Il senso dello stato
L'espressione che corrisponde al titolo di queste pagine ha un significato che si ritiene abbastanza preciso: quello di consapevolezza operante dell'interesse superiore della comunità organizzata, che il cittadino suo membro sente ed alla quale ispira il suo comportamento. Di fatto si tratta del senso di una fase determinata della realtà statale, quella otto-novecentesca all'incirca, affermatasi in ambiti geografici oltre che umani abbastanza precisi. Trattando di un'entità politica del Quattro e del Cinquecento non ci si riferisce a questo significato specifico, direttamente connesso ad un sistema entro il quale ognuno gode dei diritti civili ed è quindi contemporaneamente cittadino e sovrano. Questo non significa però che non si possa parlare adeguatamente di senso dello Stato qualora si tratti di un sistema diverso, tanto più che alcune sue caratteristiche, delineatesi più nettamente dopo il 1800 all'incirca, si profilarono anche in precedenza in certe zone ed in vari ambienti.
Non si dà per scontato nondimeno che l'espressione a cui si ricorre si attagli interamente al caso veneziano. Come di tante formulazioni correnti, di essa da un lato non si può far a meno non essendovene una diversa, dall'altro le va dato il significato che si ritiene più opportuno alle circostanze alle quali la si riferisce e di cui si tratta. Il nostro proposito è dunque di mostrare quali furono i vari aspetti, i gradi d'intensità ed i campi in cui venne a configurarsi il senso dello Stato a Venezia fra l'inizio del Quattrocento ed i primi decenni del secolo successivo.
Sotto certi rispetti, anche così circoscritta, si tratterebbe di una sfera amplissima se si tiene conto della particolare organizzazione della comunità lagunare. Nel secolo XV questa demandava ormai ad un ampio gruppo di famiglie considerate nobili le funzioni direttive di governo. Ma questo ceto, per tutto un insieme di motivi, voleva far apparire che reggeva con il consenso le sorti della città capitale e quelle dei territori e delle comunità che ne dipendevano. Non si potranno evocare qui altro che di scorcio e per accenni le molteplici facce dei rapporti fra governanti e governati. Si potrebbe infatti condurre l'analisi di gran parte della realtà veneziana sotto questo profilo, rifacendo in certo modo l'intera sua storia in questa prospettiva. Sarà comprensibile che non si intraprenda invece un'esposizione sistematica di tale argomento e che si cerchi soprattutto di coglierne le linee salienti sul piano della sensibilità e della mentalità per quanto riguarda il periodo considerato. Persino questo obbiettivo più limitato non sarà agevolmente raggiunto perché anche a Venezia il senso dello Stato è un fenomeno di lunga durata ed un secolo e mezzo costituisce, per simile materia, una misura alquanto arbitrariamente breve.
Se ne può fornire un esempio riferendosi ad un documento della metà del secolo XIV e più precisamente al passo seguente: "Benché sia da ricercare per qualsiasi via e con ogni mezzo di vivere in pace ed in buoni rapporti con tutti, in particolare con i sovrani terreni, si deve tuttavia fare in ogni caso ciò che richiedono il nostro onore nonché la conservazione dei nostri possessi e dello Stato" (1). A questa massima, senza dubbio rilevante nella sua quasi lapidaria perspicuità, i Veneziani si erano ispirati già da ben più di un secolo - anche se forse non l'avevano espressa in modo così marcato - e continueranno ad attenervisi si può dire fino alla caduta della loro Repubblica. Senza chiosarne sin da ora i termini chiave, e nemmeno il senso politico globale, si dovrà almeno sottolineare che in una simile formulazione venivano ad enuclearsi dei valori plurisecolari presenti sia nella rappresentazione collettiva che nel linguaggio dell'ambiente lagunare.
In via preliminare non si può far a meno, prendendo lo spunto anche dal testo appena citato, di mettere in rilievo una prima e fondamentale caratteristica del vocabolario politico veneziano nel quale non si può far a meno d'imbattersi in continuità. Anche nei documenti più segreti come in tutti quelli non destinati ad esser noti - ed a maggior ragione negli atti di pubblico dominio -vennero adottate di preferenza formule molto levigate e sfumate, prive di decisi contorni concettuali e in genere persino di immagini incisive. Questo fenomeno rinvia ad un atteggiamento che è mentale e politico insieme, di costante ed accentuato controllo della propria espressione e delle proprie prese di posizione. Molto ligi alle esigenze del rituale tanto religioso quanto civile, e cioè al linguaggio cerimoniale, i Veneziani del periodo qui in esame più o meno deliberatamente rifuggirono in genere - in particolare nei documenti collegiali emanati dalle loro magistrature - dai passaggi linguistici obbligati, dalle clausole stilistiche e semantiche cristallizzate e costrittive e insomma dall'esigenza della chiarezza. Più tardi, soprattutto dal secondo Cinquecento in poi, essi approderanno sempre più sovente ed in larga misura a giri di frase e ad immagini più o meno ricorrenti e canoniche ma non meno capaci di avviluppare il pensiero che contenevano. È comunque anche questo un segno che la stessa sensibilità collettiva del ceto dirigente era in piena evoluzione ed in fase di lento assestamento prima del 1550 all'incirca.
Così, proprio sul piano di ciò che concerne lo Stato, si ravvisa a Venezia una netta differenza rispetto alla ricca, articolata ed organica messa a punto dei significati che il termine ed il concetto assumono a Firenze almeno fra il 1350 ed il 1500. Di fatto la realtà stessa era più spinosa e sfaccettata nell'ambiente lagunare, in seno al quale si verificava proprio in quel periodo un'assai vasta e profonda trasformazione politica all'insegna della più dichiarata continuità. I Fiorentini, per esempio, non fecero riferimento allora alla tradizione autorevole e veneranda dei loro progenitori di governo. I Veneziani di quest'epoca invece vi si richiamarono di continuo, in una sorta di voluta tensione verso ciò ch'è intemporale, immutato e quindi più valido. Questo non può che creare un ulteriore ostacolo al dipanamento della matassa di fattori che intervennero nel loro multiforme ed insieme ricercatamente coerente senso dello Stato.
È pressoché superfluo ricordare che le prese di posizione di cui si sarà portati a tenere conto sono in gran parte quelle del ceto nobiliare (2), massimo produttore delle testimonianze pervenute sino a noi oltre che elemento decisivo della macchina statale. A questo riguardo non sarà fuori luogo ridire (3) quanto a Venezia venisse controllata e perseguita l'espressione orale e scritta di ogni anche più lontano dissenso. Se i patrizi si sentivano autorizzati a formulare, sia pur in modo in genere guardingo, le loro opinioni di carattere più o meno politico, sia la struttura istituzionale che l'apparato di controllo inducevano ben poco i cittadini o i popolani a fare altrettanto. Tanto più che le pene per i trasgressori o anche solo per i sospetti non erano lievi. Non si potrà fare a meno di ritornare sulla nozione veneziana di onore pubblico, ma sin da ora si può sottolineare ch'essa copriva una vasta zona di gesti e di parole in modo certo elastico ma assai pronunciato da un lato e suscettibile dall'altro.
In questa fase che, se pur in maniera abusata, si potrebbe definire di transizione, tutto un insieme di termini venne impiegato a Venezia per indicare più o meno direttamente lo Stato. Il primo, quello cioè più antico e che venne pressoché abbandonato a partire dalla metà del Quattrocento, fu `Comune'. Come si rivela abituale anche per la maggior parte delle altre nozioni lagunari, questa appare abbinata sovente ad altre, come ad esempio "l'insieme della nostra città". L'assai lunga sopravvivenza della parola ῾Comune' si spiega innanzitutto con la tendenza veneziana ad appellarsi a valori tradizionali ed a continuare a rifarsi ad essi anche quando erano superati o in gran parte svuotati del loro senso storico. ῾Comune' insomma giovava ancora in qualche modo come richiamo politico, assai più di quanto non potesse disturbare. Esso verrà meno per desuetudine spontanea, come qualcosa di sempre più chiaramente caduco, non certo per alcun atto esplicito o istituzionale di sostituzione. Si tratta comunque della sola nozione di cui si possa registrare la caduta nel corso del periodo qui considerato.
Tutte le altre, e sono numerose, vennero utilizzate in più o meno larga misura, sia da sole che a gruppi. Va quindi sottolineato in primo luogo che esse vengono a risultare in larga parte interscambiabili e per ciò stesso fluide ed anche approssimative. A nostro parere questo non significa affatto che il senso dello Stato a Venezia fosse vago fra Quattro e Cinquecento - quando, come si è visto, sapeva esprimersi molto perspicuamente secondo le occasioni già nel secolo XIV - ma piuttosto in via di definizione e di sedimentazione tanto sul piano semantico che su quello effettuale. Nello stesso tempo appare chiaro che l'ambiente politico si avvalse contemporaneamente di una molteplicità di riferimenti proprio perché la realtà statale era multidimensionale e nello stesso tempo ciascuno di essi possedeva una sua valenza ed una sua validità. Sul piano concettuale si può senza dubbio sottolineare che la logica della nozione di Stato, così ben delineabile a Firenze, lo è molto meno per Venezia. In ambedue i casi si trattava di processi collettivi storicamente spontanei, anche se quello veneziano era più riflesso e controllato che guidato dalle ispirazioni creative della sensibilità. Nelle due città il gioco degli impulsi mentali e politici era alla ricerca dei suoi sbocchi più appropriati.
Assai tipica dell'ambiente lagunare è l'espressione "cose nostre", res nostrae. Essa designa l'insieme degli interessi della comunità e l'esigenza di salvaguardarli, con un innegabile accento di possesso diretto e di rapporto non esplicito ma privilegiato ed abbastanza chiaro con il ceto patrizio. Quest'ultima affermazione va tuttavia sfumata, in quanto altre espressioni evocheranno in modo evidente un'area d'interessi più larghi, comprendenti in primo luogo quelli dell'insieme del mondo mercantile. "Cose nostre" non designa comunque solo, né prevalentemente, la sfera degli affari ma quella statale in senso lato, con tutti i suoi riflessi militari, politici, ecc., anche se, fra tutte, è l'espressione meno definita sul piano semantico. Nel Quattrocento "cose nostre" ricorre in forma abbinata sia con Stato che con Dominio (4). Non vi è alcun dubbio che, malgrado il suo carattere tra il familiare ed il privato, si tratti di una formula di contenuto prettamente politico. Agli elementi della sicurezza e dell'utile, la salvaguardia delle res nostrae unisce infatti anche quelli del prestigio e della riputazione in campo internazionale.
Apparentemente insidiato ed almeno intralciato dalla presenza di varie altre nozioni, alle quali è variamente commisto, sembra tuttavia che il termine principale sia pur sempre già in questo periodo proprio quello di Stato. Non perché statisticamente esso predomini in modo netto, come invece si verifica in altri ambienti della penisola italiana, ma in quanto esso risulta il più specificamente politico ed insieme il più impersonale e superindividuale. Non s'intende dirimere la questione della prevalenza o meno di tale senso sulle accezioni giurisdizionali o sulle immagini di sapore concreto e come legate alla vita quotidiana. A Venezia in questo periodo "Stato" è indissociabile da esse e d'altra parte non entra affatto in conflitto con loro, non solo coesistendo ma legandovisi in modo tipico. Inizialmente si tratta piuttosto di enucleare ciò che tale termine contiene in modo predominante nonché le istanze alle quali è in primo luogo connesso.
Esse non sono proprie dell'ambiente veneziano e rimandano assai ampiamente ad una evoluzione che aveva investito la zona centro-settentrionale della penisola italiana a partire dal secolo XIV (5). A quella di "Stato" sono chiaramente e costantemente saldate le esigenze di ῾salute', ῾conservazione', ῾bene', ῾sicurezza', ῾utile' o vantaggio, ῾onore', ῾riputazione'. Il termine continua naturalmente a significare, su di un piano preliminare e più generale, ῾situazione' o ῾condizione sociale' come pure ῾territorio'. Quest'ultima accezione è particolarmente articolata nell'ambito veneziano, per la natura per così dire duplice - geograficamente e storicamente - dei domini della Serenissima. Esiste così nel Quattrocento sia uno "Stato" di Terraferma che uno "da mar", denominato anche di Levante e talora d'Oriente (6).
È sufficientemente chiaro tuttavia che "Stato", come si vedrà meglio in seguito, è anche un insieme di realtà profonde e immanenti, di istanze da cui si considera che derivino logicamente e necessariamente interventi ed esigenze di ogni tipo: un campo insomma assai ben individuabile e coerente. Non è meno evidente che in questo periodo non ci si avvia ancora a Venezia a definirlo concettualmente e ci si limita ad adombrarlo, come una sorta di entità superiore, forse anche in parte volutamente poco afferrabile. Lo Stato lagunare è una totalità alquanto ineffabile, quotidianamente e poliedricamente percepita, espressa in forme molteplici e magari disparate, anche per il bisogno di renderne l'immediatezza palpabile piuttosto che le radici o l'essenza. Così lo "Stato" veneziano sembra preferire rivestirsi d'immagini ed espressioni concretamente evocative piuttosto che di un'astrattezza poco consona al corpo che di fatto lo incarnava e se ne sentiva inscindibilmente investito. Non certo per suggerire affatto che si trattava di un'istanza di potere riservata agli uni e non concessa ad altri, ma per affermare congiuntamente due esigenze che si volevano complementari, se pur lo erano in modo parziale ed imperfetto: che lo Stato era legittimamente patrizio, ma la sua gestione riassumeva gli interessi in primo luogo di tutta la comunità cittadina ed in secondo luogo dei sudditi nel loro insieme.
