Il sistema italiano di federalismo fiscale
L’espressione federalismo fiscale non si presta a una definizione univoca, nonostante il suo utilizzo sia andato sviluppandosi nel corso degli ultimi anni e nonostante a essa sia dedicato un importante capitolo del programma del governo italiano in carica dall’8 maggio 2008. Essa può assumere, come ha in effetti assunto, significati diversi, soprattutto quando entra nel linguaggio delle azioni di politica economica o delle riforme istituzionali.
Gli studi espressamente dedicati al federalismo fiscale hanno riguardato nel passato, e riguardano tuttora, questioni di teoria prescrittiva: come devono essere organizzati i rapporti finanziari tra centro e periferia, con quale assegnazione di compiti di produzione di beni pubblici o di regolazione dell’attività privata, quali strumenti di finanziamento, quali caratteristiche ottimali della mappa territoriale dei poteri periferici, quale separazione tra poteri legislativi e compiti amministrativi, quali strumenti di arbitraggio sui divergenti interessi delle amministrazioni centrali e delle amministrazioni periferiche. Si tratta, dal punto di vista dell’economia, di un sottocapitolo delle teorie economiche dello Stato (quanto settore pubblico per quali beni, quante imposte e di che tipo, quali criteri di rappresentanza politica) rivolto alle regole per le decisioni pubbliche che interagiscono su più livelli di rappresentanza politica.
Negli anni più recenti l’attenzione degli studiosi si è spostata sulle regole di funzionamento delle strutture e degli istituti propri dei sistemi di federalismo fiscale, nel presupposto che questi non siano costruiti nel pieno rispetto dei principi teorici individuati per l’organizzazione efficiente della cosa pubblica. L’attenzione si è quindi spostata sull’analisi dei conflitti emergenti tra gli enti cui è affidata la gestione della cosa pubblica: conflitti ‘orizzontali’, tra giurisdizioni appartenenti allo stesso livello di governo (Stati, regioni o enti locali), conflitti ‘verticali’ tra enti appartenenti a diversi livelli di governo (Stato versus regioni o enti locali); sulla individuazione di strumenti finanziari e regole decisionali capaci di indirizzare comportamenti motivati da interessi individuali (o della giurisdizione amministrata) verso più astratti interessi generali della intera collettività; sul disegno di strumenti finanziari coerenti con le indeterminatezze generate dalle complesse legislazioni che regolano le organizzazioni pubbliche strutturate su più livelli di governo.
Gli aspetti di teoria prescrittiva sono stati riassunti da Piero Giarda (2004). Questo lavoro non tratta degli sviluppi più recenti della teoria che sono ampiamente discussi, tra gli altri, in un recente Handbook of fiscal federalism (2006); si propone invece di descrivere l’impianto del sistema di federalismo fiscale in Italia e i suoi caratteri alla luce degli strumenti proposti dall’analisi economica. Riprende inizialmente, in termini sintetici, alcune proposizioni sulla semantica del federalismo fiscale e sulla evoluzione storica dei rapporti finanziari tra centro e periferia nel nostro Paese. Descrive, in termini generali, sia il collocamento delle responsabilità di spesa e del potere tributario tra il governo centrale e i livelli inferiori di governo, sia gli strumenti utilizzati dal legislatore per costruire e modificare il sistema delle relazioni finanziarie tra centro e periferia nel nostro Paese. Evidenzia gli aspetti critici, le carenze e le anomalie del vigente sistema di federalismo fiscale come risultano da decenni di continui e ripetuti interventi legislativi, inclusa una riforma costituzionale. Si conclude con un inventario dei problemi aperti, anche in relazione ai possibili ulteriori interventi di riforma che sono stati e sono sull’agenda politica di precedenti governi e di quello in carica.
Il significato del termine
L’espressione federalismo fiscale è stata introdotta nella letteratura del settore nel saggio dell’economista statunitense Richard Abel Musgrave (The theory of public finance: a study in public economy, 1959), quasi in via incidentale, nel corso della discussione sui problemi posti – rispetto all’obiettivo della equità orizzontale (uguale trattamento di uguali) nella tassazione delle persone fisiche – dalla sovrapposizione di un sistema tributario centrale ai sistemi tributari degli Stati federati. Successivamente, la questione di come misurare la parità di trattamento si è sviluppata per includere nelle valutazioni, in aggiunta ai costi della tassazione, i benefici della spesa pubblica finanziata dalla tassazione. Ne è derivata la proposizione per cui la parità di trattamento si realizza quando il maggior peso tributario che grava sui cittadini di una regione o di uno Stato federato è compensato dai maggiori benefici derivanti dall’accesso ai servizi pubblici.
In questi termini, il ‘federalismo fiscale’ è divenuto una bandiera per la diversità. Regioni o Stati federati possono scegliere liberamente la combinazione di consumi pubblici e consumi privati spostando, attraverso la tassazione, il comando delle risorse economiche dal settore privato al settore pubblico. In presenza di diverse preferenze individuali, un buon sistema di rappresentanza politica a livello decentrato comporta un diversa composizione della domanda e della produzione (una diversa combinazione di consumi pubblici e privati) e una diversa struttura della spesa pubblica a livello decentrato.
Il criterio di uguaglianza ha poi preso, negli anni successivi, un più articolato orientamento avendo rilevato come i valori pro capite delle basi imponibili dei tributi possono divergere anche in misura consistente nelle diverse regioni del territorio nazionale, per le diversità delle condizioni di produzione. Se le differenze sono sufficientemente elevate (come era il caso degli Stati Uniti negli anni Sessanta e come è il caso ancora oggi in Italia) risulta impossibile per le regioni più povere generare un gettito tributario sufficiente a pagare quei livelli di consumo di beni pubblici, quali l’istruzione, la tutela della salute o altro, che la collettività nazionale ritiene debbano essere presenti su tutto il territorio nazionale. Nasce quindi, nella teoria economico-finanziaria, la nozione di ‘perequazione’: l’esigenza di trasferire dalle regioni ricche a quelle a più basso reddito le risorse finanziarie occorrenti per creare livelli accettabili di produzione dei servizi ritenuti, a livello nazionale, meritevoli di tutela e per concorrere – in via indiretta – a ridurre i differenziali interpersonali di reddito generati dall’operare dell’economia di mercato.
Un buon sistema di federalismo fiscale valorizza le diversità delle preferenze in relazione al livello e alla combinazione dei consumi pubblici nelle diverse giurisdizioni e, allo stesso tempo, attenua e governa le diversità che originerebbero dalle diversità delle basi imponibili per abitante nei diversi territori.
L’origine dei sistemi di federalismo fiscale
Se la teoria del federalismo fiscale è di nascita relativamente recente, non altrettanto è per i concreti sistemi di federalismo fiscale che sono invece presenti da lungo tempo in molti Paesi, mirati a definire una organizzazione dello Stato caratterizzata dalla ripartizione dell’offerta di servizi pubblici, dei poteri di regolazione e dei poteri tributari tra diversi livelli di governo, una ripartizione che lascia in vita le necessità di azioni coordinate tra i diversi livelli, per la impossibilità di segmentare in modo netto responsabilità e processi decisionali. Sia negli Stati federali sia in quelli unitari, la distribuzione dei poteri di spendere, di imporre tributi e di regolare l’attività privata, tra centro e periferia ha mostrato, in tutti i Paesi, incessanti cambiamenti, per il mutare degli orientamenti politici e anche per la relativa indeterminatezza dei teoremi proposti dalla teoria economica. I cambiamenti si manifestano, in qualche caso attraverso riforme di carattere costituzionale, in altri casi attraverso interventi del legislatore ordinario, in altri ancora per iniziativa dei governi decentrati.
