Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Sessantotto è il primo fenomeno generazionale di massa del dopoguerra. Coinvolge quasi tutte le nazioni occidentali e dispiega la sua influenza anche sui movimenti di dissenso dell’Europa orientale, attraversa i due emisferi e si presenta come un fenomeno globale dell’età contemporanea. Accomunate da una generale protesta nei confronti del sistema dell’istruzione scolastica e universitaria che si estende gradualmente ad altre tematiche, le agitazioni del Sessantotto promuovono un modello di partecipazione politica del tutto innovativo, che incide in modo durevole sulle consuetudini e sulla mentalità della società novecentesca.
Il maggio francese
Herbert Marcuse
L’uomo a una dimensione
Bertolt Brecht osservava che viviamo in un tempo in cui parlare di un albero sembra un delitto, e da allora le cose sono peggiorate. Oggi sembra un crimine il solo parlare di cambiamenti, mentre la società si sta trasformando in un’istituzione di violenza, e in Asia sta compiendosi il genocidio iniziato con l’eliminazione degli indiani d’America. Il semplice potere di questa brutalità non è forse invulnerabile alle parole, pronunciate o scritte, che lo mettono sotto accusa? E le parole dirette contro chi pratica questo potere non sono forse le stesse che vengono usate in sua difesa? Vi è un livello a cui sembra giustificata anche l’azione assurda: l’azione infatti colpisce, anche se solo per un momento, l’universo chiuso dell’oppressione. Il sistema ha in sé il meccanismo dell’escalation e se non la si ferma in tempo essa accelera la controrivoluzione.
[...] Il risultato della lotta dipenderà in larga misura dalla capacità dei giovani, non di integrarsi né di escludersi dalla società, ma di imparare a ricomporsi dopo la sconfitta, a sviluppare una nuova razionalità insieme con la nuova sensibilità, a reggere il lungo processo educativo - indispensabile condizione per il passaggio a un’azione politica di vasta portata. La prossima rivoluzione terrà infatti occupate generazioni e generazioni, e la “crisi finale del capitalismo” potrà durare anche un secolo.
C. Bordoni e A. De Paz, La critica della società nel pensiero contemporaneo, Messina - Firenze, G. D’Anna Editrice, 1984
Il movimento di protesta sviluppatosi a partire dal 1968 (anno da cui prende il nome, semplificativamente rispetto a un arco cronologico più ampio) si caratterizza per l’intensità del suo svolgimento, per la capacità di propagazione al di fuori dei confini nazionali, per la marcata connotazione giovanile e infine per le sue ricadute sul terreno del costume e della mentalità.
Un evento storico di così ampio respiro non ha un unico punto di origine. Convenzionalmente il suo nucleo è costituito dagli avvenimenti del maggio francese, nel ricordo della più significativa protesta universitaria di quell’anno. Altri avvenimenti potrebbero contendere il primato a quello francese, sulla base del punto di vista prescelto nella ricostruzione del quadro generale. La caratteristica del maggio francese è rappresentata dalla partecipazione di molti settori della società alle proteste studentesche, in un meccanismo di agitazioni a catena che nel giro di poche settimane riesce a paralizzare i processi decisionali di uno degli Stati più moderni dell’Occidente. Lo sgombero dell’università a opera della polizia, chiamata a intervenire il 3 maggio 1968 dal rettore della Sorbona, avvia una lunga serie di scontri tra le forze dell’ordine e gli studenti. Al fianco degli studenti scendono subito in piazza i lavoratori dell’industria e diverse categorie del pubblico impiego, oltre a esponenti del mondo dell’informazione e della cultura. La protesta allarga così i suoi obiettivi dall’università a una contestazione più radicale del sistema di potere gaullista e della stessa società dei consumi occidentale. Il caso francese propone dunque diversi elementi di una miscela potenzialmente esplosiva: una serpeggiante insoddisfazione giovanile che si scontra con l’arretratezza di un sistema dell’istruzione concepito per le élite e divenuto gradualmente di massa; la rapidità di mobilitazione del mondo del lavoro; la scarsa capacità di ricambio del potere politico, dominato ancora dalla figura del generale de Gaulle; un appannamento dei valori di riferimento della società occidentale.
