Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La crisi della seconda Internazionale, accresce le già forti divisioni interne al movimento operaio tra la componente riformista e quella rivoluzionaria. Divisioni che, a parte la temporanea alleanza tattica per opporsi al fascismo, si acuiscono negli anni successivi, conducendo la socialdemocrazia a condividere i principi della democrazia politica e dell’economia mista. Nel secondo dopoguerra il modello socialdemocratico difende il sistema del welfare state, all’interno di una stabile scelta atlantica ed europeista. Dopo il 1989, però, prevale la convinzione che le tutele sociali possono attuarsi solo all’interno di una piena economia di mercato.
I partiti socialisti europei all’inizio del secolo
Con l’intensificarsi delle tensioni e dei conflitti tra le potenze imperialistiche europee agli inizi del Novecento, e, successivamente, con lo scoppio della prima guerra mondiale, le idee e le politiche del socialismo conoscono una profonda crisi nonché una decisiva trasformazione, da considerarsi, oltre che il sintomo di un interno sviluppo, anche il riflesso della più generale vicenda della cultura europea, a partire almeno dagli anni Ottanta del XIX secolo. Una “crisi di coscienza” e più ancora “una nuova sensibilità che pone in dubbio le certezze e gli ottimismi positivistici”, rivela “la voragine ideologica del secolo XIX” (Vicens Vives), la quale pur nel caos di opinioni, sistemi e indirizzi dava corpo a “un’estrema pluralità di direzioni” e tendeva nondimeno “a stabilire una nuova identità europea” (Galasso).
Il mutato carattere del socialismo nel primo Novecento è riscontrabile, per esempio, nel netto declino della sua attività “educativo-cooperativistica” e della fiducia nella cultura e nel progresso. “Dove il XIX secolo – osserva Franco Lombardi – inclinava verso uno storicismo che poteva ritrovare i suoi addentellati anche in Marx e in ogni caso nella concezione ideologica e pratica della seconda Internazionale, il secolo nuovo si annunzia con una fiducia nella provvidenza della storia che trova il suo riscontro nella maggiore esaltazione o riabilitazione dell’intervento dell’individuo, dell’elemento volontaristico o del mito, e in generale dei valori pratici. Alla sicura ascensione economico-sociale e agli ideali ingenui ma inconcussi della seconda metà del secolo passato subentra, dopo il fermento e le prime stanchezze del primo quarto di secolo, già smaliziato, la delusione della prima guerra mondiale, con la caduta dell’Internazionale e i problemi dei socialismi più o meno ‘nazionali’”.
Già le avvisaglie della Grande Guerra hanno messo in crisi la Seconda Internazionale e la sua ideologia internazionalistica e antimperialistica; sorto nel 1889, l’organismo socialista si riunisce per l’ultima volta nel 1912, perché ormai le divisioni tra i vari partiti socialisti europei sono divenute insanabili proprio in vista dell’atteggiamento da assumere nei confronti dell’incipiente conflagrazione bellica. Al suo scoppio “i grandi partiti socialisti europei occidentali, con la sola eccezione del partito italiano, si schierano con i loro governi, così dimostrando il grado di inserimento raggiunto nelle realtà politiche nazionali, la crisi dell’internazionalismo proletario e la vanificazione dei propositi di opposizione unitaria all’imperialismo dei Paesi capitalistici che era stata oggetto di deliberati dei congressi dell’Internazionale” (Salvadori).
La vivace dialettica tra le diverse anime e correnti del socialismo europeo è ormai divenuta radicalità e asprezza di non più componibili divisioni in materia di tattica e strategia politica, ma anche di analisi teorica e storica. Una divisione che si avverte sempre meno all’interno dei partiti e molto di più in riferimento ai loro schieramenti e tradizioni nazionali.
All’inizio del Novecento, nell’area britannica, per esempio, prevale il riformismo, mentre in Russia l’obiettivo comune di socialrivoluzionari, menscevichi e bolscevichi è la rivoluzione contro lo zar Nicola II. Proprio in Russia nel 1903 c’è la precoce quanto significativa scissione dei socialdemocratici in menscevichi e bolscevichi: i primi, seguaci di Martov, non ritengono mature le condizioni sociali ed economiche russe per una rivoluzione operaia e contadina e sostengono che tutte le energie debbano essere convogliate per costruire un partito, pienamente partecipe della dialettica parlamentare e della democrazia politica “borghese”. Viceversa, i secondi, capeggiati da Lenin, sostengono che il partito possa e debba preparare e guidare la rivoluzione armata del proletariato operaio e contadino.
