Il socialismo giuridico e il solidarismo
Socialismo giuridico e solidarismo rappresentano due ambiti tematici complessi e strettamente connessi i quali presentano profili di autonomia e specificità. A cavallo tra Otto e Novecento la cultura giuridica europea fu sollecitata dalla questione sociale ad affrontare il concetto stesso di cultura giuridica, e in tale contesto si sviluppò l'idea della socializzazione del diritto e l'affrancamento dal formalismo legalista. Anche la scienza giuridica italiana fu investita da questi fermenti e si mosse lungo due fondamentali direttrici entrambe variamente ispirate a una visione solidaristica dell'ordine giuridico. Da un lato, la critica sociale all'ordinamento vigente per proporre misure correttive nei rapporti tra privati e tra Stato e individuo. Dall'altro, un problema di metodo per operare una critica delle fonti giuridiche.
La strategia di riforma dell'ordinamento giuridico si sostanziò perlopiù nell'avanzare al legislatore eterogenee richieste di intervento sul diritto comune codificato. Si avanzò l'ipotesi di un nuovo codice, privato-sociale, che riconsiderasse gli istituti cardine dell'ordine liberale (proprietà, contratti, famiglia, responsabilità) tenendo conto delle trasformazioni economiche e sociali. Se tale soluzione organica non trovò compimento, i limiti del diritto borghese codificato furono 'compensati' soprattutto attraverso lo strumento delle leggi speciali/sociali ispirate a principi solidaristici. In ogni caso la critica all'impostazione individualistica e astratta dell'ordine giuridico fece, faticosamente, emergere una dimensione fattuale della complessa società, organizzata in molteplici corpi intermedi espressione della solidarietà sociale. La 'riscoperta' di una dimensione collettiva condusse la scienza giuridica ad affrontare le fondazioni stesse del consorzio sociale e del suo rapporto con lo Stato.
In Italia fu Achille Loria, nel 1893, a introdurre l'ipotesi che si potesse parlare di una scuola del socialismo giuridico osservando un certo numero di giuristi che da poco più di un decennio stava affrontando alcune questioni di grande rilevanza. Loria sottolineò la necessità di un progetto, di una 'scuola', affinché le diverse riflessioni potessero condurre a vere riforme strutturali dell'ordinamento giuridico. Loria fu, dunque, consapevole delle tante differenze nel panorama scientifico italiano e tuttavia indicò alcuni fattori comuni che avrebbero potuto far convergere uomini e idee in un progetto condiviso.
I fattori aggreganti sarebbero stati almeno due, anzitutto «l'intento di assoggettare il diritto vigente a una critica rigorosa», una critica che muoveva dai nuovi strumenti apprestati dalla statistica, dalla sociologia, dall'economia, dall'antropologia, in generale dal movimento positivista e dal metodo sperimentale. Inoltre, per Loria, questi scienziati avrebbero avuto in comune l'obiettivo ultimo della critica, cioè «elevare le sorti delle classi lavoratrici», di provvedere «più o meno radicalmente» alle iniquità del sistema economico. Anche se non tutti allo stesso modo,
tutti, dal più ardito al più timido, questi scienziati si propongono di ottenere cogli scritti e coll'opera una modificazione del diritto, la quale faccia ragione alle esigenze legittime dei volghi poveri e li tragga a meno sconsolati destini (Socialismo giuridico, «La scienza del diritto privato», 1893, 1, p. 519).
Nonostante la genericità dei fattori comuni individuati, la scienza giuridica italiana non raccolse con entusiasmo l'esortazione di Loria. A cominciare proprio dall'ambiguità del nome: ‘socialismo giuridico’ era un'espressione
fatta per ingenerare l'equivoco che quella teoria servisse a dare attuazione ai postulati economici del socialismo scientifico, il quale, al contrario non poteva che dissociarsi dal cauto progetto di razionalizzazione riformistica dello Stato liberal-borghese, proposto, sia pure nell'interesse della classe operaia, dai giuristi c.d. socialisti (Castelvetri 1987, p. 257).
Nelle stesse pagine della rivista «La scienza del diritto privato» (Grossi 1988) si aprì un dibattito e si ebbero i primi distinguo: Ercole Vidari prese le distanze dalle dottrine del socialismo e condizionò la possibilità di un'adesione al mantenimento della libertà individuale, della proprietà privata, della famiglia, del diritto di testare (Sul 'socialismo giuridico' del prof. Loria, «La scienza del diritto privato», 1893, 1).
