Il sostegno regionale dello spettacolo: ruolo, strumenti e strategie
Nell’esperienza storica italiana lo spettacolo dal vivo è sempre stato radicato nel territorio di appartenenza. La divisione in un variegato ventaglio di strutture istituzionali (regni, ducati e altro) si ritrova ancora nell’aggregazione regionale di un’infrastruttura teatrale notevole dal punto di vista architettonico e artistico così come efficace sotto i profili tecnici; non da ultimo, densa e significativa nell’evoluzione storica e nella ricchezza della produzione. Città come Parma, Venezia o Napoli, aree più ampie come la dorsale appenninica che va dall’Emilia alle Marche, sono segnate da una storia teatrale unica che le ha frequentemente trasformate in veri e propri poli di attrazione per artisti internazionali. Compositori, musicisti e cantanti, ballerini, attori: un esteso gruppo di professionisti del palcoscenico si è formato e ha creato scuole in molte regioni italiane. L’esempio dei macchinisti del Teatro della Pergola di Firenze, guidati da Antonio Meucci (1808-1889) che vi inventò nel 1834 il prototipo del telefono, è sicuramente uno dei più significativi. Eredi delle accademie settecentesche e dell’impresariato borghese, i palcoscenici italiani vengono assorbiti, dopo la variegata censura fascista che peraltro introduce il principio del sostegno pubblico del teatro, in un modello organizzativo e produttivo piuttosto omologato, per quanto ricco di profili formali eterogenei. Si tratta di un modello centrale che – come accade di consueto in Italia – riprende e adatta esperienze di altri Paesi immergendone i profili salienti in una griglia burocratica che promette stabilità in cambio di un elevato grado di rigidità.
La fine degli anni Sessanta rappresenta lo snodo attraverso il quale lo spettacolo dal vivo raggiunge la maggiore età: nel 1967 il Centro culturale Olivetti ospita a Ivrea il Convegno per un nuovo teatro nel quale le avanguardie si confrontano per mettere a fuoco la propria complessa e sofferta identità, in contrapposizione al teatro ufficiale; l’iniziativa segue il Manifesto pubblicato nel 1966 su «Sipario», dando un nuovo abbrivio a professionisti di prima grandezza che diventeranno celebri nel mondo. Sempre nel 1967 il Parlamento approva la legge Corona (l. 14 ag. 1967 nr. 800), che disciplina l’assetto istituzionale e principi, criteri e meccanismi del finanziamento statale delle attività musicali, dalla lirica ai concerti sinfonici e da camera. Il sistema viene così consolidato e protetto grazie a sovvenzioni periodiche legate alla dimensione finanziaria delle risorse umane e a oscuri parametri qualitativi, che di fatto consentono negoziati informali il cui scopo è garantire la sopravvivenza al comparto musicale in Italia.
A fronte della regolamentazione delle attività musicali di prima grandezza, il resto dello spettacolo dal vivo rimane privo di omologhi interventi legislativi: prosa, musica minore e danza (con l’eccezione dei corpi di ballo degli enti lirici) sono soggette alle circolari ministeriali, per quanto le relazioni tra Stato finanziatore e organizzazioni destinatarie dei sussidi pubblici risultino simili a quelle relative alla lirica. L’istituzione del Fondo unico dello spettacolo (FUS), con la l. 30 apr. 1985 nr. 163, conferma l’impianto del sostegno statale, introducendo ulteriori elementi di rigidità e di fatto ostacolando qualsiasi possibile (e desiderabile) dinamica interna al sistema dello spettacolo. Grazie a una dotazione annuale inserita nella legge finanziaria, il FUS viene ripartito tra lirica, prosa, musica, danza, cinema e circhi secondo percentuali sostanzialmente immutate nel corso dei decenni. Tale ripartizione, assecondando gli indirizzi della legge Corona e delle circolari ministeriali, non ha mai recepito alcun cambiamento negli andamenti produttivi e finanziari dei settori e delle singole organizzazioni, mantenendo dunque un forte disincentivo nei confronti di qualsiasi possibile efficacia gestionale e incoraggiando il mantenimento dello status quo.