Il revisionismo del pensiero marxista di Eduard Bernstein
Riformismo e massimalismo, “opportunismo” e rivoluzionarismo, primato della lotta politica oppure di quella sindacale, collaborazione o lotta di classe: sono questi i principali e opposti poli tra cui hanno oscillato, e ancora oscillano, le posizioni politiche dei socialisti europei. Così come ortodossia e revisionismo del pensiero di Marx sono stati i poli tra cui hanno oscillato le loro prese di posizione teoriche e filosofiche.
Proprio nei primi decenni del Novecento si accende infatti la polemica contro la revisione del pensiero di Marx, compiuta in modo particolare da alcuni tra i più autorevoli esponenti del socialismo tedesco prima, e di quello austriaco poi. I punti del pensiero di Marx in discussione sono soprattutto quelli relativi alla crescente proletarizzazione e polarizzazione economico-sociale, che si sarebbero dovute verificare nelle società capitalistiche mature, e alla concezione dello Stato come strumento di classe.
La sistemazione teorica del revisionismo è iniziata da Bernstein, il dirigente del Partito Socialdemocratico Tedesco dalle ascendenze neokantiane e marginalistiche e profondo conoscitore del fabianesimo inglese e dei coniugi Webb, il quale non concepisce più il socialismo come l’antitesi del liberalismo, ma come il suo completamento. La storia, a suo parere, ha invalidato le teorie e le previsioni “catastrofiste” di Marx e ha dimostrato che lo Stato del XX secolo, con il suffragio universale e l’estendersi della democrazia, non può più essere considerato il “comitato d’affari della borghesia”, ovvero uno strumento di oppressione e amministrazione in mano alle classi privilegiate, bensì il nuovo e più propizio terreno della contesa politica e sociale, in cui la classe operaia può conquistare diritti e poteri ed esserne parte integrante. “Il movimento è tutto e il fine è nulla”, afferma Bernstein per ridimensionare il carattere millenaristico, palingenetico del socialismo e improntarlo a un maggior pragmatismo.
Nonostante l’autorevolezza e la modernità delle tesi, il suo riformismo nei primi anni del Novecento è respinto dalla maggioranza del suo partito, in cui predomina l’ortodossia “di centro” di Carl Kautsky.
Ma, sebbene politicamente battuto nei congressi del Partito Socialdemocratico Tedesco, il riformismo “revisionistico” di Bernstein acquista “consistenza organizzativa e spazio nella prassi reale del movimento operaio tedesco, così come nella sinistra di tutti i Paesi europei industrialmente avanzati, a partire proprio dagli inizi del Novecento” (Pianciola).
Rosa Luxemburg e Vladimir Lenin
L’ostilità alle teorie di Bernstein proviene soprattutto e con maggiore radicalità dalle posizioni rivoluzionarie di sinistra espresse dalla sua compagna di partito, Rosa Luxemburg. Di origine polacca, la Luxemburg, tragicamente morta nel fallito tentativo rivoluzionario attuato con Karl Liebknecht nella Germania weimeriana del primo dopoguerra, ha rappresentato con Lenin lo sviluppo teorico e politico dell’alternativa rivoluzionaria e comunista del socialismo novecentesco. La Luxemburg intuisce che l’avvento della società di massa e la pratica della democrazia indeboliscono il miraggio della meta ultima, rappresentata dall’integrale realizzazione della giustizia e dell’uguaglianza sociale. Meta ultima che, secondo il suo giudizio, la crisi irreversibile e il crollo del capitalismo, divenuto monopolistico nell’età dell’imperialismo, avrebbero invece potuto rendere più vicina. Il movimento operaio si ritrova a navigare “fra due scogli” ovvero, come si esprime la rivoluzionaria, “fra l’abbandono del carattere di massa e l’abbandono dello scopo finale, fra ricadere nella setta e precipitare nel movimento riformista borghese”.
Sarà Lenin a ricadere, per così dire, in modo originale e vincente nella “setta”, riallacciandosi per certi versi alla tradizione blanquista e contemporaneamente fondando il comunismo contemporaneo anche attraverso il distacco e la contrapposizione nei confronti del socialismo; un distacco e una contrapposizione che invece dopo il 1848 hanno progressivamente perso rilievo e diffusione.
