Il sistema locale nella transizione costituzionale
La crisi economica induce tutti i paesi europei a ripensare l’assetto dei poteri pubblici, specialmente dei livelli di governo decentrati e autonomi. L’idea di fondo è che, per ridurre la spesa, sia necessario ridurre l’autonomia. Spesso, però, da questa diffusa volontà di riforma scaturiscono solo misure estemporanee che sollevano dubbi costituzionali e non garantiscono un reale risparmio di spesa. Il problema più evidente nel disegno di riordino avviato nel nostro ordinamento è rappresentato dal metodo. All’intenso uso della decretazione d’urgenza da parte del Governo ha fatto seguito una reazione della Corte costituzionale, che, nel 2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che prevedevano lo svuotamento delle funzioni e il riordino delle Province.
In questi ultimi anni è emersa la tendenza, nazionale ma anche europea, a ripensare l’articolazione dei livelli di governo e a riorganizzare il sistema delle autonomie locali.
Il carburante naturale che alimenta questa spinta riformatrice è fornito, in larga parte, dalla crisi economica, che induce a ripensare l’assetto dei poteri pubblici, specialmente dei livelli di governo decentrati e autonomi, nella prospettiva di realizzare (generici e per lo più indimostrati) risparmi di spesa. Il riordino territoriale è così divenuto un obiettivo che accomuna vari ordinamenti europei.
L’idea dichiarata apertamente dai governi è che, per ridurre la spesa, sia necessario ridurre l’autonomia. Ciò ha comportato una forte compressione degli enti territoriali e un’energica spinta all’uniformità dei modelli politici. Il rafforzamento del carattere vincolante del patto di stabilità, inoltre, ha imposto una centralizzazione dei meccanismi di controllo dei flussi finanziari, insieme ad una netta riduzione dell’autonomia di spesa e di entrata degli enti sub-statuali. Inutile dire che questa derubricazione di istituti di democrazia a questioni meramente economiche solleva più di una perplessità.
In molti casi le proposte avanzate mirano a sopprimere totalmente alcuni livelli istituzionali, in altri casi si procede a un riordino, a un accorpamento di enti e amministrazioni1. Dappertutto si ripensano i costi della politica, che com’è noto dipendono non solo dai livelli istituzionali, ma anche da organismi strumentali, a questi collegati, in costante aumento negli anni. Parallelamente, in alcuni Paesi europei (Spagna, Francia, Italia) riprendono quota sia i controlli preventivi, sia i controlli successivi: in Italia, nell’ultimo anno, la Corte dei Conti ha acquistato nuova centralità sui controlli sia dell’attività regionale che dell’attività dei governi locali.
Spesso, però, da questa diffusa volontà di riforma scaturiscono solo misure estemporanee, soluzioni tampone che sollevano dubbi costituzionali, non garantiscono un reale risparmio di spesa e producono per lo più un mero effetto-annuncio. In molti casi, la riforma vera e propria non si realizza, oppure, laddove si realizza, non assicura i risparmi di spesa significativi annunciati al momento di intraprenderla.
Si sono così prodotti una serie di cambiamenti improvvisati, che originano dall’urgenza di provvedere al contenimento della spesa pubblica e vengono presentati come imposti direttamente dall’Europa. Il tratto comune di tali misure di contenimento è l’assenza di organicità, la mancanza di una visione d’insieme, di un disegno complessivo2.
In Italia, a partire dalla fine del 2007 e, soprattutto, tra la fine del 2009 ed il 2012, sono state approvate una serie di leggi, per lo più statali, dirette a razionalizzare e, in sostanza, a ridimensionare «alcuni dei tratti dell’autonomia locale più tipici (o, per meglio dire, più avanzati) del sistema amministrativo italiano». Il fine ultimo di questi interventi è quello di ridurre la spesa complessiva del Paese: come sottolinea un recente documento governativo, «nel nostro assetto istituzionale decentrato si concentra ormai (tolta la spesa per pensioni e interessi) oltre la metà della spesa pubblica italiana ma il sistema si è progressivamente dimostrato di difficile gestibilità»3. Indubbiamente c’è un fondamento di verità in questa critica alle degenerazioni dello Stato autonomista: basti pensare alla proliferazione incontrollata degli enti strumentali, regionali e locali, che si è avuta negli ultimi vent’anni e ai costi che ad essa si ricollegano. Ma l’esigenza di razionalizzare l’amministrazione decentrata non necessariamente implica una destrutturazione, come quella che è in atto.
Le direttrici del cambiamento – imposto quasi sempre dall’alto, con un coinvolgimento minimo delle Regioni e delle autonomie locali – sono essenzialmente tre: 1) la scelta dei modelli di organizzazione e di gestione, anche in forma associata, delle rispettive funzioni e servizi; 2) l’articolazione dell’ordinamento locale, tradizionalmente ripartito in due livelli, comunale e provinciale, ed il rispettivo ruolo ad essi assegnato; 3) le forme e gli strumenti della rappresentanza democratica degli interessi e di garanzia delle minoranze4.