Si tratta di «un appesantimento della spesa pubblica, senza il riscontro di un’adeguata resa in termini industriali o socioculturali e senza che i contributi e le sovvenzioni siano serviti a stimolare la progettualità delle imprese e i processi di crescita aziendale» (Trezzini 1994, p. 375). In ogni caso i fondi statali destinati allo spettacolo dal vivo ammontavano inizialmente a circa 400 miliardi di lire per attestarsi, dopo un rodaggio biennale, su 800 miliardi; nel 2010 il livello del FUS è stato pari a 398 milioni di euro, anche grazie a incrementi derivanti da altri fondi. Così, per quanto rispetto all’anno di istituzione si sia registrato nel 2010 un incremento nominale dell’11,3% (ma cali vistosi dal picco dei primi anni 2000), in termini reali la riduzione del fondo stesso dal 1985 al 2010 è stata pari al 51,9%. Il finanziamento statale dello spettacolo dal vivo (il cinema ne replica alcuni meccanismi ma va considerato separatamente) è soggetto a un processo di valutazione qualitativa da parte di apposite commissioni insediate presso il Ministero per i Beni e le Attività culturali (in precedenza presso il Ministero del Turismo, Sport e Spettacolo e in seguito al referendum del 1993 presso il Dipartimento dello Spettacolo). L’erogazione dei contributi statali avviene in due fasi, e di norma risulta estremamente lenta rispetto all’assegnazione formale, il che appesantisce i bilanci dei destinatari costretti a ricorrere alle anticipazioni bancarie: la pratica della sovvenzione in ritardo accresce il bisogno di ulteriori sovvenzioni. Il risultato è quanto meno discutibile, dal momento che si basa sulla combinazione di una spesa previdenziale cristallizzata e di parametri qualitativi evanescenti: qualunque sia l’ammontare complessivo dei fondi, essi vengono assegnati con un criterio ibrido e contraddittorio; il consenso generale del quale tale sistema gode si spiega con la garanzia di sostanziale stabilità e continuità per tutti.
L’ingresso delle amministrazioni regionali nel quadro istituzionale italiano rappresenta una fase di articolazione e di arricchimento del sostegno pubblico dello spettacolo dal vivo. Nonostante l’eterogeneità della struttura economica, degli orientamenti sociali e delle dinamiche culturali nelle diverse aree del territorio nazionale, la disciplina del settore non trae dal sistema regionale alcun visibile mutamento di rotta.
La differenza più evidente riguarda il livello delle risorse finanziare destinate al sostegno dello spettacolo: distribuite in modo irregolare a causa della diversa dimensione territoriale, demografica e finanziaria di ciascuna regione, tali risorse risultano proporzionalmente maggiori nelle regioni a statuto speciale, anche a causa delle più estese competenze in materia rispetto a quelle a statuto ordinario. L’unica innovazione di rilievo conseguente all’ingresso delle regioni e alla maggiore rilevanza dei temi sociali propria della temperie degli anni Settanta consiste nell’attenzione rivolta alla distribuzione e alla diffusione territoriale degli spettacoli. I circuiti distributivi nascono per lo più da iniziative regionali e contribuiscono a ridisegnare la mappa infrastrutturale e sociale dello spettacolo dal vivo in Italia. La composizione socialmente eterogenea della domanda e la presenza dello spettacolo nelle aree svantaggiate del Paese diventano importanti.
Tuttavia le regioni tendono a replicare in modo piuttosto pedissequo le regole statali che disciplinano la valutazione delle candidature al sostegno pubblico e che ne stabiliscono i meccanismi. In questo modo un sistema di per sé statico e poco incentivante viene moltiplicato, con l’effetto forse gradito, ma in ogni caso poco desiderabile, di accentuare le distorsioni e le rigidità di sovvenzioni statali di fatto erogate a pioggia. Commissioni di esperti (spesso addetti ai lavori in palese conflitto d’interessi), autocertificazioni qualitative, negoziati informali caratterizzano anche il sostegno regionale. A ciò si aggiunga il paradosso delle regole per l’ammissione tra le organizzazioni meritevoli di sovvenzioni regionali; è necessario dimostrare di poter realizzare una stagione di spettacoli, retribuire regolarmente gli artisti, ottenere recensioni sulla stampa periodica locale per un certo numero di anni (tre o cinque, secondo i casi): ciò significa che si ammettono al finanziamento regionale proprio quelle organizzazioni che sul piano formale dimostrano di poterne fare a meno. Questo sistema viene riprodotto in varia misura anche dalle amministrazioni provinciali e municipali, finendo per mummificare più decisamente l’intero comparto dello spettacolo dal vivo.