Lenin teorizza e realizza il partito elitario, diretto da un manipolo di “rivoluzionari professionali” e strutturato secondo i principi del centralismo democratico. È “il partito organizzato come milizia del proletariato, quale antagonista dell’imperialismo inteso come ultima fase del capitalismo. Per questo modo il partito comunista (leninista) si presenta da un lato come il figlio del secolo, mentre influisce, a sua volta, potentemente sul carattere della nuova epoca” (Franco Lombardi), segnata profondamente dalla vittoriosa rivoluzione d’ottobre e dalla nascita del primo totalitarismo del Novecento, quello sovietico.
Se, al contrario di Lenin, la Luxemburg ha prediletto la spontaneità degli organismi politici e sociali di base, ha però condiviso con il rivoluzionario russo, pur tacciato di autoritarismo, l’idea di subordinare “ogni esperienza del movimento operaio al fine della conquista e della pratica diretta del potere politico” e di concepire lo Stato liberaldemocratico esclusivamente come l’organizzazione politica e giuridica del capitalismo (Pianciola).
Sarà la prima guerra mondiale a offrire a Lenin l’occasione per colpire l’imperialismo nel suo anello più debole: da qui si svilupperà la sua lotta contro la guerra e le tendenze politiche prevalenti nel socialismo europeo. Dopo aver appoggiato le conferenze di Zimmerwald (1915) e Kiental (1916) improntate al pacifismo, Lenin indica con determinazione l’obiettivo di trasformare la guerra in guerra civile per la conquista rivoluzionaria del potere e l’instaurazione della marxiana dittatura del proletariato.
Socialismo, comunismo e socialdemocrazia
L’età entre deux guerres, che ha visto l’affermarsi del bolscevismo ma anche del fascismo, conosce, fino all’avvento del nazismo, una netta e sempre più polemica contrapposizione tra comunisti e socialisti, che porterà a far definire i secondi socialfascisti e socialtraditori da parte dei primi. Ma il periodo precedente il riavvicinamento e la collaborazione tra socialismo e comunismo – avvenuti in virtù dell’urgenza e della necessità della più ampia alleanza possibile contro il nazifascismo e che hanno nel VII congresso dell’Internazionale Comunista del 1935 e nei successivi Fronti popolari una pietra miliare – è anche un periodo assai fecondo per la rielaborazione teorica e politica della socialdemocrazia.
Infatti già durante la crisi del primo dopoguerra e dopo il successo della rivoluzione d’ottobre la nozione di socialismo “comincia a caricarsi di significato e a individuare una particolare impostazione della politica socialista, quella dei partiti operai che non sono disposti ad attribuire valore normativo all’esperienza russa e a riconoscersi nella precettistica leninista” (Rapone). E se una parte minoritaria dei partiti socialisti europei dà vita con le scissioni ai partiti comunisti, la maggioranza respinge il totalitarismo sovietico e ribadisce la scelta della via democratico-parlamentare, delle alleanze politiche e sociali e del riformismo per conquistare il consenso e governare. Di più, il socialismo europeo, sollecitato ulteriormente dalla crisi economica mondiale seguita al crollo di Wall Street nel 1929, s’impegna in un notevolissimo sforzo intellettuale e politico che ha come conseguenze l’affinamento e il rafforzamento teorico e ideale delle scelte riformiste e il loro concreto tradursi nelle prime e fondamentali esperienze di governo, improntate al welfare state . Basti pensare alla Germania weimeriana, alla Gran Bretagna, al Belgio, come alla Francia del Fronte Popolare di Léon Blum nella seconda metà degli anni Trenta e soprattutto alle più lunghe ed efficaci gestioni governative della socialdemocrazia in Danimarca, Svezia e Norvegia, consapevolmente ispirate ai principi keynesiani.
“Le socialdemocrazie, specie quelle scandinave, affrontano le crisi del capitalismo, e in particolare quella del 1929, secondo una concezione che attribuisce allo Stato crescenti funzioni di controllo dell’economia attraverso una programmazione democratica e parlamentare” (Salvadori).
