Il sistema giuridico internazionale e l’ordinamento comunitario
A partire dalla fine della Seconda guerra mondiale il fenomeno giuridico individuato con l’espressione diritto internazionale ha conosciuto un’evoluzione significativa, che ha interessato alcuni aspetti strutturali del fenomeno, nonché l’ampiezza e la capillarità ratione materiae della normativa internazionale.
Tra i fattori che hanno maggiormente contribuito a questa evoluzione vanno segnalati sia il grande aumento nel numero degli Stati indipendenti e sovrani, verificatosi specialmente nel corso del processo cd. di decolonizzazione (ma proseguito fino alla fine del 20° sec., e oltre), sia l’accresciuta interdipendenza e transnazionalità delle attività umane di natura economica, sociale e culturale. Tale interdipendenza transnazionale, favorita dai progressi scientifici e tecnologici del 20° sec., ha posto l’esigenza di regolare e controllare le attività in questione non più con un approccio meramente unilaterale – ossia da parte di ciascuno Stato, sulla base di scelte normative nazionali e degli strumenti giuridici messi a disposizione dal proprio ordinamento interno –, bensì con un approccio multilaterale, sulla base cioè di scelte normative assunte dagli Stati ad un livello internazionale.
Collegato a questa esigenza va evidenziato un ulteriore fattore evolutivo derivante dalla necessità, manifestatasi con particolare intensità alla fine del secondo conflitto mondiale, di porre in essere forme e meccanismi efficaci di controllo dell’ordine pubblico internazionale mediante i quali affrontare le crisi e le tensioni internazionali, al fine di evitare lo scoppio di conflitti armati, o di limitarne l’escalation. Si tratta della tendenza e disponibilità degli Stati a porre in essere forme di cooperazione multilaterale istituzionalizzata, consistenti nella creazione di organizzazioni internazionali operanti a livello universale e regionale. Tra queste va ricordata innanzitutto l’Organizzazione delle nazioni unite (ONU), con le varie agenzie specializzate a essa collegate.
Sul piano europeo, la tendenza e la disponibilità di cui si sta dicendo si sono indirizzate verso forme di cooperazione istituzionalizzata di intensità particolarmente accentuata. L’affermarsi di ideali politici europeisti, e le comuni esigenze concrete della ricostruzione postbellica, hanno infatti favorito l’avvio di un processo d’integrazione fra gli Stati dell’Europa occidentale. Tale processo, partito inizialmente con slancio e motivazioni di tipo federalistico, si è poi incanalato in un diverso percorso di regolamentazione comune del mercato, gestito da istituzioni di tipo politico-legislativo, esecutivo-amministrativo e giurisdizionale, dando vita all’ordinamento sui generisdella Comunità europea. A partire dall’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso, l’esperienza della Comunità europea è andata sensibilmente evolvendosi, fino ad assumere i connotati dell’attuale Unione europea, contraddistinta sia da competenze che vanno oltre quelle della regolamentazione del mercato o connesse a tale regolamentazione, sia da un processo decisionale e di controllo politico dotato, in virtù dell’accresciuto ruolo del Parlamento europeo, di una certa legittimazione democratica derivante direttamente dalla collettività dei cittadini europei considerati nel loro insieme.
È alla luce del contesto dinamico sinteticamente richiamato che vanno considerate le caratteristiche della cultura giuridica italiana del secondo Novecento, per chiedersi se e in qual misura essa abbia contribuito vuoi al chiarimento e alla sistemazione del diritto internazionale e dell’ordinamento comunitario, vuoi allo sviluppo dei contenuti normativi e dei meccanismi di garanzia del primo e del secondo. Prima però di proporre alcune considerazioni al riguardo è necessario premettere un’avvertenza sul loro valore approssimativo e relativo.
Per una serie di ragioni risulta infatti alquanto difficile individuare in modo unitario le caratteristiche distintive di una cultura giuridica italiana con riferimento alle tematiche del diritto internazionale e dell’ordinamento europeo. Una prima ragione sta nel fatto che si tratta di tematiche le quali, per loro natura, pongono i medesimi fenomeni giuridici al centro di riflessioni elaborate in una grande varietà di contesti culturali nazionali; riflessioni che dialogano e si confrontano tra loro, travalicando i rispettivi contesti nazionali di riferimento. Ciò produce facilmente un grado piuttosto elevato di eclettismo e contaminazione giuridico-culturale, che rende difficile distinguere il tratto peculiare dell’'italianità', sia nei metodi scientifici, sia nella scelta dei contenuti approfonditi o degli sviluppi normativi promossi.
Un’altra ragione sta nel grande aumento d’interesse, verificatosi in Italia negli ultimi decenni, per la dimensione giuridica internazionale ed europea, sia nell’opinione pubblica, sia negli studi accademici e nella formazione universitaria, con proliferare di corsi e docenti. Ciò, da una parte, ha contribuito in senso positivo ad arricchire il confronto e il dibattito in Italia sul diritto internazionale e sull’ordinamento comunitario; d’altra parte, ha però reso meno facile l’emergere di figure di riferimento, di 'maestri'. Aspetto, questo, tipico invece dei primi decenni del Novecento, in cui proprio intorno al pensiero e alle opere di pochi eminenti maestri – a partire da Dionisio Anzilotti (1867-1950) per continuare con Arrigo Cavaglieri (1880-1935), Tomaso Perassi (1886-1960), Gaetano Morelli (1900-1989) e Giorgio Balladore Pallieri (1905-1980) –, si era coagulato il dibattito giuridico-culturale nazionale sul diritto internazionale ed europeo, favorendo il delinearsi di alcuni tratti distintivi della scuola italiana, considerata nel confronto con altre culture giuridiche nazionali.