La crisi, oltre a gravi problemi economici, ha portato con sé una ventata di indignazione collettiva che ha spazzato via gran parte delle conquiste dell’autonomia nell’ultimo secolo: ciò ha implicato l’utilizzo di strumenti istituzionali sino a poco tempo fa addirittura impensabili. Oggi le riforme sono interamente programmate dal centro, vengono quasi sempre realizzate mediante lo strumento del decreto-legge. Tuttavia, nemmeno l’emergenza economica può legittimare indebite compressioni dell’autonomia costituzionalmente garantita5. Il legislatore statale, sempre più incline ad utilizzare l’emergenza come grimaldello per aggirare le prerogative degli enti territoriali, non può giustificare la compressione di alcuni valori fondanti del nostro sistema costituzionale, quali l’autonomia e il pluralismo istituzionale, con lo stato di crisi. Come ha sottolineato la Corte costituzionale, l’emergenza non può motivare un sacrificio illimitato dell’autonomia regionale e «il principio salus rei publicae suprema lex esto non può essere invocato al fine di sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali stabilite dalla Costituzione»6.
Il problema più evidente nel disegno di riordino avviato nel nostro ordinamento è, appunto, il metodo. Basti pensare al caso delle Province, di cui ci occuperemo con maggiore analiticità nel prossimo paragrafo: le proposte messe in campo dal Governo italiano negli ultimi due anni passano quasi tutte per la limitazione dell’autonomia finanziaria, funzionale e organizzativa di questi enti di area vasta e vengono realizzate – senza eccezioni – dal centro, mediante lo strumento del decreto-legge.
All’intenso uso della decretazione d’urgenza da parte del Governo ha fatto seguito una reazione della Corte costituzionale, che, con la sentenza 3.7.2013, n. 220, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 23, co. 4, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 20 bis del d.l. 6.12.2011, n. 201, convertito con modificazioni dall’art. 1, co. 1, della l. 22.12.2011, n. 214, e degli artt. 17 e 18 del d.l. 6.7.2012, n. 95, convertito con modificazioni, dall’art. 1, co. 1, della l. 7.8.2012, n. 135, per violazione dell’art. 77, in relazione agli artt. 117, co. 2, lett. p) e 133, co. 1, Cost.
La Corte costituzionale, in particolare, ha dichiarato l’incostituzionalità delle norme che prevedevano lo svuotamento delle funzioni e il riordino dell’assetto istituzionale e territoriale delle Province, «in quanto il decreto-legge, atto destinato a fronteggiare casi straordinari di necessità e urgenza, è strumento normativo non utilizzabile per realizzare una riforma organica e di sistema quale quella prevista dalle norme censurate nel presente giudizio». Si tratta di una decisione dotata di una portata molto ampia, non circoscritta alla tutela delle sole Province, ma estesa a tutto il sistema delle autonomie locali garantite dalla Costituzione. In sintesi, la Corte afferma che relativamente all’articolazione e alle dimensioni degli enti locali il legislatore non può utilizzare lo strumento del decreto-legge ma deve agire per via ordinaria o tramite riforme costituzionali.
Una seconda decisione della Consulta, nel medesimo torno temporale, è intervenuta a estromettere dall’ordinamento sia le sanzioni introdotte per i Presidenti di Regione da alcuni decreti attuativi del federalismo fiscale (il cd. “fallimento” politico dei Governatori), sia la relazione di fine legislatura, un importante strumento rendicontativo a carico dei medesimi (sent. 16.7.2013, n. 219). La sentenza della Corte costituzionale, depositata il 19.7.2013, si è pronunciata per l’incostituzionalità degli artt. 1-7 (fatta eccezione per gli artt. 4, 4 bis e 6) e 13 del d.lgs. 6.9.2011, n. 149 nonché dell’art. 1 bis, co. 1 e 4, del d.l. 10.10.2012, n. 174, convertito nella l. 7.12.2012, n. 213. Tuttavia, per quanto concerne gli enti locali (fatti salvi quelli ricompresi nel territorio di Regioni a Statuto speciale), oggetto del presente commento, la sentenza non sembra cancellare tali obblighi di rendicontazione. Pertanto i vertici politici degli enti locali (Sindaci e Presidenti delle Province) continuano ad essere tenuti a presentare una relazione di inizio e fine mandato, dal momento che per essi rimane in vigore l’ottavo decreto attuativo del federalismo fiscale e il relativo meccanismo sanzionatorio: rigorosi obblighi di rendiconto, dissesto guidato ed eventuale default politico quali conseguenze del colpevole fallimento del Comune amministrato.
