Il servizio elettrico dai sistemi regionali alla liberalizzazione
Le quattro fasi di sviluppo dei sistemi elettrici
In queste pagine verrà ricostruita l’esperienza storica del sistema elettrico italiano tra il 1950 e il 2010 attorno a tre temi: l’organizzazione tecnica del sistema, le istituzioni della regolazione e il sistema tariffario. Come schema interpretativo di massima verrà qui utilizzato quello di sistema sociotecnico, nel quale gli aspetti tecnologici, quelli ingegneristici, quelli economici e gestionali evolvono secondo una traiettoria generale, nella quale sono però gli aspetti storici e locali a disegnare le forme della ‘chiusura’ del sistema.
In linea di massima, la dinamica dei sistemi elettrici è distinta in quattro fasi (Hughes 1983). La prima, che va dagli inizi degli anni Ottanta dell’Ottocento al primo decennio del Novecento, è caratterizzata dallo sviluppo del settore come sistema. Sotto il profilo tecnologico questa fase è distinta dall’invenzione dell’alternatore – che permette di trasmettere l’energia a grande distanza – e del trasformatore – che permette di alimentare i sistemi elettrici sia con le correnti continue sia con quelle alternate. Il sistema delle imprese è invece caratterizzato dalla presenza di più sistemi locali – prima a scala cittadina poi regionale – promossi dalle grandi imprese produttrici di materiale elettromeccanico come Edison, General Electric, Siemens, AEG, Brown Boveri, Ericsson. In questa fase, la regolazione pubblica riguarda essenzialmente le servitù di elettrodotto e le concessioni idrauliche per la generazione idroelettrica. Le tariffe rappresentano un punto critico, in primo luogo perché è difficile misurare la corrente elettrica – il contatore viene inventato verso la fine degli anni Ottanta dell’Ottocento e funziona in modo assai approssimativo fino ai primi anni Venti del Novecento –, in secondo luogo perché l’energia elettrica è un prodotto che non può essere immagazzinato e i suoi costi di produzione variano secondo l’andamento del carico. È di questa fase l’invenzione della tariffa binomia, che esprime le due componenti del prezzo dell’energia elettrica, la potenza (kW) e l’energia (kWh).
La seconda fase (1920-50) è quella della costruzione delle reti di grande dimensione, nazionale o regionale, come in Italia. Sotto il profilo tecnologico, le innovazioni critiche sono quelle di sistema, quelle cioè che permettono di far marciare ‘in parallelo’ più impianti e di alimentare molti consumatori, economizzando le perdite di trasmissione e aumentando l’utilizzazione grazie alla diversità della domanda delle varie categorie di utenti. Il sistema delle imprese si consolida attorno a pochi grandi gruppi integrati, che coprono cioè le tre fasi della produzione, della trasmissione e della distribuzione agli utenti. Questa direzione non era l’unica possibile, ma fu seguita ovunque per il prevalere di una ‘rappresentazione’ tecnologica ed economica basata sui vantaggi dell’integrazione. La teoria delle tariffe è in questa fase assai viva. Cominciano a emergere le inefficienze legate alla tariffazione binomia e i fenomeni di discriminazione tariffaria: alcuni utenti, cioè, pagavano costi più elevati di altri a causa delle imperfezioni della struttura delle tariffe medesime o delle scelte delle imprese che, come nel caso italiano, privilegiavano i grandi consumatori industriali a scapito di quelli domestici.
La terza fase è quella dei grandi sistemi integrati (1950-80). Essa inizia a svilupparsi negli anni Trenta ed è alimentata, sotto il profilo tecnologico, dalle economie di scala dei grandi impianti termoelettrici e dalla costruzione delle reti di trasporto a 220 kV e 380 kV, che permettono di trasportare l’energia a distanza di centinaia di chilometri. Il modello operativo è quello della grande impresa integrata, nazionalizzata – come in Francia e in Gran Bretagna –, ma anche privata, come negli Stati Uniti e in Germania, dove si afferma attraverso formule originali come quelle dei pools. Il sistema regolativo diventa più complesso ponendo alle imprese anche obiettivi di politica economica generale, per es. l’apprestamento di condizioni di offerta di energia favorevoli allo sviluppo, ma anche obiettivi redistributivi e sociali. Sotto il profilo tariffario si cerca di far corrispondere la tariffa al costo di fornitura istantaneo attraverso la raccolta di una grande quantità di informazioni sui costi degli impianti e il monitoraggio continuo dei prelievi di energia degli utenti. Questa fase si chiude attorno alla metà degli anni Settanta, sotto la pressione congiunta dell’esaurimento delle economie di scala dei grandi impianti, dell’improvviso mutamento dei prezzi del petrolio che compromette i bilanci delle imprese elettriche e di un crescente clima di diffidenza verso le tecnologie di massa.
La quarta fase è segnata dalla deregolazione dei sistemi e dall’apertura a nuovi soggetti e tecnologie di produzione, come il ciclo combinato o gli impianti a termogas. L’efficienza non è più affidata alla ricerca sistematica della corrispondenza dei costi marginali ai prezzi, ma all’operare di meccanismi di mercato e a forme di regolazione più snelle, come l’indicazione di obiettivi di produttività complessiva del sistema elettrico. Il sistema regolativo si allenta, limitandosi a funzioni di orientamento generale di pubblico servizio – obblighi di fornitura, compatibilità ambientale ecc. – e le stesse tariffe si orientano verso formulazioni più semplici, come il price cap, utilizzato in tutte le esperienze di liberalizzazione del settore. Il sistema si apre all’entrata di nuovi soggetti ed è messa in discussione l’integrazione delle fasi di produzione, trasmissione e distribuzione dell’energia.
Nel corso di questa trattazione ci si occuperà quindi del periodo che va dal secondo dopoguerra a oggi, coprendo, nella periodizzazione per fasi descritta, le fasi due e tre, ovvero quella della creazione del sistema integrato nazionale gestito da un’impresa pubblica (1950-90) e quella della liberalizzazione del mercato elettrico a imprese in competizione tra di loro (1990-2007).
Lo sviluppo della rete nazionale e la creazione dell’ENEL
Nel secondo dopoguerra il settore elettrico risentì in tutta Europa del nuovo clima politico. I diffusi sentimenti antimonopolistici e l’ideologia dello ‘sviluppo economico’ che investì l’intero continente, si concretizzarono in iniziative radicali che, come in Francia e in Inghilterra, portarono alla nazionalizzazione del settore. In Italia la discussione si ripropose in primo luogo nei termini di un maggiore coordinamento delle reti regionali e della difesa dello status quo, mentre il tema della nazionalizzazione rimase limitato al dibattito politico, senza cioè conseguenze sull’assetto tecnico e sull’organizzazione dei gruppi regionali di imprese. Il progetto di nazionalizzazione, per es., ebbe ancora meno spazio che nel primo dopoguerra, quando era stato avanzato dai socialisti; fu invece proposto di nuovo – rafforzandone il ruolo di coordinamento – il progetto di utilizzare l’intervento pubblico nella fase del trasporto per potenziare l’integrazione del sistema elettrico nazionale in modo da aumentare l’offerta di energia, della quale si lamentava la scarsità.