Una terza ragione di difficoltà è legata, per un verso, alla crescente complessità e articolazione della dimensione giuridica internazionale ed europea e, per altro verso, alla specializzazione della sua analisi, favorita dal diffuso approccio scientifico positivista applicato allo studio dei fenomeni sociali, ivi compresi quelli di tipo giuridico. Il combinarsi di questi due fattori ha determinato una crescita sensibile di indagini e linee di studio su ambiti specifici o settoriali interessati da norme internazionali e regolamentazioni europee, portando alla produzione di ottimi contributi italiani (dottrinali e giurisprudenziali) in termini di approfondimento di tematiche specialistiche. Tuttavia ciò ha determinato altresì, negli ultimi decenni, una certa perdita d’interesse per la visione d’insieme del diritto internazionale e dell’ordinamento comunitario, considerati nella rispettiva peculiarità e nel loro ruolo nella storia e nell’evoluzione sociale, politica e giuridica dell’umanità. Il che rende ovviamente più difficile l’emergere di profili comuni riguardanti la complessiva comprensione critica dell’esperienza giuridica internazionale ed europea, così come dei processi di sviluppo e di cambiamento di ciascuna di esse.
Pur con queste avvertenze, possono comunque tentarsi alcune osservazioni, che saranno inevitabilmente lacunose, soggettive e viziate da un grado elevato di generalizzazione.
Una prima serie di osservazioni riguarda le concezioni di fondo e gli approcci metodologici riscontrabili nelle espressioni del pensiero giuridico italiano rivolto alle tematiche internazionali ed europee. Sotto questo profilo una caratteristica molto diffusa consiste nel mantenimento (più o meno consapevole) di un’impostazione di tipo positivista-statalista; impostazione in Italia magistralmente applicata agli studi giuridici internazionali, nella prima metà del secolo scorso, da Anzilotti. Interessa qui rilevare che tale impostazione – muovendo dalla convinzione secondo cui il diritto sarebbe sempre il prodotto di un’autorità politico-umana superiore, capace di imporre la propria volontà normativa alle volontà individuali dei destinatari delle norme, nonché dalla propensione a identificare nella volontà dello Stato (in quanto autorità politica superiore) la fonte del diritto – conduce a valorizzare, nell’interpretazione del sistema giuridico internazionale ed europeo, l’elemento «volontaristico» (della volontà reciproca o collettiva degli Stati) come fondamento della giuridicità delle norme internazionali e dei sistemi di garanzia delle norme stesse.
Con riferimento specifico al fenomeno delle organizzazioni internazionali, questa impostazione di fondo porta una parte consistente della dottrina italiana – da Perassi a Morelli, fino a Gaetano Arangio-Ruiz (1919) e Benedetto Conforti (1930) – a proporre concezioni e costruzioni di tipo contrattualistico, e a interpretare le organizzazioni internazionali, nello svolgimento delle loro attività statutarie, come strumenti di cooperazione nelle mani degli Stati, senza presentarle – come invece si tende a fare più facilmente in certi ambienti della cultura giuridica, per es., francese o tedesca – alla stregua di istituzioni sovraordinate agli Stati membri, e senza neppure attribuire loro il significato di manifestazioni più o meno embrionali di un processo (mondiale o regionale) di tipo giuspubblicistico, che si starebbe realizzando vuoi nell’ambito e sulla base dello statuto della singola organizzazione presa in considerazione, vuoi sul piano generale e universale dell’evoluzione politico-istituzionale dell’umanità considerata nel suo complesso.
La stessa impostazione – positivista e statalista – emerge nella considerazione della posizione degli individui nel sistema giuridico internazionale. Benché grande importanza venga attribuita sia agli sviluppi della normativa e delle garanzie internazionali rivolte alla protezione dei diritti individuali, sia alla realizzazione di forme di responsabilità penale internazionale per gli autori delle più gravi violazioni di tali diritti (stigmatizzate come delicta iuris gentium), la concezione di fondo del diritto internazionale come sistema giuridico interstatale – costituito da norme e strumenti posti dagli Stati, ed esistente in funzione delle esigenze di coesistenza e cooperazione fra Stati – induce la parte ampiamente maggioritaria della dottrina italiana – pur con qualche eccezione, come ad es. Antonio Cassese (1937-2011), e prima Giuseppe Sperduti (1912-1993) – a non considerare presente negli individui la qualità di «soggetti» del diritto internazionale, ovvero a riconoscergli soltanto un ruolo soggettivo limitato e speciale, nel contesto circoscritto vuoi di meccanismi pattizi di garanzia dei diritti individuali (come quello della Convenzione e della Corte europea dei diritti dell’uomo), vuoi di sottosistemi settoriali di norme internazionali consuetudinarie (come quelle sulla protezione consolare). Per il resto, il diritto internazionale continua a venire considerato, dalla scuola internazionalistica italiana, come sistema giuridico essenzialmente interstatale, delle cui norme gli individui non sarebbero destinatari diretti, ma piuttosto beneficiari materiali, nonché oggetto di tutela giuridica.
