Il sistema televisivo: a che punto è la notte
Le trasformazioni del sistema televisivo in Italia non sono comprensibili se non si parte dalla compresenza di due forze tra loro contrastanti ma entrambe attive. Verrebbe da riprendere, solo un po’ giocosamente, la tesi marxiana sulla contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, che contrappone le spinte di innovazione, presenti nello sviluppo tecnico e nelle stesse aspirazioni delle persone, alle resistenze frapposte dalla normativa e dalle complicità tra potere politico e interessi consolidati.
Così, l’intenso mutamento del quadro tecnologico e anche delle abitudini personali e familiari non sembra puntare solo al superamento del vecchio ‘duopolio’ tra Mediaset e RAI, già realizzatosi di fatto con l’affermazione della televisione a pagamento sotto il controllo (un monopolio nell’oligopolio) del gruppo Sky e con il decollo in termini di ascolti, assai meno di introiti pubblicitari, di La7, ma segnala anche la tendenza verso una moltiplicazione ulteriore dell’offerta e delle tipologie di consumo. Pensiamo non tanto ai terminali mobili, dai tablet agli smartphone, il cui uso per la visione di canali televisivi è ancora ristretto, quanto all’intreccio crescente della fruizione televisiva con quella di Internet, in particolare di quell’immenso deposito di tutte le forme di cultura audiovisiva che è YouTube, e che nei confronti della televisione ‘generalista’ fa da luogo di recupero di programmi non visti, di rielaborazione anche (ma non necessariamente) ludica, di scambio. Un fenomeno limitato ma quasi simbolico è, per esempio, la circolazione nella rete di puntate di serie statunitensi ancora non arrivate in Italia, con i sottotitoli inseriti dagli appassionati (i cosiddetti fan subbers, ‘sottotitolatori per passione’ potremmo chiamarli), che almeno per alcune fasce di fruizione giovane e di nicchia – proprio quelle trainanti per questo tipo di prodotti – costituisce un’offerta televisiva fuori della televisione, un’alternativa transmediale nelle pratiche, ma che tocca proprio uno dei generi più autenticamente televisivi.
Dall’altra parte restano però, e sono apparsi fino a poco tempo fa pressoché impossibili da modificare almeno nel breve periodo, alcuni tratti propri dell’assetto istituzionale-normativo che vanno in tutt’altra direzione: quella di una resistenza, di una vischiosità dei vecchi equilibri. In primo luogo, c’è l’intreccio inestricabile tra la contrapposizione destra-sinistra nel quadro politico e la divisione tra reti e canali, che attribuisce il controllo del principale telegiornale del paese alla coalizione dominante e determina il quadro dei poteri interno alla televisione pubblica, in un modo che sarebbe considerato del tutto inaccettabile in qualsiasi democrazia ma che risulta ‘naturale’ in Italia. Ben oltre la tradizionale e già patologica lottizzazione, gli organismi direttivi della RAI sono oggi una sorta di specchio deformato dei rapporti di forza tra governo e opposizione ma anche all’interno dei due schieramenti, cosa che per lunghi periodi ha comportato una paralisi decisionale dell’azienda.
In secondo luogo, c’è il peso di una legislazione (al centro la cosiddetta ‘legge Gasparri’ del 2004) che ha condizionato un aspetto essenziale dello sviluppo tecnologico, il digitale terrestre, alla preservazione degli equilibri esistenti, in particolare quelli tra RAI e Mediaset, impedendo di fatto l’ingresso di nuovi attori sul mercato, come si sarebbe potuto attendere da una simile innovazione; e ha anzi favorito un ulteriore restringimento dell’universo delle televisioni locali, già ridotte a posizioni subalterne fin dai primi anni Ottanta. Infine, c’è una spartizione del mercato pubblicitario assolutamente anomala: secondo la relazione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom), nel 2010 «nella raccolta pubblicitaria, Mediaset con il 38% degli ascolti attira il 56% delle risorse pubblicitarie; Sky meno del 5% (cui va aggiunto il ricavato degli abbonamenti che la porta al 29,3% delle risorse complessive), la RAI, con circa il 41% degli ascolti, controlla il 24% della pubblicità».