Il primo progetto fu avanzato dal ministro dei Lavori pubblici Giuseppe Romita (PSI), nel novembre 1946. Esso si basava sulla separazione delle fasi della produzione, della trasmissione e della distribuzione. Per quanto riguarda la produzione, prevedeva la riunione delle partecipazioni elettriche dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) in un’unica impresa pubblica, che avrebbe dovuto anche acquisire gli impianti della Terni sul Vomano, quelli della Larderello – seriamente danneggiati dalla guerra – e quelli della Società Medio Adige, che erano in fase di realizzazione. Per la trasmissione, prevedeva il passaggio a questa impresa pubblica della linea di trasporto ad alta tensione della Compagnia nazionale delle imprese elettriche (CONIEL), varata nel 1936, la cui costruzione era stata sospesa in seguito alla guerra. Infine, conteneva una significativa riforma al Testo Unico sulle acque pubbliche del 1933, al fine di realizzare un maggior controllo sui tempi e sulle dimensioni delle opere idriche e un programma di sovvenzioni per nuovi impianti da realizzare con la partecipazione pubblica. L’iniziativa di Romita non passò. Il CIR, ossia il comitato della ricostruzione, espresse il parere che si dovesse fare più affidamento sulla partecipazione dell’iniziativa privata per l’attuazione dei programmi di nuove costruzioni richieste dal fabbisogno energetico del Paese. Una revisione di questo progetto fu avanzata da Emilio Sereni (PCI), subentrato a Romita nel ministero dei Lavori pubblici, ma ebbe la stessa sorte.
Modelli d’interconnessione nel secondo dopoguerra
Come si è ricordato, il clima economico del secondo dopoguerra era dominato dall’ideologia dello sviluppo economico, che prevedeva un massiccio intervento per l’industrializzazione lungo le linee del modello americano, ossia basato sulle economie di scala consentite dai grandi impianti. Nel campo elettrico questo nuovo clima si espresse anche nel progetto di una grande rete europea per sfruttare importanti disponibilità energetiche, come quelle idriche delle Alpi e quelle minerarie dei bacini carboniferi dell’Europa centrale (giacimenti di lignite della Renania e della Sassonia) attraverso la costruzione di una grande rete (detta anche super-rete) europea a 380-400 kV.
Il progetto si rivelò del tutto incompatibile con la situazione dei differenti Paesi europei, ma servì a proporre in Italia iniziative di coordinamento dei sistemi elettrici diverse dalla nazionalizzazione, particolarmente attraenti per i gruppi elettrici privati italiani, i quali temevano quanto avvenuto in Francia e nel Regno Unito. La caratteristica saliente dell’industria elettrica americana era che il coordinamento delle reti veniva attuato mediante la cooperazione volontaria delle imprese, senza alcuna ingerenza da parte dello Stato. I sistemi di interconnessione americani si dividevano in due classi: la prima, prevedeva un collegamento stretto della rete (closely-knit) e un comando delle linee centralizzato (come per il gruppo Pennsylvania-New Jersey-Maryland Interconnection); la seconda, richiedeva invece un collegamento lasco delle reti (loosely-knit) e un comando delle linee decentrato (come il South Atlantic & Central Areas Group).
Queste ipotesi furono raccolte dalle imprese elettrocommerciali private italiane per affrontare due grosse questioni. In primo luogo, si profilava l’esaurimento delle risorse idrauliche industrialmente sfruttabili e cresceva di conseguenza la necessità di ricorrere alla generazione termica. In secondo luogo, anche il governo italiano preparò programmi di sviluppo elettrico sui fondi del piano Marshall e pose alle imprese elettrocommerciali il problema di come prendervi parte. In questa fase emersero due strategie differenti dei gruppi elettrici.
Per quanto riguarda la realizzazione delle reti, le imprese più dinamiche furono quelle appartenenti alla sfera pubblica dell’IRI, che vennero raccolte nel 1952 nella Finelettrica (SIP, Terni, Trentina di Elettricità, SME, Unione esercizi elettrici). Per il loro coordinamento fu costituito un Comitato elettrico pubbliche imprese (CEPI), con l’obiettivo di promuovere un’azione coordinata per il potenziamento della produzione e del trasporto dell’energia elettrica. In particolare, per il trasporto, l’azione dell’IRI si concretizzò nella realizzazione, nel 1953, della linea di trasporto Villavalle-Cornigliano (Genova), con la quale si rafforzarono gli scambi interregionali tra le società del gruppo. Si trattava di un assetto organizzativo simile al pool americano largo. Quest’ultimo, come si è visto, consisteva non solo nell’esercizio in comune delle centrali di produzione e delle reti di trasporto delle società appartenenti al pool (gestite come se fossero appartenute a una medesima impresa), ma anche nello studio e nella programmazione di nuovi impianti, ottimizzandone la localizzazione e la potenza non in relazione alle caratteristiche delle singole reti che lo componevano, ma in rapporto ai nodi di scambio di un sistema nazionale. Finelettrica si mosse lungo questa strada per tutti gli anni Cinquanta.
Più cauto fu l’atteggiamento delle imprese private che rimasero sostanzialmente ancorate al modello regionale (Edison, SADE, Società ADriatica di Elettricità, La Centrale). Per es., ancora nel 1959, questo insieme di imprese s’interrogava sull’opportunità del parallelo nazionale, tanto che il gruppo di lavoro del parallelo italiano, costituito da queste imprese per studiare l’argomento, giunse a conclusioni negative sull’opportunità di adottarlo. Il documento metteva in evidenza che non tutte le società disponevano di mezzi tecnici sufficienti a contribuire alla regolazione della potenza di scambio e molte erano in ritardo nell’installazione di impianti di regolazione automatica nei punti di interconnessione. Altre difficoltà segnalate dal documento riguardavano la definizione istituzionale del coordinamento. Per questo scopo era prevista solo la costituzione di un comitato per esaminare i piani regolatori delle reti e non di un organismo di coordinamento funzionante a livello nazionale. Per es., il presidente dell’ANIDEL (Associazione Nazionale Imprese produttrici Di Energia Elettrica), che raccoglieva le imprese elettriche private, e presidente della Edison, Vittorio De Biasi, si limitò a proporre di costruire centrali termoelettriche comuni nei nodi di scambio dei sistemi regionali, in modo da dividere opportunamente le economie di scala che le caratterizzavano tra le imprese partecipanti. Una prima sistemazione formale di questo modello di integrazione, che rimetteva alla libera contrattazione gli aspetti relativi alla gestione delle compensazioni, venne raggiunta dalla Edison, dalla SADE e da La Centrale nel dicembre 1960.
L’integrazione ‘stretta’: l’ENEL e il modello EDF
Fu solo l’ENEL (Ente Nazionale per l’Energia ELettrica), istituito con la l. 6 dic. 1962 che stabiliva la nazionalizzazione dell’industria elettrica italiana, ad attuare il coordinamento nazionale del servizio elettrico. Tutta l’attività dell’ENEL fu orientata al raggiungimento della piena integrazione del sistema elettrico nazionale attraverso il monopolio di ciasuna fase della produzione, della trasmissione e della distribuzione dell’energia, secondo il modello della francese EDF (Électricité de France). Il coordinamento fu affidato a un dispacciatore centrale che doveva assicurare le forniture di energia nelle migliori condizioni tecniche possibili, in ciascun momento e al prezzo di costo minimo, attraverso un’accorta scelta dei mezzi di produzione gestiti da centri regionali di ripartizione.
Per quanto riguarda gli impianti, nel primo decennio di attività l’ENEL procedette alla loro specializzazione – di base e di punta –, allargando l’offerta termoelettrica con grandi impianti destinati a coprire il carico di base e riconvertendo progressivamente alla fornitura di punta gli impianti idraulici a serbatoio. Sotto il profilo operativo, ogni giorno ciascun centro regionale prevedeva il carico regionale, la cui somma dava il carico nazionale. Parallelamente alla previsione del carico, ogni centro regionale ricavava da informazioni dirette la prevista disponibilità idroelettrica distinta per tipologia (fluente, stagionale, regolata), e la inoltrava al dispacciatore centrale. Su questa base il dispacciatore nazionale identificava quanta parte del diagramma di carico dovesse essere coperta da centrali termiche o acquistata da terzi. In questa configurazione i costi erano facilmente prevedibili su base tecnica, perché il dispacciatore conosceva le caratteristiche delle centrali e la loro posizione nella rete. L’ENEL realizzò il modello sopra descritto anche se, come si vedrà più avanti, al sistema integrato di produzione, trasmissione e distribuzione non si accompagnò il cambiamento del sistema tariffario – come avvenne in Francia –, che prevedeva di far corrispondere le tariffe ai costi istantanei della fornitura per i vari tipi di consumatori.