Quest’ultima osservazione consente di stabilire un collegamento con un’altra nota dominante nella cultura giuridica italiana, anch’essa derivante da convincimenti di tipo positivista-statalista. Tale nota dominante consiste nell’approccio «dualista» – o, se si preferisce, pluralista – con cui s’interpreta, nella teoria e nelle applicazioni concrete, il rapporto tra l’ordinamento italiano, da una parte, e il diritto internazionale (o l’ordinamento comunitario), dall’altra. Al pari di quel che avviene nella cultura giuridica di altri Paesi di diritto codificato (e soprattutto in Germania), anche in Italia il diritto internazionale – nonché i fenomeni di organizzazione o integrazione fra Stati (come la Comunità/Unione europea), che hanno il loro fondamento pattizio nel diritto internazionale – vengono considerati sistemi giuridici non omogenei, distinti e separati, rispetto all’ordinamento statale. Così, nella considerazione pressoché unanime della dottrina, della giurisprudenza e del legislatore italiano, alle valutazioni, comandi, sanzioni e atti posti in essere sul piano del diritto internazionale, nonché dei sistemi di cooperazione istituzionalizzata interstatale, non viene riconosciuto valore di per sé giuridico sul piano dell’ordinamento italiano; si ritiene piuttosto che essi, in quanto tali, vengano ad incidere sul funzionamento del nostro ordinamento in qualità di meri «fatti» (seppure, è ovvio, giuridicamente rilevanti), in quanto appartenenti appunto a un sistema giuridico distinto, separato e indipendente rispetto all’ordinamento italiano.
A tal riguardo può dirsi che le teorie di Hans Kelsen e della cd. teoria pura del diritto, pur avendo lasciato in buona parte della dottrina italiana un’impronta permeante – agli effetti dell’analisi e della ricostruzione del sistema giuridico internazionale, in particolare dal punto di vista della teoria gradualistica delle fonti e della presupposizione di una Grundnorm fondante l’unitarietà del diritto internazionale –, hanno invece avuto poco seguito per quanto riguarda la loro concezione «monista», tendente a spiegare il rapporto tra diritto internazionale e diritto interno nell’ambito di un continuum giuridico, quali trame cioè di un unico tessuto giuridico e livelli di un unico sistema, di cui il diritto internazionale rappresenterebbe il livello superiore, legittimante e condizionante il livello più basso e decentrato dei vari ordinamenti statali. Piuttosto, sotto il profilo del rapporto tra diritto internazionale e diritto interno la cultura giuridica italiana di tutto il secondo Novecento ha continuato a porsi – come si diceva poc’anzi – nella prospettiva dualista elaborata soprattutto, nell’ambito della teoria positivista-statalista, da Hans Triepel in Germania e Anzilotti in Italia, considerandola più valida ai fini sia di un’interpretazione aderente alla realtà dei dati concreti caratterizzanti la fenomenologia di tale rapporto, sia di una progressiva apertura dell’ordinamento statale alle esigenze della cooperazione internazionale e dell’integrazione europea.
Proprio in quest’ultima direzione, la dottrina e la giurisprudenza italiana hanno sempre dedicato molta attenzione alle questioni concernenti l’adattamento del diritto interno al diritto internazionale, ai metodi cioè per aprire l’ordinamento italiano ai precetti provenienti dal diritto internazionale e dal diritto comunitario, in modo da collocarli al livello necessario, dal punto di vista della cd. gerarchia delle fonti, a garantire una piena attuazione ai precetti stessi, considerati tendenzialmente prevalenti – una volta introdotti nell’ordinamento – su eventuali precetti contrastanti derivanti da altre fonti meramente interne.
Nel solco tracciato dall’impostazione dualista si colloca dunque sia la decisione – suggerita da un illustre internazionalista, Perassi – d’inserire nella Costituzione della Repubblica italiana una disposizione specifica (l’art. 10, 1° comma: «L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute») avente la funzione di «trasformatore permanente», per usare le parole dello stesso Perassi, del diritto internazionale generale in diritto interno, sia la conferma della prassi legislativa (risalente al periodo di vigenza dello Statuto albertino) dell’adozione del cd. ordine di esecuzione, al fine di recepire nell’ordinamento italiano, mediante la tecnica del rinvio, la normativa contenuta nei trattati internazionali ratificati dall’Italia. Manifestazioni parimenti significative di questo approccio dualista, teso ad assegnare una forza giuridica superiore ai precetti internazionali recepiti e trasformati in valori giuridici interni, vanno poi considerate la costante interpretazione dell’art. 10, 1° comma, della Costituzione a opera della Corte costituzionale (volta a riconoscere, in caso di contrasto, la prevalenza delle norme del diritto internazionale generale su qualsiasi norma – anche di livello costituzionale – dell’ordinamento italiano, eccezion fatta per i cd. principi fondamentali dell’ordinamento), nonché la predominante interpretazione giurisprudenziale e dottrinale tendente a considerare prevalente, in virtù del principio di specialità, la normativa contenuta nell’ordine di esecuzione di un trattato rispetto alle altre norme di legge ordinaria, ivi comprese le norme di legge successive all’ordine di esecuzione. Tendenza – quest’ultima – che ha trovato una consacrazione definitiva e una garanzia costituzionale nella modifica all’art. 117, 1° comma, della Costituzione, apportata dalla l. cost. 18 ott. 2001 nr. 3 (secondo la quale «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali»).