Anche i Paesi dove maggiore è stata nel passato la stabilità dei rapporti tra centro e periferia (come, per es., la Francia e la Gran Bretagna) mostrano segni e movimenti verso il cambiamento. Italia, Bundesrepublik Deutschland (BRD), Spagna, Canada, Australia sono tra i Paesi che hanno sperimentato negli ultimi settant’anni importanti mutamenti per via di riforma costituzionale. Gli Stati Uniti hanno invece proceduto attraverso interventi legislativi del governo federale e decisioni della Corte suprema.
Gran parte dei concreti sistemi di federalismo fiscale si sono sviluppati ben prima della nascita della nozione e della teoria del federalismo fiscale. Già a partire dalla fine del Settecento, i testi di economia prima e di finanza pubblica poi trattano le questioni di ‘finanza locale’ concentrandosi soprattutto sugli strumenti tributari e tariffari appropriati per i governi locali. Negli anni più recenti, prima che la terminologia di ‘federalismo fiscale’ prendesse il sopravvento, nei libri di scienza delle finanze si trattava dei ‘rapporti finanziari tra diversi livelli di governo’. È interessante rilevare che i problemi della finanza locale sono studiati in modo non dissimile nei Paesi a struttura federale e in quelli nati come Stati unitari. L’espressione ‘federalismo fiscale’ è relativamente recente, ma i problemi a cui si riferisce sono molto vecchi, quasi connaturati all’origine stessa degli Stati moderni.
Dei principali Paesi dell’Europa continentale, quelli più vicini alla tradizione politica italiana, ovvero Francia, Spagna e BRD, il primo non si è allontanato dalla sua tradizione di Paese con un forte governo centralizzato che interloquisce direttamente con gli enti locali, gli altri due, al termine e per gli effetti della seconda guerra mondiale, hanno riscritto le loro Costituzioni, dando rilievo politico e poteri di rappresentanza al livello di governo intermedio, quello delle regioni e dei Länder. In questo senso Italia, BRD e Spagna hanno espresso una comune tendenza – ispirata dalla cultura politica nordamericana – nella quale la struttura organizzativa della rappresentanza politica e della distribuzione del potere ripercorre gli esiti della nascita della federazione degli Stati Uniti.
Per i profili rilevanti al federalismo fiscale, si osserva che Spagna e BRD hanno seguito due percorsi diversi soprattutto con riferimento alla questione, sopra richiamata, della perequazione. La BRD ha costruito un sistema compiuto di federalismo fiscale definendo, nella propria Carta fondamentale, sia la ripartizione delle competenze legislative tra Bund e Länder (uguale in tutti i Länder), sia le quote di assegnazione a Bund e Länder del gettito dei principali tributi (Imposta sui redditi personali e Imposta sul valore aggiunto), sia infine le regole della perequazione finanziaria, ovvero del trasferimento di risorse da chi più ha verso chi meno ha. Le regole non sempre sono inequivoche e non sempre sono state rispettate; tuttavia, con l’aiuto delle decisioni della Corte costituzionale tedesca, il sistema di federalismo fiscale nella BRD può definirsi un sistema compiuto e funzionante. Giova ricordare che il funzionamento del federalismo fiscale nella BRD è stato messo a dura prova dopo la riunificazione, quando le differenze di reddito pro capite tra i Länder sono (per l’ingresso di quelli poveri dell’Est) fortemente aumentate mettendo in crisi le regole di perequazione che erano state costruite per un Paese con modeste differenze interregionali di capacità contributiva (Spahn, Franz, in Managing fiscal decentralization, 2002).
La Spagna ha adottato una Costituzione più flessibile, basata sul principio che le competenze (i poteri di spesa) delle regioni si sarebbero adattate alla dinamica delle entrate dei singoli territori e alla capacità degli amministratori di gestire le spese connesse alle competenze attribuite. Per qualche regione, sono stati costruiti – fin dall’inizio – ordinamenti speciali di competenze e di regole finanziarie. La storia del federalismo fiscale in Spagna iniziò con un modello di decentramento asimmetrico, con un gruppo di cinque regioni messe su un percorso accelerato rispetto alle altre dieci. L’asimmetria riguardava i compiti assegnati e i mezzi di finanziamento. Alle cinque regioni privilegiate vennero assegnati più ampi compiti e maggiori poteri; vennero anche assegnate quote di compartecipazione al gettito dei tributi statali e la facoltà di applicare una sovraimposta sull’Imposta personale sul reddito. A fronte dei compiti in materia di tutela della salute ricevevano trasferimenti con vincolo di destinazione. Le competenze, i poteri e i mezzi di finanziamento delle dieci regioni ordinarie sono andati progressivamente crescendo nel tempo, talché «dopo il trasferimento dell’istruzione alle regioni ordinarie nel 2000 e il trasferimento della sanità nel 2002, l’assegnazione di compiti risulta molto simile tra tutte le regioni» (Davies, Piperno, Vinuela, in Managing fiscal decentralization, 2002, p. 148). Rimangono, nel caso spagnolo, alcune importanti contraddizioni tra gli obiettivi posti dalla Costituzione sui livelli minimi delle prestazioni dei servizi e le disuguaglianze negli importi delle risorse che affluiscono alle singole regioni come risultato delle diverse strutture dei modelli di finanziamento (Davies, Piperno, Vinuela, p. 151).
Evoluzione del sistema di federalismo fiscale in Italia
L’evoluzione dei sistemi di federalismo fiscale è, in tutti i Paesi, parte integrante della storia e dello sviluppo del settore pubblico. La teoria del federalismo fiscale è figlia della teoria della spesa pubblica e delle teorie economiche sui compiti dello Stato e sulla tassazione. Anche in Italia, un Paese nato con una struttura fortemente accentrata, si è proceduto, fin dall’origine, a spostare l’offerta di beni e servizi pubblici dal centro alla periferia o viceversa, a definire nuove fonti di entrata o a spostare quelle esistenti, inseguendo i diversi e mutevoli obiettivi dell’azione pubblica: l’efficienza, la responsabilizzazione finanziaria, l’uniformità formale dell’offerta sul territorio nazionale, la giustizia distributiva.
L’avvio di un ordinamento riconducibile ai principi del federalismo fiscale – inteso come una raccolta ordinata di norme sulla assegnazione di compiti, poteri e fonti di finanziamento a enti decentrati (nella specie province e comuni) – può essere fatto risalire agli anni Trenta del secolo scorso con la rivisitazione della Legge comunale e provinciale (il T.U. del 1915) e con la compilazione del Testo unico sulla finanza locale del 1931. La prima assegnava compiti e poteri alle amministrazioni locali, imponendo regole sugli equilibri di bilancio; il secondo disponeva i mezzi di finanziamento, con un pacchetto diversificato di tributi che offriva ai singoli enti, ancorché diversi per dimensioni demografiche e struttura economica, opportunità di ‘gettito adeguato’. Non era previsto nell’ordinamento un requisito sui livelli delle prestazioni dei servizi che dovevano essere forniti e nemmeno venivano ipotizzati programmi di intervento statale che tenessero conto delle differenti capacità contributive dei diversi territori. L’equilibrio di bilancio, perseguito attraverso la diversità delle basi imponibili, doveva essere assicurato, quando necessario, unicamente da variazioni delle aliquote dei tributi assegnati.