La Raccomandazione adottata dal monitoring team della BCE il 29.4.2012 afferma che «accorpare le Province sarebbe l’unica vera misura di taglio dei costi della politica». Il Governo italiano si è quindi concentrato sulla riforma degli enti di area vasta, in particolare delle Province e delle Città metropolitane, nel tentativo di compiere una razionalizzazione della spesa per il governo territoriale. Questa scelta, opinabile nel merito, chiama necessariamente in causa il ruolo delle Province, la loro collocazione nell’ordinamento e la nozione stessa di autonomia costituzionale.
Molti interventi di revisione territoriale, in questi ultimi anni, si sono concentrati sulla dimensione provinciale. Nel 2012 il legislatore italiano ha infatti cercato di intervenire, a più riprese e senza un particolare ordine logico, sulla legittimazione politica (passando dalla elezione diretta ad una rappresentanza di secondo grado), sulle funzioni (sino a prevederne la riduzione ad un ruolo di solo indirizzo e coordinamento), sulle dimensioni (fondendo gli enti inferiori ad una determinata soglia territoriale o demografica) delle Province italiane. In precedenza il d.l. 13.8.2011, n. 138, dopo aver operato un drastico ridimensionamento degli organi provinciali, aveva anche disposto la soppressione delle Province minori, annunciando futuri interventi più ambiziosi («in attesa della complessiva revisione della disciplina costituzionale del livello di governo provinciale»). A distanza di pochi giorni il Governo era ritornato rapidamente sui propri passi – considerate le obiezioni di legittimità costituzionale sollevate da tale disposizione – e aveva rinunciato a qualsiasi ipotesi di soppressione legislativa, rinviando questo intervento ad una futura revisione della Costituzione volta ad una «soppressione delle Province quali enti statali ed al conferimento alle Regioni delle relative competenze ordinamentali».
È certamente possibile, e probabilmente opportuno, intervenire sulla mappa territoriale, articolando in modo diverso il rapporto esistente tra le istituzioni locali (Comuni, Province e Città metropolitane), da un lato, e tra le autonomie locali, le Regioni e lo Stato, dall’altro: il punto è capire se questa riarticolazione possa comprendere anche la soppressione delle Province mediante legge ordinaria della Repubblica, ovvero se una simile soluzione richieda necessariamente una modifica costituzionale; in subordine, la presenza di un livello provinciale in Costituzione interroga l’interprete sulla necessità di garantire sempre una legittimazione popolare diretta delle Province.
Sul tema si fronteggiano due letture, sostanzialmente opposte. Da un lato vi è chi sottolinea che le Province sono poste dalla Costituzione a fondamento della Repubblica, essendone elementi costitutivi al pari di tutti gli altri enti territoriali, e per questa strada giunge così ad una sostanziale equiparazione tra tutte le istituzioni territoriali costituzionalmente riconosciute e garantite, anche e particolarmente ai fini di sostenere una imprescindibile elettività diretta dei loro organi di governo7; dall’altro, vi è chi considera i caratteri del livello provinciale «ampiamente disponibili per il legislatore ordinario, che potrebbe dunque regolarne discrezionalmente, oltre alle funzioni, gli assetti organizzativi e la legittimazione delle relative istituzioni di governo»8.
Sul punto è intervenuta, di recente, la Corte costituzionale, che, pur non pronunciandosi direttamente su tali problematiche, fornisce alcune indicazioni utili a risolverle. Il 19.7.2013 la Corte ha depositato le motivazioni della già citata sentenza n. 220/2013, con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale delle norme dei decreti-legge (v. supra) che miravano a trasformare le Province in enti di secondo grado, privi di funzioni amministrative fondamentali, e che riordinavano le circoscrizioni provinciali attraverso accorpamenti o attraverso l'istituzione delle Città metropolitane. La rilevanza di questa decisione risiede, in primo luogo, nell’aver posto un freno all’uso della decretazione d'urgenza con riferimento all'ordinamento delle Province e, come si è detto, di tutti gli enti territoriali che possono vantare garanzie costituzionali a difesa della loro autonomia. Secondo la Corte costituzionale il decreto-legge, atto destinato a fronteggiare casi straordinari di necessità e urgenza, è uno strumento normativo non utilizzabile per realizzare una riforma organica e di sistema delle istituzioni costitutive della Repubblica. Le materie dell’art. 117, co. 2, lett. p) - organi di governo, sistema elettorale e funzioni fondamentali - presuppongono infatti interventi compiuti e di sistema da parte del legislatore sia quando agisca per via ordinaria, sia quando proceda ad una revisione costituzionale: per questo motivo la Corte ha dichiarato incostituzionali le norme di cui all’art. 23, co. 14 – 20 bis, del d.l. n. 201/2011.