La legislazione italiana del dopoguerra mantiene sostanzialmente immutato il sistema dello spettacolo ereditato dal periodo fascista; nei tardi anni Trenta il teatro passa da attività commerciale a iniziativa mista che combina profili culturali ed elementi economici; il sostegno finanziario statale si appoggia, infatti, sulle fonti private e sulle sovvenzioni pubbliche locali, in un sistema di sussidiarietà dal basso che verrà poi superato dalle leggi repubblicane. Il r.d. legisl. 30 maggio 1946 nr. 538 riprende la struttura del settore così come essa risulta dalla legislazione fascista: gli enti lirici e le istituzioni sinfoniche assimilate, l’Ente nazionale per la previdenza e assistenza dei lavoratori dello spettacolo (ENPALS), l’Ente teatrale italiano (ETI), l’Istituto del dramma italiano (IDI), l’Ente italiano per gli scambi teatrali (EIST) poi confluito nell’ETI. Con il d. legisl. 20 febbr. 1948 nr. 62 si pongono le basi per la ripartizione delle risorse finanziarie statali tra prosa e musica, stabilendo all’art. 1 che «la sovvenzione, sia all’interno della Repubblica sia all’estero, per manifestazioni teatrali italiane di particolare importanza artistica e sociale, è destinata per un terzo a favore di manifestazioni teatrali di prosa e per due terzi a favore di manifestazioni musicali». Tale proporzione segna ancora il peso relativo di prosa e musica ai fini del sostegno finanziario statale.
La legislazione del sistema dello spettacolo si sviluppa lungo un indirizzo erratico, con capillari previsioni e prescrizioni per la lirica (che assorbe quasi la metà del FUS), con una disciplina specifica non esente da fragilità e contraddizioni per il cinema, e lasciando prosa e musica alle annuali circolari ministeriali; le spesso reclamate leggi quadro non sono mai state elaborate, anche a causa della complessità del sistema che appare comunque renitente a una regolamentazione sistematica e omogenea. Sono molteplici, infatti, le etichette giuridico-istituzionali che ne descrivono la varietà: associazioni non profit e fondazioni, società commerciali o addirittura enti pubblici (non sono poche le amministrazioni subcentrali che organizzano direttamente attività di spettacolo), organizzazioni nelle quali confluiscono partecipazioni regionali, provinciali o municipali; si tratta di un sistema istituzionale del tutto eterogeneo, pur svolgendo attività di fatto simili se non identiche. Così la lirica si ripartisce in enti (poi fondazioni), teatri di tradizione e lirica minore, la prosa vede attivi teatri stabili pubblici e privati, teatri d’esercizio, teatri d’innovazione, teatri per ragazzi e così di seguito; la stessa farraginosità istituzionale si riscontra nelle organizzazioni musicali e di danza, senza che la pur svariata attività realizzata richieda una tale articolazione burocratica.
L’assetto istituzionale e finanziario dello spettacolo, farraginoso e fragile tanto per la stratificazione di modelli burocratici obsoleti quanto per la resistenza all’adozione di una strategia responsabilizzante, attraversa quasi immutato oltre sei decenni di storia e subisce passivamente le dinamiche controverse del bilancio pubblico, soggetto a raffiche di tagli spesso indiscriminati ma comunque dovuti alla necessità di contenimento della spesa pubblica. La legislazione di settore, come si è osservato orientata alla stabilità e del tutto priva di orientamenti progettuali, è caratterizzata da una sostanziale continuità; anche i provvedimenti apparentemente innovativi sono stati mossi dall’obiettivo di ricercare nuove opportunità finanziarie, spesso riproducendo in modo inefficace modelli affermatisi all’estero in nome di sillogismi claudicanti e superficiali: il fallimento della pur generosa esenzione fiscale per le sponsorizzazioni, o la scarsa tenuta delle fondazioni liriche sono chiari esempi di ciò.
Il finanziamento del cinema viene disciplinato dalla l. 4 nov. 1965 nr. 1213; essa dispone il sostegno per le opere cinematografiche con «finalità artistiche e culturali» e con la partecipazione ai costi da parte dei professionisti di ogni rango (dagli autori alle maestranze tecniche). Corretta dal d.l. 14 genn. 1994 nr. 26, che limita a 20 il numero di opere finanziabili annualmente, dal d. legisl. 22 genn. 2004 nr. 28, che elimina il fondo di garanzia e rende più rigidi i criteri di accesso ai fondi statali, la legislazione sul cinema prevede l’esame della sceneggiatura, la copertura dei costi di produzione e una stretta aderenza al piano di produzione a suo tempo presentato, il che rallenta e ostacola la necessaria snellezza e flessibilità imprenditoriale.