Anche per ciò che si è appena detto, la realtà statale venne molto sovente indicata a Venezia con termini istituzionali o giurisdizionali, fra i quali non è affatto agevole istituire una gerarchia. Si menzionerà in primo luogo ῾Dominio', che copre un'area semanticamente più ampia di dominatio, corrispondente a sua volta piuttosto a ῾Signoria'. Quest'ultima può indicare il collegio dei savi con il doge, nell'atto concreto di esercitare la loro autorità o funzioni di governo, quanto la proiezione superiore del loro potere. Si tratta in qualche modo dei due ῾corpi', analoghi a quelli del re: quello fisico e quello politico-simbolico, uno relativamente caduco ed uno imperituro. La Signoria naturalmente è rappresentata in atto di agire per il bene e l'utile dei sudditi come per l'onore ed il profitto del Comune.
A questo punto, tuttavia, non si può più tardare a mettere in evidenza il versante in apparenza meno politico ed effettuale del senso veneziano dello Stato, sottolineando la presenza di alcune sue superiori valenze etiche. In una deliberazione del 16 novembre 1409 Si rinviene questa esplicita presa di posizione: "Fra le varie cose da prendere in considerazione dobbiamo in primo luogo [principaliter] tendere alla conservazione del nostro onore giacché niente accresce o diminuisce maggiormente l'onore dell'osservanza o dell'inosservanza del giuramento e delle promesse stipulate e per conseguenza ne può derivare che, venendo meno la fede nell'impegno e la fiducia, ogni cosa tanto nel cospetto di Dio che degli uomini andrà in peggio" (7). Ancora una volta non si tratta di dichiarazioni prive di precedenti, anche se la perspicuità di questo testo è senz'altro notevole, ed ovviamente ancora meno di asserti che non si rinnoveranno più. L'onore e la riputazione vengono considerati senza alcun dubbio e con piena consapevolezza, oltre che a ragion veduta, come valori inscindibili dall'autorità e dalla potenza stessa dello Stato. Non si tratta di nozioni specificamente feudali, malgrado il riferimento esplicito al iuramentum ed alla promissio e l'evidente attenzione patrizia ai diversi contesti socio-culturali e non municipali dell'epoca. I Veneziani agivano certo in un mondo nel quale la "credulitas" e la "fides" - secondo i termini stessi da loro impiegati - esercitavano e mantenevano un peso eccezionale e ne erano interamente coscienti. Questo vale sia a livello di stipulazione tra principi o comunità come appunto nei rapporti con le popolazioni ed i sudditi. Per motivi esterni oltre che per ragioni interne, la Signoria non poteva quindi solo rappresentare un potere vigile dei propri interessi politici, militari ed economici ma anche un'autorità etica. Tuttavia, proprio nel prendere atto di questo, e nella cura di evitare quella che sarebbe stata considerata come un'infamia, si può ravvisare una sorta di distacco mentale se non proprio di distanza. L'onore e la riputazione vennero presi come aspetti essenziali del mantenimento dello Stato, ma è arduo inferire che per i governanti lagunari essi pesassero davvero di più delle altre esigenze statali: l'utile, la sicurezza, la conservazione globalmente intesa, ecc. Tutto concorreva all'interesse supremo e comprensivo del mantenimento, e se possibile dell'accrescimento, della potenza e della prosperità veneziane; ogni fattore veniva preso in considerazione, accuratamente ponderato e valutato oltre che messo in primo piano o articolato con altri secondo le circostanze.
È così che quando occorreva e sembrava opportuno, accanto all'onore dello Stato si faceva scendere in campo il rispetto di Dio e della giustizia. Il ricorso alla divinità - come agli altri valori ῾statali' che si stanno evocando - interveniva nelle congiunture più disparate: che, per esempio, si dovesse decidere d'inviare dei sindici in Levante o che si dovesse comporre un litigio fra i membri della nobiltà (8). Si può certamente dire che l'evocazione di Dio interveniva quando si trattava di quistioni politiche considerate alquanto delicate (9). Ma questa evocata divinità appare assai più vicina a quella machiavellianamente concepita che a quella del credente comune dell'epoca: il suo uso è infatti chiaramente, anche se non esclusivamente, politico. Non si mettono in quistione qui il grado o l'intensità della fede cristiana di questi patrizi; si sottolinea però che il ricorso religioso da essi operato era almeno anche strumentale. La religione sarà pur stata una cosa sacra per loro, ma era altresì un fattore di governo ed una istanza di appoggio per la loro autorità. Dio non rappresentava solo un fondamento morale o spirituale ma senz'altro anche un supporto politico, da far intervenire nel modo e nel momento più opportuni. Né si trattava di un comportamento particolarmente machiavellico, quanto di una saldatura che i governanti dell'epoca operavano senza difficoltà ed istintivamente fra il loro potere e la sfera del divino.
Non stupisce affatto quindi che fosse naturale per questi patrizi dichiarare che il favore verso i luoghi pii e del culto aveva sempre costituito un assunto peculiare del loro Stato (10). Non molto diversa era l'impostazione assunta quando si trattava di assistenza ai poveri, essendo ritenuto che anche in questo problema fosse opportuno, oltre che congruo, richiamarsi alla raccomandazione divina (11). È certo cosa ben nota che, come altri poteri principeschi coevi, lo Stato veneziano si ammantava del consenso soprannaturale e si circonfondeva dell'alone derivante dalla sua ostentata ed anche sentita pietà. Lo aveva fatto da secoli, continuerà a farlo in seguito. Questo costituisce uno dei leitmotiv di più lunga durata del suo atteggiamento, che attraversa il periodo di cui ora si tratta e meriterebbe magari più prolungata illustrazione se già non fosse stata variamente intrapresa.
Nel grappolo delle nozioni che stiamo passando in rassegna non mancava affatto quella di "Respublica", anche se compariva piuttosto meno di frequente di quanto ci si potrebbe attendere ed era di uso nettamente meno corrente di quella di "Stato". Andrà sottolineato in ogni modo che in questo ambiente il termine di Repubblica riferito a Venezia si presenta solo a tratti in contesti di particolare prestigio. Campo di gravitazione della sensibilità politica di questo periodo assai meno denso e fitto di quello che si era creato intorno alla nozione di "Stato", "Repubblica" ricorreva ugualmente, anche se meno frequentemente, nelle contingenze più disparate (12), abbinato o meno a ῾onore' o ad altri valori. Come accadeva per "Stato ", "Repubblica" appariva insieme a Dominio ed a civitas nostra nell'abituale ambivalenza che è già stata messa in rilievo.
Un riguardo particolare va riservato tuttavia ad un altro accoppiamento, quello fra "leggi" e Repubblica, proprio perché i patrizi veneziani tennero particolarmente ad esaltare la funzione delle prime nell'ambito della seconda. "A niuna cossa mazormente invigilorono li antecessori nostri [si legge in una deliberazione del 20 aprile 1507] che a la observation de le leçe et ordeni nostri come precipuo thesauro et stabilimento della republica nostra; dal qual laudabil instituto [si prosegue significativamente] non se die per alcun modo deviar, per benefitio del Stato nostro" (13). "Le leçe [si scrive il 13 settembre 1517] sono quelle che governano et dano optima norma et forma al viver humano et fa star tacito et contento ciaschuno et maxime in le republice, ne le qual el precipuo se die recerchar è che tuti vivino et siino equalmente subiecti a le leçe" (14). Si tratta di un abbinamento più cinquecentesco che quattrocentesco, anche se fin dal secolo XV la coscienza della peculiarità degli ordinamenti repubblicani di Venezia rispetto a quelli principeschi era stata non solo viva ma aveva agito addirittura come criterio rivendicativo e divaricante nei confronti di sovrani esteri. Basterebbe ricordare la risposta data dal senato all'ambasciatore del sovrano napoletano il 10 settembre 1470: "Ad ognuno è noto quanto grande sia la forza e l'efficacia delle leggi e degli ordini della nostra città, poiché ciascuno ha potuto toccar con mano quale sia il nostro Stato ed il nostro tipo di regime, per cui non possiamo prendere delle disposizioni contrarie alle nostre leggi in quel modo incontrollato che è proprio degli altri principi" (15).
Non si potrebbe certo sorvolare del tutto su di un'altra nozione tanto frequente in questo periodo, e non solo a Venezia: quella di "terra". Nondimeno essa costituisce un riferimento politicamente piuttosto debole e non meno approssimativo degli altri. La "terra" è insieme città, comunità, patria e luogo di origine, suolo ove si è nati e si ha la propria dimora; essa ha relativamente poco a che fare con il regime di governo ma assai più con un senso dello Stato così comprensivo e poliedrico come quello veneziano. Trattandosi di prendere dei provvedimenti per la navigazione marittima, il 16 febbraio 1431 si auspicava per esempio che ciò avvenisse "con onore del nostro Dominio, con utile e vantaggio di tutti i mercanti nonché di tutta quanta la terra" (16). Verso la fine dello stesso decennio, a proposito delle corporazioni artigiane, si evocavano congiuntamente l'intento della "terra" e tutti gli ordinamenti della comunità (17). Negli stessi anni la categoria dell'onore viene divaricata ed attribuita tanto alla "terra" quanto al "regimen" di Venezia (18).
Ancora meno rilevante di tutte le nozioni or ora ricordate - almeno sul piano semantico - e con notevole divario da quanto avviene alla stessa epoca nell'ambiente francese, è quella di "bene universale" o bene pubblico, come se il vasto nucleo della classe dirigente e di coloro che avevano il diritto di cittadinanza (un insieme che numericamente rappresentava a Venezia soltanto una netta minoranza) costituisse pur sempre la melior pars e quella degna non solo di considerazione ma di effettivo rilievo. Quando insomma si parlava di tutta la città, se ne vedevano i membri dall'alto, in modo verticale e gerarchico, con decrescente attenzione a mano a mano che si scendeva verso la base della piramide sociale. Parallelo a questo modo di percepire, il senso dello Stato riguardava anch'esso gradatamente chi stava più vicino al vertice, anche se chi governava auspicava la più ampia e fervida partecipazione di ognuno alle fortune collettive. Solo in qualche caso l'onore del Dominio veneziano veniva evocato con esplicito riferimento non solo ai mercanti ed agli artigiani ma anche al resto del popolo (19).
Si è già fatto abbastanza esplicito cenno delle funzioni frequentemente e largamente interscambiabili delle nozioni sulle quali ci si è appena, soffermati e intorno alle quali ruotava a Venezia l'espressione del senso dello Stato in questo periodo. Gli esempi sono estremamente numerosi e talora pressoché insoliti, come quando si abbinavano senza esitare il bene e l'utile del Comune a quello degli approvvigionamenti degli arsenali marittimi (20) oppure si parlava della volontà del Dominio di "assecurare Statum et res suas" di fronte all'armata ottomana (21). Forse non è meno singolare trovare scritto che per l'onore e l'utile del Dominio la pratica del commercio dei cavalli non si addiceva a coloro che svolgevano funzioni pubbliche - "ad regimen huius Status sunt deputati" (22) - o veder commisti tanti valori come in questa deliberazione del 21 dicembre 1453: "Occorre sommamente vigilare ed attendere in modo precipuo, oltre che all'onor di Dio, al bene universale ed al vantaggio di questa nostra città, tanto del Comune quanto dei singoli, affinché vengano evitate fra l'altro le spese superflue e lo sterile investimento del denaro" (23). Non si esitava insomma a collegare la dignità del Dominio o dello Stato e così via alle operazioni più svariate e di qualsiasi natura, la cui enumerazione va risparmiata dopo che se n'è evidenziato il senso.
Nella massa delle testimonianze vi erano tuttavia dei temi intorno ai quali si coagulava maggiormente l'espressione degli interessi comunitari ed in cui s'incanalava vieppiù il senso dello Stato. Ci risulta che essi erano soprattutto l'acquisto o il mantenimento di posizioni territoriali, la mercanzia e la buona tenuta delle finanze pubbliche; ad essi si può aggiungere, anche se ne va pure distinto, il tema del rapporto di ῾servizio' o sacrificio per la Serenissima.
L'insediamento strategico nello spazio mediterraneo è fenomeno che nel Medioevo da un lato non contraddistinse solo Venezia ma almeno anche Genova e dall'altro rappresentò una caratteristica di lunga durata nell'ambiente lagunare. Secoli prima del 1400 i Veneziani avevano accortamente individuato i punti nevralgici nei quali sarebbe loro convenuto impiantarsi e tenacemente perseguito il loro possesso. Il senso dello spazio appare del resto altamente sviluppato a Venezia ben al di là dell'ambito mediterraneo, in direzione dell'immenso continente asiatico fra Due e Trecento e dell'Europa a partire dal Cinquecento. Questa loro perspicua capacità di percezione geo-economica si accompagnò del resto ad una non meno spiccata virtù di osservazione dei costumi e dei comportamenti. Riservandoci di tornare più oltre su certi aspetti di questa percezione geo-antropologica, si rileveranno ora soprattutto i modi in cui venne concretamente risentito dai Veneziani anche nel Quattro e Cinquecento il nesso diretto fra occupazione territoriale ed esigenze o interessi del loro Stato.