Anche Giuseppe D'Aguanno, il codirettore della rivista che accolse il manifesto di Loria, condizionava la sua adesione alla necessità di circostanziare il termine socialismo, che doveva ricomprendere anche l'intervento diretto e positivo dello Stato nella vita sociale ed escludere, invece, la socializzazione della proprietà fondiaria di capitali e altri mezzi di produzione (Gerratana, in Il socialismo giuridico, 1974-1975, p. 57).
Loria in realtà aveva utilizzato un'espressione già circolante in Europa, probabilmente nel tentativo di indirizzare il dibattito della scienza giuridica italiana verso una determinata dimensione sovranazionale che faceva riferimento ad Anton Menger. Lo scienziato austriaco si era guadagnato il titolo di 'giurista socialista', un appellativo dispregiativo attribuitogli da Friedrich Engels e da Karl Kautsky con il noto articolo del 1887 sulla «Neue Zeit», con il quale si giudicava la concezione giuridica del socialismo una versione fragile del socialismo, un socialismo giuridico (il cosiddetto Juristen Sozialismus), o detto altrimenti un socialismo «à la Menger» (Orrù, in Il socialismo giuridico, 1974-1975, pp. 231-32).
L'auspicio di Loria, ovvero di poter parlare di una scuola, sembra essere stato il tentativo di dare un significato ristretto, e più caratterizzato, alla formula della socializzazione del diritto, di dare alla critica sociale del diritto positivo un'impronta riconducibile alla dottrina di Menger e dunque anche un indirizzo propositivo e non solo critico-demolitivo del sistema giuridico vigente. In questo senso il socialismo giuridico doveva contrassegnare un movimento dottrinale che traducesse il programma economico socialista allo scopo di superare il contemporaneo regime economico-sociale, e consolidare i tre nuovi diritti economici fondamentali: il diritto al prodotto integrale del lavoro, il diritto all'esistenza e il diritto al lavoro. Tuttavia, appariva difficile far riconoscere questi diritti fondamentali dalla scienza giuridica o da fonti giuridiche extralegislative, anche perché Menger fu legalista e conservatore, scettico nei confronti dei giudici e nella loro capacità di innovare (p. 214). La novità rappresentata da Menger non stava quindi nella dimensione giuridica del socialismo quanto nel
proclamare questo contenuto giuridico come l'essenza del socialismo, dopo che il marxismo aveva orientato gli spiriti verso un'analisi puramente economica e storica dei fatti, distogliendoli da ogni considerazione etica o di giustizia (p. 232).
Il problema epistemologico si risolveva apparentemente a favore del linguaggio giuridico, dei diritti fondamentali, anche se nella forma più semplificata e autoritaria, quella del legislatore che avrebbe dovuto farsi carico della trasformazione profonda dell'ordinamento.
L'ancoraggio alla dimensione europea del dibattito gius-socialista incontrò in Italia gli stessi veti. Per es. la «pregiudiziale» all'alleanza tra socialismo scientifico e socialismo giuridico di Claudio Treves che sulla «Critica sociale» recensì, nel 1894, l'opera Il diritto civile e il proletariato di Menger (Ungari 1970, p. 391). Una posizione, come quella di Antonio Labriola, che di fatto denunciava anche un pregiudizio nei confronti della stessa dimensione giuridica nella convinzione che «la riforma del diritto non [potesse] provenire dal diritto stesso» (Pocar, in Il socialismo giuridico, 1974-1975, p. 151).
Il socialismo giuridico fu dunque un titolo ambiguo che scontentava tutti perché ricordava o troppo da vicino o troppo da lontano il socialismo scientifico. A parte il titolo, ci fu un'intrinseca irriducibilità a divenire una scuola giuridica, d'altra parte neanche all'epoca si diceva «che quella del socialismo giuridico fosse una scuola, nel senso di avere anche suoi precisi confini, una sua organizzazione culturale, degli aderenti, dei capofila». Non una scuola «ma una presenza culturale, una tendenza politico-ideologica. Un bandwagon di componenti articolate» (Sbriccoli, in Il socialismo giuridico, 1974-1975, pp. 820 e 822). Retrospettivamente è agevole rilevare che fu più un'«equivoca insegna»,
un mosaico mal connesso che una scuola dottrinale, più un insieme di istanze fondate su sensibilità individuali socialmente orientate che un programma comune (Grossi, in Il socialismo giuridico, 1974-1975, p. 1).