1980-2010: dall’integrazione tecnica alla competizione
Negli anni Ottanta si attenuò progressivamente l’attenzione per i sistemi integrati. All’origine di questo fenomeno vi furono vari fattori. In primo luogo, la crescita della sfiducia nei grandi sistemi e nelle economie di scala con loro realizzabili; la diminuzione dei tassi di crescita della domanda; il profilarsi di nuove tecnologie in grado di rendere più flessibile la produzione e più efficiente l’utilizzazione dell’energia. Si constatò la perdurante inefficacia della capacità di controllo dei costi e delle tariffe da parte del governo, anche in presenza di un’impresa pubblica monopolista. La proprietà pubblica continuava, infatti, a dipendere in modo cruciale dalle informazioni del management che poteva sfruttarle a fini opportunistici. L’attenzione dei regolatori si spostò pertanto dal perseguimento della massima integrazione degli impianti alla definizione di obiettivi generali di produttività, affidati all’iniziativa del management e sottoposti direttamente al controllo del mercato attraverso il pluralismo delle imprese, pubbliche e private.
In questo clima ideologico mutato, anche in Italia furono avanzate delle proposte di deregolazione e privatizzazione del sistema elettrico, che trovarono una prima formalizzazione nel documento della commissione Carpi (ministero dell’Industria, seduta del 28 gennaio 1997). Il progetto prevedeva uno schema generale che distingueva tra un mercato libero e uno vincolato, sulla base della scelta della fornitura e della tariffa. Nel mercato vincolato la tariffa era unica e il fornitore obbligato. Al mercato libero, che copriva in origine il 30% della domanda globale, era invece consentito l’accesso a fornitori diversi e la libertà di prezzo. Per accedervi era altresì necessario raggiungere una soglia di prelievo indicata in 5 GWh l’anno. A soddisfare la domanda dei clienti vincolati provvedeva invece un acquirente unico, che cedeva a sua volta l’energia ai distributori locali. L’acquisto e la vendita di energia per tutti e due i segmenti erano riservati al mercato elettrico all’ingrosso, affidato al gestore della rete di trasmissione e di dispacciamento. Il provvedimento prevedeva, infine, la liberalizzazione della produzione e il mantenimento della distribuzione in condizioni di monopolio, attraverso la formula della concessione di pubblico servizio, su base locale, con la dimensione minima di 300-500.000 utenti. Si trattava del ritorno, per la terza volta, dell’ipotesi della partizione per fasi, già avanzata senza successo nel 1918 e nel 1946, con l’importante differenza che in questo caso non c’era da costruire la rete di trasmissione. Tuttavia, il progetto prevedeva che il proprietario del dispacciatore fosse ancora pubblico, in via temporanea il Tesoro.
Il documento aveva una formulazione ancora piuttosto sommaria in punti importanti. Per es., non era definita la rete di trasmissione e i criteri per accedervi erano rimandati a un generico criterio di price cap. Un altro punto critico era rappresentato dall’acquirente unico che comprava e vendeva per i clienti vincolati. Questo soggetto era formalmente autonomo, ma la partecipazione del dispacciatore e del ministero dell’Industria ne faceva di fatto un soggetto interamente pubblico. L’acquirente unico doveva inoltre acquistare energia con contratti a lungo termine; in questo modo il mercato vincolato figurava come quello nel quale si formava un prezzo di riferimento, in contrasto con l’ipotesi della concorrenza tra produttori, che poteva provocare in questo mercato prezzi stabilmente più elevati di quelli del mercato libero.
Nuovi soggetti e nuove strategie si svilupparono in seguito a questa profonda innovazione nel modo di produrre, trasmettere e distribuire l’energia elettrica. Al centro ovviamente vi era l’ENEL, che doveva cedere una quota consistente degli impianti per favorire l’ingresso dei nuovi produttori, ma che voleva farlo senza ricorrere a meccanismi d’asta. Questi avrebbero probabilmente diminuito il valore di tali attività, come suggerisce il modo con il quale la stessa ENEL cedette alcuni impianti all’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi). Dall’altro lato, vi era il gruppo di coloro che entravano nel mercato direttamente: i venditori esteri, come l’EDF, che già vendeva energia all’ENEL, e i produttori privati (Edison, Sondel, Fiat, Sarlux, ISAB, ILVA, Rosen), che godevano di un trattamento tariffario favorevole per stimolare la presenza di nuovi soggetti.
Le tariffe elettriche
La teoria delle tariffe dalle origini alla Seconda guerra mondiale
Alle origini del settore elettrico, il tipo di tariffa maggiormente praticato dalle imprese elettrocommerciali era la cosiddetta tariffa binomia, o Hopkinson, dal nome del suo ideatore, introdotta in Inghilterra nel 1893 e diffusasi in tutti gli altri Paesi sul finire del 19° secolo. La sua struttura si basava su una quota fissa relativa alla potenza massima richiesta dall’utente, espressa in kW, e su una quota variabile, dipendente dal numero di kWh consumati. In altri termini, la tariffa Hopkinson, attraverso la quota fissa, assicurava alle imprese il recupero di tutti i costi di capacità e, mediante la quota energia, la copertura dei rimanenti costi variabili rispetto al numero di kWh prodotti. Dal punto di vista allocativo, un sistema di tariffazione così congegnato è efficiente quando la domanda di punta di ciascun utente coincide con la domanda di punta del sistema; questa era la situazione prevalente alla fine del 19° sec., quando la maggior parte degli utenti elettrici aveva simultaneamente il massimo del proprio consumo nelle ore serali, per illuminazione. In questo modo l’industria elettrica faceva pagare quanto le costava effettivamente apprestare la capacità produttiva per fare fronte ai carichi massimi individuali durante il picco di consumo del sistema.
Questi vantaggi allocativi si esaurirono nei primi decenni del secolo successivo, poiché la crescita degli utilizzi dell’energia elettrica (elettrodomestici, industriali, commerciali ecc.) pose fine alla coincidenza tra i picchi individuali e quello del sistema. Questa situazione stimolò la riflessione teorica. Il contributo che dette l’avvio alla nuova teoria tariffaria fu quello di Harold Hotelling, negli anni Trenta. Hotelling sosteneva che, per massimizzare il benessere sociale, tutti i beni e i servizi prodotti nel sistema economico dovevano essere offerti a prezzi pari ai rispettivi costi marginali. La regola del costo marginale poteva, tuttavia, causare disavanzi di gestione nei settori caratterizzati da economie di scala, come era quello elettrico. Per permettere in questi settori l’applicazione del prezzo eguale al costo marginale era necessario sussidiare le perdite di bilancio attraverso il ricorso alla tassazione generale. Dal punto di vista allocativo, però, i prelievi fiscali destinati alla copertura dei sussidi potevano a loro volta violare le condizioni per l’ottima allocazione delle risorse. Solo l’adozione di imposte di tipo lump sum (tributi in somma fissa) non avrebbe influito sul comportamento economico degli operatori, ma la loro applicazione era di fatto impraticabile nei sistemi fiscali concreti.
Inoltre, l’esistenza di un sistema di sussidi a favore di queste industrie poteva provocare effetti distorsivi nella distribuzione del reddito a beneficio di chi utilizzava il bene o servizio – per es., gli utenti più ricchi –, a danno di tutti i contribuenti. Di fronte a questi problemi la teoria economica formulò, in alternativa alla regola del costo marginale, tariffe di second best, secondo l’approccio elaborato da Frank P. Ramsey nel 1927. Queste tariffe partivano dalla necessità di non finanziare con trasferimenti pubblici le perdite subite dall’industria privata; l’idea era di massimizzare una funzione del benessere sociale – definita dalla somma dei surplus dei consumatori e dei produttori – con il vincolo di un profitto non negativo per l’industria, stabilendo delle tariffe divergenti dal costo marginale quanto più anelastica era la rispettiva domanda del servizio.