Allo stesso modo, a parere della Corte, sono incostituzionali le norme di cui agli artt. 17 e 18 del d.l. 95/2012: in base all’art. 133 Cost., la modifica delle circoscrizioni provinciali prevede una procedura rinforzata basata sull’iniziativa dei Comuni del tutto incompatibile con l’imposizione operata da un decreto-legge, mentre una simile modifica territoriale potrebbe operarsi mediante una apposita legge delega di revisione delle circoscrizioni provinciali (purché, in questo caso, l’iniziativa dei Comuni ed il parere della Regione vengano comunque considerati presupposti necessari per l’emanazione da parte del Governo del decreto di adempimento della delega). La dichiarazione di incostituzionalità riguarda anche le norme con le quali era stata prevista l’istituzione, contestualmente alla soppressione delle corrispondenti Province, delle Città metropolitane nelle dieci aree individuate dal legislatore statale9.
La Consulta tiene anche a precisare che ciò non implica «che sull’ordinamento degli enti locali si possa intervenire solo con legge costituzionale – indispensabile solo se si intenda sopprimere uno degli enti previsti dall’art. 114 Cost., o comunque si voglia togliere allo stesso la garanzia costituzionale», ma afferma con altrettanta nettezza che non è «utilizzabile un atto normativo, come il decreto-legge, per introdurre nuovi assetti ordinamentali che superino i limiti di misure meramente organizzative».
Non è richiesto quindi in ogni caso il procedimento rinforzato di revisione costituzionale per intervenire sull’ordinamento locale, ma nemmeno potrà utilizzarsi la decretazione d’urgenza come strumento bon à tout faire. La Corte non tocca invece il problema dell’elettività diretta degli organi provinciali, astenendosi dal prendere posizione sul punto e, perciò, lasciando aperti tutti i dubbi già ricordati.
L’intervenuta dichiarazione di incostituzionalità delle disposizioni sulle Province - in primis, quelle sulla composizione e sulle modalità di elezione degli organi - ha aperto una fase di ulteriore, grave incertezza sulla loro sorte. Questa pronuncia, innanzitutto, ha fatto venire meno il fondamento normativo del commissariamento delle Province i cui organi erano già arrivati a scadenza, e ha imposto un intervento urgente - questo sì ammesso dalla Corte – per sanare il vuoto di legittimità e di responsabilità venutosi a produrre negli enti provinciali. La scelta del legislatore è stata quella di mantenere sino al 31.12.2013 i 22 commissari attualmente in carica10 anziché ripristinare il loro funzionamento democratico attraverso le elezioni dei rispettivi organi di governo ed in attesa di una (questa volta definitiva) riforma.
La sentenza della Corte costituzionale non elide comunque l’esigenza, da tutti condivisa, di riordinare le istituzioni di area vasta insieme ad un contestuale riordino dell’amministrazione statale a livello centrale e periferico, dell’amministrazione regionale, nonché degli enti strumentali, rivedendo le diverse disposizioni del Titolo V comunque nel rispetto dei principi fondamentali della Costituzione.
A questo fine, con la presentazione del disegno di legge costituzionale per la “Abolizione delle Province” (C1543), il Governo sembra aver imboccato la strada del definitivo superamento di questo livello di governo, mediante la soppressione di tutti i riferimenti alle Province contenute nel testo costituzionale. Va comunque rilevato come il testo non preveda comunque un effetto immediato, bensì rinvii ad una successiva legge ordinaria, da adottarsi entro sei mesi dall’approvazione della riforma costituzionale, sia l’effettiva soppressione degli enti provinciali, sia la definizione di «criteri e requisiti generali» volti a disciplinare, da parte della legge statale e regionale, «le forme e le modalità di esercizio delle relative funzioni» (previsione che allude, in modo piuttosto confuso, alla possibile istituzione di altri enti di area vasta, sia pure non più di rango costituzionale, per l’esercizio delle funzioni provinciali).
Nel frattempo, con un ulteriore e parallelo disegno di legge ordinario, adottato ufficialmente «in attesa della definitiva soppressione delle Province» (ma, è evidente, anche per il timore che questa soppressione non giunga mai al termine!) lo stesso Governo ha avviato però anche un nuovo ridisegno degli organi e delle funzioni delle attuali Province. Secondo il testo attualmente all'esame della Camera (C1542), le Province dovrebbero trasformarsi in enti ad elezione indiretta, con organi composti da Sindaci e Presidenti di Unioni, titolari solo di alcune, essenziali, funzioni amministrative (che non vengono neppure più definite “fondamentali”): in sostanza, con alcune variazioni, si ripropone il modello delineato nei decreti-legge dichiarati incostituzionali. Questa scelta presuppone, evidentemente, la convinzione – nient’affatto scontata, come si è già detto – che, anche a Costituzione invariata, le Province possano essere trasformate in enti di secondo grado; e dimostra l’interesse del Governo a mettere in moto un complessivo riassetto delle funzioni amministrative decentrate, attraverso la creazione di un nuovo modello di ente intermedio, espressione dei Comuni, in grado di assicurare comunque l’esercizio di quelle funzioni di area vasta che si ritengono non suscettibili di allocazione a livello regionale o comunale11.