Non si tratta, ovviamente, di ripercorrere qui le tappe degli insediamenti marittimi o terrestri veneziani - malgrado la loro rilevanza in questo periodo - e nemmeno di mettere in evidenza la perspicacia strategica della loro scelta. Si deve richiamare però quanto fosse vigile in queste successive mosse la consapevolezza politica che le ispirava e presente l'espressione esplicita delle esigenze dello Stato. Forse non è fuori luogo ricordare ora una presa di posizione assunta in una congiuntura assai significativa, il 17 settembre 1439: "Concorre proprio al bene ed alla sicurezza del nostro Stato prendere ogni provvedimento possibile per far sentire e capire da tutti [amici o nemici] che il nostro Dominio è senz'altro e del tutto rivolto a farsi potente" (24). Senza dubbio alcuno tale spavalda ed anche insolita posizione veniva presa in un momento in cui la Signoria non esitava a misurarsi con i suoi vicini e quasi a sfidarli a viso aperto, dopo il riuscito ricupero della Dalmazia, la conquista della Terraferma e prima che le forze ottomane facessero sentire in modo davvero incombente la loro minaccia. Sta di fatto comunque che simile fiducia nelle proprie forze e tale sentimento di sicurezza costituiscono uno dei caratteri dell'azione veneziana, accompagnandola per tutto il Quattrocento.
In questa prospettiva non stupisce che il senso delle esigenze del mantenimento e dell'espansione dello Stato si trovi espresso in occasione delle sue imprese e delle sue affermazioni. Per non attardarsi in una illustrazione sistematica di tale significativo parallelismo fra azione e consapevolezza collettiva, se ne metteranno in rilievo almeno alcune sue manifestazioni.
È innanzitutto propria di questo periodo in senso lato la percezione della particolare importanza dell'isola di Corfù, sita alla giunzione fra il Golfo - sempre più considerato come proprio da Venezia e le acque del vasto bacino mediterraneo. Una deliberazione del 13 aprile 1348 fa apparire come, circa un quarantennio prima della sua presa di possesso, i Veneziani si apprestassero già ad occuparla (25). Verso la fine del Trecento, d'altra parte, nonostante che gli articoli della pace di Torino vietassero alla Signoria d'insediarsi sulla costa balcanica dal Quarnaro a Durazzo, il senato affermava esplicitamente che il possesso di Scutari, non lontana da Corfù, sarebbe riuscito molto profittevole "pro nobis et mercatoribus nostris" (26). Sempre riguardo alla stessa nevralgica zona si sottolineava, subito dopo la conquista ottomana di Costantinopoli, quanto importasse "Statui nostro" il possesso della città di Durazzo oltre che di Negroponte (27). Proprio la visione del dominio veneziano come un unico corpo faceva così apparire essenziali alla buona salute del suo insieme ora questo ora quel punto dello scacchiere marittimo o terrestre sul quale il potere della Serenissima era riuscito a dispiegarsi o alla presa del quale avrebbe dovuto tendere di volta in volta.
Questa coscienza del rapporto diretto fra Venezia e le diverse membra, attuali o potenziali, del suo organismo territoriale, non poteva non essere estremamente viva rispetto ai luoghi di Dalmazia, lungamente posseduti e poi perduti fra la metà del Trecento e l'inizio del secolo successivo. Ha così una particolare rilevanza l'asserzione del 28 settembre 1409 a proposito di questa regione - nel momento cioè in cui iniziava la sua riconquista da parte dei Veneziani: "ragionevolmente [racionabiliter] non poteva esser fatto altrimenti da parte nostra per la conservazione, per il bene e per la sicurezza del nostro Stato" (28). In caso di un conflitto marittimo, si ribadiva il 30 luglio 1411 sulle asserite e non discutibili orme dei progenitori oltre che sulla base delle ripetute esperienze, il dominio delle terre dalmate rappresentava un vero e proprio fattore discriminante della sicurezza e del profitto dello Stato come la loro perdita un'angoscia, un grave svantaggio ed un pericolo incombente (29). La Dalmazia doveva perciò esser apprezzata e considerata "quantum cor nostrum" e "quindi con tutta la prontezza, con ogni attenzione ed energia occorreva vigilare e adottare qualsiasi mezzo possibile, con i necessari provvedimenti, per conservarla ad onore e stabilità del nostro Dominio attraverso ogni misura di sicurezza e mettendo da parte ogni rispetto" (30).
Prima ancora che il ritorno dei Veneziani sulle coste illiriche venisse realizzato, il 6 dicembre 1401 il possesso di Zara in particolare era stato considerato assolutamente necessario se essi volevano avere il loro Stato sicuro. Se ne deduceva che, qualora fosse stata in grado di perseguire tale scopo, la Signoria doveva posporre qualsiasi altra quistione, di qualunque natura ed entità essa fosse, per concentrarsi sul compito di avere in mano e tenere sotto le proprie forze quella città (31). Era ancora vivo allora il ricordo delle funeste campagne adriatiche dei Genovesi e dell'occupazione di Chioggia da loro realizzata, per convincere i Veneziani che qualora fossero stati sicuri dalla parte del mare avrebbero potuto ritenersi tranquilli, essendovi o trovandosi dei rimedi alle insidie manifestantisi sugli altri scacchieri. Occorreva quindi avere Zara: ciò avrebbe significato "affrancatio et securitas et principalis deffensio et conservatio Status nostri" (32). Ritornando vari anni dopo su queste considerazioni il senato proclamava, come cosa evidente, che la città dalmata era un baluardo ed anzi la porta marittima di Venezia e del suo Stato: si poteva dire quindi che tenendo Zara si aveva tutta la Dalmazia né si sarebbe potuto temere mai dell'esito di un conflitto marittimo.
Esisteva quindi una sia pur variabile e fluttuante gerarchia nella percezione delle priorità spaziali e territoriali per la sicurezza del Dominio. Su tale piano i Veneziani parvero in questo periodo assumere delle posizioni anche discordanti, influenzate dall'attualità e dalla pressione di certi eventi come dalla prospettiva di determinate minacce o particolari speranze. Anche l'Istria così appariva all'inizio del Quattrocento come porto e ῾casa' dei vascelli della Repubblica. Il possesso di Lepanto era considerato proficuo per tutto un insieme di riguardi (33) e non meno l'occupazione delle varie terre albanesi. Anche su questo piano si sarebbe potuto registrare un certo riequilibrio a partire dalla metà del Cinquecento, mentre nel corso del Quattrocento i patrizi - come si è già potuto intravedere si mostrarono nettamente più sensibili a tutto quanto riguardava lo Stato da mar. È ben vero che questo periodo vide in quella vasta area un succedersi di ricuperi e di perdite, di angosciosi allarmi e di acquisti. Circa mezzo secolo prima della sua caduta in mano turca il senato manifestava, ad esempio, tutta la sua consapevolezza del ruolo di Modone; ma solo un mese e mezzo dopo impiegava pressoché la medesima espressione per il controllo di Ravenna (34). Non stupisce dunque che il 23 settembre 1415 si scrivesse: "Cumzosia che entro le altre pliu necesse [sic] cosse al nostro Dominio el sia da vegiar cum tuti spiriti e sentimenti cerca la quiete e tranquilità de la nostra ixola de Candia" (35). Non avrebbe poi sostenuto la Repubblica, in pieno Seicento, un conflitto di venticinque anni per conservare quel territorio? Il Peloponneso, la ῾Romània', Cipro - per non menzionarne che alcuni altri - costituirono altrettanti punti dello spazio mediterraneo sui quali si fissarono le preoccupazioni veneziane nel corso del secolo XV e di quello successivo. Non v'era insomma un senso dello Stato avulso e neppure dissociabile dal mantenimento di queste sue membra, viste non semplicemente come territori ma come parti integranti di un corpo aggregatosi via via nella sua indispensabile e calcolata organicità.
L'appartenenza delle più varie regioni era quindi sentita - come apparirà anche al di fuori della dimensione strategico-territoriale - come un legame diretto, profondo e che non avrebbe dovuto essere più sciolto fra la comunità lagunare e quelle del duplice Stato da terra e da mar. Costituitosi lungo l'arco di almeno tre secoli, esso era bensì - come tante altre entità politiche dell'epoca - un conglomerato di genti diverse e di regioni discontinue. Ma senza alcun dubbio il reggimento veneziano ne costituiva una forza aggregante ed unificante, che promanava incessantemente dal centro lagunare. Era quindi logico che il ceto patrizio provasse un senso di proprietà rispetto ai suoi vari domini, tanto più in una fase in cui il criterio della costruzione statale era in larga misura patrimoniale. Certo quelli della Serenissima erano domini e possessi piuttosto che territori appartenenti ad una dinastia ed in alcuni casi in una certa misura ad una nazione. Ma in compenso il senso della organicità spaziale e strategica era paradossalmente più acuto, essendo l'insieme stato costituito bensì a tappe ma secondo logiche geo-economiche e navali di grande coerenza.
Se comunque si passa a considerare il versante interno della comunità veneziana, si troverà ancora più naturale che il senso dello Stato riguardasse in primo luogo i suoi principali nervi: la mercanzia con la marina e l'erario. Senza dubbio le "cose marittime", pur guardate ancora all'inizio del Cinquecento come "bona parte" della "securtà et salute del Stato nostro" (36), accennarono ad esser prese a partire da allora in alquanto minore considerazione che nel secolo precedente. Non si udirà più un coro così unanime e senza soluzione di continuità come nel Quattrocento di asserti convergenti tutti sulla visione delle faccende commerciali e navali come "sostanza e fondamento" di Venezia. All'inizio del secolo XV quest'ultima appariva appunto basata sui traffici marittimi e la iterata formula "pro comodo mercatorum et utilitate nostri Comunis" sottolineava una simbiosi ritenuta indissolubile. Che alternativamente subentrassero - come accadde sempre più di frequente con il trascorrere dei decenni i termini di Dominio, di Repubblica o di città (urbs essendo non meno frequente di civitas) non rappresentava, come si è visto, un mutamento vero e proprio. Il ceto mercantile e le sue fortune erano al centro del mondo veneziano, che vi si trovava sostanzialmente riassunto e identificato.
Non si potrebbe agevolmente esigere, da un ambiente fedele ai suoi valori tradizionali e poco incline a rivederli su di una breve scala temporale, di saper esprimere in modo adeguato e pertinente le tappe del suo attaccamento reale e circostanziato ai traffici d'oltremare. Del resto, benché questi subissero indubbiamente delle peripezie ed attraversassero congiunture diverse com'è ben messo in rilievo da Bernard Doumerc in questo volume -, nell'insieme essi rimasero il riferimento maggiore della sensibilità lagunare. Nella mentalità collettiva le vicende ed i successi della Serenissima si saldavano e collimavano con quelli mercantili e marittimi, al punto che tale comune convincimento avrebbe potuto risultare scosso solo dai traumi dei primi decenni cinquecenteschi - anche se in realtà aveva potuto cominciare ad essere insidiato già alquanto prima. I Diarii di Girolamo Priuli costituiscono a tale riguardo una testimonianza così incisiva ed appassionata che non se ne può in alcun modo prescindere, ma è già stata rievocata a più riprese (37).
Specialmente nel corso del secolo XV (anche se già prima come poi), fra attività mercantile e navale v'era un ganglio e come un polmone di essenziale rilievo: l'Arsenale. Non stupisce quindi che il senso veneziano dello Stato si focalizzasse sovente su di esso come "substentatio et vires huius Status" e addirittura come "cor Status nostri" o suo "principalissimum fundamentum" (38). L'attività dell'Arsenale - gigantesca impresa pubblica in un emporio tutto rivolto all'iniziativa privata - ridondava a profitto "dello Stato e delle cose nostre", anche perché nella flotta consisteva la loro salvezza ed il loro basilare sostegno (39). Che del resto questo cantiere venisse rappresentato come il pilastro delle fortune della comunità risulta fenomeno e riflesso della fabbricazione nei suoi bacini non solo delle unità da combattimento ma anche di tutte quelle galere da mercato intorno alle quali ruotava buona parte dei negozi e dei profitti del ceto mercantile patrizio o meno.
Se governo e classe dirigente non esitavano ad identificarsi con i traffici marittimi, i loro strumenti ed i loro successi, sovente non propendevano meno a stabilire un rapporto altrettanto stretto con il loro erario ed addirittura con l'insieme delle misure che ne potevano alleggerire l'indebitamento o aumentare le entrate. "Scansare expensam", ridurre le pubbliche spese, era un'azione così benemerita che veniva a coincidere con la salute dello Stato ed era direttamente percepita come tale. Attribuita ancora una volta a merito dei progenitori e della loro chiaroveggenza, la sorveglianza del bilancio statale appariva un compito supremo, con il corollario di saper distinguere fra le erogazioni necessarie e quelle superflue (40). Nel medesimo tempo si era pienamente coscienti che, come occorreva sacrificare la vita, così non si doveva esitare ad impegnare le acquisite ricchezze per il proprio onore ed il proprio Stato (41). Si arrivava su tale piano a ricorrere ad immagini fisiologiche, come quando si parlava di far "prendere respiro" al debito pubblico in modo che "in avvenire il nostro Stato fosse in grado di conservarsi meglio in salute". Nella stessa icastica deliberazione del 19 agosto 1413 si sottolineava del resto che il successo di tutte le imprese ed iniziative della Signoria dipendeva dalla camera dei prestiti, dalla quale quindi venivano a ridondare "la gloria e la fama dell'onore della città nostra" (42).