Le tariffe nei sistemi integrati
La crescita dell’integrazione dei sistemi elettrici nel secondo dopoguerra stimolò ancora la teoria economica a ricercare il modo di far corrispondere il costo marginale della fornitura alla tariffa per le utenze. Questa teoria delle tariffe elettriche poggia sull’esistenza di un assetto proprietario caratterizzato da un monopolista pubblico che ha piena conoscenza dei costi di produzione del sistema di impianti ed è in grado di rilevare istantaneamente la domanda di ciascun utente. A questo scopo è necessario disporre di tecniche assai sofisticate di calcolo, come la programmazione lineare, e di strumenti di misurazione dei consumi in grado di rilevarli in tempo reale. In questa direzione si mosse solo l’EDF, l’ente elettrico francese, che perseguì sistematicamente il disegno integrativo già a partire dalla metà degli anni Cinquanta.
Questa politica tariffaria – conosciuta sotto il nome di tarif vert – comportava una differenziazione di prezzo tra le diverse ore del giorno, tra le varie stagioni e tra le varie zone. Benché la tarif vert fosse, dal punto di vista strutturale, simile alle tariffe multiorarie utilizzate anche in Italia solo nei primi anni Ottanta, in realtà veniva ricavata in modo profondamente diverso da queste ultime. Le tariffe multiorarie dell’ENEL, infatti, non erano altro che prezzi medi calcolati sulla base della curva di carico determinata per ciascuna categoria di consumatori. La tarif vert, invece, era calcolata utilizzando un processo basato sulle tecniche della programmazione lineare.
Deregolazione e concorrenza: la tariffa price cap
Si è già brevemente descritto il contesto che dette luogo alla crisi del modello del sistema elettrico integrato. Il venire meno della strategia dell’integrazione allentò l’interesse della teoria tariffaria verso la ricerca della corrispondenza tra il costo marginale istantaneo di produzione e la tariffa per il consumatore. Ci si mosse piuttosto alla ricerca di formule semplificate in grado di trasferire all’utenza i vantaggi derivanti dalla concorrenza, dalla innovazione tecnologica e organizzativa. In questo contesto ebbe una certa fortuna la teoria del price cap. Nella sua forma più semplice, essa prevede che ciascun produttore di un pubblico servizio venga autorizzato per un periodo pluriennale – per es., un triennio – a far variare annualmente le proprie tariffe a un tasso medio pari a quello dell’indice generale dei prezzi al consumo, diminuito di un valore predeterminato, che rappresenta il tasso minimo di aumento della produttività che deve essere garantito dal gestore del servizio all’intera collettività.
Dal punto di vista macroeconomico, il price cap obbliga il produttore del servizio di pubblica utilità a una determinata crescita dell’efficienza, stabilita ex ante con le autorità di regolazione, e assicura, nel contempo, un decremento, in termini reali, delle tariffe per i consumatori. Dal punto di vista microeconomico, il price cap è di semplice applicazione per il produttore, in quanto non richiede da parte dell’autorità di regolazione la verifica ex ante, sistematica e puntuale dei dati economico-finanziari delle imprese, quali ammortamenti, allocazione dei costi congiunti, tassi di ritorno e così via. Inoltre, sempre sotto il profilo microeconomico, il produttore può godere dei profitti superiori al price cap se riesce a superare il tasso di crescita di produttività previsto. Questo criterio fu adottato per la prima volta in Inghilterra nel 1984 con la privatizzazione della British Telecom e fu in seguito esteso al settore del gas, a quello elettrico e a quello dell’acqua. In Australia e negli Stati Uniti questo meccanismo di regolazione trovò applicazione in primo luogo nelle telecomunicazioni.
In Italia, il problema fu affrontato per la prima volta dal CIP (Comitato Interministeriale Prezzi), in uno studio del 1991 sulle forme di regolazione dei prezzi. Lo studio constatava che il criterio correntemente adottato per stabilire le tariffe sulla base della copertura dei costi – detto cost plus – era caratterizzato da un grado insufficiente di incentive regulation e da istruttorie lunghe e complesse, che richiedevano l’analisi di una notevole quantità di dati, alcune volte desunti dal conto economico-finanziario dell’impresa, altre volte dalla contabilità industriale. Nella pratica, questa procedura aveva spesso finito per essere una semplice ratifica di costi ‘a piè di lista’ indicati dal management dell’impresa produttrice.
La proposta di price cap ipotizzata dallo stesso documento era, tuttavia, in potenziale contrasto con le intenzioni semplificatrici della teoria. Per es., il meccanismo adottato per stabilire la tariffa prevedeva che alla somma algebrica tra il tasso di variazione medio annuo – riferito ai dodici mesi precedenti – dei prezzi al consumo e il tasso di variazione annuale di produttività – fissato come obiettivo dall’autorità per un periodo almeno triennale – fossero da aggiungere diverse altre voci e parametri che avrebbero potuto far crescere il valore della componente produttività della tariffa.
La pratica delle tariffe in Italia
Si sono ricordati più volte i problemi posti alle tariffe elettriche dalle caratteristiche del prodotto elettrico: la domanda ha un ciclo giornaliero – caratterizzato cioè da periodi di domanda di base e di punta – e non è possibile immagazzinare il prodotto. Queste caratteristiche rendono difficile ripartire i costi di capacità tra gli utenti o, in altri termini, fissare i prezzi ottimali per l’utilizzo di una determinata capacità produttiva, come si è già visto sopra.
Nell’esperienza del sistema elettrico italiano non vi è traccia di questa discussione teorica né di tentativi di introdurre tariffe marginalistiche; in linea generale, il modello tariffario adottato in Italia è stato quello della tariffa binomia Hopkinson. Questa permanenza è giustificata, in primo luogo, dalla maggiore praticità delle tariffe binomie rispetto a quelle determinate secondo i principi marginalisti. Dal punto di vista amministrativo, le tariffe Hopkinson consentono di stabilire un chiaro rapporto tra i costi contabili delle imprese – tradizionalmente suddivisi secondo una triplice ripartizione: costi di potenza, costi di utenza e costi di energia – e le varie categorie dei consumatori domestici, commerciali, industriali e così via. Le imprese elettriche possono, sulla base delle caratteristiche di consumo accertate per ciascuna classe di tensione, stabilire il momento in cui avviene il prelievo e far pagare a ogni categoria di consumatori i costi sostenuti per soddisfarne la domanda. Inoltre, in un contesto prevalentemente idroelettrico, come è stato quello italiano fino alla nazionalizzazione, le tariffe Hopkinson permettevano contrattualmente la possibilità di razionare l’energia e la potenza impegnata in caso di stagioni siccitose, evitando il contenzioso tra imprese elettriche, utenti e concessionario pubblico che vi sarebbe stato in caso di tariffe marginali, per le quali non è prevista la possibilità di razionamento.
Le tariffe marginali presentano anche una serie di ostacoli di gestione amministrativa che ne rendono assai poco pratica l’adozione. I consumatori con domande di punta molto variabili, come sono, per es., le utenze meccaniche, richiedono un sistema di misurazione costoso, ovvero contatori continui che devono in ogni momento determinare il carico e il consumo dell’utente, cui deve corrispondere un costante adattamento delle tariffe, per la variabile domanda di punta, alle condizioni di costo del sistema.
La discriminazione tariffaria e il blocco delle tariffe
L’adozione del costo medio come criterio di base per la tariffazione ha favorito in Italia la pratica della discriminazione tariffaria, ossia il sussidio di certe utenze attraverso l’imposizione di sovrapprezzi su altre categorie di utenti. Nel periodo tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, per es., le imprese elettriche praticarono una discriminazione dei prezzi a favore dei settori siderurgici e chimici i cui processi produttivi impiegavano grossi quantitativi di energia elettrica.