Lo stesso disegno di legge prevede nuovamente l’istituzione delle Città metropolitane, salvo restando l’ordinamento speciale per la Città metropolitana di Roma Capitale12. Più nello specifico, secondo le previsioni del disegno di legge da ultimo citato, proposto dal Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali, Graziano Del Rio, le Città metropolitane di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria si costituiranno già a partire dall’1.1.2014, per redigere i propri statuti e diventare poi operative all’1.1.2014. Esse sostituiranno così le relative Province, assorbendone le funzioni. Oltre alle funzioni ereditate dalle Province, e ferme restando le competenze delle Regioni, le Città metropolitane sembrano acquisire un nuovo e più incisivo ruolo, essendo altresì titolari di «funzioni istituzionali di programmazione e pianificazione dello sviluppo strategico, coordinamento, promozione e gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture e delle reti di comunicazione», nonché «funzioni di pianificazione territoriale generale, promozione dello sviluppo economico, mobilità e viabilità»13. Il territorio della Città metropolitana coinciderà con quello della Provincia omonima, ma ai Comuni che vi entreranno a far parte sarà consentito, nel rispetto di determinati requisiti, optare per l’appartenenza all’ente Provincia, che dunque rimarrà in vita per il governo del territorio ad essi corrispondente. Quest’ultima previsione, in particolare (che è addirittura istituzionalizzata per l’area metropolitana di Roma), appare problematica, in quanto sembra consentire, da un lato, una proliferazione degli enti intermedi, anziché una loro semplificazione, dall’altro, l’eventuale costituzione di città metropolitane notevolmente ridimensionate nell’ambito territoriale originariamente previsto dal legislatore.
Sempre in base al citato disegno di legge, gli organi della Città metropolitana sono individuati nel Sindaco metropolitano, nel Consiglio metropolitano e nella Conferenza metropolitana. A meno che gli statuti non dispongano diversamente, il Sindaco metropolitano non dovrà essere eletto dai cittadini residenti, bensì sarà di diritto il Sindaco del Comune capoluogo; anche il Consiglio sarà ente di rappresentanza indiretta, in quanto - per regola generale - composto dal Sindaco metropolitano, dai Sindaci dei Comuni con più di 15.000 abitanti e dai Presidenti delle Unioni di Comuni con almeno 10.000 abitanti, costituite nel territorio della Città metropolitana. Laddove lo statuto preveda invece l’elezione diretta, questa non potrà avvenire prima del 2017 e comunque non prima dell’approvazione della legge statale sul sistema elettorale e, in ogni caso, sarà subordinata alla necessaria previsione nello statuto della Città metropolitana dello scorporo del Comune capoluogo in più comuni distinti. Da ultimo, la Conferenza metropolitana si comporrà del Sindaco metropolitano, che dovrà convocarla e presiederla, e di tutti i Sindaci dei Comuni appartenenti alla Città metropolitana.
Per quanto concerne le dotazioni, spetteranno alla Città metropolitana il patrimonio, il personale e le risorse strumentali della Provincia, a cui la medesima Città metropolitana succederà a titolo universale in tutti i rapporti attivi e passivi.
Anche il nuovo disegno di legge, in sostanza, manifesta una netta preferenza per una città metropolitana espressione dei comuni aderenti: ma con un ulteriore indebolimento del suo effettivo grado di rappresentatività, derivante dalla possibile scelta (non solo nella fase transitoria, ma addirittura a regime) di un modello di governo nel quale i rappresentanti dei comuni destinati a far parte del Consiglio della Città metropolitana non sono eletti, ma sono componenti di diritto dello stesso organo; un organo che, peraltro, proprio in forza della composizione di diritto può costituirsi senza che siano rappresentate intere porzioni di territorio.
L’instabilità del quadro politico attuale rende impossibile prevedere quale dei due disegni di legge (quello costituzionale, recante l’abolizione delle Province; quello ordinario, che le conserva) avrà miglior sorte, e quale di conseguenza, sarà il definitivo modello a cui si giungerà – soppressione delle Province, con o senza nascita di eventuali nuovi enti di area vasta; loro mantenimento in vita, ma nella nuova forma di enti di secondo grado, con competenze delimitate; presenza o meno, al loro fianco, delle città metropolitane.
Su questo scenario incombe il rischio concreto che le elezioni provinciali, previste per la primavera del 2014, vengano a impedire qualsiasi ulteriore tentativo di riforma.