Il socialismo sembra avere proficuamente avvertito che la crisi vissuta allo scoppio della prima guerra mondiale e poi con l’avvento dei totalitarismi, accompagnati o preceduti dalle gravissime crisi del sistema economico, altro non è che “la crisi della stessa società dell’Ottocento, dove il momento tragico risiede in ciò che la crisi che si produce secondo le direttrici del processo disegnato, a grandi linee, da Marx, non si risolve tuttavia nel senso voluto dai socialisti, benché conduca molto spesso a forme di statizzazione o comunque di pianificazione che sembravano presentarsi come socialistiche (vedi le varie forme del nazionalsocialismo) confondendo ancora più le menti sulla vera essenza di un movimento ‘socialista’” (Franco Lombardi). Ma di fronte a tale sfida, come detto, i socialisti europei complessivamente riescono, pur nei difficilissimi frangenti e tra tentativi ed errori, a ritrovare la bussola politica che li avrebbe portati lontano, partendo dalla revisione di vecchi concetti e dalla chiarificazione di nuove idee.
Infatti, Kautsky all’indomani della Grande Guerra stabilisce la stretta connessione tra democrazia e socialismo, affermando che il metodo parlamentare e democratico è irrinunciabile e inseparabile dalla finalità socialista e teorizzando uno “stato sociale” fondato su una “democrazia senza classi”. Il suo connazionale Hilferding, che coglie le linee di tendenza generali dell’economia monopolistica, sostiene che il nuovo capitalismo “organizzato” avrebbe rappresentato la base della futura pianificazione socialista. Mentre il belga Henri de Man si fa teorico del “planismo”, ovvero un piano economico e sociale nazionale in grado di dar vita a un’economia “mista”, in cui la proprietà e la conduzione dei mezzi di produzione è sia privata che pubblica.
Otto Bauer e Viktor Adler, i maggiori esponenti dell’“austromarxismo”, reinterpretano il pensiero di Marx alla luce delle dottrine di Kant e di Mach, per considerarlo essenzialmente un metodo di analisi storico-sociale e non un pensiero dogmatico. E soprattutto concepiscono e valorizzano il socialismo in termini etici, valoriali, come un’idea politica che è “solamente motivata in quella versione dell’imperativo categorico che pretende che in ognuno venga rispettata l’umanità e che nessuno venga considerato soltanto come un mezzo ma in pari tempo anche come un fine”(Adler). Bauer in particolare delinea una rivoluzione politica attuata per via democratica e maturata grazie a un lento e diffuso processo di socializzazione dei mezzi di produzione.
Il “ghildismo” britannico e la situazione francese
Pure il ghildismo sviluppatosi in Gran Bretagna a partire dalla prima guerra mondiale, i cui principali teorici sono Samuel George Hobson (1870-1940) e George Douglas Howard Cole, insiste sulla necessità che lo Stato socializzi i mezzi di produzione affidandone la gestione ai lavoratori organizzati in “gilde nazionali”. Secondo Rodolfo Mondolfo il socialismo ghildista rappresenta la “sintesi di riformismo laburistico e di sindacalismo rivoluzionario” e, più in generale, è da considerare l’espressione teorica più originale di quelle aspirazioni e rivendicazioni di maggiore libertà e autonomia e di pieno sviluppo “della personalità umana nel lavoratore” che si sono oscuramente manifestate “in mezzo alle agitazioni incomposte successive alla guerra mondiale, specialmente nelle richieste per le commissioni interne e per il controllo delle fabbriche” (Mondolfo). Per il ghildismo, che influenzerà il laburismo inglese, il “controllo operaio” deve essere la base di una nuova democrazia industriale, già tratteggiata dai Webb, in cui fondamentale è la creazione di un completo sistema di sicurezza sociale del lavoratore e del cittadino. Pur non privilegiando la dimensione economica e sociale rispetto a quella politica, anche il belga Louis De Brouckère, nei primi anni del Novecento, propugna l’avvento della democrazia industriale e del controllo operaio.
