Il socialismo reale
L’espressione «socialismo reale» fu utilizzata, a partire dagli anni Settanta, per indicare il modello di organizzazione sociale dell’Unione Sovietica e delle cosiddette «democrazie popolari» dei Paesi dell’Europa orientale. I suoi specifici tratti distintivi erano: a) la dittatura monopartitica; b) la concentrazione dei mezzi di produzione nelle mani dello Stato; c) la pianificazione economica; d) il marxismo-leninismo come ideologia ufficiale.
Il processo di costruzione del socialismo reale iniziò con la conquista del potere da parte del Partito bolscevico sotto la carismatica guida di V.I. Lenin. Essa, in realtà, era stata preceduta da una lunga elaborazione teorica da parte dello stesso Lenin. L’idea di fondo, derivata direttamente da K. Marx e F. Engels, si basava sul concetto che la missione storica della rivoluzione socialista era quella di abolire lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo radendo al suolo il capitalismo e tutto ciò che era a esso connesso (la proprietà privata, il mercato, lo Stato di diritto, la democrazia parlamentare). L’azione del nuovo regime – autodefinitosi «dittatura del proletariato» – fu perfettamente coerente con i presupposti ideologici in nome dei quali era nato. Il primo decreto fu la soppressione della libertà di stampa sulla base del principio secondo il quale era imperativo impedire agli sfruttatori e ai reazionari di propalare le loro idee. Il secondo provvedimento fu la soppressione dell’Assemblea costituente bollata come una «fabbrica di chiacchiere». Il terzo, la messa fuori legge di tutti i partiti, ivi compresi i partiti della sinistra non-bolscevica (socialisti rivoluzionari, menscevichi, anarchici). Infine, la statizzazione integrale dei mezzi di produzione e di distribuzione (industrie, terra, banche, commercio) e la conseguente eliminazione della proprietà privata e del mercato. Così, nel giro di pochi mesi, il socialismo, identificato con l’instaurazione del piano unico di produzione e di distribuzione sulle macerie della società capitalistico-borghese, diventò una corposa realtà, la quale, presentandosi come la prima tappa della prometeica costruzione del regno della libertà, fu accolta da larghi strati della sinistra europea con il più grande degli entusiasmi. Grazie alla rivoluzione bolscevica, il socialismo cessava di essere una vuota e impotente utopia ed entrava sulla scena internazionale come una formidabile potenza storica, destinata a materializzare l’ideale della società senza classi e senza Stato. Un ideale la cui realizzazione esigeva il ricorso al terrorismo di Stato, concepito da Lenin come purificazione della Russia attraverso lo sterminio della borghesia. Iniziarono gli anni del «comunismo di guerra» (1918-21), caratterizzati dalla guerra civile fra l’Armata rossa e le «armate bianche», che intendevano restaurare il regime zarista. Quelli furono anche gli anni in cui il Partito bolscevico mobilitò tutte le sue energie per istituzionalizzare una economia a pianificazione centralizzata, una economia in cui l’intero processo di produzione doveva essere regolato dalla «mano visibile» dello Stato e non dalla «mano invisibile» del mercato. Il risultato fu una spaventosa carestia che costrinse Lenin a concedere ai contadini la libertà di commerciare i prodotti del loro lavoro. Ne derivò un ibrido istituzionale, denominato Nuova politica economica (NEP), centrato sulla coesistenza fra la piccola produzione mercantile e il monopolio statale della grande industria e del commercio internazionale. Esso, comunque, fu concepito come una tappa intermedia per giungere a quella che era la meta per la quale il Partito bolscevico aveva conquistato il potere: la società pianificata.
A giudizio di N.I. Bucharin – passato alla storia come il teorico del «comunismo a passo di lumaca» – l’iniziativa privata era la «gallina dalle uova d’oro» che doveva essere sfruttata per un lungo periodo storico, fermo restando che essa, alla fine, doveva cedere il passo al piano unico di produzione e di distribuzione. Diametralmente opposta la tesi di E. Preobraženskij, per il quale la NEP, facendo crescere ogni giorno i germogli di capitalismo, allontanava irrimediabilmente l’Unione Sovietica dal socialismo. Essa, pertanto, era un esperimento che andava immediatamente interrotto per scongiurare un ritorno di fiamma del capitalismo. Il che fu esattamente ciò che accadde quando I.V. Stalin, ormai divenuto il padrone incontrastato del partito, decretò la fine della NEP. A partire dal 1930, iniziò la collettivizzazione forzata, accompagnata da una colossale ondata di terrore che si riversò sui kulaki, bollati come parassiti sociali che si ingrossavano succhiando il sangue dei contadini e degli operai. Fu così realizzato il sogno di Lenin: una economia integralmente statizzata e altrettanto integralmente diretta dal Partito comunista (PCUS), autoproclamatosi «avanguardia cosciente del proletariato rivoluzionario». Ne risultò un compiuto sistema totalitario in cui la società civile fu completamente assorbita dallo Stato-partito e sottoposta a quello che sarebbe passato alla storia con il nome di grande terrore, la cui istituzione centrale fu il gulag, luogo di scarico di tutte le categorie sociali che l’ideologia marxista-leninista considerava incompatibili con la costruzione del socialismo.