Se il socialismo giuridico fu una corrente «magmatica» (Costa, in Il socialismo giuridico, 1974-1975, p. 457), appare inappropriato considerarlo una categoria storiografica. Tuttavia, fuori dai rigidi incasellamenti, dalle etichette semplificanti e ipostatizzanti, il socialismo giuridico nella sua inafferrabilità mantiene vive e produttive le suggestioni dei giuristi di allora proprio nelle loro irriducibili differenze.
Il movimento si inserì certamente in una dimensione europea, ma fino agli anni Ottanta nell'esperienza giuridica italiana prevalse la necessità di rafforzare l'unità politica anche attraverso il sostegno all'unità giuridica codicistica, spesso anche con discorsi retorici della scienza giuridica e nella pratica giurisprudenziale. Dagli anni Ottanta qualcosa di nuovo accadde: finita l'emergenza, e per molti aspetti l'entusiasmo risorgimentale per l'unificazione nazionale, si entrò in una nuova fase testimoniata anche dal gran numero di prolusioni. Il 6 dicembre del 1880 esordì Enrico Ferri con I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, il 25 gennaio del 1881 fu il giovane Enrico Cimbali (Lo studio del diritto civile negli Stati moderni) a intervenire seguito poi da molti altri fino alla prolusione di Vincenzo Simoncelli il 17 novembre del 1889 (Le presenti difficoltà della scienza del diritto civile). Furono «Anni fertili!» per i giuristi più consapevoli, soprattutto per i civilisti (Grossi 1988, p. 19).
Individuare autori paradigmatici di una 'non scuola' non è forse né corretto, né utile. Si possono tuttavia individuare temi ricorrenti come, per es., la critica sociale al principio individualistico della codificazione e i tentativi di sistemazione del nuovo diritto che si veniva delineando nelle leggi sociali, e che avrebbero dovuto consolidarsi in un nuovo codice informato ai principi sociali e solidali.
In quel contesto una parte della dottrina criticò l’impianto ideologico del codice civile unitario, in particolare la matrice individualistica e classista, e denunciò la necessità di superare le divisioni disciplinari per aggiornare gli schemi giuridici alla modernità sociale. La vera novità stava nel «desiderio profondo di novità, una smania febbrile di riforme in tutte le sfere molteplici della vita» (E. Cimbali, La nuova fase del diritto civile nei rapporti economici e sociali, con proposte di riforma della legislazione civile vigente, 1885, 19074, p. 3), un entusiasmo che permetteva di andare al di là delle divisioni e delle irriducibili posizioni. Ciò che univa le varie voci era la diffusa e
precisa coscienza che il diritto era ben oltre il testo spesso mortificante e rinsecchito della legge, che il suo volto autentico andava cercato e trovato al di là dell’universo giuridico formale, in quella natura delle cose che le scienze novissime avevano cominciato a separare e a distinguere con successo dalle metafisicherie e dagli artifici del passato (Grossi 2000, p. 14).
Una parte della scienza giuridica si coagulò attorno a un comune «atteggiamento psicologico e un comune rinnovamento metodologico» (Grossi 1988, p. 16). Il primo a «rompere la quiete» fu, come detto, Cimbali (1855-1887), libero docente di diritto civile a Napoli, Roma e Messina, avvocato e uomo politico.
Cimbali riprese il tema della prolusione romana per insistere sulla necessità del superamento del metodo esegetico e di conseguenza la necessità di abbandonare l'atteggiamento psicologico passivo nei confronti della fonte legislativa. La chiave di volta per Cimbali doveva essere una rinnovata scienza giuridica la quale, emancipata «dall'empirismo servile della dottrina francese» (La nuova fase del diritto civile nei rapporti economici e sociali, cit., p. 5), liberata dalla soggezione al codice civile, avrebbe ordinato a sistema la fitta rete di relazioni economiche e sociali che inserivano l'individuo in una complessa dimensione giuridico-sociale.
La complessità rilevava almeno sotto due profili: l'emersione di soggetti particolari ma non individuali quali associazioni, corporazioni ed enti morali e l'emersione di un diritto che allargava la sfera del diritto privato oltre i limiti delle legislazioni vigenti.
Un altro tema ricorrente che impegnava la dottrina gius-socialistica era quello delle concrete proposte di trasformazione del diritto, anzitutto per mezzo delle leggi sociali e tramite queste l'elaborazione di un codice civile profondamente rinnovato.