Questa politica tariffaria dipendeva dalla natura dei costi di produzione dell’energia idraulica. I consumi elettrotermici, infatti, strutturalmente continui e caratterizzati da punte modeste, permettevano di saturare l’offerta idroelettrica con costi marginali pressoché nulli fintanto che venivano utilizzati i deflussi continui delle risorse idriche. Meno desiderabili erano, invece, per le imprese elettriche, le altre utenze industriali, come quelle meccaniche, caratterizzate da curve di carico molto frastagliate e discontinue e che richiedevano, nel caso della generazione idraulica, investimenti più elevati.
In queste condizioni, le società elettriche trovavano conveniente praticare prezzi di favore ai settori elettrochimici ed elettrometallurgici e coprire le perdite sostenute per questi consumatori attraverso le entrate tariffarie ottenute dagli utenti per forza motrice e per illuminazione. Le imprese elettrocommerciali giustificavano la discriminazione tariffaria a favore dei grandi utenti sulla base della ‘incidenza’ che l’energia elettrica aveva sui loro costi di produzione. Il costo dell’energia copriva il 70-80% dei costi di produzione di queste utenze che assicuravano anche circa il 60% della domanda complessiva di energia. Vendere l’energia era la priorità per saturare l’utilizzazione degli impianti. La differenza veniva compensata con tariffe più pesanti per le altre utenze, soprattutto quelle delle altre imprese manifatturiere (tessili e meccaniche in particolare) per le quali l’incidenza dell’energia sul costo del prodotto era però più bassa (15-20%) e quindi sostenibile in termini assoluti.
Il privilegio riconosciuto dalle società elettrocommerciali ai settori a elevato consumo di energia provocò più volte conflitti con le altre utenze industriali, soprattutto con il settore meccanico. Quest’ultimo, per es., cercò, nel corso degli anni Trenta, di passare all’autoproduzione approfittando della disponibilità di generatori diesel veloci, caratterizzati da spese d’impianto piuttosto modeste e combustibili a basso prezzo, come gli oli fluidi. Le imprese elettriche si opposero con successo a queste strategie facendo rispettare l’obbligo legale di acquistare l’energia dal distributore locale concessionario del servizio. Questo accentuò la discriminazione a svantaggio delle utenze non electric intensive, come avvenne in occasione della grande crisi del 1929 quando la riduzione della domanda globale spinse l’industria elettrica a ridurre i prezzi per questi utenti e, ancora, nel 1935, quando, in accordo alla politica autarchica del governo, di fronte all’aumentare della domanda da parte dello Stato in vista del secondo conflitto mondiale, le imprese elettriche seguirono delle vere e proprie politiche di razionamento dell’energia e praticarono prezzi di esclusione nei confronti delle utenze diverse da quelle elettrochimiche ed elettrometallurgiche.
La pratica della discriminazione tariffaria proseguì anche nel secondo dopoguerra per i motivi più vari: lo stimolo alla costruzione degli impianti nel 1953, la tariffa unica in grado di assicurare condizioni favorevoli alle regioni svantaggiate nel 1961, la tutela della cosiddetta fascia sociale dopo il 1974, le esenzioni dal sovrapprezzo termico negli anni Ottanta e le tariffe agevolate per diverse categorie di utenti. In linea generale, in questa fase, la discriminazione tariffaria operò in maniera opposta rispetto agli anni tra le due guerre, fu cioè a vantaggio dei consumatori domestici.
In Italia le prime iniziative di regolazione tariffaria nel campo della fornitura di energia elettrica furono prese nel contesto di misure di blocco generalizzato dei prezzi, adottate per motivi anti-inflazionistici eccezionali, ma che in realtà finirono per restare in vigore molto più a lungo di quanto previsto. Furono adottate in occasione delle due guerre mondiali, quando l’inflazione rese necessario un blocco generale dei prezzi e delle tariffe come accadde per la prima volta con il blocco tariffario introdotto con il r.d. l. 20 giugno 1915 nr. 890. Finita la guerra, il blocco delle tariffe elettriche fu confermato e rimosso soltanto progressivamente. Il secondo blocco venne introdotto con il r.d. l. 5 ottobre 1936 nr. 1746 e congelò la struttura delle tariffe fino al provvedimento di unificazione nazionale dell’agosto 1961, interrotto solo da misure di adeguamento monetario con un coefficiente unico. Lo stesso accadde nei primi anni Ottanta per attenuare la crescita dell’inflazione.
La politica economica: gli incentivi per i nuovi impianti e l’equità distributiva
Nel corso degli anni Cinquanta, alla politica tariffaria venne affidato anche il compito di promuovere l’aumento dell’offerta energetica. Per realizzare l’obiettivo venne istituita (provv. CIP 20 genn. 1953 nr. 348) la Cassa conguaglio per le tariffe elettriche, che aveva la funzione di sostenere le imprese elettriche impegnate nella costruzione di nuovi impianti, riconoscendo all’energia da questi prodotta un sussidio a integrazione delle entrate tariffarie correnti. In base a questo sistema, le imprese elettriche dovevano incassare dagli utenti con potenza superiore a 30 kW un sovrapprezzo variabile in base alla potenza impegnata nel contratto; questo sovrapprezzo doveva essere versato alla Cassa conguaglio, che a sua volta era incaricata di girare il contributo alle imprese elettriche.
Un altro obiettivo che caratterizzò l’azione regolativa pubblica sulle tariffe, fu quello di realizzare una maggiore equità distributiva dei prezzi dell’energia elettrica. Come si è già ricordato, la regolazione tariffaria che si ebbe in Italia durante il secondo dopoguerra, fino al provvedimento di unificazione nazionale delle tariffe (provv. CIP 29 ag. 1961 nr. 941), si basava sul mantenimento del blocco dei prezzi del 1936, che aveva congelato le differenze territoriali di prezzo esistenti al momento della sua entrata in vigore. La struttura delle tariffe agli inizi degli anni Cinquanta presentava, dunque, prezzi di fornitura più alti per le regioni meridionali del Paese, a causa del minore consumo di energia di quelle zone e della maggiore incidenza dei costi di trasporto e di distribuzione, poiché la produzione era prevalentemente concentrata nell’Italia settentrionale.
Questa situazione era incoerente con il clima politico prevalente a quell’epoca, che era caratterizzato dalla volontà pressoché unanime di allargare l’industrializzazione alle regioni meridionali. Tutti i partiti indicavano nell’alto costo dell’energia il principale ostacolo allo sviluppo industriale di queste regioni e concordavano sull’opportunità di porle in condizioni di partenza eguali a quelle già sviluppate, nel caso dell’energia, assicurando prezzi uguali in tutto il territorio nazionale. Detto in un gergo più tecnico, si voleva garantire la neutralità delle tariffe elettriche assicurando a tutti i consumatori del Paese le stesse condizioni di partenza nell’uso dell’energia elettrica senza alterarne le relative scelte di consumo e di produzione. Questo obiettivo andava realizzato trasferendo una parte del costo dell’energia erogata nelle zone depresse a carico di quella distribuita nelle zone industrializzate.
In generale, si può affermare che alla vigilia dell’unificazione nazionale dei prezzi dell’energia elettrica la struttura tariffaria rimaneva ancora legata alle condizioni del mercato esistenti al momento dell’entrata in vigore del blocco del 1936. D’altronde, le molte speranze che erano riposte nel provvedimento di unificazione andarono deluse. Le modalità di attuazione dell’unificazione tariffaria ebbero, infatti, una sostanziale continuità con la regolazione precedente. Come si spiegherà più avanti, nella determinazione dei livelli tariffari unificati mancò ogni riferimento a criteri di costo effettivo e si rinunciò, di fatto, all’adozione di un qualsiasi meccanismo che collegasse l’andamento delle tariffe agli investimenti delle imprese.