L’impostazione dualista ha segnato anche il modo in cui si è collegato l’ordinamento giuridico italiano a quello europeo (della Comunità europea ieri e, oggi, dell’Unione europea). Nonostante le insistenze e i richiami provenienti dalla Corte di giustizia di Lussemburgo, l’attribuzione di effetti giuridici interni alla normativa europea primaria e derivata non viene infatti ricondotta – né dalla giurisprudenza costituzionale, né dalla larga maggioranza della dottrina, né dal legislatore – a una sorta di riunificazione monista dei vari ordinamenti degli Stati membri nell’ambito di un ordinamento europeo, che avrebbe il proprio livello gerarchicamente superiore nel diritto comunitario. Ben diversamente (e in modo analogo a quanto avvenuto anche, per es., nell’esperienza e nella cultura giuridica tedesca), tale attribuzione è stata e continua a essere ricondotta a scelte normative e tecniche di adattamento poste sovranamente in essere dallo Stato sul piano dell’ordinamento interno, intese ad aprirlo ai valori e ai precetti provenienti dall’ordinamento europeo (concepito quale ordinamento separato e distinto da quello statale), nonché riconoscendo a tali valori e precetti una sorta di prevalenza – o, se si preferisce, di applicazione preferenziale – in caso di contrasto con eventuali norme interne configgenti o incompatibili (ma escludendo pur sempre una simile prevalenza nei confronti dei principi fondamentali dell’ordinamento italiano).
Così, l’apertura del nostro ordinamento a quello comunitario si è invariabilmente realizzata (non diversamente da quel che avviene, in genere, per il recepimento della normativa contenuta in qualsiasi accordo internazionale ratificato dall’Italia) in virtù di una serie di ordini di esecuzione ai trattati che hanno scandito il cammino dell’integrazione europea (da quello istitutivo della CECA del 1951, fino al Trattato di Lisbona del 2007); ordini di esecuzione adottati con forma di legge ordinaria. Ed è significativo che, sebbene sul piano politico e della società civile le linee di tendenza in Italia siano costantemente state in senso favorevole a una realizzazione sempre più piena dell’integrazione europea e a una crescente cessione di sovranità alle istituzioni europee, sul piano giuridico-costituzionale non si sia affermata (come invece avvenuto in altri Stati europei, quali Francia o Germania) né l’esigenza di elevare al livello di valore costituzionale la scelta politica di partecipazione al processo di integrazione europea, né quella di garantire l’adattamento del nostro ordinamento a quello della Comunità/Unione europea, mediante l’inserimento di un’esplicita disposizione costituzionale. A quest’ultimo fine, e quindi per assicurare quella prevalenza di cui si diceva poc’anzi – del diritto di origine comunitaria sul diritto nazionale contrastante – si è infatti ritenuto sufficiente fare riferimento all’art. 11 della Costituzione («L’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni»); disposizione originariamente pensata in vista della partecipazione italiana alle Nazioni unite, ma che la Corte costituzionale – accogliendo suggerimenti provenienti da uno dei più noti internazionalisti italiani dediti alle tematiche dell’integrazione europea, Riccardo Monaco (1909-2000) – ha invece utilizzato soprattutto per fondare la legittimità costituzionale delle leggi di ratifica ed esecuzione dei trattati europei, nonché la prevalenza della normativa comunitaria direttamente applicabile sulla normativa italiana (anche successiva nel tempo) incompatibile con la prima.
Sia la concezione dualista dei rapporti tra diritto internazionale (e ordinamento comunitario) e ordinamento italiano, sia la negazione di personalità giuridica internazionale agli individui, e la considerazione degli Stati come soggetti per eccellenza del diritto internazionale, sono tratti diffusi e radicati nella cultura giuridica italiana, e non tipici soltanto di quella larga parte della dottrina internazionalistica che si pone nel solco dell’impostazione statalista e volontarista. Essi sono condivisi anche, ad es., da quella parte consistente del pensiero giuridico del secondo Novecento che nell’esame e nella ricostruzione del fenomeno giuridico internazionale tende a valorizzarne il fondamento sociale – di regolamentazione necessaria di un ambiente sociale – più che l’elemento dell’esistenza di una volontà, vuoi reciproca vuoi collettiva, degli Stati a vincolarsi al rispetto di una determinata disciplina. Si tratta di un’impostazione e di una sensibilità (sulla cui affermazione in Italia hanno senz’altro inciso gli insegnamenti e le concezioni «istituzionistiche» di Santi Romano) secondo le quali gli Stati vengono considerati, nel peculiare ambiente sociale internazionale, non tanto nella loro natura di autorità sovraordinata e preposta al governo di collettività umane – e per questo fonti di diritto –, quanto nella loro natura di corpi sociali e politici reali e unitari, la cui distinta esistenza e coesistenza determina quelle dinamiche sociali-istituzionali di cui il diritto internazionale costituirebbe appunto la disciplina giuridica.