Il sistema di finanza locale disegnato negli anni Trenta entrò in crisi per effetto dell’inflazione che accompagnò la fine della seconda guerra mondiale e gli anni successivi. Il governo centrale avviò un programma di sostegno alle finanze degli enti locali basato sull’autorizzazione a contrarre mutui per finanziare gli squilibri di bilancio che consentiva, tra l’altro, di contabilizzare gli interessi dei mutui del passato nella determinazione dell’entità dei nuovi mutui; agli incentivi perversi di quest’ultima opportunità, favorevoli alla espansione illimitata della spesa, venne posto rimedio limitando l’autonomia decisionale degli enti.
Con il Titolo V della Costituzione del 1948 vennero istituite le regioni, nelle due classi a statuto ordinario e a statuto speciale, con l’assegnazione di poteri legislativi e con una struttura di finanziamento basata su tributi propri e quote di tributi erariali. L’attuazione concreta dell’ordinamento regionale si avviò solo a partire dal 1970.
Sul fronte della finanza locale è da segnalare la riforma tributaria del 1971 che abolì tutti i tributi locali e la decisione, operativa dal 1978, di assumere direttamente a carico del bilancio statale il finanziamento delle attività di comuni e province. Nello stesso 1978 venne istituito il Servizio sanitario nazionale che spostò sulle regioni, fino ad allora impegnate nella sola assistenza ospedaliera, la competenza per tutte le attività dirette alla tutela della salute. In quell’anno il sistema di federalismo fiscale italiano sperimentò la propria dissociazione massima tra spese ed entrate proprie, con queste ultime che andavano a coprire meno del 10% della spesa.
Negli anni successivi, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, il legislatore riprese ad assegnare fonti di entrata propria a regioni ed enti locali ed a ridurre il ruolo dei trasferimenti erariali. Nel 1993 venne istituita l’ICI (Imposta comunale sugli immobili) e venne trasferito alle regioni il gettito dei contributi sanitari. Nel 1995, l’espressione federalismo fiscale entra nella terminologia del nostro ordinamento giuridico in connessione con la attribuzione alle Regioni a statuto ordinario (RSO) di una frazione dell’accisa sulla benzina. Nel 1997 fu assegnata alle regioni la nuova Imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) in sostituzione dei contributi sanitari e della tassa sulla salute; fu assegnata alle regioni e ai comuni una addizionale alla base imponibile dell’Imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) e alle province una quota importante del prelievo statale sui premi assicurativi. Sempre nello stesso anno venne avviato il trasferimento alle regioni dei compiti di gestione di funzioni e attività appartenenti alla competenza legislativa dello Stato. Nel 2000 furono modificate, attraverso il d.legisl. 18 febbr. n. 56, le regole di determinazione dell’intervento statale a sostegno dell’attività regionale, adottando una versione ridotta dei modelli di perequazione incompleta della capacità fiscale. Al momento della sua prima applicazione, nel 2002, l’efficacia del provvedimento venne sospesa.
Nel 1991 – a fianco del susseguirsi di interventi del legislatore ordinario – iniziarono i dibattiti in Parlamento sulla modifica degli articoli che, nella Costituzione del 1948, definiscono le competenze di spesa e gli strumenti di finanziamento delle regioni a statuto ordinario, con l’orientamento di ampliarne le competenze legislative e i poteri tributari. Questa fase portò alla modifica del Titolo V della Costituzione del 1948 che divenne efficace dopo il referendum del 7 ottobre 2001 e che oggi presiede sul sistema di federalismo fiscale italiano.
Non si può non ricordare che le lunghe ondate di accentramento e decentramento delle spese e dei mezzi di finanziamento si sono accompagnate a un rilevante sviluppo del settore pubblico, il cui peso nell’economia italiana è andato progressivamente aumentando: infatti, la spesa pubblica complessiva, che assorbiva il 22% del PIL nel 1951, ne assorbe oggi circa il 47%. Molti commentatori, inclusi esponenti delle Istituzioni internazionali (come Vito Tanzi, in Managing fiscal decentralization, 2002) hanno argomentato che l’imperfetta struttura del sistema di federalismo fiscale italiano potrebbe avere concorso a sostenere la crescita della spesa pubblica, della pressione tributaria e del debito pubblico nel nostro Paese.
I caratteri del sistema di federalismo fiscale in Italia
Per valutare i caratteri del sistema di federalismo fiscale italiano alla luce anche delle proposizioni teoriche, si possono considerare in successione i diversi aspetti della organizzazione attuale dei rapporti finanziari tra centro e periferia, come segue: il decentramento dei poteri sulla spesa pubblica; il decentramento dei poteri tributari; il sistema dei trasferimenti finanziari dello Stato; i diversi modelli di federalismo fiscale in Italia; l’autonomia tributaria tra tributi propri e trasferimenti statali; i conflitti tra centro e periferia, ovvero dell’ingerenza statale; la disciplina fiscale; le regole di perequazione.
Il decentramento dei poteri di spesa
Quale è il grado di decentramento della spesa pubblica e dei mezzi di finanziamento (imposte, contributi sociali non previdenziali e entrate extratributarie) oggi in Italia? Nel 2007 le spese delle amministrazioni pubbliche italiane (al netto degli ammortamenti) sono state pari complessivamente a 726,8 miliardi di euro e le entrate a 697,6 miliardi, con un deficit di 29,2 miliardi (tab. 1). Questi aggregati non sono però del tutto rilevanti per i nostri fini perché gli importi citati includono poste che non hanno rilievo per misurare il grado di decentramento. L’attenzione si deve concentrare sulle spese tipiche dell’azione pubblica, consumi e investimenti pubblici, trasferimenti alle famiglie e alle imprese finalizzati a obiettivi di politica economica e sociale e deve escludere le categorie di spesa che non appartengono, logicamente, all’insieme dei compiti pubblici per i quali esiste l’opzione se decentrare o non decentrare. Almeno due categorie di spesa hanno questo carattere: le spese per le pensioni pubbliche erogate dagli enti di previdenza che non hanno rilievo territoriale meritevole di attenzione, e la spesa per interessi sul debito pubblico che è, oggi, concentrata quasi per intero sul bilancio dello Stato a seguito di decisioni di politica economica assunte all’inizio degli anni Ottanta. Non essendo possibile ricondurre la spesa per interessi ai settori di spesa che la hanno storicamente originata, è preferibile non considerarla. Poiché le spese per pensioni e per interessi sono state pari nel 2007 rispettivamente a 216,4 e 79,7 miliardi di euro, la spesa complessiva diretta allo svolgimento dei compiti pubblici risulta pari a 430,7 miliardi. Questa spesa può essere ripartita tra centro e periferia sulla base delle informazioni fornite nei conti elaborati dall’ISTAT ai fini dell’inserimento del settore pubblico negli schemi di contabilità nazionale (ISTAT 2008), aggiustate per spostare le spese delle università statali dal comparto delle amministrazioni locali, in cui sono tradizionalmente collocate, alle amministrazioni centrali. Senza pretesa di precisione assoluta, il centro eroga al sistema economico 229 miliardi di spese, mentre la periferia eroga 201,7 miliardi (tab. 1). Il peso dei due comparti è pari rispettivamente al 53,3% e il 46,7% del totale. Si può quindi affermare che l’attuale settore pubblico italiano è caratterizzato da un elevato grado di decentramento della spesa.