Tra gli altri, fu Giuseppe Vadalà Papale (1854-1921) a formulare l'ipotesi di un codice privato-sociale che raccogliesse in una rinnovata sistematica il diritto privato. Vadalà Papale, filosofo del diritto all'Università di Catania, dove fu anche preside e rettore, come molti giuristi, trovò proprio nella figura dell'operaio il facile grimaldello per rompere la perfezione unitaria del codice civile.
L'osservazione sociologica, in particolare quella economica, mostrava i limiti di un ordine giuridico tendenzialmente immobile e conservatore che faceva perno sul principio di eguaglianza individuale. Il punto di partenza della scienza giuridica più attenta fu la constatazione della debolezza degli individui nell'impianto codicistico e la lettura gius-socialista trovò nella figura paradigmatica dell'operaio l'individuo completamente assente nel codice, una figura che si prestava a unire il coro di voci e a giustificare la richiesta dell'intervento dello Stato a fronte delle ingiustizie generate dalla libertà di negoziare di soggetti erroneamente presunti eguali. La necessità di apporre confini alla libertà contrattuale e alla proprietà privata e pubblica lasciava «intravedere una possibile alternativa all'ordine esistente».
La scienza giuridica trovava così un posto di rilievo nell'indicare al legislatore i limiti del suo intervento moderatore, e invocava l'intervento di una forza amica di entrambe le parti, che fosse capace di equilibrare le forze contraenti e fungere da garante alla tutela dell'interesse generale (Cazzetta 2007, pp. 355-56). Questa forza non poteva che essere lo Stato, in quanto «organo supremo dell'unità nazionale» cui spettava l'alto ufficio di «moderatore e pacificatore fra le classi sociali contendenti» (E. Cimbali, La nuova fase del diritto civile nei rapporti economici e sociali, cit., p. 54). L'intervento dello Stato doveva essere diretto a soccorrere «l'individuo al raggiungimento degli scopi comuni», a impedire gli «abusi della donna e del fanciullo», a obbligare «gl'imprenditori non già a pagare un determinato salario agli operai, ma a non abusarne sottoponendoli a condizioni improbe che ne logorano l'esistenza» (G. D'Aguanno, La genesi e l'evoluzione del diritto civile secondo le risultanze delle scienze antropologiche e storico-sociali con applicazioni pratiche al codice vigente e con introduzione di G.P. Chironi, 1890, p. 520).
Sull'onda delle suggestioni delle scienze naturali, si suggerì quindi di spostare il focus dell'attenzione dalla prestazione lavorativa al lavoratore. Il diverso osservatorio doveva rendere evidenti le nuove esigenze sociali e i nuovi istituti civilistici:
Allo spirito dell'individualismo si sovrappone così lo spirito della socialità che modifica il carattere del diritto privato, lasciando apprendere le funzioni private sotto altri moventi, con altri sviluppi, con diversi criteri, che portano a un diverso ordinamento di tutto il sistema del diritto privato (G. Vadalà Papale, Diritto privato e codice privato-sociale, «La scienza del diritto privato», 1893, 1, p. 24).
I giuristi presero atto di un fermento già operante che si esprimeva attraverso numerosi interventi legislativi volti ad affiancare e talvolta a modificare gli istituti giuridici di diritto comune. L'ambizione era quella di restituire centralità alla scienza giuridica e capacità ordinante al diritto, tuttavia non si andava oltre l'auspicio di un nuovo, più o meno futuro, codice privato-sociale che sistemasse i mille rivoli legislativi nei quali si sostanziava il timido intervento dello Stato. Un «diritto latente» che si era formato in risposta ai bisogni economici e sociali e che andava rinnovando ora «una disposizione, ora un istituto, e successivamente», si credeva, «tutto il Codice civile, rendendolo un Codice privato-sociale» (G. Vadalà Papale, Necessità della codificazione dell'economia politica per la costruzione del codice privato-sociale, «La Scuola Positiva», 1891, 1, p. 161).
In un primo bilancio, già di taglio storiografico (Ungari 1970, p. 397), si tentò di mettere in rilievo «il carattere differenziale del socialismo giuridico» che per Gioele Solari stava nella tendenza a «trasformare l'istituto o il principio giuridico tradizionale nel senso di quelle idealità che sono proprie delle classi lavoratrici, e che il socialismo largamente inteso» aveva posto in evidenza (Socialismo e diritto privato. Influenze delle odierne dottrine socialistiche sul diritto privato, 1906, a cura di P. Ungari, 1980, p. 228).