Pur seguendo percorsi differenti e basandosi su ragioni diverse da quelli della dottrina statalista e volontarista, anche queste tendenze del pensiero giuridico italiano vanno dunque, in genere, nel senso sia di negare al diritto internazionale l’attitudine a indirizzarsi direttamente agli individui, e a regolare direttamente rapporti interindividuali (com'è invece proprio degli ordinamenti statali), sia di considerare dualisticamente il diritto internazionale un fenomeno giuridico distinto e non omogeneo rispetto agli ordinamenti statali. Dalla dottrina positivista più permeata di volontarismo statalista, tali tendenze si diversificano tuttavia – in certi casi – per un approccio meno contrattualistico nella ricostruzione della morfologia e della fenomenologia del diritto internazionale e delle organizzazioni internazionali, e – in altri casi – per un’impostazione più realista, propensa a conferire valore normativo all’effettivo affermarsi, nelle relazioni internazionali, di situazioni e dinamiche di preminenza (o egemonia) da parte vuoi delle maggiori potenze o di gruppi di Stati, vuoi della «comunità internazionale», concepita come entità sociale reale e coesa, sovraordinata rispetto ai singoli Stati.
La manifestazione forse più importante del primo approccio consiste nella valorizzazione del diritto internazionale generale, non scritto – costituito da consuetudini, principi generali di diritto, valutazioni equitative e di giustizia sostanziale – come dimensione e intelaiatura normativa comune ed effettivamente vigente sul piano internazionale. Questa valorizzazione è presente in particolare nell’opera di giuristi quali Roberto Ago (1907-1995) e Mario Giuliano (1914-1987), opera che a propria volta trae ispirazione sia dalla riconsiderazione del pensiero giusnaturalista e giusrazionalista dei «padri» del diritto internazionale, sia dal dialogo con le posizioni di positivismo critico sostenute soprattutto, nel dibattito giuridico italiano degli anni Trenta e Quaranta, da Norberto Bobbio.
Quanto invece alla sensibilità realista (che risente di suggestioni molto varie, tra cui alcune riconducibili a Romano, altre alle concezioni elaborate nella giuspubblicistica italiana da Donato Donati e Costantino Mortati, altre ancora alle teorie di Carl Schmitt), si concretizza tra l’altro – e in modo differente nell’opera, per es., di Rolando Quadri (1907-1976) e successivamente di Paolo Picone (1940) – nel grande peso attribuito alla «prassi» degli Stati agli effetti della determinazione della vigenza di norme non scritte del diritto internazionale, nel frequente riferimento al principio di effettività, e nella tendenza a considerare come istituzioni giuridiche le posizioni storiche di egemonia politica di Stati o gruppi di Stati.
Le tendenze che si differenziano da quelle stataliste e volontariste se ne distinguono inoltre, in molti casi, per un approccio meno 'purista' e analitico sul piano scientifico-metodologico. Questo approccio – purista e analitico – (consistente nel considerare il fenomeno giuridico internazionale come oggetto da analizzare con metodo logico-assiomatico e alla luce di postulati presupposti come indimostrabili e più o meno intuitivi, al fine di costruire un sistema coerente e unitario mediante il quale valutare la complessa e articolata realtà delle relazioni internazionali e del rapporto tra diritto internazionale e ordinamenti statali) ha in effetti caratterizzato una parte importante, e fino a qualche decennio fa predominante, della dottrina internazionalistica italiana. Esso ha avuto tra i suoi interpreti e fautori di maggior rigore Perassi e Morelli, e ha qualificato a lungo gli studi e il dibattito giuridico internazionalistico italiano, presente soprattutto sulle pagine della «Rivista di diritto internazionale», una delle più antiche e apprezzate riviste giuridiche del mondo (fondata nel 1906), ancora oggi principale punto italiano di riferimento per lo studio del diritto internazionale.
Se dunque la dottrina di impostazione statalista e volontarista preferisce, in genere, adottare un siffatto approccio metodologico, le tendenze dottrinali che muovono da concezioni differenti propendono invece, in genere, per un approccio maggiormente disponibile a prendere in considerazione, nella ricostruzione e nella valutazione dei fenomeni giuridici internazionali, fattori ed elementi di natura politica, economica e sociale, in una prospettiva storica, preferendo così dar conto della complessità e spesso delle antinomie presenti in tali fenomeni, piuttosto che tentare di organizzarli in una coerente teoria logico-giuridica. Il che, pur giovando alla comprensione di fenomeni che rischiano di sfuggire o di essere fraintesi se presentati in modo troppo formalistico e astratto, non sempre risulta convincente nel chiarire e valutare la distinzione tra «fatto» e «diritto», né dal punto di vista della qualità sistematica delle analisi e delle soluzioni proposte.
Passando dalle concezioni generali e dagli approcci metodologici ad alcune tematiche istituzionali sulle quali il pensiero internazionalistico italiano del secondo Novecento si è maggiormente concentrato, meritano di essere evidenziati una serie di contributi di grande valore, apprezzati nel mondo intero e capaci persino, in certi casi, di caratterizzare lo sviluppo progressivo e la codificazione di ambiti e settori del diritto internazionale ed europeo.