La grande vittoria sulla Germania nazista fece crescere smisuratamente il prestigio dell’Unione Sovietica; e fece crescere altresì la sua potenza imperiale, poiché l’Armata rossa impose il modello del socialismo reale sui Paesi da essa conquistati. Ma, appena tre anni dopo la morte di Stalin, il blocco sovietico veniva scosso da una duplice traumatica crisi: la denuncia, durante il 20° Congresso del PCUS, dei crimini dello stalinismo e la rivolta ungherese, repressa dai carri armati sovietici. Contemporaneamente emersero l’urgenza e la necessità di una radicale riforma del sistema economico. Pur corretto dalla presenza di una ramificata economia sommersa regolata dalla logica catallattica, il modello della pianificazione centralizzata rivelava ogni giorno una preoccupante inefficienza. Esso era stato istituzionalizzato a partire dalla assunzione che l’economia di piano aveva una superiore razionalità rispetto all’economia di mercato, dipinta come intrinsecamente anarchica e autodistruttiva. Appoggiato dal presidente del Consiglio dei ministri, A. Kosygin, E. Liberman, professore dell’istituto di economia e di ingegneria di Charkov, propose difare della redditività delle imprese il criterio di valutazione del funzionamento delle imprese stesse. Ciò significava l’introduzione di principi (il profitto, la concorrenza, la domanda e l’offerta) per eliminare i quali il Partito bolscevico aveva preso il potere e lo aveva esercitato nel modo più brutale con il preciso obbiettivo di impedire la rinascita del capitalismo. In aggiunta, il modello di Liberman contemplava un’ampia autonomia operativa delle imprese e, di conseguenza, una drastica riduzione del potere del GOSPLAN, che era l’organo supremo della pianificazione centralizzata. Una ristrutturazione così concepita implicava la fuoriuscita dal socialismo reale e, dunque, il pubblico riconoscimento che la premessa sulla quale era stato edificato – la superiore razionalità del piano rispetto al mercato – era erronea. Una tesi che la nuova classe – la burocrazia allevata nel seno del PCUS – non poteva accettare e non accettò. Seguirono così gli anni della restaurazione guidata da L.I. Brežnev, succeduto a N.S. Chruščëv quale segretario del PCUS; anni durante i quali prevalse la logica della difesa a oltranza dei principi e delle istituzioni del sistema del socialismo reale.
Come era logico attendersi, la «glaciazione brezneviana» portò l’economia sovietica sull’orlo del collasso catastrofico. Né valsero a scongiurare la caduta finale i tentativi di riforma compiuti da M.S. Gorbačëv. La glasnost΄, cioè a dire la parziale libertà di stampa e di critica concessa dal PCUS, non fece che rendere di pubblico dominio che c’era solo un modo per arrestare il rovinoso declino: la fuoriuscita dalla logica della pianificazione centralizzata e l’introduzione dei principi e delle istituzioni del capitalismo, che il marxismo-leninismo aveva demonizzato, imputando loro tutti i mali del mondo. E così, nel giro di pochi anni, si consumò la bancarotta planetaria del comunismo. Nel 1989 fu abbattuto il muro di Berlino, cui fece seguito in rapidissima successione la caduta delle dittature sotto le quali erano vissuti, come prigionieri, i popoli dell’Europa orientale. Nel 1991 collassava il PCUS e, con esso, tutto il sistema del socialismo reale, ponendo così fine alla Guerra fredda, che per oltre 40 anni aveva diviso il mondo intero in due blocchi di potenze le une contro le altre armate. Collassava, altresì, il mito della rivoluzione, nato in Francia nel 1789 e dilagato nel mondo intero: la rivoluzione come palingenetica mutazione della società e della stessa natura umana.
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