La trasformazione del diritto privato in senso sociale si mise in pratica, secondo Solari, attraverso tre forme: il movimento legislativo che aveva promosso leggi speciali per modificare parzialmente singole disposizioni del diritto privato e introdotto di nuove informate alle esigenze sociali. Un'altra forma veniva praticata dal movimento che tendeva a introdurre nuovi sistemi di interpretazione «che [ponevano] in grado la giurisprudenza di armonizzare il diritto colle necessità della pratica» e da ultimo il movimento che tendeva a invocare la revisione dei codici civili (pp. 249-250).
In un primo momento prevalse l'interpretazione dogmatica che cercava di «adattare la vita al Codice» ma fu una strategia inefficace che peccava di astrattezza e scontava il distacco dalla realtà. Diverso era il discorso della scienza giuridica associata alla giurisprudenza (Giudici e giuristi, 2011), cioè l'alleanza tra la teoria e la pratica che dagli anni Cinquanta dell'Ottocento lavorò per «una lenta e progressiva trasformazione del Codice» (G. Solari, Socialismo e diritto privato, cit., p. 251). Decisivo fu il «metodo di Bufnoir» (Sabbioneti 2010, pp. 6-12) che, sosteneva Solari, invertì i termini e propose un approccio che adattava il codice alla vita. Un metodo che venne a sua volta superato dall'ultima tendenza, quella che faceva della giurisprudenza «una vera e propria fonte del diritto» (G. Solari, Socialismo e diritto privato, cit., p. 252) ma che, a dire di Solari, in realtà già molto tempo prima era stato accennato da Vadalà Papale in La jurisprudence dans l'enseignement et dans les études de droit civil del 1882.
Il limite principale del movimento gius-sociale non fu l'incapacità di cogliere i nodi problematici, né il ricorso al linguaggio sociologico che pure «fu additato come segnale di scarsa attendibilità scientifica» (Vano 1986, p. 131). La contaminazione sociologica che mostrava «la costituzione organica del Corpo sociale nella integrazione continua di persone, di beni, di istituzioni» (G. Vadalà Papale, Diritto privato e codice privato-sociale, cit. , p. 8) fu una tappa fondamentale per incrinare le astrattezze del codice e per dare credito alla capacità costruttiva della scienza giuridica e della giurisprudenza. Ma «al termine della grande sbornia sociologica» (Ungari 1970, p. 253) la mancata formazione di una scuola del socialismo giuridico fu il sintomo di un altro ben più invalidante limite: il mancato pieno affrancamento della scienza giuridica dalla cornice legislativa. Il limite stava nella mera giustapposizione delle analisi: quella sociologica con quella tecnico-giuridica, l'emersione della dimensione collettiva che si giustapponeva a quella individuale. Non ci fu una lettura integrata dei fenomeni né una soluzione tecnico-giuridica innovativa.
Lo stesso Solari aveva rilevato che «il socialismo giuridico [voleva] conservati nelle loro basi gli istituti di diritto privato»: il rispetto della libertà individuale, della proprietà privata, della famiglia, del diritto di testare. Semmai si voleva che nel riformare tali istituti si tenesse conto «degli interessi del lavoro» che non poterono essere considerati dal legislatore nel compilare i codici. Solari non condivideva il giudizio di Menger e Giuseppe Salvioli sui codici elaborati «nell'interesse esclusivo delle classi dominanti», né il giudizio sul legislatore al quale si rimproverava «di avere sistematicamente sacrificato agli interessi delle classi superiori quelli ben più sacri delle classi inferiori» (G. Solari, Socialismo e diritto privato, cit., p. 229).
La preoccupazione dei più era il rischio dell'asservimento dell'individuo alla società o a una classe «sia pure quella del lavoro». L'obiettivo doveva invece essere solidarista: trovare il modo
di conciliare il massimo perfezionamento dell'individuo col massimo interesse generale. Il compito era tutt'altro che facile, ma la funzione specifica del diritto in ogni tempo [era quella] di cercarne la soluzione (G. Solari, Socialismo e diritto privato, cit., p. 258).