Il decentramento dei mezzi di finanziamento
Molto diversi sono i risultati sul fronte delle entrate. Gran parte del gettito e del potere tributario è nelle mani dello Stato e affluisce al suo bilancio. Solo una quota modesta del gettito tributario complessivo affluisce a regioni, comuni e province. Il totale delle entrate tributarie ed extratributarie ammonta nel 2007 (al netto degli ammortamenti) a 697,6 miliardi (tab. 1). Da questo importo si può dedurre, in corrispondenza a quanto fatto per le spese, il gettito dei contributi sociali riservati al finanziamento delle pensioni, pari a circa 150 miliardi. Rimane un totale di entrate per le quali esiste l’opzione se decentrare o no, pari a 547,6 miliardi. Questo importo è ripartibile tra centro e periferia, dopo avere aggiustato i dati delle università statali sulla base di quanto già indicato per la spesa e i dati delle Regioni a statuto speciale (RSS) per le quali le compartecipazioni al gettito dei tributi erariali – che l’ISTAT, nel proprio conto delle Amministrazioni locali, considera come entrate proprie delle regioni – è opportuno siano considerate come trasferimenti dal bilancio statale. Con queste correzioni, il totale delle entrate del centro ammonta a 449,5 miliardi e quello della periferia a 98,1 miliardi, pari rispettivamente all’82,1% e al 17,9% del totale.
Il sistema di federalismo fiscale in Italia è caratterizzato quindi da un notevole sbilancio tra decentramento delle attribuzioni di spesa e decentramento del gettito delle entrate proprie (tributarie ed extratributarie). Il centro si presenta con un saldo positivo tra entrate proprie e spese per funzioni proprie pari a 220,5 miliardi; questo saldo finanzia il disavanzo del sistema previdenziale (66,4 miliardi), gli interessi sul debito statale (75,2 miliardi) e un insieme di trasferimenti finanziari agli enti decentrati il cui importo complessivo ammonta a 114,2 miliardi. Il risultato è un saldo negativo di 35,3 miliardi.
Il sistema degli enti decentrati si presenta con un saldo tra entrate proprie e spese per funzioni proprie che è negativo e pari a 108,1 miliardi. Le entrate proprie (98,1 miliardi) coprono solo il 47,6% (tab. 2) della spesa complessiva, essendo la restante parte (52,6%) coperta da trasferimenti erogati, a diverso titolo, dal bilancio dello Stato.
Considerando i diversi comparti della Amministrazione locale, escludendo sempre le università statali, si osserva che le loro strutture finanziarie non sono molto dissimili tra loro. Le Regioni coprono con entrate proprie il 49,8% della loro spesa complessiva, le Province il 47,6% e i Comuni il 52,9% (tab. 2).
È da segnalare che per quanto concerne il ruolo delle entrate proprie derivante dal prelievo tributario locale non c’è – diversamente da quanto avviene per i gettiti tributari che sono acquisiti dallo Stato – una piena corrispondenza tra i gettiti che affluiscono ai bilanci degli enti decentrati e i poteri che dovrebbero essere a essi connessi. In molti casi, a livello periferico, al gettito non corrisponde potere tributario (v. oltre: Tributi propri, compartecipazioni e livelli di autonomia).
I finanziamenti non tributari
Come si è visto, l’importo complessivo dei trasferimenti statali che affluiscono alle amministrazioni locali e regionali è, in Italia, molto elevato (circa 114 miliardi di euro) e determinante per gli equilibri dei loro bilanci. Esso risulta da una varietà di programmi, tutti definiti in via legislativa, in qualche caso con leggi di rilievo costituzionale, caratterizzati da diverse origini, regole di assegnazione, grado di vincolatività per i riceventi, regole di crescita nel tempo. Per illustrare i caratteri del modello (o dei modelli) di federalismo fiscale presenti nel nostro Paese, è utile qualche considerazione sulle diverse tipologie di trasferimenti presenti nel nostro ordinamento. Utilizzando le informazioni proposte dalla Relazione generale del 2007 (Ministero dell’economia e delle finanze 2008) e con qualche approssimazione sulle stime quantitative, si individuano le seguenti categorie di trasferimenti: a) compartecipazioni al gettito dei tributi erariali prodotto all’interno della giurisdizione, pari a 20 miliardi di euro; b) trasferimenti associati alla devoluzione di quote del gettito di tributi, ripartiti sulla base di indicatori di fabbisogno, pari a 38 miliardi; c) trasferimenti per il finanziamento generale dell’attività, assegnati senza vincolo di destinazione, pari a 31 miliardi; d) trasferimenti per finalità specifiche, ma senza vincoli espliciti di destinazione, pari a 10 miliardi; e) trasferimenti per finalità specifiche definite da leggi dello Stato, con vincolo di destinazione, pari a 15 miliardi.
I finanziamenti di cui alla lettera a), tipici delle RSS, sono definiti dagli statuti di autonomia o dalle relative norme finanziarie che fissano l’aliquota di compartecipazione al gettito dei tributi di competenza della giurisdizione di riferimento.
I finanziamenti di cui alle lettere b) e c) risultano da leggi che ne determinano gli importi e le regole di crescita nel tempo, ovvero il valore dell’aliquota devoluta. Il riparto tra gli assegnatari avviene sulla base di regole fissate dalla legge, ispirate alla valutazione dei ‘fabbisogni’ di spesa degli assegnatari.
I finanziamenti di cui alla lettera d) rappresentano una forma tecnica di quelle precedenti ed incorporano una indicazione del settore di destinazione.
I finanziamenti di cui alla lettera e) riguardano programmi il cui merito è valutato e deciso dal legislatore nazionale; sono assegnati su valutazioni dei ‘fabbisogni’ e sono frequentemente associati a obbligo di cofinanziamento da parte del beneficiario. In larga misura riguardano interventi di conto capitale (opere pubbliche o simili di regioni ed enti locali)
Due diversi modelli di federalismo fiscale
La natura e i caratteri dei programmi di trasferimento finanziario dallo Stato agli enti decentrati consentono di evidenziare, nel nostro Paese, la presenza di almeno due diversi modelli di federalismo fiscale.
Il primo è tipico delle RSS per le quali valgono: la assegnazione di più ampie competenze legislative (sulla spesa pubblica e sulla attività di regolazione) rispetto a quelle attribuite alle RSO; una regola di finanziamento basata in prevalenza su finanziamenti del tipo di cui alla lettera a) del precedente paragrafo, cioè compartecipazioni al gettito dei tributi erariali prodotto o riscosso nella giurisdizione.
Il secondo è quello che caratterizza le RSO, le province e i comuni, per i quali valgono competenze variamente definite dalla Costituzione, dalle leggi o dalla storia, uguali per tutti gli enti. Per questi enti, il finanziamento dello Stato si basa quasi esclusivamente su regole di accertamento dei fabbisogni di spesa dei singoli territori. In qualche caso si tratta di regole sofisticate (come è nel caso del finanziamento della spesa sanitaria), in altri casi si tratta di regole molto semplici nelle quali domina la considerazione della cosiddetta ‘spesa storica’, vale a dire la memoria della vita passata di ciascun ente.