La ‘fascia sociale’
L’analisi della dinamica delle tariffe elettriche nel quindicennio successivo all’unificazione pone in evidenza una sostanziale stabilità dei prezzi che non trova eguali negli altri Paesi europei. Per tutti gli anni Sessanta e fino alla prima metà degli anni Settanta, le autorità di governo attuarono un vero e proprio blocco dei prezzi ai valori unificati del 1961, in funzione antinflazionistica. Anzi, in questo periodo il livello delle tariffe, per certe classi di utenza, venne ulteriormente ribassato grazie alla concessione di alcune importanti agevolazioni tariffarie. Il blocco delle tariffe elettriche fu eliminato nel 1974 a seguito del primo shock petrolifero. Le forti tensioni inflazionistiche originate dalla quadruplicazione del prezzo del petrolio imposero, infatti, un profondo mutamento dei prezzi dell’energia elettrica, per la cui produzione il petrolio rappresentava una voce importante di costo.
Per quanto riguardava le tariffe, il CIP (provv. 6 luglio 1974 nr. 34), introdusse un considerevole aumento del loro livello medio – la variazione sfiorò il 22% – e mise in atto anche un drastico cambiamento della loro struttura. In primo luogo, si eliminò la separazione tra tariffe luce ed elettrodomestici. Ma, in secondo luogo, per proteggere i redditi più bassi, si introdusse per l’utenza domestica, la cosiddetta fascia sociale, finanziata dagli incrementi tariffari posti a carico sia degli altri utenti domestici caratterizzati da consumi più elevati sia dell’utenza industriale sopra i 30 kW. Questa fascia sociale era caratterizzata da condizioni di prezzo estremamente favorevoli e, a causa della tradizionale struttura dei redditi degli italiani, concentrati per la gran parte negli scaglioni bassi, arrivò a coprire, nel 1978, il 95% dell’utenza domestica. La fascia sociale provocò anche distorsioni allocative. L’introduzione di elementi di progressività dei prezzi si scontrava con l’andamento del costo unitario del kWh, che è, per sua natura, decrescente. Inoltre, la tariffa sociale determinava una scorretta informazione al consumatore distorcendone l’allocazione delle risorse.
Il sovrapprezzo termico
Il provvedimento CIP nr. 34/1974, introdusse, oltre alla fascia sociale, un altro importante mutamento nelle tariffe. Questa novità era rappresentata dall’istituzione del cosiddetto sovrapprezzo termico, che aveva lo scopo di proteggere il conto economico dell’ente elettrico dai rincari dell’olio combustibile. Il meccanismo del sovrapprezzo termico fu accolto da molte critiche. Secondo alcuni alterava i rapporti di convenienza economica esistenti tra le diverse fonti primarie impiegate nella produzione di energia elettrica. In altri termini, il sovrapprezzo termico, producendo il congelamento ai livelli del 1973 dei costi sostenuti dalle imprese elettriche per la produzione termoelettrica convenzionale, perpetuava la convenienza delle medesime a fronteggiare qualsiasi incremento della domanda energetica con gli stessi mezzi di produzione piuttosto che con alternative tecnologie di produzione, come, per es., gli impianti nucleari o geotermici. Secondo altri, invece, l’istituzione del sovrapprezzo termico al posto di un aumento generalizzato delle tariffe avrebbe permesso di evitare rendite di posizione per le imprese che avevano una produzione idroelettrica – in particolare le imprese municipalizzate –, le quali non avevano subito grosse variazioni nei rispettivi costi aziendali, così come per le imprese soltanto distributrici.
Le istituzioni della regolazione come servizio pubblico
Agenzie di regolazione e ordinamento costituzionale e amministrativo
Fino al 1962 il sistema elettrico italiano venne regolato come servizio pubblico esclusivamente attraverso le tariffe, senza indicare cioè ulteriori requisiti di domanda da soddisfare, di copertura territoriale o di qualità del servizio. Perfino l’obbligo di fornitura, previsto dalla natura di concessione pubblica del servizio, era stato largamente disatteso dalle imprese elettrocommerciali. In seguito, tutti questi obiettivi furono raggiunti attraverso la legislazione relativa all’ente nazionalizzato incaricato di fornire l’energia elettrica e ai relativi enti di gestione di queste misure. La storia degli organi pubblici preposti al controllo delle tariffe elettriche parte dal blocco dei prezzi del 1936. Fu, infatti, nell’ambito di quella regolazione che venne istituito il primo organismo amministrativo, denominato Comitato corporativo centrale (introdotto con il d.d.l. 19 genn. 1939 nr. 486), con la funzione di fissare i prezzi massimi di vendita per qualsiasi merce o servizio.
Dopo la guerra vennero costituiti altri organi, il già citato CIP al posto del Comitato corporativo centrale e, a livello periferico, i CPP (Comitati Provinciali dei Prezzi); e le Casse conguaglio prezzi. Sebbene le norme fossero state originariamente emanate per controllare la situazione di emergenza postbellica, il controllo discrezionale dello Stato sui prezzi e sulle tariffe fu mantenuto anche dopo il ritorno alla normalità economica. La disciplina dei prezzi era considerata uno strumento utile di politica economica e ne rappresentò una pratica corrente fino agli anni Ottanta. Per es., sul finire degli anni Sessanta, la regolazione pubblica dei prezzi fu utilizzata come uno strumento per l’attuazione della ‘programmazione economica’.
Il CIP rappresentava l’organo principale nel controllo amministrativo dei prezzi e delle tariffe; erano di sua competenza sia la determinazione dei prezzi di qualsiasi merce in ogni fase di scambio, compresi i prezzi dei servizi e delle prestazioni, sia la facoltà di promuovere i provvedimenti intesi a regolare l’approvvigionamento e la distribuzione delle merci di maggior consumo. Per lo svolgimento della propria attività, il CIP poteva avvalersi della collaborazione di altri enti. Tra questi, quello più importante era la CCP (Commissione Centrale Prezzi), composta dai rappresentanti dei sindacati, dei consumatori e degli industriali, che era incaricata di svolgere le istruttorie. Le indagini sui costi dei prodotti e dei servizi potevano anche essere svolte in proprio dal CIP attraverso la nomina di ispettori da parte del presidente del CIP, scelti anche tra persone estranee alla Pubblica amministrazione, purché fornite di particolari competenze. Gli ispettori potevano prendere in esame registri, libri e corrispondenze delle imprese interessate agli accertamenti e potevano richiedere alle stesse tutti quei dati, elementi e documenti ritenuti utili per l’espletamento della propria funzione (art. 13 d.l. C.p.S. nr. 896/1947).
L’altro organo cardine del sistema di regolazione dei prezzi e delle tariffe fu il CIPE (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica), istituito con la l. 27 febbr. 1967 nr. 48, che aveva lo scopo di coordinare l’azione dei vari centri amministrativi preposti all’attuazione della politica economica del governo. La politica d’incentivazione finanziaria era esplosa tra gli anni Cinquanta e Sessanta determinando la polverizzazione degli apparati di gestione a seguito della creazione sia di comitati interministeriali a livello prevalentemente amministrativo sia di nuovi enti pubblici, come, per es., la Cassa per il Mezzogiorno. Nell’ambito di questa cornice istituzionale anche il sistema regolativo dei prezzi fu trasformato in uno strumento per l’attuazione della programmazione economica.