Per i giuristi socialisti non si doveva stravolgere la natura del diritto privato; questo «studierà sempre l'individuo», ma sarà un individuo «che si riflette in una miriade di associazioni, in complessi ordinamenti di beni, di funzioni, di complicazioni contrattuali, dovuto alla nuova vita sociale». L'individuo rimarrà il perno del sistema, e con esso quindi l'impianto codicistico duramente criticato; semmai si auspicava di modificare gradualmente gli istituti giuridici che avrebbero dovuto seguire l'individuo in tutte le sue attività e nel suo continuo sviluppo (G. Vadalà Papale, Diritto privato e codice privato-sociale, cit. , p. 24). In questo senso il contratto di lavoro diventava una battaglia emblematica perché non riguardava solo il singolo lavoratore, o una classe sociale, ma tutta intera la società; era infatti uno strumento giuridico che collegava pezzi interi di società e regolava giuridicamente la dinamica delle relazioni economiche.
In altre parole la denuncia sociologica non poteva in alcun modo essere sufficiente a intaccare le certezze giuridiche perché le nuove, fin troppo, dinamiche economiche potevano ben trovare posto in leggi di carattere pubblicistico e transitorio. Dunque le leggi sociali potevano avere natura giuridica ma solo individuando tra pubblico e privato, individuo e Stato «una nuova categoria intermedia, quella di società e di diritto sociale», così come avveniva nello schema di Solari dove operava «un meccanismo di allontanamento, di espulsione dal diritto privato di ogni elemento di incertezza e di contraddizione per i dogmi individualistici» (Cazzetta 2007, p. 125).
Nella stessa Francia, da dove proveniva il 'prototipo' della codificazione individualista, si potevano facilmente riscontrare esempi di leggi speciali a integrazione o in deroga al diritto codificato. Tuttavia, notava Solari, quelle leggi sociali lasciavano intatte le disposizioni di diritto privato perché stavano al di fuori di esso. Le leggi sociali sarebbero quindi della stessa natura delle leggi emanate per ragioni di ordine pubblico: prevedevano una sorta di stato di eccezione.
In buona sostanza si descrivevano due sistemi paralleli: diritto pubblico e diritto privato, ratio socioeconomica e ratio giuridica, leggi sociali e codice civile che, come le rette parallele, complementari gli uni agli altri, potevano incontrarsi in un punto all'infinito ma la capacità di erosione delle leggi sociali sui principi codicistici era condizionata dalla reale tenuta nel tempo delle nuove leggi.
La scienza giuridica italiana si domandò quale fosse il valore da attribuire alle leggi sociali (Meccarelli 2001, pp. 424 e segg.), in particolare a quelle significativamente innovative come la legge 17 marzo 1898 nr. 80 sull'assicurazione obbligatoria per gli infortuni degli operai sul lavoro che minava un principio centrale dell'ordine codicistico: il nesso di causalità tra responsabilità e colpa. Il 30 gennaio 1900, durante il discorso inaugurale dell'anno giuridico alla Corte di Cassazione di Roma, il senatore Oronzo Quarta pose la questione, se la legge sugli infortuni del lavoro
fosse una legge di pura convenienza sociale, formante eccezione ai principii generali del diritto, o fosse una legge rappresentante bensì un jus novum generato dai principii primitivi di ragion giuridica naturale, e dove, se pur vi concorresse il principio di utilità, vi predominasse tuttavia il principio di assoluta giustizia (E. Bruni, Socialismo e diritto privato, 1907, p. 152).
La conclusione del magistrato fu che non dovevano confondersi
le leggi eccezionali con le leggi speciali; che le prime [erano] il contrapposto dell'jus commune e [riposavano] unicamente sul principio di utilità, mentre le seconde [nascevano] dal fatto che il diritto non [era] tutto nel codice civile, perché il codice [conteneva] il diritto tradizionale, ma al di fuori di esso si [andava] incessantemente elaborando un diritto nuovo, secondo i nuovi rapporti sociali; che la legge sugli infortuni [era] appunto una nuova creazione del diritto, determinata dalla nuova organizzazione economico-industriale; e che pertanto, come legge speciale e non eccezionale, essa [era] suscettibile di larga interpretazione (pp. 152-53).
L'entusiasmo di Quarta doveva però fare i conti con le osservazioni, per es., di Solari il quale faceva notare che le leggi sociali, speciali, quelle che costituivano una vera e propria modificazione del codice civile francese erano pochissime e, dunque, erano in definitiva inefficaci a «scuotere la solidità e lo spirito informatore d'un edificio secolare quale è il Codice Napoleone» (G. Solari, Socialismo e diritto privato, cit., p. 251).
In effetti «l'attacco più consistente nei confronti della figura codicistica della locatio operarum fu dovuto ai giuristi appartenenti al cosiddetto socialismo giuridico»; tuttavia ciò non deve portare a concludere che il diritto del lavoro si edificò sulle leggi sociali ma semmai contro quelle nel tentativo «di conservazione della 'purezza' civilistica» (Cazzetta 2007, pp. 136 e 140-41).