Non stupisce perciò che fra le decisioni riguardanti l'amministrazione fiscale e la prosperità dello Stato venisse ad istituirsi un nesso molto stretto (43). Ancor meno meraviglia che la situazione dell'erario fosse presentata come "il fondamento principale" dello Stato, con l'abituale e duplice tendenza all'iperbole ed all'intercomunicabilità dei maggiori valori collettivi (44). Il 3 dicembre 1456 il senato denunciava in forma suggestiva l'inosservanza di certe leggi e di determinati ordinamenti che aveva condotto a mettere a sacco ("ponantur ad saccum") i denari pubblici (45). In maniera alquanto insolita si era sottolineato il 20 ottobre 1455 "che la principal cossa in che consiste la nostra potentia sia el numero di cittadini et in l'augmentar de le nostre entrade" (46). Che il ruolo dell'erario apparisse sempre maggiore lo mostra forse un testo dell'11 gennaio 1484, nel quale le "pecunie" sono presentate quale "principalissimum fundamentum in quo consistat conservatio Status nostri", mentre in quei giorni erano state definite "principalis nervus" dello Stato (47). Del resto una dozzina di anni prima, in occasione di un grave conflitto con gli Ottomani, il senato si era non meno significativamente espresso in questi termini: "in un così grave rivolgimento del nostro Stato ed in una guerra così grande e vasta contro i Turchi, se non siamo proprio disposti a fare quello che erano consueti compiere i nostri antenati e cioè mettere a repentaglio il sangue per la conservazione dello Stato, che almeno lo si aiuti e lo si mantenga sborsando il proprio denaro" (48).
Questa presa di posizione consente senz'altro di passare all'esame dell'insieme di azioni personali compiute per lo Stato in quanto tale o che quest'ultimo era in grado di richiedere. Non ci si può esimere dal riportare il profilo proprio degli atteggiamenti veneziani in questa sfera al contesto generale dell'epoca. Senza alcun dubbio, d'altronde, anche su questo piano occorrerebbe risalire assai all'indietro nel tempo, dato che per lo meno il patriottismo veneziano aveva già una ben lunga e brillante tradizione intorno all'inizio del secolo XV. Per di più simile fenomeno non era stato certo esclusivo dell'ambiente lagunare ma comune sia agli organismi municipali che a quelli dinastici.
Anche se un'analisi comparata ed un adeguato inquadramento di tale problema richiederebbero ben più ampia disamina, non si può far a meno di caratterizzare almeno in forma sommaria la fisionomia delle posizioni veneziane in proposito. Occorrerebbe per questo tenere conto di almeno tre punti di riferimento: il patriottismo di cui si è fatto cenno, nelle sue varie forme, il senso di fedeltà all'autorità da cui si dipendeva o alla parte politica cui si aderiva e, infine, il rapporto di dedizione allo Stato e di sacrificio ch'esso poteva richiedere dal singolo. Per quanto questi diversi tipi di manifestazione siano sovente tanto vicini l'uno all'altro da sovrapporsi o da confondersi almeno in parte, riteniamo che ci si possa permettere in questa sede di non insistere particolarmente sul patriottismo lagunare, evidente di per sé e già molto ben strutturato prima del Quattrocento tanto sul piano simbolico-religioso che su quello civile e politico. Esso prosegue certo nel suo sviluppo fra il secolo XV ed il XVI. Mentre proprio in questa fase esso continua ad incanalarsi nei solchi tradizionali, risulta nondimeno forgiato e plasmato altresì come reciproco legame fra lo Stato ed i suoi membri e non solo in rapporto ad una patria.
A Venezia il problema si presenta perciò con caratteri abbastanza specifici in questo periodo. In una prospettiva d'insieme, innanzitutto, non pare dubbio che la sensibilità lagunare si diversificò nettamente sia dall'attaccamento partigiano ad una setta politica o ad una famiglia (così ben illustrato dalla coeva situazione fiorentina) sia dalla devozione monarchica alla maniera per esempio francese. Il ceto dirigente veneziano dal canto suo intese assai chiaramente edificare e promuovere una fedeltà politica di tipo diverso, proprio perché si propose di coagulare ed erigere un profilo differente di Stato. Non è lecito di dubitare che il rapporto fra un membro del maggior consiglio e la nobiltà nel suo insieme non fosse della stessa natura di quello che si cercava di istituire fra i sudditi e la Signoria. D'altronde il legame stesso fra ciascun nobile e lo Stato era improntato in una certa misura anche all'appartenenza ad una famiglia piuttosto che ad un'altra, così come nella categoria dei sudditi rientravano individui che avevano tutta una gamma di profili diversi nei riguardi della Serenissima. Ma di fronte a queste innegabili situazioni di disparità e divergenza v'era pure tutto un insieme di elementi che coloro che governavano volevano far concorrere all'instaurazione di un insieme di parti saldate fra loro e pressoché di un corpo politico organico.
Per non inoltrarsi inutilmente in questa sede nella in parte vana ricerca dei precorrimenti o delle arcaicità rispetto a qualcosa che era ancora da venire prima della rivoluzione settecentesca americana, piuttosto che di Stato moderno o premoderno sembra opportuno parlare in proposito di Stati d'Ancien Régime. Questi ultimi tuttavia, se ebbero alcuni caratteri in comune, non ne annoverarono meno di peculiari e di specifici. Lo Stato veneziano risultò a questo riguardo uno dei più singolari. Di costituzione repubblicana, esso non si limitò a riservare il governo ai membri della sua nobiltà. Di fronte ad essi - come al di sopra dei sudditi - vi fu la tenace volontà di erigere un'istanza superiore dinanzi alla quale ci si doveva piegare come se si fosse tutti uguali sul piano della fedeltà politica ed anche su quello della dedizione personale, sia pur in forma e gradi diversi. Non era certamente privo di rilievo, nel preciso ambito di quest'epoca, che tale istanza non fosse incarnata né da un monarca ῾naturale' - la cui dinastia cioè regnava da lungo tempo incontestata - né da un principe che avesse pressoché ogni iniziativa a sua discrezione. Alla particolare costituzione della Repubblica, e più precisamente a quella ch'essa ereditava dalle generazioni trecentesche, corrisposero forme assai specifiche di senso dello Stato non soltanto nelle dimensioni e nelle sfere che abbiamo esaminato sinora ma anche in quelle del servizio della Signoria globalmente inteso. Nel Quattrocento Venezia non fu più solo una patria per coloro che vi erano nati e vi abitavano o magari vivevano in colonie marittime che ne costituivano la diretta emanazione, bensì un potere costituito su di un insieme di comunità di Terraferma e d'oltremare. Non stupisce dunque che proprio in questa fase di passaggio dal Comune cittadino alla Signoria territoriale s'intendessero fondare in vari modi una convergenza ed una coagulazione verso ed intorno allo Stato, provocare legami di attaccamento e di fedeltà oltre che sviluppare forme di interessamento della Signoria per coloro che maggiormente si mostravano sensibili a simili richiami ed a tali sollecitazioni.
Si tratta di un processo in buona parte da ritracciare, per quanto chiarificazioni ed apporti eccellenti siano già stati recati alla sua analisi (49). Non s'intende certo istituire un semplice rapporto di causa ad effetto fra la conquista della Terraferma o il ricupero della Dalmazia - ambedue realizzati nella prima metà del Quattrocento - e simile fenomeno. Ci pare ovvio nondimeno rilevare che la Signoria cercò allora di integrare i precedenti legami creati dal Comune lagunare con istanze collettive più impersonali, più articolate ed insieme più trascendenti. In un'epoca in cui il potere era ancora patrimonio del principe e questi incarnava fisicamente l'autorità suprema, Venezia riuscì a costituire assai più di ogni altra entità politica una sovranità affrancata dalle persone al governo. Dominium, dominatio - lo si è almeno in parte già mostrato - non solo non erano soltanto denominazioni istituzionali ma non designavano neppure dei detentori individuali delle istanze superiori dello Stato. Mentre questo, pur nutrendosi di fattori collettivi e di riferimenti politici ben concreti, tendeva a costituirsi in valore in sé, cercava pure di presentarsi come oggetto legittimo del servizio e dei sacrifici eventuali di tutti i suoi membri oltre che come fonte del loro doveroso riconoscimento. V'è certo un qualche parallelismo fra il meccanismo dei favori principeschi, nonché delle fedeltà rispettive che li provocavano in questo periodo, e quello che la Signoria animava ed alimentava. Ma al di là dell'analogia va veduta su questo piano soprattutto la cosciente ricerca di una singolarità da parte dello Stato lagunare quattro-cinquecentesco.
Lo Stato veneziano era concepito certo già in precedenza come distributore di equilibrata giustizia oltre che di giustificati castighi in virtù del primato che s'intendeva vi esercitassero le sue leggi. Ma il rapporto che ci si proponeva d'instaurare nel corso del secolo XV fra di esso ed i suoi vari membri era innanzitutto politico. Questo va inteso precipuamente nel senso che i suoi organi avevano consapevolmente, oltre ai compiti di giudicare e di punire, di rimunerare e di stimolare i servigi individuali, anche quelli di controllare la condotta politica di ognuno e di decidere l'eliminazione fisica degli avversari. A questo proposito potremmo citare quanto si verifica proprio a metà Quattrocento, quando si stanziano cento ducati di ricompensa per il suddito che riuscirà ad uccidere Scanderbeg, considerato nemico della Serenissima. Questo non è altro che un esempio di un vero e proprio modo di concepire i rapporti fra la sovrana Signoria veneziana e tutte le persone che potevano aver a che fare con essa. Era anzi un aspetto che andava ricordato proprio sul punto di accingersi ad evocare il versante dei favori e addirittura dei doveri che la Signoria proclamava di aver da manifestare nei riguardi di chiunque a lei si mostrasse più fedele e più dedito. La sorveglianza come il delitto o la soppressione di Stato si trovavano come abbinati facendo da contrappeso al premio ed alla grazia da parte di esso.
Come all'interno dei diversi significati della parola "Stato" e tra le nozioni nelle quali si articolava non è agevole identificare una logica quanto invece si percepiscono un'attrazione ed un processo di simbiosi, così nella sfera dei pubblici favori nei confronti dei gesti di dedizione all'interesse collettivo non appaiono con chiarezza una gerarchia ed una scala che li misurino e li graduino. Si rimane nella dimensione dell'approssimativo oltre che del discrezionale, senza che si possa escludere anche una qualche dose di casualità, nella pur calcolata oculatezza con la quale si cercavano di attribuire le ricompense. Vi erano ovviamente situazioni, d'altra parte, in cui la semplice autorizzazione di un'iniziativa personale costituiva di per sé una sorta di premio. Si può citare in merito il caso di Alvise Michiel che il 18 giugno 1427 chiedeva che gli venisse concesso di armare una galera a sue spese "a onor e stado de la vostra Serenità" (50).
È quasi superfluo in ogni modo far presente che quando, all'inizio del Quattrocento, si evocava l'atteggiamento benigno e grazioso nei riguardi delle vittime di gesta compiute per lo Stato ("ad honorem et statum nostre dominationis") si aveva cura di sottolineare che si trattava di una ben radicata tradizione veneziana (51). Non è difficile comunque incontrare nei decenni successivi l'affermazione che a quanti avevano sofferto per le fatiche ed il valore profusi per lo Stato, quest'ultimo considerava un onore accordare delle provvidenze (52). Almeno dall'inizio del secolo XV la relativa terminologia era già ben a punto. Correntemente si parlava di "servitores ferventes", di coloro che "viriliter insudarunt et in servitiis nostris se exercerunt" come dei "beneservientes" e "benemeriti" o di "fedeltà e ottimo portamento" da parte loro, di "fedeli e buone azioni", di "fedelissimi meriti", di "dedizione e carità". Gli organi supremi della Repubblica tenevano ad accordare i pubblici riconoscimenti con l'esplicito scopo di offrire un esempio affinché "gli altri vengano indotti a prestarci simili servizi e all'occasione non esitino ad esporre la vita per la patria" (53). Oltre che ai valorosi ed agli intrepidi, tuttavia, si considerava che le ricompense dovessero andare senz'altro anche a chi avesse speso la vita intera per lo Stato e fosse rimasto indigente (54).