L’esperienza di questi organismi è esemplare delle difficoltà di articolare i rapporti tra istituzioni costituite a scopo economico regolativo o programmatorio e l’ordinamento, sia costituzionale sia amministrativo. Il CIP, per es., venne più volte accusato di comportamenti anticostituzionali. Come organo preposto alla disciplina dei prezzi godeva, infatti, di una serie di poteri che poco si conciliava con il principio costituzionale della libertà di iniziativa privata. Come è noto, la Costituzione tutela la libertà di iniziativa privata (1° comma dell’art. 41) e stabilisce che sia solo il Parlamento a determinare i programmi e i controlli opportuni affinché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali (3° comma dell’art. 41). Ebbene, già nel 1957, cioè nel primo anno di vita della Corte costituzionale, furono discusse questioni di legittimità costituzionale della disciplina pubblica dei prezzi. Per es., con la sentenza nr. 103 dell’8 luglio 1957 la Corte escluse che il CIP fosse un organo incostituzionale, ma, per arrivare a queste conclusioni, ne dovette fissare i lineamenti istituzionali classificandolo come un organismo tecnico-amministrativo. A tale scopo era necessario che le sue procedure fossero conformi a quelle di tutti i procedimenti amministrativi, ovvero che il processo di formazione dei prezzi amministrati prevedesse le fasi tipiche di ogni atto amministrativo: l’iniziativa, l’istruttoria e la deliberazione.
Portato entro questi confini, il CIP incappò più volte nella questione di come definire amministrativamente alcuni termini economici, come la remuneratività del prezzo stabilito dall’istruttoria, per la quale non esistevano definizioni tecniche o regole quantitative, ma solo riferimenti qualitativi relativi alla tutela della proprietà, e come la definizione di ‘giusto profitto’. Altri problemi vennero dalla definizione delle procedure da osservare nell’istruttoria. La Commissione centrale prezzi, per es., aveva la facoltà di avanzare proposte al CIP e di compiere l’attività istruttoria eventualmente a essa delegata dall’organo centrale. Essa poteva accertare i costi dei prodotti e dei servizi utilizzando gli ispettori nominati dal presidente del CIP, oppure chiedendo a qualsiasi ufficio statale indagini, accertamenti o rilievi. Questi vuoti procedurali erano del tutto inaccettabili per la giurisprudenza amministrativa, che richiedeva a ogni organismo pubblico di corrispondere in maniera omogenea ai criteri amministrativi correnti che prevedevano, come già ricordato, una definita organizzazione e una sequenza ben articolata degli atti finalizzati all’emanazione di provvedimenti.
Riassumendo, si può affermare che la definizione del CIP come organismo amministrativo spostò rapidamente l’attenzione della regolazione dei prezzi dal piano della tutela dei consumatori e della politica economica a quello del rispetto formale delle procedure previste dalla dottrina per un qualsiasi procedimento amministrativo. Un altro esempio di questa duplice difficoltà di essere un organo tecnico di gestione della politica economica che agisce entro i vincoli operativi di un organo amministrativo è l’esperienza della Cassa conguaglio delle tariffe elettriche, che, come si è visto sopra, era incaricata di raccogliere e redistribuire i fondi destinati al finanziamento dei nuovi impianti.
La formula della Cassa conguaglio fu introdotta per la prima volta nel settore elettrico nel 1946 attraverso il Fondo conguaglio sovrapprezzo energia termoelettrica Italia centrale e il Fondo conguaglio sovrapprezzo energia termoelettrica Italia settentrionale, che furono unificati, l’anno successivo, nel Fondo conguaglio sovrapprezzo termoelettrico, delle imprese termoelettriche di tutta Italia. Sei anni dopo fu istituita la Cassa conguaglio per le tariffe elettriche. I punti critici di questo organismo erano due. Il primo era rappresentato dalla dipendenza pressoché totale dalle informazioni delle imprese private cui doveva erogare i contributi; il secondo, dalla formula adottata per il comitato di gestione, che aveva importanti poteri di decisione e di controllo. Nel comitato di gestione, oltre ai rappresentanti del ministero delle Finanze, del ministero del Tesoro, del ministero dei Lavori pubblici, del ministero dell’Industria e Commercio e della Segreteria generale del CIP, sedevano anche importanti personalità della Confindustria e delle maggiori società produttrici e distributrici di energia elettrica.
La possibilità della ‘cattura’ del regolatore da parte dei ‘regolati’ era di fatto istituzionalizzata, favorendo comportamenti opportunistici e collusione tra le imprese regolate e gli organismi pubblici di controllo. In questo modo le imprese elettriche potevano essere ammesse in maniera quasi automatica all’integrazione, nonostante la complessità formale delle procedure previste per l’erogazione dei fondi. Un caso esemplare, a tale proposito, riguarda gli ampliamenti degli impianti di produzione; con questo sistema le società elettriche potevano far passare come energia di nuova produzione anche quella di impianti da considerarsi vecchi, in base alle intenzioni dei provvedimenti del CIP. Un esempio indicativo di questa pratica fu quello dello scorporo dalla Edison della Edisonvolta (1955); tale operazione inserì la capogruppo nell’ambito della categoria degli autoproduttori, mentre l’Edisonvolta continuò a operare come impresa elettrocommerciale. Alcuni grandi impianti vennero trasferiti ad aziende industriali di proprietà Edison, facendole diventare autoproduttrici di energia e come tali esenti dai sovrapprezzi: la Secedison, la Società industriale dell’Oglio e la Società industriale del Noce.
La liberalizzazione del mercato e l’agenzia di regolazione
Come già osservato, a partire dalla metà degli anni Settanta vennero meno diverse condizioni favorevoli alla gestione unitaria integrata dei sistemi elettrici, rafforzate da nuove norme comunitarie europee che imponevano la privatizzazione di questi servizi e il passaggio dalla proprietà pubblica alla semplice regolazione. Queste linee furono recepite anche in Italia (l. 14 nov. 1995 nr. 481) attraverso la liberalizzazione del mercato elettrico e la costituzione di un’Autorità.
La svolta nella concezione stessa del sistema elettrico si basava su due cardini: un rilevante cambiamento delle tecniche di produzione dell’energia elettrica e della sua misurazione e controllo, e un nuovo paradigma teorico. Il cambiamento tecnico rese meno rilevanti le economie di scala dei grandi impianti per la scelta di investire nel settore, poiché la taglia minima efficiente dei nuovi impianti a ciclo combinato o a turbogas era molto più piccola di quella degli impianti tradizionali, in quanto più efficiente nel processo di trasformazione da energia calorica a energia elettrica. Le tecnologie automatiche dell’informazione avevano altresì reso più facili il monitoraggio dei consumi e la gestione del carico, e in tal modo era divenuto tecnicamente possibile e conveniente misurare il costo istantaneo dei consumi. Il nuovo paradigma teorico si basava, invece, sulla critica radicale alla dottrina del monopolio naturale, che era stata alla base delle nazionalizzazioni in Gran Bretagna, Francia e Italia.
Nei primi anni Ottanta, la teoria economica produsse una serie di contributi teorici sul funzionamento dei sistemi a rete che mise in discussione la visione convenzionale della loro regolazione attraverso la proprietà pubblica monopolistica. Per es., Jean-J. Laffont e Jean Tirole (1986) introdussero la considerazione delle asimmetrie informative tra il regolatore e le imprese regolate indipendentemente dalla forma della proprietà. William J. Baumol (1982), a sua volta, sviluppò una nuova teoria della regolazione dei servizi a rete a partire dalla teoria della contendibilità dei mercati. Questa teoria affermava che non era tanto la proprietà pubblica del settore a essere la soluzione del problema del monopolio, quanto la contendibilità dei mercati, rappresentata dalla possibilità di accesso di nuove imprese, soprattutto nel settore della produzione.
In conseguenza di questo mutato contesto tecnologico ed economico fu intrapreso progressivamente e a scala globale un esteso processo di privatizzazione e di liberalizzazione del settore. Questa nuova visione del funzionamento e della regolazione dei sistemi a rete fu adottata in Italia più tardi che negli altri Paesi europei. In Gran Bretagna, la England & Wales electricity poll fu creata nel 1991. In seguito, la pratica si diffuse anche in altri mercati europei: Norvegia, Finlandia, Danimarca, Austria, Francia, Germania, Paesi Bassi e Spagna.