In Francia – dopo l’appannamento dell’indirizzo umanitario, riformista e democratico di Jean Jaurès e la diffusione delle teorie di Georges Sorel, il fondatore del sindacalismo rivoluzionario agli inizi del Novecento, basate sull’idea di creare un mito di massa in grado di suscitare una rivolta violenta e totale del proletariato contro la borghesia, e di passare così dalla politica al sindacalismo – il socialismo inaugura un nuovo corso negli anni Venti e Trenta, successivamente alle affermazioni nazifasciste in Europa e ai tentativi autoritari messi in atto all’interno del Paese. Proprio grazie a questo nuovo corso, nonostante sia diffusa nelle file socialiste “la convinzione che il comunismo costituisca una degenerazione dispotica del socialismo da avversare risolutamente” e si faccia strada nell’ambito del marxismo eterodosso la categoria interpretativa del totalitarismo per spiegare fascismi e comunismo, si costituisce un’alleanza tra socialisti e comunisti che è alla base dell’esperimento del fronte popolare “con le sue finalità antifasciste e democratiche” e che rappresenta l’indispensabile premessa dell’unità politica “nelle lotte di resistenza durante la seconda guerra mondiale” (Salvadori).
Il socialismo europeo fra le due guerre
Tra le due guerre, in altre nazioni europee come l’Italia, la Germania, la Spagna e il Portogallo, “l’area della democrazia e del socialismo arretra di fronte all’espansione del fascismo e delle politiche autoritarie”, ma in questo modo, e con conseguenze significative, “socialismo e democrazia condividono un’identica sorte, si compenetrarono ulteriormente, e tale identificazione costituisce un’eredità importante per le leadership costrette all’emigrazione e per le generazioni successive” (Degl’Innocenti). Inoltre, questa identificazione avrebbe dato nuovo ossigeno all’elaborazione teorica e allo sviluppo politico dell’antifascismo nella sua nevralgica fase degli anni tra le due guerre.
Basti pensare che proprio durante il periodo del fascismo italiano, sul finire degli anni Venti, Carlo Rosselli, riallacciandosi anche alla tradizione mazziniana e al riformismo socialista di Turati, elabora una nuova idea di socialismo nel suo libro Socialismo liberale, pubblicato in Francia, dove egli è esule, nel 1930, in cui si sintetizzano influenze politiche e culturali diverse, da de Man a Bernstein, ai Webb, da Cattaneo a Croce, da Rodolfo Mondolfo ad Alessandro Levi. Intento di Rosselli è la rivalutazione del socialismo etico e libertario per poterlo emancipare dal marxismo e dargli “una marca nuova e pericolosa”, rendendolo “erede del liberalismo”, il suo “logico sviluppo”. All’idea della necessità di abbinare giustizia e libertà, di integrare socialismo e liberalismo, Rosselli è pervenuto proprio grazie all’esperienza dei totalitarismi trionfanti: “così, se la lezione proveniente dal totalitarismo rosso già nel 1921 aveva portato il giovane Rosselli a individuare nel problema di conciliare socialismo e libertà il nodo nevralgico del proprio impegno teorico […] l’amara esperienza del totalitarismo nero, vissuta e sofferta sulla propria pelle, si sarebbe rivelata determinante per definire le idee-forza del socialismo liberale” (Angelini).
Analizzando le teorie e le esperienze del socialismo occidentale nel periodo tra le due guerre mondiali, si può dire che nella loro pluralità e diversità “è possibile seguire la progressiva affermazione dei caratteri politici destinati col tempo a costituire la sintesi socialdemocratica e a dotare finalmente il nome di socialdemocrazia di un significato positivo sufficientemente definito. Il processo si svolge lungo tre direttrici. In primo luogo s’impone l’indissolubilità del nesso tra qualsiasi progetto di carattere socialista e la democrazia politica, intesa non solo come via al potere, ma come principio organizzatore di ogni futuro assetto della società. In secondo luogo nei partiti socialisti ottiene crescenti riconoscimenti il principio della coalizione con altre forze politiche per lo svolgimento dei compiti di governo e si manifesta la tendenza a una modificazione delle tattiche e dei linguaggi, in modo da rendere possibile la rappresentanza non solo di particolari interessi di classe ma di più vaste correnti popolari. Infine il socialismo sente il bisogno d’individuare criteri direttivi per una politica economica di breve periodo e medio periodo che consenta di operare all’interno del mercato senza soggiacere all’automatismo dei suoi meccanismi spontanei” (Rapone). Proprio tra le due guerre entra a far parte del “codice genetico del socialismo occidentale” la pratica dell’economia mista (pubblica e privata) come “correttivo” delle crisi cicliche oppure della libera concorrenza, o come equilibratore degli squilibri del mercato, come “sinonimo di servizio pubblico impiegato per combattere le ineguaglianze e per consolidare la coesione nazionale” (Degl’Innocenti).