Fra Quattro e Cinquecento insomma si era creato un contesto etico-politico all'interno del quale - anche se con un ritmo di cui è arduo individuare la regolarità - si riteneva non solo che lo Stato non dovesse esitare a ricompensare quanti si erano distinti nel suo servizio ma anche che questo fosse senz'altro doveroso da parte sua. Anche per il suo carattere quasi cristallizzato se non stereotipo, non è certo una primizia quanto si legge in una deliberazione del 25 maggio 1489: "È dovere di ogni principe e dominio farsi così benigno e incline a premiare i sudditi fedeli e benemeriti del proprio Stato [...]" (55). Mentre l'oggetto degli atti o comportamenti da rimunerare era designato in genere come lo Stato, il soggetto che accordava i favori era più spesso la Signoria. Ma anche qui si verifica il caratteristico intreccio, analogamente già rilevato, con Comune, Dominio, Repubblica, patria ed altresì - fin verso il 1500 - "Noi" e cioè l'insieme del ceto nobile sovrano che sostanzialmente si identificava con le precedenti diverse valenze. Più o meno nettamente lo Stato appare di nuovo come la proiezione superindividuale del corpo politico, di cui la Signoria è - in modo più o meno immediato - la concreta rappresentanza. In ogni caso, malgrado la fitta trama che sul piano mentale ed etico-politico intercorre fra quei due poli di riferimento, non si pensa che lo Stato possa direttamente ricompensare, proprio perché esso è una sorta di ipostasi che rimane trascendente ed esistono organi supremi nei quali in certo modo almeno s'incarna. Come suoi legittimi ed indiscussi tramiti, essi si investono del compito di farlo - e lo fanno del resto assai più in nome proprio che suo - appunto come se lo Stato rimanesse l'oggetto e non fosse più agevolmente sentito e percepibile come soggetto operante.
Sembra così che ci si avvii, più o meno insensibilmente, verso la situazione e verso le formulazioni che caratterizzeranno in modo più specifico i primi decenni del secolo XVI. Allora, almeno sul piano della rappresentazione e del riferimento abituale, accanto alla Signoria viene a delinearsi sempre più la figura non solo simbolica del doge. Il servizio ed i servitori dello Stato, sia pur anche retoricamente, paiono indirizzarsi al loro destinatario più eminente, come se si considerasse opportuno manifestare il proprio attaccamento e destinare il proprio servizio ad una persona, per quanto largamente emblematica. Probabilmente questa impressione deriva anche dal fatto che alcuni tipi di documento divengono più frequenti con l'inizio del Cinquecento. Essi appaiono tuttavia sufficientemente eloquenti per far considerare valide alcune deduzioni che ne promanano. Senza dubbio la massa dei dispacci che un ampio apparato diplomatico, militare ed amministrativo invia, nonché i rapporti finali di attività dei rappresentanti della Repubblica nelle varie sfere possono accentuare la percezione di un fenomeno che non era sconosciuto nel Quattrocento. Come è stato recentemente messo in rilievo, infatti, non solo fra Tre e Quattrocento v'erano stati dei cambiamenti di peso specifico tra le maggiori casate della nobiltà ma un fenomeno analogo si verificò tra la seconda metà del secolo XV e l'inizio di quello successivo. Accanto ai Contarini, ai Loredan ed ai Donà, dopo il 1460 si sarebbero viepiù affermati i Priuli, i Tron, i Gritti, i Marcello, i Canal ed i Condulmier con i Pisani, i Lippomano, i Grimani ed i Vendramin (56). Venendosi a delineare una sorta di supremazia delle ῾case' ducali, questa gravitazione progressivamente maggiore del ῾servizio' e dei servitori dello Stato verso la persona del doge ed anche verso il suo consiglio - appunto la Signoria - assumerebbe tutto il suo rinnovato senso.
Non sarà fuori luogo comunque enucleare alcuni spunti in materia attraverso l'assai vasta documentazione disponibile. Rispetto ad essa appare come insolita la maniera in cui Gasparo Contarini chiude la sua relazione pronunciata in senato nel 1525 al termine della sua importante ambasceria presso Carlo Quinto. La sua conclusione breve e sobria è priva di riferimenti al doge ed alla Signoria e menziona solo Dio, "acció tutti conoscano l'onore e la laude essere debita a Lui e non ad altri" (57). Non è agevole stabilire quanto simile presa di posizione fosse deliberata e volesse addirittura risultare polemica. Sta di fatto che gli altri patrizi in quegli anni, e soprattutto nei decenni immediatamente successivi, si espressero in significativa consonanza in senso del tutto diverso.
Si potrebbe iniziare citando il luogotenente della Patria del Friuli Giovanni Basadonna, che alla fine del suo mandato afferma esplicitamente il 7 giugno 1529: "[...] non havendo al mondo altra felicità ch'el servir la Serenità Vostra" (58). Nel 1531 Ludovico Falier conclude la relazione della sua ambasciata in Inghilterra sottolineando: "Altro non mi resta se non [...] inchinevolmente pregarlo [il doge Andrea Gritti] e supplicarlo a volersi servire della persona mia, nata a questo fine" (59). Nel 1548 Alvise Mocenigo, al ritorno dalla sua missione presso Carlo Quinto, chiederà al doge di prendere atto della "buona volontà et sviscerato desiderio ch'io ho havuto sempre di farli cosa utile e grata" (60). È assai agevole constatare con il passar degli anni che da un lato si rinforza la retorica della devozione al doge e dall'altro si fa a gara nel cercare di distinguersi sul piano della dedizione più o meno emblematica nei suoi riguardi.
Così ad esempio, nella sua relazione, Giacomo Soranzo, tornato dall'Inghilterra nel 1554, dopo aver detto: "[...] promettendo alla Serenità Vostra che in qualunque occasione che sia per rappresentarmisi non mi rifiuterò mai per alcuna né grande né piccola, purché la Serenità Vostra giudichi che io ne sia buono, e sempre mi adopererò, posposte tutte le altre cose, solamente in suo beneficio", aggiungeva: "Quanto più ho servito e quanto sono state più e maggiori le occasioni, tanto è più cresciuto in me il desiderio di servirla" (61).
"Servizio pubblico" e compiacimento del doge erano venuti così pressoché a identificarsi nella prima metà del Cinquecento per quasi unanime presa di posizione dei patrizi. V'era tuttavia di più, in quanto la generazione cresciuta in questo periodo dava segni abbastanza evidenti di introdurre volentieri, nel rapporto fra la dedizione allo Stato e quella al doge, anche il riferimento alla divinità. "Se [...] ho soddisfatto a Vostra Serenità [asseriva Bernardo Navagero nel 1546], ringrazio l'infinita bontà del nostro Signor Iddio che abbia adempito tutti i desideri miei, perché mai ho desiderato cosa con maggiore affetto di questa" (62). L'appena nominato Giovanni Soranzo, prima di dichiarare che riponeva ogni sua fiducia nel doge "solamente, dopo Dio", aveva precisato: "Conoscendo quanto per la debolezza delle forze mie avrò mancato da quello che dovevo, sebbene l'animo fu sempre grandissimo, umilmente domando perdono di quello che ho mancato e spero di ottenerlo dalla grandissima sua clemenza [del doge], la quale a similitudine di Dio assai più riguarda l'animo di chi opera che le sue azioni" (63). Non soltanto dunque il rapporto con la "sublimità" visibile dello Stato era giunto ad interiorizzarsi ma scorreva su binari paralleli e molto prossimi a quelli della relazione con la divinità (64). Su questo piano poteva dunque parere ormai alquanto dissonante l'affermazione di Niccolò Tiepolo al suo ritorno da una missione presso Carlo Quinto nel 1532. Il patrizio rivendicava ancora - anche per il dissesto che il servizio pubblico aveva recato alla sua fortuna patrimoniale - una reciprocità della patria nei riguardi dei suoi servitori: "[...]vogliano considerare che non meno è obbligata la patria a procurar con ogni studio di conservar le facoltà ed i figliuoli dei cittadini suoi, ch'essi di porre ove sia necessario e quelle e questi per lei" (65).
Se tanto cammino era stato percorso dalla sensibilità collettiva dei nobili, e probabilmente dei cittadini, senza alcun dubbio ciò era dovuto in buona parte all'azione persistente e prevalente di una magistratura che dal Trecento, e sempre più nel corso del Quattrocento, aveva voluto incarnare il senso dello Stato e impersonarne gli interessi. Si tratta del consiglio dei dieci, sui quali si è già scritto quanto ci esime da un'analisi probabilmente del resto ancora incompiuta. In certo qual modo un capolavoro politico venne realizzato da questo organo. Esso allargò certamente le sue competenze a partire almeno dalla metà del Trecento, sino al punto di farle divenire senz'altro preponderanti nel corso del Quattrocento. Ma se ciò andò a profitto delle casate patrizie che vi erano più ampiamente rappresentate, non si può far a meno di constatare che nello stesso tempo non ridondò mai a beneficio esclusivo o preminente di una di esse e tanto meno di un solo individuo, qualunque fosse la sua personalità o il seguito di cui godeva. Grazie all'attività del consiglio dei dieci Venezia evitò sia dei soprassalti pericolosi per la sua stabilità politica sia la trasformazione del suo regime repubblicano in uno principesco.
Non v'è in questa constatazione nessun implicito giudizio di qualità civile a favore del regime lagunare. Come è ben noto, non si può considerare che quest'ultimo assicurasse ai propri cittadini un trattamento sostanzialmente più umano o più libero di quello che riservavano loro altri regimi italiani coevi oppure varie compagini contemporanee dell'Europa occidentale. In questa sede non si tratta nondimeno di giungere ad un chiarimento comparativo di fondo quanto di analizzare il senso dello Stato che caratterizzò la nobiltà e la società veneziane. Su questo piano non si può davvero far a meno di sottolineare il ruolo svolto dal consiglio dei dieci come garante del sistema politico instaurato sin dagli ultimi anni del secolo XIII. I maggiori problemi che esso dovette risolvere si presentarono nel corso del Trecento ed esso li affrontò con inesorabile energia. Si può citare in proposito una sua deliberazione dell'8 gennaio 1365, presa esplicitamente "ad terrorem omnium et pro conservatione nostri Status". In essa si decretava che quanti avevano subìto o subissero una qualsiasi condanna in seguito alla congiura di Marin Falier non potevano godere in avvenire di alcuna grazia, sotto pena di esser privati in perpetuo - essi ed i loro eredi - di ogni ufficio e beneficio pubblico (66).
Come è già stato sottolineato, almeno fin dal 1350 circa il consiglio dei dieci vide in ogni associazione cittadina una potenziale fonte di eversione (67). Riconosciuto esplicitamente almeno dal 1335 come utilissimo alla conservazione "status et honoris dominii", questo organo era divenuto permanente nel luglio del 1355 e da allora le sue attribuzioni non cessarono di accrescersi, anche se si poterono notare disparità e divergenze nelle scelte dei magistrati fra esso ed il gran consiglio. È stato pure messo in rilievo che poco più di una ventina di famiglie detenevano il monopolio del consiglio dei dieci fin dal Trecento mentre già dalla fine di quel secolo numerosi patrizi si avvicendavano abbastanza regolarmente nelle funzioni di membri di tale istanza e di consigliere ducale, provocando una concentrazione di potere nelle loro mani (68). Il 1406 rappresentò senza dubbio un'ulteriore tappa dell'ampliamento della giurisdizione dei dieci. Pur entrando via via in conflitto di competenza con altre importanti magistrature - da quella dei signori di notte a quella degli avogadori di comun - essi riuscirono in genere a prevalere nel corso del secolo XV (69). Né si può far a meno di ricordare altresì che fu il consiglio dei dieci ad istituire nel 1537 gli esecutori contro la bestemmia, mentre il suo potere era stato rafforzato nel 1521 dai provveditori sopra i monasteri e lo fu ulteriormente a partire dal 1539 con gli inquisitori di Stato.
È ben noto che la rapidità, la segretezza e soprattutto attribuzioni sempre più illimitate caratterizzarono il funzionamento di questa istanza politica, qualificabile come suprema ma assai più di fatto che istituzionalmente. Le sue decisioni erano senza appello, non dovendo essa rimettere i casi che decideva di esaminare ad alcun altro organo giudicante. Non era neppure ammesso che il maggior consiglio o il senato potessero intervenire per accordare una grazia a chi ne fosse stato condannato (70). È quindi comprensibile che ogni forma di critica, fosse essa puramente orale o rimanesse anonima, venne considerata di propria competenza dal consiglio dei dieci. Di decennio in decennio la sorveglianza esercitata e le pesanti punizioni da esso inflitte crearono un'atmosfera di progressiva acquiescenza almeno esteriore e di crescente autocontrollo di ogni manifestazione anche lontanamente politica. Si è parlato in merito di ῾religione' e di ῾culto secolare' dello Stato, come di relativa ῾crescente ortodossia' (71). Simili apprezzamenti possono essere considerati fondati soprattutto in senso traslato o metaforico, in quanto si trattava di manifestazioni di conformismo subìto e di forme di riguardo o di rispetto in gran parte imposte. Ciononostante non si può affatto escludere che i membri del consiglio dei dieci si considerassero investiti di una missione superiore, come sacerdoti e censori laici dello Stato patrizio. All'interno dei loro comportamenti e della loro condotta non si potrà tuttavia verosimilmente giungere ad una discriminazione adeguata fra il peso dei fattori appartenenti alla sfera degli interessi di ceto e di famiglia e quello delle esigenze ideali di salvaguardia e servizio dello Stato. Caratterizzò infatti in altissimo grado l'azione dei dieci anche se non soltanto la loro - proprio la saldatura e l'inestricabilità fra questi diversi tipi di elementi. Lo prova, fra le tante altre cose, il fatto che l'ingiuria verbale ad un magistrato o pubblico funzionario nell'esercizio delle proprie attribuzioni era da essi perseguita alla medesima stregua di una vera e propria operazione di sovvertimento.