Un primo esempio, cui già si è fatto cenno, riguarda la dimensione del diritto internazionale generale. In particolare, gli studi di Ago e Giuliano, insieme alle riflessioni sviluppate da Giuseppe Barile (1919-1989), hanno contribuito a chiarire la natura del tutto peculiare di tale dimensione, difficilmente inquadrabile con gli schemi formali del «diritto positivo», di un diritto che deriverebbe cioè la propria giuridicità dal fatto di essere posto da procedimenti di produzione giuridica, il perfezionarsi dei quali darebbe appunto origine a una norma giuridica. Il diritto internazionale generale sarebbe piuttosto, secondo gli studi poc’anzi richiamati, un diritto «spontaneo» (o un «diritto naturale vigente»): la giuridicità delle sue norme deriverebbe dal fatto che si tratta di modelli comportamentali diffusamente sentiti e vissuti come doverosi, giusti, socialmente necessari dai membri della comunità internazionale; e sarebbe proprio l’accertabilità di questo convincimento diffuso l’elemento decisivo per considerare la regola in questione applicabile quale norma giuridica internazionale. Norma giuridica dunque non posta, non scritta, eppure vigente.
Gli approfondimenti e le elaborazioni di questa prospettiva teorica sono serviti tra l’altro a reimpostare in maniera originale e per molti versi illuminante la questione della consuetudine come fonte del diritto internazionale, del rapporto tra prassi e opinio iuris, dell’interazione tra il diritto scritto (ivi compreso il cd. soft law) e il diritto non scritto, e hanno trovato una significativa – anche se non esplicita – considerazione da parte della Corte internazionale di giustizia (della quale Ago è stato membro influente dal 1979 al 1995), nel modo in cui questa ha mostrato di affrontare e risolvere i problemi di determinazione del diritto internazionale generale che a essa in concreto si presentano nello svolgimento delle sue funzioni.
Altro tema fondamentale su cui la dottrina italiana ha offerto un contributo importante è quello dei soggetti del diritto internazionale e della natura dello Stato in quanto «persona internazionale». In questo campo gli studi più approfonditi e sistematici sono da considerarsi quelli condotti, nel corso di oltre mezzo secolo, da Gaetano Arangio-Ruiz (ai quali possono aggiungersi alcune precedenti riflessioni di Quadri, sviluppate su basi teorico-concettuali poste soprattutto, nella prima metà del Novecento, da Donati). Gli studi di Arangio-Ruiz consentono in particolare di capire cosa sia «lo Stato nel senso del diritto internazionale», chiarendone la natura di entità reale politico-sociale, presupposta dal diritto internazionale, e quindi la sua qualità di soggetto «semplice» del diritto internazionale, dimostrando – di contro – la fallacia delle teorie che costruiscono invece la soggettività internazionale degli Stati in maniera identica o analoga a quella in cui si tende a costruire la soggettività delle cd. persone giuridiche nel diritto interno.
La dottrina in esame – toccando una questione cruciale per la comprensione dell’intero fenomeno giuridico internazionale – ha una portata e una serie di ricadute molto ampie. Essa offre, per es., una spiegazione teoricamente solida e aderente alla realtà sia del modo in cui si presenta dal punto di vista del diritto internazionale l’attività e la volontà degli Stati (e il rapporto tra ogni Stato e i suoi organi), sia – una volta individuate le qualità fattuali rilevanti ai fini della soggettività internazionale – della possibile soggettività di enti diversi dagli Stati (tra cui i movimenti di liberazione nazionale e i cd. governi in esilio), sia ancora delle manifestazioni di personalità internazionale delle organizzazioni internazionali. Per altro verso, essa contribuisce a chiarire sia la diversità tra dimensione giuridica internazionale e dimensione giuridica interindividuale, sia la differenza e la non omogeneità tra lo «Stato del diritto internazionale» e lo «Stato del diritto interno», nonché il rapporto – dualista – tra diritto internazionale e ordinamenti statali.
Restando sempre su profili istituzionali, il tema della responsabilità internazionale da fatto illecito – ossia il problema delle violazioni del diritto internazionale da parte degli Stati, delle conseguenze giuridiche che ne derivano, e delle sanzioni e misure di attuazione applicabili nei confronti degli Stati autori delle violazioni – costituisce un altro ambito su cui la scuola italiana ha offerto, nel secondo Novecento, un contributo di prima importanza (ponendosi nel solco della tradizione giuridica del periodo precedente e in particolare degli studi, fondamentali in questo settore, di Anzilotti). Tale contributo si è manifestato soprattutto attraverso il ruolo svolto da due giuristi italiani – Ago e Arangio-Ruiz – quali membri della Commissione del diritto internazionale delle Nazioni unite (CDI), organo incaricato di svolgere studi e predisporre progetti di articoli in vista della codificazione e dello sviluppo progressivo del diritto internazionale. Nel periodo di loro permanenza presso la CDI, entrambi questi giuristi hanno infatti ricoperto l’incarico di relatore speciale sulla responsabilità degli Stati, e con i loro rapporti e le loro proposte hanno dato un apporto decisivo alla sistemazione e ai contenuti della disciplina della responsabilità internazionale. Gli aspetti sui quali la dottrina dei due giuristi ha lasciato un’impronta significativa sono vari: dall’attribuzione allo Stato del fatto illecito posto in essere da individui-organi, alla riparazione (lato sensu) quale principale conseguenza sostanziale dell’illecito, alla disciplina procedurale e ai limiti delle cd. contromisure, all’individuazione, definizione e sanzione delle violazioni più gravi, perché lesive di interessi fondamentali della comunità internazionale (i cd. crimini internazionali degli Stati). Va aggiunto che, in seno alla Commissione del diritto internazionale, il riconoscimento del valore della scuola italiana e del suo contributo allo studio e allo sviluppo della materia della responsabilità internazionale ha trovato una conferma all’inizio del nuovo secolo, con il conferimento a Giorgio Gaja (1939) dell’incarico di relatore speciale sul tema, molto attuale e complesso, della responsabilità delle organizzazioni internazionali.