Queste direttrici, insieme a quella legata alla scelta atlantica ed europeista, e queste pratiche, segnano il solco più profondo e duraturo in cui si sono sviluppate le più significative esperienze socialiste e socialdemocratiche europee dal secondo dopoguerra in poi, sia pure con gradi, modi e tempi diversi: viceversa, nei Paesi ex coloniali, arabi, asiatici e africani, la principale caratteristica del socialismo, guidato da élite e anche da leader carismatici, è il forte richiamo all’indipendenza e all’unità nazionale, supportato da mobilitazioni di massa, ed è netta la prospettiva di uno sviluppo economico e sociale più egualitario e comunitario di quello consentito dal capitalismo industriale e finanziario.
I nuovi modelli socialisti del secondo dopoguerra
Nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale alla fondamentale questione riguardante il rapporto con il mercato e con lo Stato, con l’iniziativa economica privata e col potere pubblico, i partiti socialisti orientati in senso socialdemocratico, ovvero la grandissima parte in Europa occidentale, danno risposte che vanno tutte “verso la separazione del concetto di socialismo da quello di socializzazione, secondo la linea indicata dal rinnovamento teorico e politico che si era verificato negli anni Trenta” (Rapone).
In Gran Bretagna, ispirato alle idee di Beveridge e Keynes e anche di Schumpeter e Galbraith, il Partito Laburista che ottiene il governo nel 1945 applica in modo assai ampio la politica del welfare state, orientata a garantire e proteggere il cittadino “dalla culla alla tomba”. Questa politica si integra poi con la politica dei redditi e la concertazione sindacale, inaugurando inoltre un importante programma di nazionalizzazione delle industrie e dei servizi di base (carbone, acciaio, ferrovie ecc.), che è stato in seguito ridotto e accantonato, e poi criticato, dagli stessi laburisti.
Un programma simile, ma più radicale e accompagnato da una fortissima pressione fiscale, è portato avanti, a partire dagli anni Sessanta, dalla socialdemocrazia svedese, già al governo del Paese a partire dagli anni Trenta. Secondo il “piano” di Rudolf Alfred Meidner, elaborato a metà degli anni Settanta, i lavoratori si devono addirittura appropriare dell’apparato industriale mediante la creazione di fondi comuni. In Germania, alla fine degli anni Cinquanta, al congresso di Bad Godesberg del 1959, la socialdemocrazia tedesca respinge definitivamente l’armamentario ideologico e teorico del marxismo, come il partito di classe e la finalità di una società socialista, per lasciare il posto alla formula “concorrenza in economia nella misura del possibile, pianificazione nella misura del necessario” e alla possibilità di esperire forme concrete di cogestione tra “capitale” e “lavoro”.
In tanta parte dell’Europa latina e “mediterranea”, come ad esempio in Italia e Francia, i partiti socialisti, che pure sono stati al governo in vaste coalizioni nell’immediato secondo dopoguerra, hanno un’evoluzione meno lineare, almeno fino agli anni Cinquanta, avendo maggiormente risentito della presenza e dell’influenza nei rispettivi Paesi dei più consistenti partiti comunisti dell’area occidentale, a cui erano alleati. In Italia, nonostante la coraggiosa scissione attuata da Giuseppe Saragat nel 1947 per fondare un Partito Socialdemocratico indipendente dall’URSS e dal PCI, la maturazione in senso socialdemocratico, filoccidentale ed europeista del PSI è lenta e travagliata, ma si conclude positivamente con l’esperienza modernizzatrice dei governi di centro-sinistra, a partire dagli anni Sessanta. In Francia, dopo la crisi algerina e di Suez e l’avvento della quinta Repubblica di de Gaulle, il socialismo francese risulta particolarmente diviso e polemico al suo interno, precipitando in una crisi che si risolve soltanto agli inizi degli anni Settanta, con la guida di François Mitterrand, destinato a far mietere importanti successi al Partito Socialista nei decenni successivi e a ricoprire egli stesso le più alte cariche dello Stato. Il cosiddetto socialismo “meridionale”, che include i partiti socialisti di Spagna, Portogallo, Grecia, Italia e Francia e che riscuote negli anni Ottanta notevoli successi elettorali e di governo, tanto da far parlare di un modello “mediterraneo”, è risultato col tempo più pragmatico e soprattutto in grado di fronteggiare la fase assai difficile dell’economia internazionale in quegli anni. Questi socialisti, infatti, “non hanno potuto giovarsi, a differenza della socialdemocrazia classica, di un’intensa crescita produttiva per ripartirne i benefici e promuovere iniziative di Welfare, e si sono soprattutto preoccupati di creare condizioni idonee alla ripresa dell’investimento privato e all’affermazione sul mercato internazionale”. Inoltre, i partiti socialisti “meridionali sono prevalentemente partiti di opinione e non hanno le caratteristiche del partito di massa, radicato nel mondo del lavoro, intimamente collegato a un potente e strutturato movimento sindacale, come nel caso della socialdemocrazia classica” (Rapone).