Non v'è comunque il minimo dubbio che, se ogni organo della Repubblica agiva in ogni caso, se pur a suo modo, nell'interesse dello Stato, per quanto riguardava la propria sfera il consiglio dei dieci si era investito del compito di vigilare e di inquisire sul comportamento di tutti come se potenzialmente ognuno - a cominciare d'altronde dai patrizi potesse - rappresentare una minaccia per la sicurezza del regime. Le assai numerose magistrature politiche, militari ed amministrative veneziane seguirono ciascuna un proprio sviluppo, assicurando l'espletamento della maggior parte delle funzioni di governo. Il consiglio dei dieci venne destinato ad assicurare la polizia politica e quindi non concerneva la società e la vita dello Stato che sotto questa particolare angolatura. Di fatto, tuttavia, il sistema veneziano nel corso dei secoli XV e XVI venne ad attribuire a coloro che erano incaricati di vegliare alla sicurezza politica un ruolo tale che ne fece come i depositari del senso dello Stato, riconoscendo loro un peso sovente preponderante. Del resto del consiglio dei dieci facevano parte non solo i rappresentanti delle famiglie in genere più importanti ma il doge stesso ed il suo collegio di ministri. Non stupisce quindi che, venendosi a trovare come al vertice delle funzioni politiche, questo consiglio divenisse (ed è in particolare una caratteristica del periodo qui esaminato) sempre più il suo organo di controllo, come il custode della sua superindividuale, oltre che vigile e concreta, autorità.
Anche per i motivi accennati, non ci si addentrerà in un'analisi delle molteplici e significative posizioni che i dieci assunsero di volta in volta, dai vasti campi della pura vigilanza o della sicurezza del regime a quello addirittura della politica estera della Serenissima. È noto che fra Quattro e Cinquecento si assisté a Venezia ad una concentrazione dei poteri ed a un loro esercizio tendenzialmente verticistico. Questo non escluse le manifestazioni di dissenso in seno alla nobiltà, sia su problemi di fondo che marginali, gli uni intrecciandosi sovente con gli altri. Quando, per esempio, proprio il consiglio dei dieci dibatté della punizione da infliggere a Jacopo Foscari, il loro capo di turno, Jacopo Loredan, propendeva nettamente per la sua decapitazione mentre la sentenza finale approdò al suo esilio a La Canea. Attraverso gli scontri di competenza fra i dieci ed altre eminenti magistrature, i primi influenzarono direttamente in questo periodo anche i rapporti tra Venezia e le varie comunità del suo dominio imprimendo su questo piano un'impronta ben definita al senso dello Stato in quanto consistenza ed esito dei rapporti fra di esso ed i sudditi. Il fenomeno fu nettamente visibile in materia di applicazione e di riforma degli Statuti di numerose comunità soggette. Più che con le quarantie civili e con la quarantia criminale, il consiglio dei dieci venne a questo proposito ad entrare in collisione con l'avogaria di comun, in particolare nella seconda metà del Quattrocento, non senza vivi dissensi anche con il senato (72).
All'interno della vasta quistione dell'incidenza del tipo di regime politico veneziano sulla sensibilità statale dei patrizi, ci si limiterà ad evocare due situazioni abbastanza tipiche una propria dell'inizio del secolo XV e l'altra della fine del periodo ora preso in esame. Ambedue riguardano più o meno direttamente il problema della libertà di opinione e di espressione. Quest'ultima subì assai probabilmente una traiettoria caratterizzata da una restrizione progressiva, che si manifestò anche nelle forme dell'autocensura. In materia sarebbe del resto istruttivo uno studio comparato e sistematico dei due notissimi Diarii di Marin Sanudo e di Girolamo Priuli. Esso potrebbe mostrare che tale traiettoria fu tutt'altro che regolare e far apparire delle difformità o delle anomalie anche notevoli, dovute tanto alla personalità dei singoli patrizi quanto al ruolo puntuale che essi ritenevano di poter svolgere nella congiuntura precisa o nella veste nella quale presero posizione. Si deve riconoscere che si tratta di un campo degno di ulteriore ed approfondita esplorazione.
Ci si riferisce intanto in primo luogo alla vasta cronaca in gran parte inedita redatta nei primi decenni del Quattrocento da Antonio Morosini e soprattutto ad un episodio riguardante gli anni 1402-1403. Si trattò dell'incursione di una squadra genovese al comando dell'ammiraglio francese Boucicaut nelle acque del Mediterraneo orientale. L'episodio fece risaltare in modo diretto e vivo gli apprezzamenti o personali dell'autore e di una parte almeno del suo ambiente. Come faranno ampiamente in seguito Marin Sanudo e Girolamo Priuli - il primo d'altronde in un'occasione del tutto analoga riguardante l'anno 1499 -, il cronista da un lato formulò assai palesemente il suo giudizio e si fece dall'altro eco di un punto di vista condiviso da molti (per quanto arduo possa risultare sceverare la visione individuale da quella di un gruppo anche di soli patrizi).
Il contesto dell'incidente era lineare. Durante la loro scorreria le unità genovesi, sotto il pretesto di recar danno agli Infedeli, avevano saccheggiato i magazzini dei mercanti veneziani a Beirut, infliggendo loro delle perdite ingenti, valutabili a poco meno di 30.000 ducati. Carlo Zen allora, dopo essersi consultato sull'opportunità di attaccare i vascelli colpevoli con le sue quattro galere, si decise a farlo in base alle direttive che aveva ricevuto alla sua partenza da Venezia. Solo tardivamente gli giunsero delle istruzioni in senso restrittivo da parte del governo lagunare: lo scontro aveva già avuto luogo, ma almeno al comandante veneziano venne impedito di proseguire nella rappresaglia intrapresa. L'analisi del Morosini concerne principalmente la sfasatura fra gli ordini della Signoria e la legittimità dell'azione navale dello Zen da un lato, il cattivo comportamento di alcuni suoi comandanti durante lo scontro e la loro condanna dall'altro.
Come al solito, le direttive impartite a Venezia al capitano in Golfo erano state piuttosto elastiche ed avevano lasciato un discreto spazio alla sua discrezionalità (73). Proprio per questo, prima di prendere una decisione, egli aveva consultato in merito i rettori di Candia oltre che Leonardo Mocenigo, allora in navigazione in quella zona con altre galere della Repubblica. Quando lo Zen giunse ad intercettare le unità del Boucicaut e ad assalirle, alcune galere veneziane "fexe tristo portamento", in particolare perché si preoccuparono soprattutto di sottrar loro il bottino fatto a Beirut invece che di combatterle a fondo o di catturarle (74). Come avverrà anche nel caso di Marin Sanudo e di Girolamo Priuli, ma in misura senz'altro maggiore, l'atteggiamento del Morosini fu assai critico anche nei riguardi della Signoria benché fosse avvolto di precauzioni non solo retoriche.
A proposito dell'ordine sopravvenuto da Venezia allo Zen di non inseguire ulteriormente, dopo lo scontro, la squadra genovese, il cronista scrisse: "Chon hogny reverencia de quel Cholegio che l'ave a far, fo uno senestro chomandamento" (75). A suo parere l'intervento era errato e riprovevole in quanto il capitano in Golfo sarebbe stato in grado di catturar altre galere liguri, oltre alle tre già prese prima che le ulteriori disposizioni del governo gli giungessero. Sempre a proposito del comportamento successivo dello Zen, il Morosini sottolineò che appunto il comandante veneziano non osò riprendere l'inseguimento "veziando el voler de quely da Veniexia" (76). Il distacco critico dalla condotta della Signoria - testimoniato dall'espressione "quelli di Venezia" - appare nondimeno ancor più nettamente poco dopo quando si evoca l'atteggiamento della città nei riguardi di Leonardo Mocenigo che vi era appena giunto. Il Morosini rilevò infatti che quel comandante non venne bene accolto in un ambiente indignato per i danni inferti dai Genovesi e dove si sarebbe desiderato che si fosse spinto più decisamente contro di loro. "Ma a la veritade [precisò polemicamente il cronista] el defeto non fo so', perché luy fexe quelo che ly fo chomeso; ma el defeto fo de quely de Veniexia, che i manda' sy fato chomandamento e puo' i non saveva del dano che aveva fato i Zenovexi a Veniciany" (77).
Insomma la Signoria aveva preso delle decisioni condannabili, anche perché non si era sufficientemente informata; meglio era lasciar agire chi si trovava in zona di operazione (anche se, contenendo la propria rappresaglia, per Venezia fu in seguito più agevole addivenire ad un accordo).
Sotto il velo di una deferenza piuttosto formale, il Morosini aveva dimostrato in tal modo un'accentuata indipendenza di giudizio nei riguardi del suo governo. Il suo biasimo nei confronti di quest'ultimo andava del resto anche più in là e si faceva generale quando si pronunciava sul criterio di condotta seguìto dalla Signoria in casi del genere. "I Veneciany [scrisse designando in particolare i loro reggitori] molte volte è sy timidi che per la so' timideza bem porta la pena" (78). Alle ingiurie, genovesi o meno, si sarebbe dovuto rispondere con ben altra energia, per ottenere un più grande e adeguato rispetto delle cose della Repubblica. Carlo Zen si era infatti battuto per l'onore della Signoria, offeso dall'ingente svaligiamento provocato dal Boucicaut: egli lo aveva fatto, secondo il cronista, per evitare la taccia d'insigne viltà oltre che per indurre i Genovesi ad un ben diverso comportamento (79).
Il Morosini si mostrò meno distante dall'atteggiamento dei patrizi della generazione di Marin Sanudo e Girolamo Priuli quando prese posizione contro quei comandanti ed ufficiali che non avevano fatto il loro dovere al momento della battaglia. Forse anche perché, su esplicita denuncia dello Zen, si era presto istruito a Venezia, da parte degli avogadori di comun, un processo contro di loro che approdò a condanne relativamente severe. Il cronista assunse al riguardo un atteggiamento piuttosto moderato e comunque meno polemico che nei confronti della Signoria e stese addirittura un velo di silenzio sul nome dei nobili puniti (80). Senza alcun dubbio per i più svariati motivi, fra i quali non è agevole orientarsi, il Morosini nello stendere la sua cronaca applicò forme di autocensura, articolata e graduata nondimeno secondo le circostanze (81).
È arduo stabilire se gli sfoghi critici o gli appunti polemici espressi nei Diarii di Marin Sanudo e Girolamo Priuli dissonassero ai primi del Cinquecento rispetto ad un conformismo ormai più diffuso, dal quale un Morosini si dimostrava ancora relativamente poco intaccato. Se si passa ad evocare brevemente alcune vicende della Istoria viniziana di Pietro Bembo si può constatare comunque quanto più stretto fosse divenuto nel primo Cinquecento il controllo sulle opinioni destinate alla stampa. In quel campo indubbiamente il conformismo venne rinforzato da un'assai stretta autocensura. Il caso del celebre umanista incaricato dalla Repubblica della funzione di storiografo nel 1530 è nondimeno eloquente. Si può immaginare infatti quanto questo patrizio fosse cosciente dei limiti da non oltrepassare nella sua narrazione, oltre che delle opportune clausole di stile da adottare nei momenti più delicati del suo lavoro (82). Egli non si fece del resto molti scrupoli in materia, ricordando ad esempio della ῾nazione' genovese solo le sconfitte ad essa inflitte dai Veneziani senza alludere affatto a quelle da essi subìte ad opera di lei (83).
È quindi assai significativo che quando la sua Istoria venne stampata a Venezia nel 1552, cinque anni dopo la morte dell'autore, un buon numero di passi apparisse edulcorato o omesso. Si trattava regolarmente di pagine dolenti della vita dello Stato, che s'intendeva appunto liberare dalle asperità per fornire un'immagine più attraente e idealizzata della Repubblica. Così il giudizio sulla condotta del capitano generale Antonio Grimani nel 1499 risultò in parte troncato ed in parte attutito, trattandosi fra l'altro di un futuro doge (84). Pure abbreviato ed assai addolcito apparve l'apprezzamento espresso dallo storiografo sul comportamento dei Veneziani nella battaglia di Zonchio dell'agosto 1499, a proposito della quale vennero fatti intervenire il caso o la fortuna piuttosto che la mancanza di coraggio e l'insubordinazione (85). Il controllo statale tollerava ormai sempre meno non solo ogni presa di posizione ispirata ad un giudizio critico ma anche quelle forme di obbiettività che scalfissero il profilo che si voleva ormai senza rughe del mondo veneziano. Il regno dell'autocensura esigeva un conformismo sempre più spinto, suffragato dal ricorso ai più sottili artifici della retorica e della mistificazione. Il mito era divenuto un canone di comportamento e di espressione nonché un imperativo capace di espellere ogni formulazione genuina della percezione politica e del senso dello Stato.