Non vi è dubbio che il disegno complessivo dell’autonomia territoriale vada ripensato. La nostra architettura istituzionale è antiquata, farraginosa, priva di meccanismi di raccordo, richiede radicali interventi di semplificazione e snellimento, sia al centro che in periferia. L’autonomia speciale di cui alcune Regioni godono è stata spesso utilizzata dalle stesse senza alcuna razionalità e proporzione alle peculiarità dei rispettivi territori: di fronte alle conseguenze di una delle crisi economiche più drammatiche dell’ultimo secolo, la giustificazione della specialità oggi non riesce più a reggersi sulle sole peculiarità del territorio o della popolazione, sui meri fattori storici o identitari come avveniva in passato, ma esige una precisa dimostrazione dell’utilizzo che ne viene fatto, caso per caso.
Anche gli enti territoriali minori hanno contribuito all’aggravarsi della crisi fiscale per via dell’inadeguatezza economica, organizzativa e funzionale che caratterizza l’amministrazione locale. Tutte le iniziative di riordino territoriale messe in campo nel corso degli anni per aggregare i Comuni minori in enti di dimensioni adeguate, con interventi incentrati di volta in volta sul versante strutturale (fusioni) o funzionale (cooperazione e associazione intercomunale), sono invariabilmente naufragate a causa delle resistenze campanilistiche dei municipi e della indisponibilità della classe politica locale. Questo atteggiamento, naturalmente, ha determinato difficoltà nell’esercizio delle funzioni amministrative di base, visto che molti municipi non hanno materialmente la forza per gestire da soli i servizi pubblici e garantire lo svolgimento dei compiti istituzionali.
Se non vi è dubbio che la riforma territoriale sia improrogabile, è altrettanto indubbio che la riforma di cui c’è bisogno non può procedere per spezzoni, introducendo frammenti di novità che servono solo a tamponare le emergenze di bilancio e a realizzare quei risparmi di spesa che ci vengono chiesti dall'Europa e dai mercati, o, peggio ancora, che sono imposti dalla crescente ondata di antipolitica. L’obiettivo di fondo della riforma deve essere quello di ridisegnare l'intero sistema delle autonomie, e la sua realizzazione richiede un’organica riforma costituzionale, ispirata all’obbiettivo di garantire al Paese un assetto istituzionale più razionale.
Il problema si sposta quindi sul metodo delle riforme. Come si è detto, le proposte messe in campo dal Governo italiano negli ultimi due anni si servono in modo improprio della strumentazione d’urgenza (decreto-legge), che oltre a non garantire un adeguato confronto politico (si pensi ai numerosi decreti-legge convertiti grazie alla posizione della questione di fiducia, ai decreti-legge correttivi di precedenti decreti approvati con maxi emendamento governativo) non consente il necessario coinvolgimento di Regioni ed enti locali. L’uso massiccio del decreto-legge per riforme dirette alla stabilizzazione finanziaria, che finiscono invariabilmente per comprimere gli enti territoriali, pone una serie di problemi di costituzionalità con riferimento ai presidii e alle garanzie dell’autonomia.
La cosa più sorprendente è che questo metodo ha ottenuto, in alcuni casi significativi, l’approvazione preventiva dei Presidenti delle Regioni: emblematico il documento della Conferenza delle Regioni del 27.9.2012, che ha richiesto al Governo «di stabilire in via definitiva, attraverso un decreto‐legge che garantisca un percorso veloce e uniforme, nuovi parametri per Regione relativi a tutti i costi della politica, che prendano le mosse dall’adozione di criteri standard al fine di promuovere l’omogeneizzazione delle diverse situazioni regionali» (richiesta che ha poi costituito l’occasione per l’adozione del discusso d.l. n. 174/2012).
L’antipolitica e l’emergenza, combinate assieme, hanno avallato l’equazione “riduzione della spesa = riduzione dell’autonomia”, che si è trasformata in uno dei cardini fondamentali delle manovre per la stabilizzazione finanziaria e lo sviluppo degli ultimi Governi14. L’impatto prodotto sulle autonomie dalla somma di questi fattori è molto pesante.
È, in fondo, il modello ipotizzato dal tandem Draghi - Trichet nella famosa lettera dell’agosto 2011, in cui si operava un esplicito collegamento tra le condizioni sostenibili di bilancio, le riforme strutturali e l’uso del decreto-legge. In quella lettera, rivolta al Governo italiano, viene fatto puntuale riferimento all’avvio di una serie di riforme ordinamentali, strutturali, da attuare mediante lo strumento del decreto-legge. Una soluzione che, nel corso degli ultimi anni, il Governo ha puntualmente realizzato, facendo ampio ricorso ad una legislazione anticrisi che si caratterizza per essere fortemente verticale, in quanto gerarchica e imposta dall’alto, e per l’impiego di strumenti non condivisi con le autonomie territoriali. La condivisione con il Parlamento, e a maggior ragione con le Regioni e le autonomie locali, è stata davvero minima nella strategia delle riforme, per non dire azzerata.