Densa di implicazioni riguardanti anche la responsabilità internazionale è un’altra tematica su cui il pensiero giuridico italiano degli ultimi decenni ha prodotto elaborazioni di notevole originalità e profondità. Si tratta della tematica degli obblighi erga omnes, obblighi cioè che in ragione vuoi della natura indivisa o indivisibile del bene da essi tutelato, vuoi della convinzione condivisa del carattere fondamentale del valore da tutelare (per es., i diritti essenziali e la dignità di ogni persona, o la pace e la sicurezza internazionale), ciascuno Stato sarebbe tenuto a rispettare non già, a titolo di reciprocità, nei confronti di ogni altro Stato, bensì nei confronti di tutti gli altri Stati considerati nel loro insieme, ossia della cd. comunità internazionale. L’affermarsi di questo genere di obblighi nel diritto internazionale, e il configurarsi di una dimensione giuridica di tipo pubblicistico, relativa alle garanzie di attuazione degli obblighi stessi – temi attualmente al centro della riflessione giuridico-internazionalistica in tutto il mondo – trovano, nella dottrina italiana, approfondimenti importanti e ampia considerazione nell’opera di Picone.
Il lavoro di questo autore, basato su un esame attento dei dati offerti dalla prassi internazionale, oltre a chiarire le caratteristiche delle varie tipologie di norme internazionali istitutive di obblighi erga omnes, presenta aspetti interessanti e originali soprattutto in ordine al ruolo degli Stati considerati non uti singuli ma uti universi, titolari cioè di un potere di attuazione delle norme istitutive di obblighi erga omnes nell’interesse della comunità internazionale nel suo insieme. Il tutto sulla base dell’idea della presenza, nel sistema giuridico internazionale, di una costituzione materiale caratterizzata dal ruolo della «Comunità internazionale», intesa non già quale mero ambiente sociale degli Stati, bensì come ente sociale, sovraordinato in fatto alla generalità degli Stati e dotato di una propria autorità normativa.
Ultima tematica istituzionale della quale deve farsi menzione nel ricordare i maggiori contributi italiani del secondo Novecento nel campo del diritto internazionale è quella del regolamento delle controversie internazionali e delle giurisdizioni internazionali. In questo settore è senz’altro l’opera di Morelli a occupare il primissimo posto, con ii suoi studi rigorosi sul contenzioso interstatale e sul processo di fronte alla Corte internazionale di giustizia (della quale Morelli è stato membro autorevole dal 1961 al 1970); studi sempre volti a ricondurre a sistema coerente le peculiarità dei rapporti processuali tra gli Stati parti di una controversia e gli organi giudicanti internazionali. In questo campo l’opera di Morelli ha trovato un seguito negli scritti di alcuni esponenti della sua scuola (da Gaetano Arangio-Ruiz a Francesco Capotorti e Vincenzo Starace).
A essi va aggiunto il contributo offerto negli ultimi decenni da Tullio Treves (1942), giurista attento al fenomeno recente consistente nell’aumento dei meccanismi giurisdizionali internazionali, nonché esperto delle procedure e della giurisprudenza del Tribunale internazionale di diritto del mare (di cui Treves è giudice sin dalla sua istituzione, nel 1996).
La cultura giuridica italiana dell’ultimo mezzo secolo ha dato un apporto significativo non solo al chiarimento, alla sistemazione e all’evoluzione di tematiche istituzionali del diritto internazionale, ma anche all’approfondimento e allo sviluppo di settori specifici della normativa internazionale. Questo vale, per es., per il diritto del mare e per il diritto del commercio internazionale, ma vale soprattutto per un settore di grande valore etico e politico, oltre che giuridico: il settore della protezione dei diritti dell’uomo. In quest’ambito l’impegno italiano è venuto sia dal mondo scientifico e accademico, sia da quello delle istituzioni politiche e della diplomazia. Non è dunque un caso, ma il risultato di un tale impegno, il fatto che l’Italia partecipi oggi a tutti i più importanti strumenti pattizi di tutela dei diritti umani (sia universali sia regionali europei), e che l’adozione di alcuni di questi strumenti sia stata fortemente voluta e promossa dall’Italia, tanto da essere perfezionata e celebrata proprio sul territorio italiano (come avvenuto, per es., per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, aperta alla firma a Roma il 4 novembre 1950, per la Carta sociale europea, firmata a Torino il 18 ottobre 1961, e per lo Statuto della Corte penale internazionale, concluso a Roma il 17 luglio 1998).