A partire dai primi del Cinquecento i rapporti di Venezia con il mondo ottomano si fecero, nell'insieme e malgrado tutto, più pacifici. In primo luogo probabilmente perché la Signoria aveva ben compreso ch'essa non era più in grado di far fronte da sola alle forze turche né sul piano terrestre né su quello navale: la competizione armata e la rivalità sul campo non erano più possibili. Almeno dal 1520 all'incirca, del resto, non solo tutto il Levante ed ogni plaga del Mediterraneo orientale (con le poche eccezioni di Cipro, Candia e qualche altra posizione veneziana) erano in mano del Sultano, ma lo stesso Nord Africa era passato dalla sua parte. Inevitabilmente, nonostante le cocenti esperienze delle guerre d'Italia, Venezia si trovò sempre più sospinta verso l'Europa come la sola area ormai in cui fosse in grado di considerarsi inserita diplomaticamente e politicamente. Anche militarmente, le due sole campagne successive contro gli Ottomani dovettero essere mosse in seno ad una lega con le potenze cattoliche mediterranee - accettando per di più di farne le pesanti spese territoriali in ambedue i casi.
Così, da punti di vista fondamentali, verso l'inizio del secolo XVI mutò fra i patrizi veneziani la coscienza dei propri destini e maturò la consapevolezza della sopravvenuta rilevanza dei rapporti soprattutto politici con gli Stati centro-occidentali del continente. L'attualità delle vicende europee si fece ben più immediata e la necessità di seguirne le complicazioni più impellente. Si può ritenere che la maggiore frequenza e regolarità delle relazioni diplomatiche con quest'area furono una diretta conseguenza di questo ridimensionamento di cui Venezia cercò di non essere soltanto passiva spettatrice. Il senso dello Stato, che aveva costituito una complessa e vitale dimensione soprattutto interna della comunità lagunare, si sviluppò in misura maggiore in direzione della sfera esterna, in una sorta di accentuato trasferimento. Crebbe quindi la convinzione di doversi attentamente ed oculatamente situare nel contesto degli Stati del continente europeo. Anche se la conservazione di certi documenti diplomatici venne facilitata da opportune disposizioni, non è un caso che i rapporti degli ambasciatori ad esempio si facessero più fitti e meglio articolati dalla fine del Quattrocento in poi.
L'attenzione e la raccolta di informazioni da parte veneziana non era affatto un fenomeno nuovo. Sin verso la fine del secolo XV, tuttavia, la rete di cui ci si era validamente serviti era stata in particolare quella mercantile, i sudditi della Serenissima essendo presenti in un amplissimo spazio che andava almeno dal Medio Oriente all'Inghilterra attraverso tutto il Mediterraneo. I contatti diplomatici con paesi lontani non erano certo mancati ma non avevano avuto lo spessore e l'assiduità che caratterizzavano la rete dei rapporti commerciali. L'interesse di questi ultimi restava del resto prevalente su ogni altro fin verso il 1500 e spiega in buona parte il carattere saltuario dei rendiconti diplomatici, che prendevano ancora nel Quattrocento più la forma della narrazione di un viaggio che quella di un vero e proprio consuntivo di una missione stabile.
La progressiva sistematicità del meccanismo diplomatico della Serenissima venne a manifestarsi nel corso dei primi decenni del Cinquecento. Che il fenomeno fosse in diretta relazione con il costituirsi di un sistema di Stati assai interdipendenti in Europa lo mostra la relativa rarità delle testimonianze legate alle sedi orientali - come Costantinopoli o magari Buda rispetto al numero di quelle provenienti dai paesi occidentali. I Veneziani percepirono bene non solo che per ragioni di fondo occorreva guardare di più all'Europa ma che proprio nello spazio continentale si era venuto a configurare un campo di forze assai più omogenee ed intrecciate di prima. Essi tuttavia non possedevano ancora, intorno al 1500, un corpo di nobili sufficientemente e specificamente preparati per missioni stabili all'estero. Le testimonianze riguardanti la prima metà del Cinquecento mostrano assai bene quanto ineguale fosse in merito il talento dei vari patrizi ai quali si affidava una sede diplomatica. Da un punto di vista mentale e politico tale fase appare tuttavia proprio per questo di grande rilievo. Vi si può ravvisare infatti il costituirsi di una percezione rinnovata ed integrativa degli interessi dello Stato, sentito molto più accentuatamente come fattore di un insieme europeo piuttosto che quale entità singolare fra Oriente ed Occidente, come emporio mercantile o potenza regionale italiana.
Tale orientamento implicava l'accentuarsi di un senso di appartenenza al mondo occidentale ed una più diretta e maggiore presa di coscienza degli altri Stati. Vincenzo Quirini, che appare come il diplomatico più quadrato della sua generazione ancora quattrocentesca, iniziava la sua relazione sulla missione in Borgogna in questi termini: "Niuna cosa [...] è di maggior giovamento ad una ben instituita repubblica di particolarmente intendere il governo, la potenza e la disposizione di tutti i gran signori e principi del mondo e le qualità delle provincie e dei populi che in esse sono" (86). Queste affermazioni sarebbero poi state molto frequentemente riprese da altri patrizi, con varianti ed arricchimenti diversi (87). Marin Cavalli, ad esempio, osservava nel 1546 di ritorno dalla Francia che da un lato i membri più giovani del senato si istruivano udendo le relazioni diplomatiche, dall'altro esse permettevano di giudicar meglio delle cose proprie commisurandole con quelle altrui (88).
Proprio sul piano dell'orientamento d'insieme si direbbe che i nobili veneziani avessero assai da imparare sui paesi europei e soprattutto sulle zone meno frequentate dai mercanti della loro città. Innanzitutto sul piano della conoscenza geografica, che nel 1492 appare sommaria in Zaccaria Contarini per quanto riguardava la stessa Francia (89), descritta ancora sulla base delle pagine di Giulio Cesare da Marino Giustinian nel 1535 (90), benché lo sguardo di questo patrizio spaziasse su tutti i rapporti euro-mediterranei ed ovviamente italici, senza escludere il Portogallo e l'Inghilterra. Venti anni dopo, due suoi successori - Matteo Dandolo e Giovanni Soranzo - attribuivano alla Francia proporzioni nettamente diverse, considerandola il primo (nel 1542) lunga 500 miglia invece delle 600 del secondo (nel 1558) e larga pure 500 mentre il Soranzo gliene attribuiva 700 (91). La descrizione spaziale, non sempre presente in questi panorami diplomatici (92), veniva tracciata con criteri sostanzialmente perimetrali, le zone di frontiera venendo istintivamente considerate un miglior riferimento di quelle interne - peraltro appunto maggiormente ignorate (93). Può apparire notevole la molto scarsa presenza di informazioni sulle terre americane, anche decenni dopo la loro scoperta (94). Assai rilevanti su questo piano erano le disparità da un patrizio all'altro. Così la presentazione dell'Inghilterra fatta da Daniele Barbaro nel 1551 risultò ad esempio meno soddisfacente di quella offerta vent'anni prima da Ludovico Falier benché quest'ultimo accordasse all'isola un'estensione equivalente a quella della Francia (95).
Le relazioni degli ambasciatori veneziani, pur attraverso significative disparità di vario genere, divennero fin dalla prima metà del Cinquecento sempre più attente, ampie ed accurate, talora precedute da un sommario della materia che sarebbe stata esposta. Fin dal 1506 quella di Vincenzo Quirini sulla Borgogna, l'Inghilterra e la Castiglia, risultò di alta levatura illustrando ordinatamente la genealogia ed il temperamento dei principi, le figure dei loro ministri, le proprietà dei paesi specificamente prese, il carattere ed i costumi degli abitanti, le entrate e le spese pubbliche e nobiliari, non omettendo nel caso spagnuolo l'Inquisizione né gli ordini cavallereschi. La relazione dello stesso ambasciatore dopo la sua missione in Germania, presentata nel dicembre dell'anno successivo, poteva già essere considerata un capolavoro di ordinata e perspicace informazione, per la sua vastità nonché l'apertura a molteplici problemi, tutto il contesto imperiale venendo articolatamente e puntualmente evocato. I senatori si trovarono in presenza di un vero e proprio trattatello, anche se i successori del Quirini non raggiunsero di frequente vette analoghe nei primi decenni del secolo XVI. Nell'insieme il senso veneziano dello Stato dimostrava nondimeno di essersi ben adeguato alla svolta che gli eventi avevano impresso ai destini della Repubblica. Sul piano della percezione delle realtà estere esso guadagnava in certo senso quello che il conformismo politico aveva in parte tarpato sul piano interno.
1. Cf. Simeone Ljubiâ, Commissiones et relationes venetae, I-X, Zagreb 1868-1891: III, nr. 51, p. 37 (18 novembre 1347).
2. Si avverte che si considera tanto arrischiato quanto in genere ozioso l'intento di distinguere nobiltà e patriziato a Venezia nel periodo trattato qui. Seguendo l'uso corrente, i due termini verranno usati in modo pressoché indifferente, non perché li si ritenga davvero interscambiabili ma in quanto il dissociarli implicherebbe una imprecisione assai maggiore della relativa e giustificata indefinitezza del loro uso.
3. Per esempio con Guido Ruggiero, Patrizi e malfattori. La violenza a Venezia nel primo Rinascimento, Bologna 1982, in partic. le pp. 262-274.
4. Ci si limiterà a citare due preamboli di deliberazioni senatorie, ambedue del 1452. In quella del 6 maggio si legge: "Quantum faciat pro utilitate et commodo Status et rerum nostrarum feliciter gerendarum quod detur omnis opera fiatque omnis solicitudo [...]" (A.S.V., Senato Terra, reg. 3, c. 28). Quella del 31 agosto dichiara: "[...] Sicut unusquisque clarissime intelligere debet singulariter conveniat dignitati nostri Dominii ac deffensioni ac conservationi rerum nostrarum diligentissime providere [...]" (ibid., c. 38). Interessante è altresì il passo seguente, fra i tanti: "Omnis provisio facta et que de cetero fieret esset vana et irrita, cum damno et interesse Dominii, periculo et sinistro rerum nostrarum [...]". Dell' 11 maggio 1483 (ibid., reg. 9, c. 3).
5. Cf. Alberto Tenenti, Stato: un'idea, una logica. Dal Comune italiano all'assolutismo francese, Bologna 1987, pp. 15-97
6. Per il modo di pensare in volgare e di esprimersi in latino, il combinarsi del senso spaziale con quello politico dà luogo ad insoliti giri di frase. Cf. ad esempio A.S.V., Senato Mar, reg. 1, c. 67v (11 novembre 1441): "Quoniam agenda nostra a parte maris spectantia Statui nostro et conservationi civium et mercatorum nostrorum peius stare non possent [...]", ove ci si riferisce all'imperversare della pirateria.
7. Cf. S. Ljubiâ, Commissiones, IX, nr. 34, p. 41
8. A proposito della nomina dei sindici in Levante il 12 luglio 1425 ci si esprime così: "Cum Dominatio nostra semper de tempore in tempus provideret, tum respectu Dei et justicie tum honoris et boni status nostri, de mittendo [...]" (A.S.V., Senato Misti, reg. 55, c. 138). Nell'altro caso si legge: "Cum sit secundum Deum et honorem nostri Dominii in quantum fieri possit de plano concordium inter viros nobiles [...]" (ibid., c. 44, 17 luglio 1424).
9. A proposito di un proditorio attacco contro la persona del nobile Benedetto Boldù si usano infatti questi termini: "Expedit honori summi Dei et dignitati Status nostri dare modum veniendi in lucem et intelligendi qui fuerunt auctores proditorii excessus commissi [...] "; cf. ivi, Senato Terra, reg. 9, c. 108 (16 settembre 1484).
10. Ci limitiamo a citare due deliberazioni del primo Cinquecento che innegabilmente riprendono una posizione per così dire tradizionale del ceto dirigente veneziano. In quel momento si è giunti infatti ad una formulazione pressoché canonica e già cristallizzata anche semanticamente. La prima - del 27 marzo 1507 - parla del "peculiare institutum Status nostri" (ibid., reg. 15, c. 165); la seconda, del 16 luglio successivo, recita: "Institutum semper fuit Status nostri locis piis et summo Deo dicatis plurimum misereri" (ibid., c. 182).
11. Si veda per esempio il testo della deliberazione in materia del 6 giugno 1489: "Niuna cosa è più laudabile, più degna di questo Stado né più accepta al omnipotente Dio che drezar l'animo a subvenir li poveri, mantenir et conservar le hospitalità [...]"; cf. ibid., reg. 10, c. 153.
12. In una deliberazione del 23 luglio 1440 il riferimento alla Repubblica compare in una quistione riguardante i patroni delle galere da mercato (cf. ivi, Senato Misti, reg. 60, c. 233) e in un'altra del 6 giugno 1450 esso concerne le galere di Fiandra (cf. ivi, Senato Mar, reg. 3, c. 191v). Il 22 marzo 1425 la Repubblica era stata evocata in materia matrimoniale, insieme a Dio (cf. ivi, Senato Misti, reg. 55, c. 101v), il 15 settembre 1434 a proposito dell'Arte della lana (ibid., reg. 59, c. 6v) ed il 3 febbraio 1438 riguardo alle navi in partenza per la Siria (ibid., reg. 60, c. 54)
13. Cf. ivi, Senato Terra, reg. 15, c. 152.
14. Ibid., reg. 20, c. 86.
15. Ivi, Senato Secreta, reg. 24, c. 141.
16. Ivi, Senato Misti, reg. 58, c. 37v.
17. Ibid., reg. 60, c. 156.
18. Ibid., reg. 59, c. 13v (30 ottobre 1434).
19. Cf. ad esempio ibid., reg. 54, c. 7v (7 marzo 1422); ma si tratta di un problema di valori monetari, che in effetti non poteva non concernere tutta la cittadinanza.