Un fenomeno di contestazione globale
Questi stessi connotati, con alcune varianti derivanti da singole specificità nazionali, si ritrovano nei movimenti di protesta dei principali Paesi europei. Gli elementi di fondo che accomunano il caso francese ad altri scenari conferiscono al Sessantotto i contorni di un fenomeno di contestazione globale. Anche nelle altre nazioni a economia avanzata il 1968 è l’anno della protesta studentesca, con un sostegno più o meno attivo da parte del proletariato industriale e di altre categorie del mondo del lavoro. In Italia, dove la fusione tra studenti e sindacato è più stretta, la protesta sposta gradualmente il proprio obiettivo dal tema dell’istruzione a quello del lavoro di fabbrica, a partire dagli scioperi dell’autunno caldo del 1969. L’inquietudine degli studenti ha in effetti un retroterra comune nella situazione economica. La lunga fase di sviluppo dell’economia occidentale, avviata nel 1950, sta per concludere il suo ciclo e già si avvertono le prime difficoltà legate all’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro, aggravate anche dagli effetti di un incremento demografico senza precedenti. Di lì a qualche anno, nel 1973, la crisi petrolifera avrebbe avviato una fase di recessione e il tramonto dell’illusione di uno sviluppo illimitato. Volendo tracciare dei confini temporali, il movimento del Sessantotto può essere collocato tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio della crisi economica, nel periodo appunto di transizione tra il ciclo di espansione e quello di recessione.
In realtà la crisi politica precede quella economica e ne anticipa gli effetti traumatici, ed è una crisi che coinvolge in eguale misura le classi dirigenti e i loro modelli di riferimento. L’evento che mette a nudo l’instabilità degli equilibri del dopoguerra è collegato alla guerra del Vietnam, dove gli Stati Uniti si dimostrano incapaci di piegare la resistenza della guerriglia dell’esercito nord-vietnamita, che proprio nel 1968 avvia una controffensiva seguita con simpatia dai movimenti giovanili americani ed europei. Agli occhi di strati sempre più ampi dell’opinione pubblica, l’Occidente non rappresenta più un valore da esportare, bensì un disvalore inquinato dal ricorso alla sopraffazione militare e dagli eccessi della società dei consumi. Alla demistificazione dell’ideologia consumistica contribuiscono alcuni esponenti della cultura europea, tra i quali Herbert Marcuse (1898-1979) e il suo L’uomo a una dimensione (del 1964), le analisi della scuola di Francoforte – Minima moralia di Theodor W. Adorno (1903-1969), accolto quasi con indifferenza negli anni Cinquanta, diventa uno dei testi di riferimento della generazione del Sessantotto – e gli scritti, ma ancor di più le prese di posizione di intellettuali impegnati come Jean-Paul Sartre (1905-1980).
La contestazione giovanile ha però radici politiche piuttosto che culturali, con presupposti che affondano nello scenario internazionale. La breve stagione della distensione si è conclusa nel 1963 con la scomparsa del presidente americano John Fitzgerald Kennedy (1917-1963). La ripresa del confronto tra le due superpotenze, di cui la recrudescenza del conflitto indocinese costituisce un capitolo centrale, si accompagna così a una crisi del consenso che attraversa nel Sessantotto tanto il versante occidentale quanto quello orientale. Se in Occidente il dissenso si esprime con la denuncia della guerra, oltre la cortina di ferro il rifiuto del sistema politico arriva a forme di ribellione assai più estreme, con la rivolta del popolo cecoslovacco (durante la cosiddetta Primavera di Praga) repressa dai carri armati sovietici nell’agosto di quell’anno. La lotta per la libertà avviata in diversi Paesi dell’Europa orientale stenta a trovare eco in Occidente; le diversità sembrano prevalere sulle analogie. Ma quando nel gennaio del 1969 uno studente di Praga, Ian Palach, si dà fuoco in piazza San Venceslao come estremo gesto di protesta contro l’occupazione sovietica, lo strumento di protesta è il medesimo utilizzato più volte dai vietnamiti per opporsi all’occupazione americana.
