Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Lo stile della prosa barocca si modella su alcuni autori dell’antichità ignorati o trascurati dall’imitazione cinquecentesca. Mentre il Rinascimento presceglie la scrittura ciceroniana come paradigma di proporzione, simmetria e bellezza, ammettendo la contaminazione con pochi altri classici latini, da Quintiliano a Orazio, nel Seicento Seneca, Tacito e Sallustio orientano la prosa verso ritmi inquieti e diffondono il gusto per la retorica dell’antitesi e del frammento, in dichiarata polemica con l’ideale ciceroniano.
Naturalezza del laconismo
Lo stile senechiano è caratterizzato da una scrittura laconica, ossia breve e talora oscura nella sintassi e nella morfologia: sia nel latino sia nei volgari, soprattutto quelli neolatini, si cerca di imitare una classicità eterodossa. La novità non consiste solo nella scelta dei modelli, ma anche nella ricerca di una naturalezza nervosa ed essenziale. A parere di Henri van de Putte, un discepolo di Lipsio noto come Putearo, lo stile laconico presuppone la coincidenza tra virtù morale, virilità del sentimento e virtus oratoria, venuta meno con la prosa effemminata dei ciceroniani.
Come la natura presenta aspetti infimi, mezzani e sublimi, così lo stile deve riprodurre il colore delle passioni, senza comporsi nell’ordine prestabilito di una regola estetica uniforme. Come i paesaggi naturali suscitano emozioni diverse, così ogni pagina deve stimolare l’immaginazione del lettore e trasportarlo in un teatro di scenografie in movimento.
Esemplare da questo punto di vista la scrittura del gesuita Daniello Bartoli che senza mai avere viaggiato fuori d’Italia riesce a descrivere in modo commovente e seduttivo Paesi lontani ed esotici, rielaborando le relazioni dei suoi confratelli missionari. Alla fine la passione espressa sulla pagina convince a pieno, anche se vissuta solo nell’immaginario.
Nel Seicento si avverte con estrema chiarezza la necessità di personalizzare individualmente la scrittura. Tale esigenza convive con quella di imitare modelli riconosciuti: di qui l’oscillazione tra “ingegno” che “inventa” e “giudizio” che “dispone” e riordina le parole del cuore. In Italia, in Francia e in Spagna, dove il latino risulta più vivo, si accende la polemica tra i sostenitori di Cicerone e quelli di Seneca, più attenti a riprodurre le tensioni dell’emozione e della passione. Sviluppando la teoria cinquecentesca dell’“imitazione adulta” gli anticiceroniani affermano orgogliosamente di rielaborare le letture illustri su cui formano la cultura, accordando il necessario apprendimento stilistico al proprio gusto naturale.
Maestro italiano dello stile laconico e sentenzioso, che raggiunge fama europea, è il bolognese Virgilio Malvezzi, la cui maniera dialoga con quella ciceroniana di Agostino Mascardi; in Francia il libertino François de La Mothe le Vayer condanna lo stile “asmatico” del Malvezzi, mentre in Spagna Baltasar Gracián ne tesse l’elogio, e Francisco de Quevedo traduce addirittura il Romulo.
Un’ipotesi conciliativa che tenga conto delle esigenze di novità, pur all’interno del ciceronianesimo viene avanzata dai teorici francesi Nicolas Caussin, Jean-Luis Guez de Balzac, Luis de Cressolles e dagli italiani Famiano Strada e Matteo Peregrini. Partecipano al dibattito sullo stile pure filosofi illustri quali Bacon e Cartesio.
L’“aria” del volto e della scrittura
La teoria italiana del ciceroniano Mascardi permette di comprendere la complessità del dibattito sullo stile, poiché anche dove si propone un ideale conservativo, le ragioni del nuovo sembrano prevalere. Nell’Arte istorica, il Mascardi paragona lo stile a un volto umano, sempre unico, anche quando i suoi elementi somigliano a quelli di altri volti. L’“aria” del volto corrisponde dunque alla qualità individuale o “maniera” del componimento, che presenta qualcosa di assolutamente personale al di sopra di ogni modello prescrittivo. A suo avviso, qualcosa di analogo avviene nelle arti figurative dal momento che nessuno confonderebbe opere di Guido Reni, Pietro da Cortona o Giovanni Lanfranco, che pure hanno in comune “regolato disegno... colorito proporzionato,... posizione ben ordinata e senza confusione”.