Le riflessioni dei gius-socialisti non furono produttive sul terreno della pur auspicata nuova codificazione sociale, né furono davvero incisive nella confezione delle leggi sociali. L'apporto maggiore per durata e importanza andava ricercato nella nuova sensibilità dei giuristi verso una dimensione giuridica più complessa di quella legale. Soprattutto nel tentativo, a prescindere dagli esiti, di creare un rapporto stabile tra teoria e pratica del diritto.
Espressione di questa dottrina più sensibile e matura fu, per es., Cesare Vivante, nel cui pensiero si saldavano «elementi socialistici con tratti solidaristici e con specifiche certezze dogmatiche riconducibili alla civilistica tradizionale»; anzi, il Vivante più autentico non fu tanto «il riformista quanto il solidarista che resta[va] comunque convinto dell'essenzialità del tecnicismo» (Cazzetta 2007, p. 159).
Vivante fu un profondo innovatore degli studi commercialistici ed espresse diverse insofferenze: verso il corporativismo mercantilista della disciplina commercialistica e verso l'identificazione del diritto con la legge. Alcuni giuristi di allora furono consapevoli osservatori dei profondi mutamenti del proprio tempo, tra questi Vivante che colse «soprattutto il divenire rapido dei fatti economici di fine Ottocento». Mosso da «un acceso solidarismo», Vivante si sentiva «portato a valorizzare la totalità della vita sociale», così come dall'«adesione al positivismo filosofico [traeva] la ripugnanza per ogni castello di forme astratte e l'esigenza di verificare il mondo giuridico in una realtà ben più ampia». Vivante chiedeva «al giurista di smetterla di fare il contabile degli articoli di un Codice, di aprire gli occhi sulla complessità del reale» (Grossi 2000, p. 52).
A Bologna il 14 gennaio 1888, Vivante pronunciò una prolusione (Per un codice unico delle obbligazioni) con la quale
registrava a chiare note la duplice condanna di un diritto commerciale quale egoistico ricetto di privilegi di un ceto socialmente forte e della astrattezza museale di soggetti e istituti di un diritto civile senza storia, due peccati grossi che un Codice unico delle obbligazioni avrebbe potuto almeno attenuare (Grossi 2000, p. 27).
Vivante studiò la pratica mercantile, la fattualità normativa che regolava i rapporti tra soci e creditori. Nella vita reale, osservata nella concreta quotidianità dei rapporti, emergeva una solidarietà di fatto che poco aveva in comune con un vago principio da inserire nel codice.
La solidarietà si presentava come «un fatto», non una regola di condotta ma «una molla per l'azione»; dunque, sosteneva Léon Duguit,
la dottrina della solidarietà non comanda, constata che nella realtà gli uomini sono solidali gli uni con gli altri, ovvero hanno bisogni comuni che possono soddisfare soltanto in comune, e hanno attitudini differenti e bisogni diversi che non possono soddisfare se non attraverso uno scambio di mutui servizi (La solidarietà sociale (1901), in Id., Le trasformazioni dello Stato. Antologia di scritti, a cura di A. Barbera, C. Faralli, M. Panarari, 2003, p. 59).
Il termine solidarietà era noto ai giuristi che, a partire dal diritto romano, elaborarono il concetto nell'ambito del diritto delle obbligazioni: se così prevedeva il contratto, i singoli debitori potevano essere obbligati in solido, cioè a saldare l'intero debito singolarmente. Il termine giuridico venne trasferito dal diritto alla società da Pierre Leroux (1789-1871), il quale espressamente disse di aver preso il termine «dai legisti, per introdurlo nella filosofia o, meglio, nella religione». Lo scopo di Leroux era quello di sostituire la solidarietà sociale alla carità cristiana (Losano 2008, p. 6).
Il solidarismo fu una strategia della Terza repubblica francese (Costa 2001, p. 69), una versione laicizzata e razionalizzata della fraternità (Borgetto 1993, p. XIII), una strategia «non marxista di risolvere la questione sociale» (Losano 2008, p. 8) che si concretizzò nel tentativo di conciliare le coppie oppositive: la libertà individuale con la dimensione sociale, la responsabilità individuale con quella sociale, la dimensione privata con quella pubblica.