In Italia, nel 1995, fu istituita l’Autorità per l’energia elettrica e il gas e si cominciò a liberalizzare il mercato attraverso la vendita di parte degli impianti di produzione del monopolista pubblico ENEL (1999) – che possedeva il 65% dei consumi e la quasi totalità della rete di trasmissione e distribuzione – e la nascita di enti intermedi per la commercializzazione dell’energia nelle diverse fasi della produzione, trasmissione, distribuzione dell’energia elettrica. Il processo di liberalizzazione fu piuttosto lungo e il mercato elettrico cominciò a operare soltanto nel 2004.
Inizialmente tutte le attività erano riservate allo Stato attraverso una società concessionaria, il Gestore della rete di trasmissione nazionale (GRTN), che, a sua volta, controllava due società, l’Acquirente unico, che aveva lo scopo di garantire l’offerta, la gestione e i contratti, e il Gestore del mercato elettrico, che doveva gestire il mercato attraverso la Borsa elettrica. In queste prime fasi si trattò di un semplice mercato dove soltanto i produttori erano ammessi allo scambio; la domanda era rappresentata dal GRTN e soltanto gli acquirenti maggiori potevano operare su base bilaterale. Nel 2005 il mercato elettrico cominciò a operare pienamente, mentre il GRTN venne suddiviso in due società: Terna, che gestiva il mercato attraverso la rete di trasmissione, e il Gestore dei servizi elettrici (GSE), che operava prevalentemente nel campo delle fonti rinnovabili. Il coordinamento dell’offerta e della domanda venne affidato a un mercato spot (GME, Gestore dei Mercati Energetici) secondo un ordine di merito: prezzi di offerta crescenti e prezzi d’asta decrescenti. I prezzi di equilibrio erano stabiliti attraverso le curve di domanda e offerta standard. Le eventuali congestioni nella trasmissione venivano gestite dall’operatore della rete al minimo costo possibile in una forma basata su meccanismi di mercato.
A regolare questo mercato fu delegata l’Autorità per il gas e l’elettricità. Questi compiti erano definiti in termini assai ampi e, proprio per questo, essa apparve immediatamente esposta ai medesimi problemi di coerenza con i principi dell’ordinamento amministrativo incontrati dal CIP e dalla Cassa conguaglio, per quanto riguarda le procedure di organizzazione e la sequenza degli atti finalizzati all’emanazione di provvedimenti. Per aggirare il problema, il testo che la istituiva suggeriva una forma di governo istituzionale, piuttosto che tecnico-amministrativa, ma altre parti della stessa legge sembravano riproporre la natura amministrativa dell’organismo, aumentando la confusione. Per es., tutti i provvedimenti irrogati dall’Autorità potevano essere impugnati presso il Tribunale amministrativo competente.
In seguito a questa profonda trasformazione del settore elettrico si è effettivamente creato sia un mercato all’ingrosso sia un mercato al dettaglio dell’energia elettrica, compreso il mercato dei consumatori domestici di energia elettrica, aperto nel luglio 2007.
A un primo sguardo, il processo di liberalizzazione del mercato elettrico italiano appare addirittura più competitivo rispetto a quello di altre esperienze europee: per es., la Francia non ha ridotto il monopolio di EDF e la Germania è molto indietro nel processo di separazione delle reti e nella definizione di tariffe di accesso non discriminatorie. Le imprese operanti in Italia sono più numerose che nel resto dell’Europa. Tuttavia, questo maggior numero di imprese non sembra che abbia dato luogo a una maggiore concorrenza. La gran parte delle ricerche condotte nel corso dell’ultimo decennio sullo stato della privatizzazione del settore elettrico in Italia mette infatti in evidenza come le tariffe non siano scese nel modo sperato e come i vantaggi di produttività realizzati abbiano fatto aumentare le rendite delle imprese interessate senza rilevanti trasferimenti ai consumatori. La stessa letteratura indica nella proprietà prevalentemente pubblica – governo o enti locali – la causa principale di questo risultato insoddisfacente per i consumatori, derivante da un generale atteggiamento collusivo tra le imprese. Per es., l’ENEL ha fortemente accresciuto la produzione per addetto grazie a una drastica riduzione del personale che non si è peraltro riflessa in una riduzione delle tariffe alle utenze, ma in un aumento dei profitti pubblici distribuiti all’azionista di maggioranza, ossia il governo.
Il modello italiano di mercato elettrico appare dunque, a quindici anni dalla sua promozione, come una combinazione di modelli piuttosto che il frutto di una scelta strategica ben definita. Si osserva un’apparente maggiore concorrenza rispetto ad altri casi nazionali dell’Europa continentale, ma vi è ancora un’impresa dominante come l’ENEL. La sua proprietà è ancora prevalentemente pubblica, ma si comporta come un azionista privato quanto alla ricerca di posizioni di rendita. Si osserva una rilevante apertura formale al mercato e alla concorrenza, ma permangono estese forme di sussidio incrociate tra categorie di consumatori attraverso una serie di condizioni speciali, privilegi ed esenzioni. Infine, la tutela dei ‘campioni nazionali’ è accompagnata da un’apertura del mercato alle imprese estere che non si osserva, per es., in Francia, Germania e Spagna.
Conclusioni
Come si può ricavare da questa trattazione, accanto alla periodizzazione per fasi – valida per ogni sistema elettrico – che conferma la validità dello schema hughesiano del momentum o della ‘traiettoria tecnologica’ quale forma di evoluzione dei sistemi elettrici, sono molto importanti le caratteristiche locali e il percorso storico di ciascuna esperienza per comprendere le forme di ‘chiusura’ e i cambi di fase.
I cambiamenti di fase, in Italia, mostrano una notevole originalità. Per es., la terza fase, quella dell’integrazione, fu molto più lenta ad affermarsi rispetto ad altre esperienze per il perdurante conflitto tra gruppi finanziari e culture di impresa, anche se uno di questi gruppi era formalmente cambiato, da privato a pubblico (da SIP a Finelettrica). Ma quando la fase decollò, dopo la nazionalizzazione, lo fece con grande energia e verso un modello d’integrazione stretta rimasto fin lì del tutto minoritario rispetto alla tradizione tecnica e gestionale precedente.
Se si esclude questa fase, le forme della chiusura risultano invece fortemente caratterizzate dalla continuità. Gli innovatori vengono in genere ‘catturati’ dalle strutture istituzionali precedenti. Per es., tutte le agenzie costituite negli anni Cinquanta, per regolare i prezzi o controllare la corrispondenza tra obiettivi programmatici e comportamenti delle imprese, sono rimaste impigliate in un ordinamento amministrativo che le ha integrate in un ‘sistema negoziale’ il quale non fa che moltiplicare il numero degli attori istituzionali, peraltro sempre esposti alle sorprese delle procedure amministrative.
Il sistema di regolazione si è venuto costruendo per strati successivi, dove filosofie del servizio pubblico (agli inizi del Novecento) convivono con strategie antimonopolistiche (negli anni Cinquanta) e con quelle basate sulla liberalizzazione dell’entrata nel settore (anni Ottanta). Nello stesso tempo, la varietà di strumenti operativi messa in atto – comitati prezzi, casse conguaglio ecc. – non è stata mai integrata in un ordinamento che ne recepisse gli scopi economico-regolativi di agenzia. Ciò ha aperto la strada a un contenzioso continuo con gli organi amministrativi e talvolta anche costituzionali dello Stato. Da un lato, questa situazione ha ridotto l’efficacia delle agenzie, costringendole nei panni della Pubblica amministrazione e delle sue procedure; dall’altro, ha assicurato alle imprese ampi spazi per sfuggire ai controlli o per condizionarli, privando le agenzie dei necessari strumenti di accertamento.
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