Le svolte di fine secolo
La crisi economica iniziata negli anni Settanta con lo scacco petrolifero, la successiva rivoluzione telematica e la “globalizzazione”, che hanno ridotto la competitività economica degli europei e incrinato il loro stato sociale, nonché la fine del “socialismo reale” nell’Europa dell’Est, hanno segnato una svolta per il socialismo europeo, provocando smottamenti sociali, politici e ideologici ancora in corso dall’esito indefinito e indefinibile. La fine del comunismo, come è stato osservato, non ha significato, anche per le implicazioni e complicazioni economiche e internazionali in cui è avvenuta, il trionfo politico e ideologico della socialdemocrazia europea; e ciò perché “la forza di attrazione del suo messaggio ideale ha anzi risentito negativamente del fallimento comunista, come se esso investisse anche ogni altra tradizione germinata dalla radice del socialismo ottocentesco” (Rapone).
Ma se un andamento elettorale ondivago e un certo riflusso politico e ideale dei socialisti e dei socialdemocratici europei, di vecchia data oppure recente, alla fine del XX secolo è innegabile, come innegabile è l’erosione delle loro radici di classe, è anche vero che la sfida dei nuovi tempi sembra essere stata raccolta, sia pure in direzioni diverse, che vanno dall’accentuazione del radicalismo a quella del pragmatismo, dal più forte ancoraggio all’identità del socialismo europeo alla contaminazione con altre tradizioni e culture politiche (liberalismo, democrazia, ambientalismo, cristianesimo sociale ecc.).
In Francia, Michel Rocard propone la creazione di un nuovo blocco progressista vivificato, dalla eclettica composizione di culture politiche anche diverse da quella socialista; in Germania si prospetta una meta politica denominata “democrazia sociale” e non più socialismo; in Gran Bretagna, dove dalla fine degli anni Novanta il Labour Party di Tony Blair è al potere, si cerca prevalentemente una nuova sintesi tra laburismo e liberalismo. Alla difficile ricerca di una nuova anima, il socialismo europeo, conscio che una lunga fase storico-politica si è conclusa, “parla sempre di più di un passaggio dalle nazionalizzazioni al mercato; dalla fiducia nel progresso lineare alla prospettiva di uno sviluppo compatibile o sostenibile; dallo statalismo alla valorizzazione delle associazioni no profit e alla responsabilità dei cittadini; dalla lotta contro l’ingiustizia sociale a quella contro presunte nuove ineguaglianze, prodotte nelle città da degrado ambientale, dalla diffusione della droga, dalla criminalità organizzata e dall’immigrazione” (Degl’Innocenti).
Il dato positivo e importante è il fatto che nel 1996 l’Internazionale Socialista si è mostrata viva e in forte espansione geografica e politica, contando oltre 140 partiti membri, rispetto ai 20 del 1951, molti dei quali sono costituiti dagli ex partiti comunisti dell’Europa orientale ma anche occidentale, riconvertitisi dopo il crollo del muro di Berlino nel 1989 in partiti democratici e socialdemocratici.
Con ciò sembra essersi avviata la realizzazione di quell’“aspirazione universalistica, presente fin dalle origini, e l’ambizione di farsi interprete dei processi di democratizzazione dei Paesi già governati da regimi dittatoriali o totalitari”, come quelli dell’Est europeo. L’esito di tale sfida – è stato osservato – “coinciderà con le possibilità di affermazione nel Terzo Mondo dei valori di tolleranza, di rispetto della persona, di uguaglianza dei diritti politici e sociali propri della civiltà occidentale, ma anche di efficaci politiche di sviluppo in grado tra l’altro di disinnescare la ‘bomba’ demografica” (Degl’Innocenti).