È difficile negare l’evidenza: che il mercato pubblicitario della televisione italiana sia fortemente perturbato – al punto da rendere difficile parlare di mercato – dalla posizione dominante di un’azienda la cui proprietà, per altro non del tutto trasparente, corrisponde alla persona del capo del governo. A questo si aggiunge una tendenza del ceto politico, a cominciare dallo stesso presidente del Consiglio, a porre al centro delle proprie attenzioni, in positivo e in negativo, la televisione detta ‘generalista’, alla quale si attribuisce nei periodi elettorali un’influenza probabilmente esagerata. Tendenza rafforzata da un’altra anomalia italiana: lo spazio che i programmi di queste reti ricevono nei grandi organi di stampa, non solo nelle pagine specificamente dedicate agli spettacoli, ma un po’ dappertutto, dalla cronaca alla politica alla stessa prima pagina.
Per ora, nonostante la rapidità del cambiamento tecnologico, sono state le resistenze dei poteri consolidati, incardinati nel sistema politico e normativo, a prevalere, dettando i rapporti di forza nel sistema televisivo assai più di quanto abbia potuto fare il modificarsi dei consumi.
Ed è da prevedere che se mutamenti ci saranno sul breve periodo verranno prima di tutto dal cambiamento del quadro politico.
Murdoch e Cameron
Il carattere spesso patologico dell’interazione e del reciproco condizionamento tra il sistema televisivo e quello politico è confermato dal caso inglese: il gruppo News Corporation, guidato da Rupert Murdoch, ha rinunciato a completare l’acquisizione di BSkyB, gruppo televisivo di cui deteneva già una percentuale consistente, per effetto di forti pressioni politiche, concretizzatesi nel voto unanime, da parte della Camera dei Comuni, di una mozione a sfavore dell’operazione in questione.
Tali pressioni hanno fatto seguito alla scoperta che alcuni giornali di proprietà del gruppo Murdoch erano stati coinvolti in intercettazioni telefoniche illegali, non solo di personaggi pubblici, come già accertato da indagini condotte in anni precedenti, ma anche di privati cittadini coinvolti in eclatanti casi di cronaca. Lo scandalo che ne è seguito ha condotto alle dimissioni, e talvolta all’arresto, di personaggi di rilievo del gruppo Murdoch (a cominciare dalla direttrice esecutiva Rebekah Brooks) e delle istituzioni, tra cui il capo della polizia di Londra e il portavoce del primo ministro Cameron, Andy Coulson.
L’intera vicenda ha messo in luce, secondo commentatori come Timothy Garton Ash, il ruolo politico svolto in maniera indiretta ma estremamente incisiva dai giornali del gruppo Murdoch, in particolare da quelli a grande circolazione come il Sun e il News of the World (quest’ultimo chiuso in seguito allo scandalo). Il timore di essere attaccati da tali testate avrebbe infatti condizionato l’intera vita politica britannica degli ultimi decenni, e in particolare l’operato degli ultimi tre primi ministri.
Il digitale terrestre in Europa
L’ancora incompiuta transizione tecnologica verso la televisione digitale terrestre, destinata a concludersi nel 2012 ma già completata (non senza creare problemi ad alcune fasce di utenti) in molte regioni italiane, è un aspetto di un trend europeo più generale iniziato negli anni Duemila. Il numero di abitazioni raggiunte dal digitale terrestre nei paesi dell’Europa settentrionale e occidentale (i 15 componenti dell’Unione Europea pre-2004 più Norvegia e Svizzera) è cresciuto da 41,6 a 106 milioni tra il 2004 e il 2008; Belgio, Olanda, Finlandia, Svezia, Germania, Svizzera, Norvegia, Danimarca e Spagna hanno ormai ‘spento’ le trasmissioni analogiche, mentre Italia, Francia e Gran Bretagna sono sul punto di completare il processo di switch-off.