I due modelli e le loro conseguenze pratiche possono essere agevolmente illustrati con riferimento al diverso ordinamento finanziario delle RSO e delle RSS, relativamente alle quali la struttura del finanziamento, nei dati per abitante, è illustrata nella tab. 3.
La differenza tra i due modelli di finanziamento, e quindi tra i due modelli di federalismo fiscale, risulta chiara sia nell’aspetto quantitativo sia negli aspetti strutturali. In relazione al primo aspetto, si osserva che la spesa media per abitante nelle RSO è pari a 2159,4 euro, contro i 4137,9 euro nelle RSS (tab. 3). In relazione al secondo aspetto, si rileva che per le RSS la fonte principale di finanziamento è costituita dai proventi delle compartecipazione al gettito dei tributi statali prodotti o riscossi nel territorio regionale; non ci sono tali fonti di entrata nelle RSO e i proventi della compartecipazione al gettito dell’IVA sono assegnati alle singole regioni senza alcun riferimento alle basi imponibili o al gettito generato nel territorio regionale, ma sulla base di indicatori dei fabbisogni di spesa.
Le maggiori attribuzioni pro capite delle RSS riflettono solo in parte le più ampie competenze loro assegnate rispetto alle RSO; in parte esse riflettono le particolarità delle scelte compiute sulla forma tecnica del finanziamento. Questo è infatti basato sulla compartecipazione al gettito dei tributi prodotto nel territorio regionale. La scelta delle percentuali di compartecipazione, diversa per le diverse regioni, è stata fatta inizialmente, senza una precisa corrispondenza con il costo dell’esercizio decentrato dei poteri di spesa, in relazione a una costruzione ideale nella quale aveva un peso rilevante l’obiettivo di consentire a questi territori, tutti periferici, di recuperare lo svantaggio economico di cui essi soffrivano nei confronti del resto del Paese. Solamente a partire dal 1993 sono entrate nei rapporti tra Stato e RSS valutazioni dirette ad adeguare la assegnazione dei compiti e gli obblighi di finanziamento alle risorse assegnate. Comparti come sanità, scuola, assistenza e finanza locale sono stati progressivamente portati a carico dei bilanci delle RSS, senza però che il processo si sia sviluppato in modo coerente in tutte le regioni.
Per le RSO, invece, il modello di finanziamento si è basato e si basa tuttora – con qualche limitata eccezione – sul 3° co. dell’art. 119 della Costituzione del 1948 che fa riferimento al costo delle funzioni normali delle attività svolte. La corrispondenza tra costo delle funzioni assegnate e mezzi di finanziamento rappresenta l’elemento guida per la definizione degli strumenti di finanziamento.
Sono quindi presenti nell’ordinamento italiano due diverse filosofie. Per le RSS: il decentramento ha riguardato in via prioritaria l’ammontare delle risorse; a esso sono state adattate le funzioni da svolgere; lo Stato ha rinunciato alla definizione dei livelli di spesa e al controllo di merito sull’utilizzo delle risorse finanziarie. Per le RSO: lo Stato ha prima deciso l’assegnazione delle funzioni; alla stima del loro costo è stato adattato il finanziamento; lo Stato interviene nella determinazione degli appropriati livelli di spesa e utilizza finanziamenti con vincoli di destinazione.
Tributi propri, compartecipazioni e livelli di autonomia
La misura del rapporto tra entrate proprie e spese complessive (tabb. 1 e 2) non è sufficiente per definire i caratteri di un sistema di federalismo fiscale. A tale scopo valgono considerazioni aggiuntive: sui vincoli alle scelte di spesa; sulle finalizzazioni imposte all’utilizzo del gettito dei tributi propri; sulla struttura dei mezzi di finanziamento; sull’autonomia nell’utilizzo degli strumenti di finanza propria. Per illustrare questa proposizione si può fare riferimento all’attività delle RSO, il livello di governo sul quale, più degli altri, si è esercitato l’intervento del legislatore, costituzionale e ordinario.
Il sistema di federalismo fiscale italiano, così come vigente oggi, è ispirato a criteri di uniformità nell’offerta delle attività pubbliche nelle diverse giurisdizioni. Le regole di finanziamento sono riconducibili all’art. 119, 2° co., della Costituzione del 1948: «Alle regioni sono attribuiti tributi propri e quote di tributi erariali, in relazione ai bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere le loro funzioni normali».
L’esempio principale di applicazione di questo concetto è nel campo della tutela della salute, per il quale la spesa sanitaria è regolata dalla determinazione centralizzata dei fabbisogni di spesa delle singole regioni. Data la spesa assegnata a ogni singola regione, deducendo per ogni regione il gettito dei tributi propri assegnati al suo finanziamento (l’IRAP e l’addizionale regionale all’IRPEF), si determina l’importo del trasferimento ‘perequativo’ a carico del bilancio dello Stato. La somma dei trasferimenti perequativi assegnati a ciascuna regione determina l’importo complessivo del trasferimento finanziario a carico dello Stato. Tale importo viene nozionalmente riportato al gettito di un tributo erariale (nella specie l’IVA) definendo la ‘quota’, ovvero l’aliquota di compartecipazione delle regioni a tale gettito.
La compartecipazione al gettito del tributo statale, anziché essere il motore del finanziamento, come è nel caso delle RSS, diventa un fatto residuale: l’intervento statale è dato dalla differenza tra il ‘fabbisogno di spesa’ e il gettito regionale dei tributi assegnati allo scopo.
Schemi analoghi sono stati utilizzati in occasione di vari interventi di riordino della finanza regionale, con i quali il gettito di nuovi tributi ha preso il posto di programmi di trasferimenti statali finalizzati a specifici settori e aree di intervento. A titolo di esempio ci può ricordare che nel 1995 è stata assegnata alle RSO una frazione dell’aliquota dell’accisa sulla benzina prodotta nel territorio regionale. Poiché il gettito risultante dall’applicazione dell’aliquota non era in grado di compensare, nelle regioni a più basso reddito, l’importo dei trasferimenti precedentemente assegnati, è stato definito un ulteriore programma di trasferimenti statali in base al quale le spettanze regionali erano fatte pari alla differenza tra le spettanze originarie e il gettito dei tributi assegnati. Dalla ripetuta applicazione di interventi di questo tipo, che pure hanno portato all’aumento delle entrate proprie, non è derivata una modifica delle risorse che affluiscono alle singole regioni, dato che i minori gettiti nelle regioni a più basso reddito sono stati compensati con trasferimenti statali integrativi.
L’autonomia tributaria
Elemento costitutivo di un sistema di federalismo fiscale è l’autonomia tributaria degli enti decentrati. A essa è affidato il compito di adattare l’offerta di beni e servizi pubblici alla disponibilità a pagare da parte dei contribuenti della giurisdizione.
L’autonomia tributaria si presenta con due diversi aspetti. Primo, la connessione dei gettiti raccolti con le basi imponibili proprie del territorio regionale. Secondo, la facoltà di aggiustare l’entità della pressione tributaria sui contribuenti che operano nella regione per adattare l’offerta ai bisogni o alle preferenze espresse nei processi di decisione budgetaria.