In questo campo, tra i giuristi italiani la cui opera è stata maggiormente incisiva e apprezzata nel mondo intero emerge Antonio Cassese, il quale – avendo ereditato sul piano scientifico dal proprio maestro, Giuseppe Sperduti, una sensibilità profonda per la tematica dei diritti dell’uomo e della posizione dell’individuo nel diritto internazionale – ha dedicato gran parte della propria attività alla causa dei diritti umani e della lotta alle più gravi violazioni di tali diritti, impegnandosi nella divulgazione in Italia e all’estero di una cultura del rispetto dei diritti umani, e applicando le proprie competenze e convinzioni nello svolgimento di funzioni istituzionali importanti (avendo ricoperto l’incarico, tra gli altri, di presidente del Comitato europeo contro la tortura e di primo presidente del Tribunale penale delle Nazioni unite per i crimini commessi nella ex Iugoslavia).
Per concludere, resta da riprendere brevemente il punto del rapporto della cultura italiana con la dimensione giuridica dell’integrazione europea, ossia con l’ordinamento comunitario. Oltre a quanto si è detto sull’approccio sostanzialmente dualista caratterizzante lo studio di tale ordinamento e della sua interazione con quello interno italiano, va evidenziato che nonostante la rilevanza istituzionale e normativa attribuibile al processo d’integrazione europea sin dai suoi inizi, per molti anni la sua considerazione dal punto di vista dell’analisi giuridica è stata appannaggio pressoché esclusivo (con qualche eccezione importante, come Alberto Trabucchi e Antonio La Pergola) della dottrina internazionalistica. Così, i lineamenti e la coerenza sistematica del diritto comunitario, il funzionamento delle istituzioni e dei processi decisionali, la disciplina materiale dei settori di competenza comunitaria, l’impatto del diritto comunitario sul diritto interno, sono tutti aspetti sui quali gli approfondimenti, i contributi, nonché l’impegno di divulgazione didattica e informativa, sono venuti soprattutto, per i primi decenni di vita della Comunità europea, dalla schiera degli internazionalisti, con una sensibilità volta a precisare sia l’interrelazione e le differenze tra l’esperienza giuridica comunitaria, da una parte, e il diritto internazionale e il fenomeno delle organizzazioni internazionali, dall’altra, sia la non omogeneità tra la dimensione giuridica comunitaria e quella degli ordinamenti degli Stati membri, sia – in definitiva – la natura sui generis, non assimilabile né al diritto statale né al diritto delle organizzazioni internazionali, dell’ordinamento comunitario.
In questa prospettiva va innanzitutto ricordato l’impegno scientifico, fondamentale e pionieristico, di autorevoli internazionalisti, quali Monaco, Sperduti e Quadri (il primo anche in qualità di giudice della Corte di giustizia delle Comunità europee dal 1964 al 1976); impegno proseguito da altri studiosi provenienti dallo studio del diritto internazionale (tra questi Capotorti, Luigi Ferrari Bravo, Giuseppe Tesauro, Antonio Tizzano, Gaja e Fausto Pocar), alcuni dei quali (come Capotorti, Tesauro e Tizzano) sono altresì riusciti a lasciare un’impronta nella giurisprudenza della Corte di giustizia comunitaria, nel periodo in cui ne sono stati giudici o avvocati generali.
Progressivamente, e specialmente a partire dagli anni Ottanta, con l’estensione delle materie di competenza comunitaria e l’evolversi del funzionamento delle istituzioni europee, il diritto comunitario (e poi dell’Unione europea) ha attirato l’attenzione e stimolato i contributi della dottrina proveniente da discipline diverse dal diritto internazionale: soprattutto dal diritto pubblico comparato e dal diritto commerciale, ma anche dal diritto amministrativo e da quello costituzionale, e ancora – per es. – dal diritto privato, dal diritto del lavoro e persino dal diritto e dalla procedura penale. Questo interesse allargato ha senz’altro portato benefici dal punto di vista sia della pluralità di approcci interpretativi alle strutture e ai contenuti del diritto comunitario, sia dell’approfondimento di alcuni ambiti materiali specialistici toccati dalla normativa dell’Unione europea. Esso ha tuttavia presentato talvolta l’inconveniente di applicare alla ricostruzione prospettica dell’«ordine europeo» categorie concettuali e dinamiche istituzionali (riprese perlopiù dall’esperienza del diritto costituzionale e amministrativo statale) che non sempre si rivelano congeniali al fine di cogliere le peculiarità proprie e le possibili linee di sviluppo dell’esperienza giuridico-istituzionale europea. Da questo punto di vista, le ricostruzioni e le proposte provenienti da studi di impostazione internazionalistica, consapevoli delle caratteristiche originarie e dell’originalità del sistema giuridico dell’Unione europea, nonché della sua connotazione interstatale piuttosto che sovranazionale, continuano – in genere – a risultare più convincenti e aderenti alla realtà effettiva dell’integrazione europea.
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