Agostino Mascardi
L’“aria” del volto è qualità propria di ciascun volto
Dell’arte historica
Nel brevissimo spazio del volto umano, per miracolo non inteso della natura, concorrono le parti medesime in ciascuno ed in tutti, disposte con l’ordine istesso, collocate con distanze corrispondenti ed uniformi; e pure in tanta somiglianza delle parti, una intera dissomiglianza di tutto il volto si vede. Ma questo, come che sia fondamento della maraviglia con che l’opere di Dio grandissimo riverisco ed adoro, non è però quello ch’ora considero, a dichiarazione della nostra materia. Diensi pur mille volti, se dar si possono, e per la proporzione, o vogliam’ dir simmetria delle parti e per la vaghezza de’ colori ben temperati, ugualmente bellissimi: non per tanto avrà ciascuno un’aria sua propria che, da qualunque altro sarà sufficiente a distinguerlo; onde suol dirsi: questi ha un’aria gentile, quello l’ha nobile. Certo è che l’aria non consiste nelle parti in cotal guisa ordinate e disposte; non ne’ colori con certe misure temperati e composti, perché comuni a tutti i volti sono l’une e gli altri; anzi non di rado suol accadere che una faccia, secondo le proprietà ad una perfetta bellezza appartenenti, non bella, sia nondimeno d’aria migliore e più amabile d’un volto interamente bellissimo. Dunque quella cosa che vulgarmente nomiamo aria del volto, è una qualità propria ed individuale di ciascuno, nascente dalla particolar complessione, per cui si rende differente dagli altri, co’ quali ha le parti con le misure e con l’ordine, i colori con la lor temperatura comuni; e questa da noi per avventura, anzi dal vulgo intesa con l’intelletto, non sappiamo con tutto ciò deffinirla ed esprimerla. Corrisponde l’aria allo stile, come le parti ed i colori del volto al carattere corrispondono. Ed è forse quel che da’ maestri dell’arte è spesso nomato orationis color, e noi potremmo aria del componimento appellare. Ma chi sa forse che un altra somiglianza, tolta dall’arte, meglio la nostra intenzione non esprimesse, specialmente con la scorta di Cicerone che in questo argomento medesimo se ne valse? Una fingendi est ars (dice Tullio) in qua praestantes fuerunt Myro, Polycletus, Lysippus, qui omnes inter se dissimiles fuerunt; sed ita tamen, ut neminem sui velis esse dissimilem. Una est ars, ratioque picturae, dissimillimiquae tamen inter se Zeusis, Aglaophon, Apelles: nequae eorum quisquam est, cui quidquam in arte sua deesse videatur. Et si hoc in his, quasi mutis artibus est mirandum, et tamen verum; quanto admirabilius in oratione, atque in lingua, quae cum in iisdem sententiis, verbisquae versetur, summas habet dissimilitudines, non sic ut alii vituperandi sint, sed ut ii, quos constet esse laudandos, in dispari tamen genere laudentur. Or pigliato il discorso di Tullio diviso in questa maniera, quattro sono le cose che di necessità si richieggono, per far ch’un dipintore sia eccellente nel suo mestiere. Il disegno, il colorito, la composizione, e ’l costume (benché ’l costume sia conosciuto da pochi, ed osservato da pochissimi); e se in alcuna di queste parti altri si trova mancante, non si può dire nel suo mestiere eccellente. L’ebbero tutte in grado soprano Raffaello, il Correggio, il Parmigiano e Tiziano; le hanno oggi eminentemente Giuseppino, Guido, il Lanfranco, il Cortonese, e perciò corrono per le bocche degli intendenti per dipintori di prima classe che felicemente gareggiano con gli antichi. Certo è però che fra di loro sono differentissimi: né può cotal differenza da quelle cose originarsi, che hanno le regole invariabili e comuni, perché regolato disegno han tutti; colorito proporzionato, benché non uniforme, nell’opere di ciascuno si vede; ciascuno serba la posizione ben ordinata e senza confusione, e si studia ognuno per quanto può, d’esprimer vivamente il costume. E pur coloro che ben intendono l’eccellenza dell’arte, una particolarità nell’altrui tavole riconoscono, in virtù di cui, questa tavola è del Lanfranco, quest’altra è di Guido, quella è opera di Giuseppino, quella del Cortonese san dire. Ed a cotal particolarità s’è dato dai periti il nome di maniera; onde si dice la maniera di Raffaello, la maniera di Tiziano. So che il giudicio degli uomini vulgari che segue d’ordinario la scorta de’ sensi, crederà la vera differenza tra’ dipintori nascer dal colorito; ma quei che sanno come in diverso colorito che tal volta per compiacer ad altri si forma, non lascia il buon artefice la sua maniera, intenderanno parimente che la sola maniera particolare, e non l’altre parti, a tutti i buoni maestri universalmente comuni, partorisce la diversità dentro a’ confini dello stesso grado eccellente. Alla maniera de’ dipintori può, com’io credo, paragonarsi negli scrittori lo stile; al disegno, al colorito, alla composizione ed al costume si rassomiglian l’elocuzione, le forme, e ’l carattere della favella; onde non men propriamente si dice, questo è stile di Sallustio, della congiura di Catilina parlando; che questa è maniera di Raffaello, intendendo d’un quadro.
A. Mascardi, Dell’arte historica, Firenze, Le Monnier, 1859
La naturalezza della scrittura non può essere ottenuta attraverso la riproduzione mimetica del modello. Per Mascardi ciò significa evitare sia l’eccessiva regolarità sia le forzature estreme dello stile senechiano: la maniera “spezzata” disturba la sensibilità del lettore per l’eccesso di artificio: accorciamento di clausole, mancanza di concatenazione, troncamento del ritmo ne sono i difetti più vistosi.