In relazione al primo punto, appare che, per le RSO, la quota delle entrate proprie sul totale era pari nel 2003 al 45,9% e nel 2005 al 50,5%. Tuttavia, una parte importante del gettito delle entrate proprie viene considerata come un acconto sull’importo complessivo del finanziamento dei fabbisogni definiti dallo Stato. Nel 2003, dedotte le entrate proprie a ciò finalizzate, risulta (tab. 4) che solo il 24,3% (10,7 miliardi su un totale di 44,0) del complesso delle entrate proprie non è assegnato al finanziamento dei ‘fabbisogni’. Sul totale delle risorse delle RSO risulta quindi che solo l’11,2% delle entrate complessive (10,7 miliardi su un totale di 95,8) esprime potenzialità di spesa legate alla capacità economica dei singoli territori regionali. La diversità delle capacità contributive dei diversi territori non si trasferisce se non in minima parte in potenzialità di spesa differenziata.
Si evidenzia quindi una differenza strutturale tra il grado di autofinanziamento (o autonomia) misurato dal complesso dei gettiti raccolti nel territorio regionale e quello che risulta dalla potenziale differenziazione derivante dalle entrate proprie sui livelli di spesa. Elevati e crescenti gettiti tributari non esprimono – quando vincolati nella spesa dai criteri di perequazione dei fabbisogni – riduzioni significative per quel che riguarda il grado di dipendenza delle regioni dalle regole del centralismo.
In relazione al secondo punto si osserva che poche regioni hanno modificato le aliquote base dell’IRAP, dell’addizionale IRPEF e dell’accisa sulla benzina. Come conseguenza, il gettito proveniente dall’esercizio esplicito dell’autonomia nella determinazione delle aliquote di prelievo o in interventi sulle basi imponibili dei tributi assegnati alle regioni risulta ancora oggi molto basso. Nella tab. 4, il gettito dei principali tributi regionali è stato ripartito tra la componente standardizzata, che risulta dalla applicazione delle aliquote base dei singoli tributi e la componente derivante dall’utilizzo delle facoltà di modifica delle aliquote e delle basi imponibili concesse dalla legge nazionale. Risulta che la componente autonoma è pari a meno del 2% delle entrate complessive delle Regioni (1,4 miliardi su un totale di 95,8).
Diversa è la situazione dei comuni che hanno utilizzato, con maggiore intensità delle regioni, gli spazi di autonomia soprattutto nella determinazione delle aliquote dell’ICI. Il gettito complessivamente associato all’esercizio dell’autonomia tributaria da parte dei comuni copre più del 10% del complesso delle loro entrate. Invero per i comuni vale un caveat legato al fatto che l’uso degli spazi di autonomia tributaria è dovuto non soltanto all’emergere di specificità della domanda nei diversi territori, ma soprattutto – come è mostrato dalla grande diffusione degli aumenti di aliquote – è determinato dalla necessità di rimediare al venir meno (o alla mancata crescita) dei trasferimenti finanziari dello Stato.
Conflitti di competenza e potere di ingerenza
Uno dei temi classici dei sistemi di federalismo fiscale è costituito dalla inarrestabile tendenza all’ingerenza del governo centrale negli affari degli enti decentrati. Le concrete relazioni tra centro e periferia a riguardo dell’autonomia dei poteri di spesa e degli strumenti di finanziamento si sono caratterizzate per il continuo intervento del legislatore nazionale sulle materie e sui compiti svolti dalle regioni. In qualche misura, tale situazione è connaturale al regime della competenza concorrente entro il quale si svolge quasi tutta l’attività regionale. Le espressioni sui vincoli posti alla legislazione regionale di non essere «in contrasto con l’interesse nazionale e delle altre Regioni» (art. 117 della Costituzione del 1948) si prestano naturalmente a conflitti sul confine tra i poteri del centro e quelli della periferia. La storia dei rapporti tra Stato e regioni mostra che lo Stato è intervenuto nei settori affidati alla competenza regionale in modo continuativo; ha legiferato su centinaia di programmi di spesa, fornendo le risorse finanziarie, su materie che stanno sul confine tra le competenze legislative dello Stato e quelle delle regioni; ha trasferito infine a queste ultime, finanziandole attraverso contributi specifici, attività e compiti appartenenti alla competenza propria dello Stato. Dal canto loro le regioni hanno spesso legiferato in materia tributaria e in materia di spesa al di fuori dei propri poteri.
Ne è risultato un sistema di federalismo fiscale che si caratterizza per conflitti tra centro e periferia e che incentiva entrambi i contendenti a ricorrere alla Corte costituzionale per affermare le proprie ragioni. Le situazioni di conflitto tra livelli di governo non sono una peculiarità esclusiva del nostro sistema; tuttavia, il caso italiano si caratterizza per la numerosità dei ricorsi alla Corte costituzionale diretti a risolvere i conflitti di potere e la nuova Costituzione non ha ridotto il grande numero dei conflitti. Il nuovo art. 117 ha ampliato in modo significativo rispetto al passato le materie assegnate alla competenza legislativa concorrente delle regioni, oltre a individuare una categoria residuale di materie assegnate alla loro competenza legislativa esclusiva. Il regime della competenza concorrente vincola l’iniziativa legislativa delle regioni al rispetto dei ‘principi fondamentali’, che però il legislatore nazionale non ha ancora definito in modo esplicito e che devono quindi essere letti dal legislatore regionale nel testo delle leggi statali esistenti. Molte leggi regionali forniscono, volta per volta, proprie letture dei ‘principi fondamentali’ ricavati dalle leggi esistenti. Inoltre, in numerose circostanze, il legislatore nazionale ha attribuito la qualifica di ‘principio fondamentale’ a disposizioni anche di dettaglio operativo.
La Corte costituzionale, adita ora dallo Stato ora dalle regioni a risolvere i conflitti, ha assunto orientamenti mutevoli, in prevalenza restrittivi nei confronti delle letture dei ‘principi fondamentali’ adottate dalle leggi regionali. Non c’è settore di intervento pubblico che sfugga a questa diatriba. La Corte costituzionale ha anche dato particolare rilievo a quelle materie (riservate alla competenza esclusiva dello Stato) che definiscono non tanto le funzioni dirette alla fornitura di beni pubblici, quanto i poteri di regolazione di attività private o pubbliche (quali la tutela della concorrenza, la definizione dei livelli delle prestazioni dei servizi prodotti dalle regioni ecc.). Il potere di ingerenza dello Stato nelle attività delle regioni viene fatto discendere non dall’argomento che la legge regionale tratta interventi che rientrano nelle competenze legislative dello Stato, bensì dall’argomento che essa interferisce con materie sulle quali quest’ultimo ha un potere esclusivo di regolazione.