Esperienze d’oltreoceano
Il legame tra America ed Europa è essenziale per comprendere l’articolazione del movimento del Sessantotto. Se gli Stati Uniti sono additati a emblema delle diseguaglianze del capitalismo, da quella nazione provengono anche i primi modelli di protesta, come dimostra il precedente dell’occupazione universitaria di Berkeley del 1964 (prototipo delle successive agitazioni studentesche in tutto il mondo) e la correlativa diffusione del tema dei diritti civili. Apparentemente secondario rispetto a istanze più massimalistiche, questo tema assume presto una rilevanza autonoma e costituisce forse l’eredità più vitale dell’esperienza del Sessantotto. Se già il diritto alla diserzione rientra in questa categoria, ai numerosi casi di renitenza alla chiamata alle armi da parte di reclute americane vanno aggiunti in Europa i primi casi di obiezione di coscienza. Lo scontro di quegli anni è soprattutto sulla questione della discriminazione razziale, con un’attenzione per queste battaglie che travalica i confini degli Stati Uniti e costituisce un elemento di attrazione per l’insieme dei movimenti di protesta giovanile. Anche in questo caso la situazione americana opera da cassa di risonanza internazionale. Per cui l’uccisione nel 1968, a solo pochi mesi di distanza, di Martin Luther King (1929-1968) e di Robert Kennedy (1925-1968), fratello di John e candidato alle elezioni presidenziali americane su un’avanzata piattaforma di riforme per i diritti civili, viene avvertita come una svolta gravida di conseguenze per l’intero movimento giovanile. Non minore è l’impatto registrato nel corso delle olimpiadi messicane dalla protesta degli atleti di colore della nazionale degli USA (che partecipano alla premiazione con il braccio alzato e il pugno chiuso, in segno di denuncia per le discriminazioni razziali), in una manifestazione già segnata dal lutto del massacro di piazza delle Tre Culture, teatro di una dimostrazione degli studenti messicani soffocata nel sangue dall’intervento dell’esercito che lascia sul terreno centinaia di vittime. Tensioni e speranze dei giovani europei e americani sembrano ormai collegati da un filo comune. Nel 1968 si fa strada l’idea che i problemi della politica riguardino l’ambito della vita quotidiana, con una percezione nuova verso questioni di natura diversa che vanno dalla guerra alla discriminazione razziale, dalla condizione femminile ai costumi sessuali, che presuppone la necessità di un approccio non più individuale, semmai internazionale alla politica.
Al di là della rilevanza delle questioni affrontate, la mitologia del Sessantotto si costruisce anche su alcune occasioni di manifestazione collettiva e sulla condivisione di figure o episodi simbolici. Per le prime, oltre al maggio francese, è necessario ricordare il concerto di Woodstock dell’agosto del 1969, con il raduno di oltre 400 mila giovani su una spianata nello Stato di New York. Woodstock rappresenta la definitiva consacrazione del ruolo della musica quale amplificatore dell’ansia di rinnovamento e di trasgressione giovanile, attraverso la diffusione di un linguaggio e di una moda ormai internazionali. Sul piano dei simboli individuali la figura che domina incontrastata è quella di Ernesto Che Guevara (1928-1967), il rivoluzionario sudamericano caduto in Bolivia nell’ottobre 1967, che incarna alla perfezione il mito della ribellione associato, con una certa genericità di riferimenti ideologici, a quello della rivoluzione.
Epilogo
È proprio sull’idea di rivoluzione, sia pure declinata in forma vaga, che si realizza un punto di coesione tra le diverse anime della protesta sessantottina e si consuma nei tempi lunghi il maggiore fraintendimento di questa esperienza. Nel contrapporsi all’autorità costituita la protesta giovanile si dà quasi subito l’obiettivo di un rovesciamento delle basi di legittimità del potere, facendo propria l’utopia di un diritto alla democrazia diretta, da parte delle masse, in grado di prevalere sulle forme tradizionali della democrazia rappresentativa. Una vulgata marxista quasi sempre approssimativa e la scarsa attenzione prestata agli avvenimenti dell’Est europeo (dove la lotta per i diritti civili si coniuga appunto al presupposto di una partecipazione democratica ai processi decisionali) conducono il movimento del Sessantotto in un vicolo cieco. L’epilogo della protesta francese in questo caso è emblematico. Dopo le manifestazioni di maggio il presidente de Gaulle si rivolge alla nazione con un messaggio televisivo, in cui invita la popolazione a non cedere alle lusinghe della sovversione, promette di avviare riforme nel campo dell’istruzione e annuncia lo scioglimento delle Camere. Le elezioni premiano questa scelta, assegnando al governo in carica la maggioranza assoluta dei voti. Il potere, anziché piegarsi alla piazza, ne sfida il giudizio e alla fine si consolida.
Anche negli altri Paesi europei l’onda della protesta giovanile non ottiene significativi risultati politici e favorisce semmai la proliferazione di raggruppamenti di sinistra extra-parlamentare, che contribuiscono a frantumare il fronte della contestazione in aree di dissenso marginali e forniscono un terreno di reclutamento per le formazioni terroristiche degli anni a venire. La capacità di rappresentazione unitaria del movimento del Sessantotto non si ripropone più nel decennio successivo. La sconfitta politica non corrisponde però al rinnegamento dell’intero patrimonio di quella esperienza, che riaffiora come un fiume carsico nei suoi elementi più innovativi. Da questo punto di vista l’eredità del Sessantotto costituisce lo spartiacque tra l’età del dopoguerra e quella della modernità, nella graduale disgregazione dei valori di riferimento di una società ancora legata alle tradizioni e troppo chiusa nelle sue gerarchie interne.