Contro lo stile difficile di Seneca i ciceroniani sostengono la chiarezza e la fluidità del discorso che procede senza interruzioni brusche e dissonanze frastiche. Per François Vavasseur e Guillaume Du Vair anche il contenuto logico non può essere tradotto in frammenti sentenziosi, richiede ordine e armonia.
La ricezione della sentenza
La sentenza secentesca, che si modella sugli antecedenti autorevoli della tarda latinità, risulta anomala rispetto all’ideale classico perché concentra in poco spazio la profondità semantica di un concetto, coinvolgendo il lettore in un gioco interpretativoche può moltiplicarsi senza fine.
Il procedimento della sentenza risulta analogo a quello della metafora e dell’emblema, in quanto contrassegna qualcosa di diverso e più complesso di ciò che esprime a prima vista. Non a caso il gesuita Pierre Le Moyne si occupa di retorica ed emblematica, come pure EmanueleTesauro, straordinario interprete del gusto barocco.
Pietro Sforza Pallavicino
L’ingegno
Del bene
Poiché quel dono di natura che si chiama ingegno consiste appunto in congiungere per mezzo di scaltra apprensione oggetti che pareano sconnessi, rintracciando in essi gli occulti vestigi d’amicizia fra la stessa contrarietà, la non avvertita unità di special simiglianza nella somma dissimilitudine, qualche vincolo, qualche parentela, qualche confederazione dove altri non l’avrebbe mai sospettata. Annodò la natura maestrevolmente fra loro tutti i suoi effetti. (...) Né v’ha nel mondo verun oggetto sì solitario e sì sciolto che fra’ laberinti della filosofia non somministri qualche aureo filo per giungere alla notizia d’ogni altro oggetto quanto si voglia lontano e ascoso. Ma queste fila quanto son lucide per la nobiltà del metallo tanto sono invisibili per la sottigliezza della mole. L’arte di ben ravvisarle contiensi principalmente negli otto libri meravigliosi della Topica di Aristotile.
in R. Barilli, Poetica e retorica, Milano, Mursia, 1972
Al senechismo stilistico corrisponde la fortuna secentesca della filosofia stoica attraverso il magistero di Giusto Lipsio: la filosofia considera i valori interiori prima di ogni esperienza collettiva. Così la “costanza” morale esprime il bisogno di riferimenti dentro se stessi, nel profondo di un’esperienza solitaria. La brevità diviene sinonimo di autenticità, al di là dalla finzione decorativa e superficiale dell’apparenza. Per dirla con Pascal si avverte la necessità della “pittura del pensiero”.
La retorica dell’ellissi
L’ellissi, ossia l’omissione di elementi che rimangono sottintesi, diviene la qualità retorica fondamentale del senechismo: essa può aver luogo per sospensione di una frase, lasciata incompiuta, detta aposiopesi o reticenza; per estromissione di un elemento di una frase coordinata in quanto già comparso in un’altra, o zeugma; e infine per compressione o soppressione delle particelle congiuntive nelle costruzioni accumulative, retoricamente definita asindeto.
A sostegno del senechismo vale la pena leggere le parole con cui Malvezzi parla della propria scrittura: “Sono poche carte ma molte buone, perché la qualità del buono è la misura del quanto e la intensione è quella che la estende”. Di contro il Mascardi giudica gli scrittori “laconici” negativamente perché “avarissimi nelle parole”.
Verso il compromesso tra individualismo e socialità
La questione è quella del nesso tra retorica e verità del pensiero, ricercato dal Malvezzi attraverso il valore dell’esperienza individuale, dal Mascardi grazie all’equilibrio tra passioni collettive e interpretazioni personali.
Nella seconda metà del secolo l’opposizione sembra allentarsi e cercare i modi discorsivi di una comunicazione più diretta.
L’avversione a Seneca e Tacito rivive a fine Seicento con Dominique Bouhours, attardato difensore dell’autorità ciceroniana. In Italia al conservatore Benedetto Menzini teorico dell’Arcadia e del classicismo si affianca la lungimirante riflessione del gesuita Pietro Sforza Pallavicino il quale comprende l’assoluta novità della prosa scientifica, denotativa, chiara e distinta.
Si raccolgono i risultati del confronto alla luce di una rafforzata esigenza di chiarezza razionale e scientifica: Cicerone ritorna a essere un modello di scrittura che esclude però l’artificiosità degli imitatori classicisti. Nel Discorso dello stile e del dialogo il Pallavicino esprime la volontà di una prosa logicamente ordinata che rifletta un autentico sforzo speculativo. È segnato il passaggio dal senechismo concettoso al discorso filosofico, piano e metodico, in una direzione in fondo non diversa da quella suggerita dagli scienziati della Royal Society inglese.