Negli ultimi anni si è quindi assistito ad una rapida sostituzione del modello regolatorio orizzontale, basato sulla condivisione e sulla partecipazione, che aveva caratterizzato l’esperienza del federalismo fiscale, con un modello regolatorio prettamente verticale e ispirato a una logica gerarchica. Tutti gli interventi realizzati sono rapsodici, urgenti e privi di coerenza, concentrati su singoli livelli di governo e incuranti dei riflessi prodotti sull’intero sistema. Non si può trascurare, infatti, che la modifica di un livello di governo produce conseguenze inevitabili sull’intero sistema delle autonomie e sull’amministrazione statale, e la razionalizzazione del governo territoriale dovrebbe divenire un’occasione per avviare un disegno più ampio ed organico di riforma istituzionale. L’esigenza di un contenimento della spesa pubblica, espressa soprattutto in sede comunitaria, implica un ripensamento di tutta la pubblica amministrazione e, in particolare, dell’amministrazione pubblica statale, poiché essa, da sola e al netto dei costi della previdenza, eguaglia la spesa regionale e locale, inclusa quella sanitaria.
Ma, soprattutto, la razionalizzazione del sistema delle autonomie deve essere realizzata mediante uno strumento idoneo, cioè la riforma costituzionale, l’unico capace di garantire una visione d’insieme e di calibrare bene gli effetti di un intervento localizzato all’interno del sistema. Il fine ultimo delle riforme territoriali, da tenere sempre presente, è quello di offrire al Paese un assetto istituzionale più razionale, non solo di risparmiare i costi dei governi decentrati.
In quest’ottica “strutturale” lo scorso 29 maggio il Parlamento italiano ha approvato alcune mozioni in cui ha richiesto al Governo di avviare un percorso complessivo di riforme costituzionali. A seguito di questa richiesta il Governo ha presentato il Disegno di legge costituzionale “Istituzione di un Comitato parlamentare per le riforme costituzionali”, attualmente in attesa della quarta e definitiva approvazione della Camera dei Deputati, il cui principale obiettivo – quello di garantire la rapidità del percorso di approvazione, tramite un innovativo procedimento di revisione – ha suscitato molti consensi, ed altrettante vivaci critiche15. Come è noto, il disegno di legge in oggetto prevede che tutte le proposte di modifica costituzionale, comprese quelle del Titolo V, parte II, della Costituzione, rientrino nella competenza del Comitato (cd. dei 40) e debbano essere ad esso assegnate. Il percorso di riforma costituzionale ha inoltre visto l’istituzione di un Comitato di 35 “saggi”, esperti prevalentemente in materie giuridico-istituzionali, cui è stato affidato il compito preparatorio di presentare un proposta di riforma organica della Costituzione (ancorché non redatta in forma di articolato, per non creare sovrapposizioni di competenze) alla Commissione parlamentare sopra ricordata. Il 4 giugno scorso il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha proceduto alla nomina di questo Comitato di 35 saggi, primo organo a entrare in campo nella nuova partita per le riforme da apportare alla Costituzione. Gli esperti hanno presentato al Governo la propria relazione lo scorso 17.9.2013, dopodiché sarà la Commissione parlamentare dei 40 a entrare nel merito delle riforme. In base alla tempistica scandita dal ddl costituzionale che definisce l'iter delle riforme, il Comitato parlamentare dei 40 lavorerà fino al febbraio 2014, per il maggio successivo si attende la prima lettura del progetto di riforma della Costituzione da parte di un ramo del Parlamento, seguita, entro settembre, dalla prima lettura da parte dell’altro ramo. Per la fine di ottobre 2014 è invece in calendario la seconda votazione per l’approvazione definitiva della riforma costituzionale, salvo l’eventuale svolgimento del referendum confermativo che, peraltro, il Governo ha da tempo fatto sapere di ritenere «opportuno» (comunicato stampa del 6.6.2013).
Gli esiti dei lavori del Comitato dei saggi lasciano, peraltro, intravedere come il tema della riforma delle autonomie locali abbia dovuto contendersi l’attenzione rispetto a temi di ben maggiore portata, come quello della forma di governo, dell’assetto bicamerale, o della legge elettorale, la cui soluzione appare in grado di condizionare tutto il percorso di riforma ipotizzato. L’unico aspetto su cui sembra esservi massima condivisione appare quello relativo alla necessità della soppressione delle Province. Ciò può forse giustificare, almeno in parte, la scelta del Governo di percorrere in parallelo la strada della riforma costituzionale del solo livello provinciale; esponendosi così, però, all’obiezione, sopra illustrata, della debolezza di percorsi di riforma estemporanei e non coordinati.