20. Ibid., reg. 56, c. 119 (8 agosto 1427).
21. Ivi, Senato Mar, reg. 12, c. 163 (30 gennaio 1489).
22. Ivi, Senato Misti, reg. 58, c. 114v (26 aprile 1432).
23. Ivi, Senato Terra, reg. 3, c. 95; si tratta di un intervento del senato contro il lusso e lo sfarzo. Di nuovo in questa materia si verifica un accavallamento concettuale ben mezzo secolo dopo: "Die chadauna ben instituta republica occorrer et obviar secundo li tempi a tute le immoderate et perniciose corruptelle, come sempre hano facto li optimi maçori nostri per el benefitio del Stato nostro et per non offender el Signor Dio nostro" (ibid., reg. 15, c. 101v, 7 gennaio 1506).
24. Cf. ivi, Senato Misti, reg. 60, c. 170.
25. "Multum esset utile factis nostris, in casu quo debeamus esse discordes a domino rege Hungarie, habere in nostra custodia locum et castrum Corphu"; cf. S. Ljubic, Commissiones, III, nr. 113, p. 76.
26. Cf. ibid., IV, nr. 503, p. 353 (14 gennaio 1396); si stimava nello stesso tempo che l'ostacolo delle clausole di quel trattato "leviter removebitur".
27. A.S.V., Senato Mar, reg. 5, c. 16 (4 gennaio 1454); cf. ibid., c. 15 (26 dicembre 1453).
28. Cf. S. Ljubic, Commissiones, IX, nr. 25, p. 26.
29. Ibid., nr. 158, p. 172 (30 luglio 1411).
30. Ibid., nr. 176, p. 191 (8 ottobre 1411).
31. Ibid., IV, nr. 609, pp. 445-446.
32. Ibid., V, nr. 171, p. 178 (4 luglio 1409).
33. Cf. A.S.V., Senato Misti, reg. 47, c. 118 (27 maggio 1407).
34. Cf. ivi, Senato Mar, reg. 5, c. 174 (20 novembre 1456) e c. 180v (15 gennaio 1457)
35. Cf. ivi, Senato Misti, reg. 51, c. 70.
36. Ivi, Senato Mar, reg. 17, c. 69v (30 marzo 1509).
37. Ci si contenta di rinviare a questo proposito al nostro saggio su Il senso dello spazio e del tempo nel mondo veneziano dei secoli XV e XVI apparso per la prima volta in italiano in Alberto Tenenti, Credenze, ideologie, libertinismi tra Medioevo ed età moderna, Bologna 1978, pp. 75-118.
38. Cf. A.S.V., Senato Mar, reg. i, c. 101v (26 giugno 1442); reg. 5, c. 123v (23 dicembre 1455) e Senato Terra, reg. 10, c. 112 (25 agosto 1488).
39. Cf. ivi, Senato Mar, reg. 3, c. 156 (31 dicembre 1449) e reg. 8, c. 32v (g luglio 1465).
40. Cf. ad esempio la deliberazione del 15 maggio 1406, ivi, Senato Misti, reg. 47, c. 51 (15 maggio 1406).
41. Cf. ad esempio ibid., reg. 49, c. 164 (8 marzo 1413) e c. 165v (16 marzo 1413). Nei due casi si tratta peraltro di campi diversi, riguardando l'uno un prestito pubblico e l'altro una tassa sulle rendite del clero.
42. Ibid., reg. 50, c. 21.
43. Cf. ad esempio ibid., reg. 50, c. 10 (17 luglio 1413) e c. 106v (3 maggio 1414) nonché reg. 51, c. 187 (25 gennaio 1417).
44. Ibid., reg. 59, c. 29 (11 febbraio 1435); cf. anche ibid., c. 79v (7 novembre 1435).
45. Cf. ivi, Senato Secreta, reg. 20, c. 108.
46. Cf. ivi, Senato Terra, reg. 3, c. 180.
47. Ibid., reg. 9, c. 49v e c. 52 (9 e 11 gennaio 1484).
48. Ibid., reg. 6, c. 122.
49. Si veda per esempio quanto è stato scritto sia da Angelo Ventura (Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Bari 1964) che da Gaetano Cozzi e Michael Knapton (Storia della Repubblica di Venezia dalla guerra di Chioggia alla riconquista della Terraferma, Torino 1986) o da Paola Lanaro Sartori (Un'oligarchia urbana nel Cinquecento veneto: istituzioni, economia, società, Torino 1992).
50. Cf. A.S.V., Senato Misti, reg. 56, c. 105v.
51. Cf. ibid., reg. 48, c. 47v (6 dicembre 1408).
52. Cf. ivi, Senato Mar, reg. 1, c. 213 (8 febbraio 1444).
53. Ibid., reg. 7, c. 188v (agosto 1464).
54. È questo il caso del settantaquattrenne cavaliere e procuratore di San Marco Vittor Soranzo, a proposito del quale ci si esprime significativamente così: " Officium et debitum cuiuscumque iusti principis, sapientis et bene institute Republice est quod cum longo tempore, ad decrepitam usque etatem, cives sui in omni occurrentia et indigentia propria, postposito et spreto quocumque incommodo et periculo, bono et libenti animo se exercuerint, habere eis respectum quando in serviciis et continuis laboribus non solum inveterati facti sint sed quodamodo decrepiti et impotentes"; cf. ivi, Senato Terra, reg. 9, c. 130 (1° ottobre 1483).
55. Ibid., reg. 12, c. 171v.
56. Cf. Elisabeth Crouzet-Pavan, Sopra le acque salse. Espace, pouvoir et société à Venise à la fin du Moyen Age, I, Roma 1992, pp. 279-281. Alla p. 280 l'autrice afferma in particolare: "En ce demi-siècle [e cioè fra il 1466 ed il 1502] décisif l'élite semble avoir changé, comme plus largement la noblesse".
57. Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di Eugenio Alberi, ser. I, II, Firenze 1840, p. 73.
58. Cf. Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, I, La Patria del Friuli (luogotenenza di Udine), Milano 1973, nr. 3, p. 20.
59. Cf. Le relazioni degli ambasciatori, a cura di E. Alberi, III, p. 28. Il Falier aveva peraltro detto nella stessa occasione: "Altro non desidero se non spender la roba ed il sangue tutto in servizio della mia Repubblica", ibid.
60. Cf. Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di Luigi Firpo, II, Germania, Torino 1970, p. 698.
61. Cf. Le relazioni degli ambasciatori, a cura di E. Alberi, III, pp. 86-87. Al ritorno da una precedente ambasceria in Inghilterra, nel 1551, Daniele Barbaro aveva affermato dal canto suo: "Ho sentito venire nel cuore un ardentissimo desiderio di servirla e non ho lasciato occasione alcuna o grande o piccola ch'io non mi sia sforzato di rappresentarla
degnamente, essendole per infiniti obblighi immortalmente tenuto"; ibid., II, p. 270.
62. Ibid., I, p. 367.
63. Ibid., 11, pp. 86-87.
64. Si può citare in merito anche quanto si legge nella relazione pronunciata da Alvise Mocenigo al suo ritorno nel 1548 dall'ambasciata presso Carlo Quinto: "Restami hora dir solamente che se in questa legazione io ho fatto servitij, che sia sta' alquanto grato alla Sublimità Vostra et a Vostre eccellentissime Signorie, ne rendo infinite gratie alla divina Maestà che mi habbi inspirato a governarmi di que modo che ho fatto"; cf. Relazioni di ambasciatori, a cura di L. Firpo, II, p. 698.
65. Cf. Le relazioni degli ambasciatori, a cura di E. Alberi, I, p. 141.
66. Cf. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Deliberazioni Miste, reg. 6, c. 23.
67. Cf. G. Ruggiero, Patrizi, p. 17 e dello stesso autore The Ten: Control of Violente and Social Disorder in Trecento Venice, Los Angeles 1972.
68. Cf. Id., Patrizi, p. 43.
69. Cf. in proposito E. Crouzet-Pavan, Sopra le acque, pp. 838-839.
70. Cf. G. Ruggiero, Patrizi, p. 80.
71. Cf. ibid., p. 262.
72. Cf. in merito G. Cozzi-M. Knapton, Storia della Repubblica, pp. 208-221.
73. In esse, almeno a quanto riferisce il cronista, "se chontegniva che, abiando fato i dity Zenovexi notabel dano a Veneciany, quely devese intrometer in aver e in persona, non se deschoverzando per pizola chosa"; cf. Antonio Morosini, Chronique, a cura di Léon Dorez, I, Paris 1898, p. 74.
74. Ibid., p. 90; cf. anche p. 136.
75. Ibid., p. 98.
76. Ibid., p. 100.
77. Ibid., p. 110.
78. Ibid., p. 98.
79. Cf. ibid., pp. 142 e 144.
80. "I nomy de quely per lo prexente non voio manifestar"; cf. ibid., p. 160 e pp. 136-142, dove è riportata la lettera inviata da Carlo Zen alla Signoria nell'ottobre 1403, all'indomani dello scontro armato.
81. Il patrizio non manca infatti in certi casi di vituperare esplicitamente la condotta di un nobile. Basti rinviare al giudizio su di un altro fatto navale del 1423: "[...] tuto questo stado per puocha avidencia del capetanio nostro vilysimo ser Andrea Zane, del qual, como se denota per tuty, quelo averse mal portato per volte do sovra i faty de la dita, abandonandola"; cf. ibid., II, p. 246.
82. Si legga ad esempio l'abile giudizio formulato sulla battaglia di Fornovo: "[...] nessuna parte vincendo, e stanchi piuttosto del combattere i Viniziani, che concedenti, tostamente i Francesi si sottrasser loro"; cf. Della istoria viniziana, in Pietro Bembo, Opere, III, Milano 1809, p. 139.
83. Cf. ibid., pp. 167-168.
84. Cf. ibid., I.V, pp. 286-287, 291 e 295.
85. Cf. ibid., pp. 289-290. Il Bembo aveva infatti scritto: "[...] in tanto la malvagità de' loro soprastanti [e cioè dei sopracomiti delle galere veneziane], e la paura senza veruno ordine, e i comandamenti sprezzati, stoltamente a diversa parte le girarono "[...] ibid., p. 291, cf. p. 293.
86. Cf. Le relazioni degli ambasciatori, a cura di E. Alberi, I, p. 1 (testo del 1506).
87. Da questo punto di vista ci sembra da segnalare la relazione di Marin Cavalli al seguito dell'ambasceria presso Ferdinando d'Asburgo, del 1543. Vi si legge ad esempio: "La maggior parte delli errori e più dannosi nelle deliberazioni procedano da non saper bene le forze e il modo del governo degli altri né quanta speranza e fondamento sopra quelle si possa fare"; cf. ibid., III, p. 92.
88. Cf. ibid., p. 219.
89. Cf. ibid., IV, p. 16.
90. Ibid., I, p. 148.
91. Cf. ibid., IV, p. 30 e II, p. 403.
92. Sebastiano Giustinian, nella sua relazione del 1519 sull'Inghilterra, non faceva cenno delle dimensioni del paese né delle sue varie regioni; cf. Relazioni di ambasciatori, a cura di L. Firpo, I, pp. 167 e ss.
93. Si veda ad esempio il senso spaziale seguito nella descrizione della Francia da parte di Marin Cavalli nel 1546 (da nord ad ovest e poi da sud a est, con menzione solo finale delle regioni del centro); cf. Le relazioni degli ambasciatori, a cura di E. Alberi, I, p. 220. Interessante la presentazione dello spazio germanico fatta da Vincenzo Quirini nel 1507 (dalle regioni del sud-est egli passa a quelle del nord, poi a quelle dell'ovest e del sud); cf. ibid., VI, pp. 5-6, ricalcata da Alvise Mocenigo nel 1548 (cf. Relazioni di ambasciatori, a cura di L. Firpo, II, pp. 586-587). Anche il panorama geografico dei domini dell'imperatore Ferdinando tracciato da Michele Suriano nel 1555 va da oriente ad occidente e cioè dalla Transilvania all'Alsazia: cf. ibid., p. 862. Nella poco ordinata relazione di Nicolò Tiepolo, tornato nel 1532 dalla sua missione presso Carlo Quinto, la rassegna geografica cominciava dai paesi renani, per poi riprendere parecchie pagine più oltre quando l'ambasciatore toccava i domini di Ferdinando; cf. Le relazioni degli ambasciatori, a cura di E. Alberi, I, pp. 50 e 89.
94. Cf. innanzitutto la relazione di Gasparo Contarini, del 1525 (v. ibid., II, p. 48). Nel 1546 Bernardo Navagero, anch'egli in missione presso Carlo Quinto, scrisse addirittura: "Delle Indie si dicono gran cose ma non v'è uomo che possa affermare cosa vera e certa"; (ibid., I, p. 297). Due anni dopo il suo successore Alvise Mocenigo dedicava alle Indie spagnuole soprattutto una divagazione erudita, del tutto sommaria, illustrando invece ampiamente il Regno di Napoli e la Sicilia; cf. Relazioni di ambasciatori, a cura di L. Firpo, II, pp. 56 e ss.
95. Cf. Le relazioni degli ambasciatori, a cura di E. Alberi, II, p. 228 e III, pp. 11-13.