Disciplina fiscale
Se lo Stato esprime un eccesso di ingerenza nelle attività degli enti decentrati, questi hanno vissuto finora l’esperienza del federalismo fiscale in uno stato di frequenti violazioni dell’obbligo del rispetto del vincolo di bilancio. In parte per aumenti di spesa originati dall’intervento del legislatore nazionale, in parte per la mancanza di regole chiare, ma soprattutto per una tradizione politica che ha visto lo Stato centrale quasi sempre soccombente nei negoziati sulla copertura degli eccessi di spesa, il federalismo fiscale italiano è stato spesso accusato, a ragione, di incapacità a governare i flussi di spesa nelle materie assegnati alla competenza legislativa o amministrativa di regioni ed enti locali. Nello specifico settore della spesa sanitaria, non c’è stato anno, a partire dall’avvio del Servizio sanitario nazionale nel 1978, nel quale i flussi effettivi di spesa siano stati pari o inferiori a quelli programmati all’inizio dell’anno; in molti casi perché la programmazione finanziaria dei flussi assegnati alle regioni era chiaramente velleitaria; in altri casi perché la programmazione delle prestazioni sanitarie non teneva nel debito conto le assegnazioni finanziarie decise dal governo centrale.
Le pratiche che portano a eccessi di spesa rispetto alle entrate assegnate sono state e sono molto frequenti nel nostro ordinamento, che non ha trovato né la forza politica di disporre in via legislativa adeguate sanzioni, né il coraggio di applicare le sanzioni disponibili nell’ordinamento.
Un buon sistema di federalismo fiscale è quello che rende operativi i vincoli di bilancio e che non consente di impegnare risorse in misura superiore a quanto programmato. È opinione comune che una combinazione di finanziamenti nel quale i trasferimenti statali prevalgono sulle entrate proprie favorisce le pratiche di gestione non scrupolosa dei vincoli di bilancio e che, al contrario, un finanziamento dell’intero della spesa con mezzi tributari sarebbe un potente strumento di ‘responsabilizzazione fiscale’. Le regole pratiche del tipo ‘se spendi di più dovrai aumentare le tasse’ trovano spesso una eco condivisibile nelle proposte di riordino del nostro sistema di federalismo fiscale. Infine, bisogna ricordare che il 6° co. dell’art. 119 della nuova Costituzione stabilisce che il ricorso al debito è limitato al finanziamento delle spese di investimento e che, quindi, i bilanci di parte corrente dovrebbero essere sempre in pareggio o in avanzo.
Le regole di perequazione
Le regole di perequazione sono un elemento costitutivo di ogni sistema di federalismo fiscale. Come già detto all’inizio, esse rappresentano il correttivo del primo elemento costitutivo in base al quale, stabilendosi le appropriate connessioni tra spesa locale e prelievi sui cittadini che dalla spesa traggono beneficio, l’offerta pubblica sul territorio si caratterizza per diversità nella quantità e nella composizione. L’offerta adattata alle preferenze è una delle componenti dell’efficienza dei sistemi economici.
La diversa domanda concretamente espressa dai cittadini nelle diverse giurisdizioni attraverso le procedure di rappresentanza politica rivela non solo le diversità nelle preferenze, ma anche le diversità nei livelli di reddito medio dei cittadini delle diverse giurisdizioni, così come queste si esprimono nelle diversità dei valori medi delle basi imponibili dei tributi propri.
Tali diversità sono in Italia molto accentuate. Il reddito per abitante in Lombardia è 2,5 volte quello della Calabria. Se le risorse che affluiscono ai bilanci delle regioni dovessero provenire solo da entrate commisurate ai valori delle basi imponibili dei principali tributi assegnati alle regioni, i livelli dell’intervento pubblico nelle diverse giurisdizioni si presenterebbero molto differenziati, in parte per possibili diversità delle preferenze, ma soprattutto per diversità nelle basi imponibili dei tributi.
Gli orientamenti comuni espressi dalle decisioni politiche di molti Paesi e, in molteplici casi, le loro Costituzioni, hanno esplicitato giudizi di valore sulla inaccettabilità del trasferimento, sui livelli dei servizi prodotti dagli enti decentrati, delle differenze nelle basi imponibili dei tributi propri. Questi giudizi riguardano l’insieme delle attività degli enti decentrati, ma si applicano in modo più preciso e circostanziato a quelle attività che svolgono anche la funzione di strumento di riduzione delle disuguaglianze dei redditi personali. L’accesso gratuito (oppure a prezzi inferiori ai costi di produzione) a importanti servizi pubblici, quali l’istruzione, la sanità, l’assistenza e altri ancora, si affianca alla progressività del sistema tributario nel costruire le politiche di riduzione delle disuguaglianze dei redditi. La Costituzione tratta, specificamente negli artt. 30-35, dei cosiddetti diritti civili e sociali (la tutela della salute, l’istruzione, l’assistenza ecc.) che concorrono, insieme con l’art. 53, a definire gli ideali di giustizia distributiva nel nostro Paese. A questi ‘diritti’ corrisponde la produzione di beni e servizi pubblici che, in quanto appropriabili da tutti i cittadini a prezzi inferiori ai costi di produzione, modificano in modo radicale le condizioni di vita dei soggetti a più basso reddito.
Il fatto che l’attività pubblica in questi settori sia oggi ripartita tra Stato (per es., l’istruzione), regioni (per la sanità) e comuni (per l’assistenza) non ha comunque influito sul perseguimento dell’obiettivo della uniformità delle prestazioni su tutto il territorio nazionale, e ciò indipendentemente dal livello di governo al quale sono affidate le decisioni.
Per quanto riguarda il confronto interregionale dei livelli di spesa e dei mezzi di finanziamento si osserva che, per le RSO, a fronte di gettiti tributari per abitante che sono molto più elevati nelle regioni del Centro-Nord rispetto alle regioni del Mezzogiorno, lo Stato ha gestito i propri programmi di trasferimenti finanziari in modo da compensare le differenze nei gettiti tributari. Valgono in particolare le seguenti osservazioni: il gettito per abitante dell’insieme dei tributi propri è funzione crescente del reddito medio regionale; per la sanità, le diversità nel gettito dei tributi propri riservati al suo finanziamento sono compensate dal riparto della compartecipazione IVA in modo tale da determinare una spesa sanitaria che non risponde alle diversità dei redditi regionali, ma si avvicina a valori pro capite uniformi su tutto il territorio; per le altre spese, le diversità nel gettito per abitante dei tributi propri non destinati al finanziamento della spesa sanitaria sono più che compensate dalla politica dei trasferimenti statali; per le entrate regionali nel loro complesso, si osserva una relazione inversa tra i loro valori pro capite e il reddito medio della regione.
La perequazione, così come realizzata lungo le linee fissate dalla Costituzione del 1948, propone quindi una struttura complessiva del finanziamento che ribalta l’ordine in cui le regioni si porrebbero misurando la loro capacità di generare entrate proprie. La spesa per abitante risulta maggiore nelle regioni ove più bassa è la capacità fiscale.
Il nuovo Titolo V della Costituzione del 2001 sembra fissare, sia pure non in maniera del tutto esplicita, diverse regole di perequazione relative ai differenti tipi di attività delle regioni.
Per le attività riconducibili agli interventi finalizzati alla tutela dei diritti civili e sociali, la lettera m) del 2° co. dell’art. 117 assegna allo Stato la competenza legislativa esclusiva per la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Nei settori di spesa attuativi di questi diritti – ancorché assegnati alla competenza legislativa delle regioni o affidati per lo svolgimento dei compiti amministrativi ad altri enti locali – spetta allo Stato la determinazione sia dei ‘principi fondamentali’ ai quali le leggi regionali devono fare riferimento, sia dei ‘livelli essenziali delle prestazioni’ che devono essere erogati al cittadino. L’attività delle regioni, inclusa l’acquisizione dei mezzi finanziari, deve quindi percorrere il corridoio stretto posto dalle decisioni del legislatore e dal governo nazionale, un percorso tanto più stretto e tanto più predeterminato quanto maggiore è il peso dato all’attributo ‘essenziale’.