Ancora una volta era la sociologia a ispirare i giuristi, la sociologia che
proponeva un'interpretazione organicista della società, che sottolineava l'importanza dei vincoli fra le singole parti, indipendentemente dalle loro singole funzioni nel contesto del tutto. Il termine 'solidale' passava così dal campo fisico a quello sociale: come sono fra loro solidali i singoli arti del corpo, così devono essere solidali fra loro i singoli membri della società (Losano 2008, p. 7).
Secondo la lettura di Sergio Panunzio vi era nella cultura giuridica italiana «identità tra «solidarismo» e «socialismo giuridico»», tanto che usava indifferentemente le due formule per indicare quella
modernissima corrente intellettualista, che aveva [...] centrato il suo programma di lavoro sull'applicazione del principio ideale della solidarietà nel campo della morale e del diritto (Cascavilla 1987, p. 13).
L'interpretazione di Panunzio non convinceva invece Solari che non credeva si potesse confondere il socialismo giuridico né col solidarismo, né «con quel movimento che fu chiamato di socializzazione del diritto» (Socialismo e diritto privato, cit., p. 238) , che si potesse cioè «identificare il socialismo giuridico con la filosofia della solidarietà che si svolse in questi ultimi anni soprattutto in Francia nel campo filosofico, sociologico, etico, giuridico ecc.» come dimostrava il ciclo di conferenze all'École des hautes études sociales tenute dal solidarista Léon Bourgeois.
Numerosi furono i giuristi sensibili ai principi solidaristici, frutto di commistioni che contribuirono a rendere il quadro ancora più ambiguo e complesso, e non solo nella cultura giuridica italiana. Legittima fu, per es., la domanda di Georges Renard a Bourgeois, ovvero se egli fosse socialista e particolarmente significativa fu la risposta dell'esponente solidarista. Bourgeois fece notare che c'era stata un'evoluzione linguistica della parola e che oramai poteva ricomprendere chiunque si occupasse di problemi sociali. Non si poteva più usare la parola 'socialista’ senza caratterizzarla con un aggettivo e Bourgeois ne scelse due: liberale e volontario. 'Liberale’ perché il socialismo di Bourgeois tendeva alla realizzazione delle condizioni nelle quali tutti gli individui avrebbero potuto sviluppare al massimo la propria libertà e la proprietà individuale. 'Volontario', poiché alla lotta sostituiva l'associazione volontaria di soggetti che concorrevano al benessere di tutti (L. Bourgeois, Essai d'une philosophie de la solidarité, 1902, p. 34).
Alessandro Groppali riconobbe a Bourgeois il grande merito di aver tentato di dare una base giuridica alla solidarietà, tuttavia riteneva che per trasformare la nozione giuridica di proprietà fosse più utile l'istituto dell'usufrutto anziché del quasi-contratto. Groppali osservava che la società è
la legittima, la nuda proprietaria di tutti i beni sociali ed è essa che li concede in usufrutto agli associati, i quali, senza stornarli dallo scopo a cui sono destinati, né alienarli, né deteriorarli, devono goderne i frutti alle condizioni stabilite dalla rappresentanza sociale. Integrando in tal modo la teoria dell’usufrutto dei beni sociali sostenuta dai solidaristi e dai socialisti, anche la nozione giuridica della proprietà si trasforma e si rinnova: essa cessa dall’essere un diritto dell’individuo per diventare una funzione sociale. Sopra questo concetto, che contiene in sé in germe tutto un novus ordo giuridico, e non sopra l’evanescente figura del quasicontratto sociale, i solidaristi dovrebbero fondarsi per chiedere la revisione e propugnare la trasformazione delle istituzioni giuridiche vigenti in armonia alle nuove idealità di solidarietà e di giustizia sociale (I fondamenti giuridici del solidarismo, 1914, pp. 208-09).
Il discorso del solidarista Bourgeois coglieva, in ogni caso, lo spirito di quella parte della dottrina gius-sociale, anche italiana, che pur volendo ampliare la sfera del diritto privato non intendeva rinunciare ai principi individualistici dei codici. Un atteggiamento diffuso in tutta la cultura giuridica europea che a nostro avviso fu ben descritto da Oscar Wilde in The soul of man under socialism pubblicato su «The fortnightly review» nel febbraio del 1890 e cioè che upon the other hand, Socialism itself will be of value simply because it will lead to Individualism, («il socialismo stesso avrà tal vantaggio da condurre all'individualismo») (trad. it. in O. Wilde, Opere, 1992, p. 333).
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