1 La riduzione del numero dei municipi, mediante accorpamento, è una tecnica molto diffusa in Europa: in Danimarca, nel 2008 il numero dei municipi è stato ridimensionato da 271 a 98; in Finlandia, tale numero è passato da 447 a 348; in Georgia, 985 municipi, per lo più corrispondenti a piccoli villaggi, sono stati sostituiti da 64 distretti di ampie dimensioni; in Lituania è stata seguita una politica analoga. In questa direzione, in particolare, sembrano essersi indirizzate le politiche dei Paesi maggiormente colpiti dalla crisi: l’Irlanda, con una riduzione da 7.200 a 76; la Lettonia, da 500 a 118; la Grecia, da 1.034 a 325. Ovunque appaiono in forte incremento risultano le forme di collaborazione tra enti locali, secondo le più varie modalità. Così Vandelli, L., Sovranità e federalismo interno: l’autonomia territoriale all’epoca della crisi, in Le Regioni, 2012, 859.
2 Su queste misure cfr. Vandelli, L., Crisi economica e trasformazioni del governo locale, in Libro dell’anno del diritto 2012, Roma, 2012.
3 Antonini, L., Prefazione al dossier predisposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento per le riforme istituzionali, I tentativi di riforma del Titolo V dopo il 2001, 23.6.2013. In realtà, anche questa conclusione non è univoca: sul punto, si legge nel II rapporto dell’Istituto di Ricerche sulla Pubblica Amministrazione (scaricabile dal sito www.irpa.eu), significativamente intitolato Il falso decentramento italiano a dieci anni dalla riforma della Costituzione, che «l’osservazione empirica mostra che dal 2001 al 2011 il numero degli addetti degli apparati centrali non ha subito variazioni rilevanti. La gestione della spesa pubblica, invece, è cresciuta in periferia, ma per effetto delle maggiori uscite sanitarie» .
4 Così Tubertini, C., La razionalizzazione del sistema locale in Italia: verso quale modello? in Istituzioni del federalismo, 2012, 3, 696 ss.
5 Vandelli, L., Sovranità e federalismo interno, cit., 857.
6 C. cost., 6.6.2012, n. 151.
7 Civitarese, S., La garanzia costituzionale della Provincia in Italia e le prospettive della sua trasformazione, in Ist. fed., spec. 480 ss., nonché i vari contributi contenuti in Le autonomie in cammino. Scritti dedicati a Gian Candido De Martin, Padova, 2012, e ivi, in particolare, gli scritti di P. Antonelli, L. Castelli, G. D’Alessandro, G. Meloni, richiamati nella nota n. 25.
8 Vandelli, L., Sovranità e federalismo interno, cit., il quale giunge alla conclusione della non equiparabilità tra gli enti territoriali muovendo dal rilievo che, nell’art. 133, l’Assemblea costituente volle prevedere ben distinte procedure per il mutamento di circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Province, da un lato, e il mutamento di circoscrizioni e la istituzione di nuovi Comuni, dall’altro (p. 872). In senso favorevole Bin, R., Il nodo delle Province, in Le Regioni, 5-5/2012, 909.
Alla possibilità, con legge ordinaria, di configurare le Province come enti rappresentativi di secondo grado, quali espressione dei Comuni, v. anche Renna, M., Brevi considerazioni su Province e altri enti intermedi o di area vasta, in Astrid Rassegna, 2006, n. 36, (www.astrid-online.it/rassegna).
9 Si trattava delle Province di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria.
10 Cfr. art. 12, d.l. 14.8.2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle Province) che aveva protratto sino al 30.6.2014 il commissariamento ed ulteriormente esteso il meccanismo a tutte le province in scadenza nei primi sei mesi del 2014. I dubbi di legittimità costituzionale avanzati contro queste previsioni hanno spinto il legislatore, in sede di conversione del decreto legge, a modificare il testo mantenendo in carica i commissari già nominati, e solo fino al 31.12.2013.
11 Sull’importanza di un definitivo chiarimento sulle funzioni provinciali, Vandelli, L., La riorganizzazione delle Province, ne Il libro dell’anno del diritto 2013, Roma, 2013.
12 Sul punto cfr. Barrera, P., Le città metropolitane e Roma Capitale nel disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri il 26 luglio 2013, in Astrid Rassegna, 1.8.2013 (www.astrid-online.it/rassegna).
13 Cfr. Comunicato stampa del Consiglio dei Ministri del 26.7.2013 (su www.governo.it/Governo/ConsiglioMinistri)
14 Sul punto, sia consentito un rinvio a Gardini, G., Le autonomie ai tempi della crisi, in Ist. fed., 2011, 457 ss.
15 Sul punto si vedano, ad esempio, gli interventi di F. Gallo, E. Bettinelli, G. Ferrara, C. Fusaro , M. Volpi in Astrid Rassegna (www.astrid-online.it/rassegna), 1.8.2013.