Il nuovo Titolo V della Costituzione mantiene quindi, per via dell’art. 117 – articolo riservato alla definizione delle competenze legislative – un orientamento molto rigido sulle regole di finanziamento delle regioni. Se la tutela della salute deve essere garantita su tutto il territorio nazionale per via della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, resta poco spazio per l’autonomia regionale e per regole di finanziamento che non siano quelle attuali basate sulla determinazione dei ‘fabbisogni di spesa’ nelle diverse regioni e sull’adeguamento delle risorse finanziarie occorrenti per soddisfare tali bisogni. Risulta evidente che non fa grande differenza se i mezzi originano da tributi propri assegnati dalle leggi dello Stato alle regioni, ovvero da trasferimenti a carico del bilancio dello Stato. La somma di queste due componenti è finalizzata a finanziare il costo dei ‘livelli essenziali delle prestazioni’ definiti a livello centrale. In questo senso la nuova Costituzione ripercorre, con rigore e precisione maggiori, i precedenti disposti della Costituzione del 1948, la quale faceva riferimento soltanto al costo delle funzioni normali.
Per le attività regionali che non rientrano nella fattispecie dei diritti civili e sociali, il nuovo Titolo V della Costituzione sembra offrire contenuti innovativi rispetto alle disposizioni del testo del 1948 – che non distingueva i criteri di finanziamento delle diverse attività regionali – introducendo al 3° co. dell’art. 119 il principio che le quote del fondo perequativo sono da assegnare ai soli territori con ‘minore capacità fiscale’. Emerge quindi il criterio della perequazione della capacità fiscale, ampiamente utilizzato in altri Paesi come guida per l’intervento statale. Secondo tale criterio, i trasferimenti dello Stato devono essere finalizzati a ridurre (o eliminare) le conseguenze che derivano, sulle entrate delle singole regioni, dalla diversità delle basi imponibili dei tributi propri assegnati alle regioni stesse. L’eliminazione di tali conseguenze (che originerebbe da un modello di perequazione completa della capacità fiscale) ha come effetto che le entrate complessive delle singole regioni si collocherebbero tutte su un uguale valore per abitante. La riduzione di tali conseguenze (che originerebbe da un modello di perequazione incompleta della capacità fiscale) ha come effetto invece che le entrate riservate al finanziamento di attività non rientranti nella lettera m) del 2° co. dell’art. 117 manterrebbero tra di loro diversi valori per abitante: nello specifico essi risulterebbero maggiori nelle regioni a reddito elevato rispetto a quelli delle regioni a basso reddito.
Nella maggior parte dei Paesi che hanno adottato il riferimento alla perequazione della capacità fiscale per il tramite di trasferimenti statali compensativi, le differenze originarie vengono ridotte in misura consistente, in misure variabili tra l’80 e il 95%. In nessun Paese, la perequazione ha portato ad annullare le differenze. È utile ricordare che l’idea della perequazione incompleta della capacità fiscale connaturale ai modelli di federalismo fiscale era entrata nell’ordinamento giuridico italiano con il d. legisl. 18 febbr. 2000 n. 56 di riforma della finanza regionale; tuttavia, alla sua prima applicazione nel 2002, le norme – che pure avevano ottenuto il placet delle regioni – non trovarono il gradimento della Conferenza delle regioni e vennero de facto disapplicate.
Le questioni aperte
In Italia esiste già da tempo un sistema di federalismo fiscale, così come è evidenziato dal fatto che circa il 47% della spesa pubblica diretta alla fornitura di consumi pubblici, alla spesa per infrastrutture, al sostegno dei redditi e dell’attività economica transita per i bilanci degli enti decentrati. Nel valutare le opportunità di intervenire su di esso, il policy maker si trova di fronte a un bivio. Da un lato l’opzione di correggere i punti deboli del sistema che esiste, tenendo conto delle disposizioni della nuova Costituzione. Dall’altro, l’opzione di ignorare l’esistente, avviare un provvedimento cosiddetto di attuazione della Costituzione del 2001 e procedere alla riprogettazione dell’intero sistema di federalismo fiscale. Non è dato sapere la strada che verrà seguita, possibilmente anche diversa o intermedia tra le due ipotesi estreme. In ogni caso, nella nuova Costituzione, almeno per quanto riguarda gli artt. 117, 118 e 119, vi è una serie di questioni aperte che riguardano:
1) la possibilità di espandere compiti e poteri legislativi alle RSO in attuazione dei contenuti del 3° co. dell’art. 117, soprattutto con riferimento alle due materie dell’istruzione e dell’assistenza.
2) Il riordino dei rapporti finanziari tra regioni, province e comuni in relazione: a) ai compiti delle regioni in materia di tributi regionali e di coordinamento della finanza pubblica, inclusa la finanza locale; b) ai dubbi sulla opportunità di far coesistere, a livello decentrato, quattro diversi livelli di governo (regioni, province, città metropolitane e comuni); c) alla questione della separazione tra poteri legislativi e compiti di amministrazione disposta, in via di principio, dall’art. 118; d) alla connessa questione se il finanziamento e le relative regole devono associarsi, in via prioritaria e in che misura, alla assegnazione delle competenze legislative piuttosto che allo svolgimento delle funzioni amministrative.
3) L’armonizzazione dei due contrastanti criteri di perequazione, quello implicito nella lettera m) del 2° co. dell’art. 117 e quello esplicito della perequazione della capacità fiscale, in relazione anche: a) alla scelta tra perequazione completa o incompleta; b) ai vincoli sugli strumenti finanziari da utilizzare per un buon sistema di relazioni finanziarie tra centro e periferia posti dalla rigidità del 3° co. dell’art. 119.
4) La ridefinizione delle regole dell’ingerenza del potere centrale nelle attività degli enti decentrati.
Le difficoltà da affrontare sono molte ed elevate per la oggettiva complessità dei problemi e per la indeterminatezza delle indicazioni della nostra Costituzione. Sulla complessità basti pensare alle conseguenze del possibile trasferimento alle RSO delle competenze legislative in materia di istruzione dovendo, allo stesso tempo, decidere come organizzare lo svolgimento dei compiti di gestione di un grande servizio pubblico secondo per dimensione solo alla assistenza sanitaria. Sulla indeterminatezza, si deve dire che la nostra Costituzione non si esprime su aspetti cruciali di un sistema di federalismo fiscale e, quando si esprime, a volte manca di precisione, a volte enuncia proposizioni che non sono realizzabili in pratica, a volte propone norme in evidente contrasto l’una rispetto all’altra. La sua attuazione potrebbe trovare aiuto nelle decisioni della Corte costituzionale, se mai la Corte dovesse iniziare a guardare al sistema di federalismo fiscale italiano nel suo complesso anziché alle singole disposizioni che lo definiscono, se tenesse presente l’esperienza passata del nostro Paese e il significato degli strumenti tipici del federalismo fiscale adottati anche negli altri Paesi europei, e se considerasse, con maggiore attenzione, le proposizioni che, negli ultimi due secoli, hanno costituito l’ossatura della teoria del federalismo fiscale.
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