ivan IV. Ma questa volta lo scontro ha a che fare con la trasformazione dello Stato moscovita il quale, seguendo l’evoluzione delle forme occidentali di Stato, intende rendersi indipendente dall’idea che il sovrano sia “semplicemente” un primus inter pares. La Chiesa insomma si presenta a Ivan il Terribile come un boiaro e parla come membro dello Stato medievale in cui vige la condivisione del potere. Quello che accade nella Russia del XVII secolo presenta infatti un intreccio molto differente dai casi precedenti. Gli storici e i teologi si sono trovati in grande difficoltà di fronte alle dispute che hanno portato allo scisma, non sapendo decifrare i codici degli antagonisti e non sapendo valutare l’importanza dei “segni” di cui si discuteva. Ma dopo che la semiotica della cultura ne ha fatto oggetto di studi approfonditi, partendo dagli effetti che le trasformazioni hanno avuto all’epoca di Pietro il Grande la situazione è profondamente cambiata e i testi presi in esame non sono più letti attraverso il codice “anacronistico” del ricercatore.
Dal punto di vista storico si deve prendere atto che il processo attraverso il quale si apre la questione della riforma della Chiesa si svolge immediatamente dopo quella sorta di riforma dello Stato iscritta nel codice del 1649 che Nikon tuttavia critica aspramente. Certo non è la prima volta che si discute della correttezza delle traduzioni dei Testi Sacri dal greco in slavo ecclesiastico. Nel 1551, infatti, un concilio riunito dal metropolita Makarij sollecita un loro emendamento data la grande quantità di errori che vi si trovano. Ma l’opposizione all’idea che fino a quel momento alcune proposizioni marginali siano erronee e soprattutto che alcuni riti siano falsi, perché prodotti dalla falsificazione dei traduttori o dei copisti, resta sempre ferma. La convinzione culturale che le cerimonie abbiano valore solo se condotte correttamente prevale sulle esigenze di carattere filologico. La stessa idea di un ecumene ortodosso con una primazia bizantina viene messa in discussione: solo la Russia conserva intatto il patrimonio del Cristianesimo antico. Il patriarca Nikon al contrario sostiene che la grecità della fede russa debba prevalere sulla cultura della Chiesa, facendo ricorso al sapere bizantino conservato a Costantinopoli e sul monte Athos, dove sono inviati emissari con questionari e con licenza di acquistare testi. Vi arrivano manoscritti d’ogni genere, anche se sono soprattutto di carattere secolare: scrittori “pagani” della Grecia classica. Questo trasferimento di saperi non può provocare una situazione analoga (nemmeno su scala ridotta) a quanto avvenne nell’Europa occidentale quando due secoli prima, con la caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi, l’umanesimo latino venne sconvolto dal patrimonio greco che giungeva nelle biblioteche. Le innovazioni liturgiche nikoniane, fissate in un messale e in un manuale approvati dai concili del 1655 e 1656, entrano in vigore in tutto il territorio su cui ha giurisdizione la Chiesa russa e provocano un movimento di resistenza e di rigetto alla base del quale sta la formazione della componente dei vecchi credenti. Le due “Chiese”, secondo il modello cristiano della controversia, si accusano reciprocamente di eresia. L’accusa della prima, dal punto di vista culturale, è poco interessante perché si traduce “semplicemente” nel fare ricorso alla forza repressiva e punitiva (incarcerazioni – deportazioni – degradazioni). Avvakum, per la sua fermezza nella vecchia fede e per la denuncia che la nuova porta alla perdizione della salute spirituale e temporale, viene condannato al rogo (1681). L’accusa della seconda Chiesa è invece molto interessante, perché riesce a elaborare un modello politico che si radicherà in settori importanti della società russa ed esploderà sotto Pietro il Grande: lo Stato, avendo avallato le riforme ereticali, diventa esso stesso eretico e l’obbedienza a un’autorità che, cambiando il cerimoniale della tradizione nazionale, mette a repentaglio la salvezza dei credenti può a sua volta essere messa in discussione. Nikon, nella fase delle riforme, acquista un potere così forte da farsi accreditare come coreggente, facendo rimettere in vigore da Alessio un atto di suo padre, Michele, che ha innalzato a questa posizione eccezionale il patriarca boiaro Filarete, il quale manifesta nella sua funzione prerogative e azioni politiche indipendenti dal sovrano. Ma Nikon va oltre all’accentramento del potere e dota la Chiesa di un organo proprio di polizia (particolarmente efficace nella lotta contro i seguaci di Avvakum), e di una formazione militare, trasformandola progressivamente in uno Stato nello Stato teso a rovesciare il modello cesaropapista della sovranità moscovita. Ad Alessio non resta che togliere al patriarca le sue funzioni (1658) e relegarlo in un monastero in cui muore nel 1681, ma da dove ha modo di vedere il trionfo della sua lotta contro i vecchi credenti dato che nel 1666-1667 un concilio ecclesiastico li scomunica definitivamente rendendo permanente la loro citazione come eretici davanti alla Chiesa e allo Stato.
Alla morte di Alessio la situazione politica dello Stato moscovita si complica a causa dello scontro tra le famiglie delle due mogli di Alessio, quella dei Miloslavskij e quella dei Naryškin, cui appartengono Fëdor, figlio di Marija, nato nel 1661, e Pietro, figlio di Natal’ja, nato nel 1672. Lo scorcio di secolo vede sul trono dapprima Fëdor (dal 1676 al 1682) e poi Pietro che viene scelto dalla Duma dei boiari e dal patriarca al posto di Ivan. La decisione provoca il sanguinoso colpo di stato di Sof’ja che ottiene la diarchia di Fëdor e Pietro. La reggente (1682-1689) si avvale del principe Golicyn, il quale nutre grandi programmi di sviluppo per la Russia ma non ne realizza alcuno. Intanto Pietro, lontano dalla corte, si prepara a diventare “il Grande”.