Superata la legge Corona, vede la luce un provvedimento animato da finalità unitarie e di garanzia: l’istituzione del Fondo unico dello spettacolo che copre tutte le aree del settore. Come già osservato, il FUS presenta più costi che benefici, se non sul piano finanziario quanto meno su quello istituzionale ed economico. La certezza del fondo statale e la cadenza triennale dello stanziamento, pur previste dalla l. 163 del 1985, non sono state mai concretate, lasciando il sistema in condizioni di incertezza e incidendo negativamente sulle opzioni progettuali di medio periodo: il FUS è di fatto destinato alla mera copertura della spesa corrente. Gli intenti programmatici della legge emergono anche dall’istituzione del Consiglio nazionale dello spettacolo, un organismo pletorico (56 membri danno prevalenza alla rappresentanza microcorporativa sulle opzioni di indirizzo strategico) convocato raramente; nasce anche l’Osservatorio dello spettacolo con la funzione di raccogliere e valutare i dati rilevanti e di realizzare studi e ricerche (funzione svolta con efficacia solo alla fine degli anni Novanta). Altro provvedimento sostanzialmente inutile è la previsione del tax-shelter che consentirebbe la detrazione dall’imponibile della quota di reddito aziendale donato a organizzazioni di spettacolo; nessuna impresa ne ha beneficiato per prosa e musica, poche per il cinema.
Gli anni Novanta segnano il percorso istituzionale dello spettacolo con alcuni provvedimenti che apparentemente ne modificano l’assetto, indirizzandolo verso il decentramento e la privatizzazione; si tratta di innovazioni a carattere formale che tuttavia non riescono a intaccare un sistema produttivo e distributivo dai profili statici e in buona parte renitenti all’innovazione: la necessaria iniezione di imprenditorialità viene ulteriormente rinviata e il dibattito continua a concentrarsi sull’ammontare dei fondi pubblici ritenuti comunque insufficienti a garantire la sopravvivenza del settore. Il 18 aprile 1993 un referendum approva l’abrogazione del Ministero del Turismo e dello Spettacolo. Promosso da alcune regioni che chiedono il decentramento delle competenze in materia turistica, l’esito della consultazione trascina verso il livello regionale le competenze in materia di spettacolo ma, con soddisfazione di molti addetti ai lavori che temono una sorta di ‘declassamento’, genera un escamotage piuttosto bizantino: la creazione temporanea di tre dipartimenti (Turismo, Sport e Spettacolo) afferenti alla Presidenza del Consiglio. Regole, procedure e risorse umane rimangono immutate. Il trasferimento delle competenze alle amministrazioni regionali, indispensabile in seguito al referendum, dovrebbe essere attuato da una serie di decreti legislativi e da una legge quadro, in modo da affidare le politiche dello spettacolo alla legislazione concorrente. La prevedibile stasi normativa finisce per riproporre la questione del decentramento con la l. 15 marzo 1997 nr. 59, che riserva al livello statale «gli indirizzi, le funzioni e i programmi» considerati di rilievo nazionale; il successivo d. legisl. 31 marzo 1998 nr. 112 assegna al livello centrale le delicate funzioni di riequilibrio territoriale da svolgere in collaborazione con le regioni.
L’orientamento verso la privatizzazione, declamato più che realizzato, si concreta nel d. legisl. 29 giugno 1996 nr. 367, che trasforma gli enti lirici e le istituzioni concertistiche assimilate in fondazioni di diritto privato. Si è così adottata l’anomala figura della fondazione di partecipazione, che ossimoricamente mescola una struttura societaria e una finalità istituzionale, imponendo tuttavia struttura, processi decisionali e assetto contrattuale del regime precedente, con l’unica aspettativa di fondi privati. In buona parte delusa, tale aspettativa non è riuscita comunque a sanare bilanci che rimangono fragili e precari.
Un ulteriore passaggio formale con scarsi esiti sostanziali consiste nella creazione del Ministero per i Beni e le Attività culturali (d. legisl. 20 ott. 1998 nr. 368), nel quale confluiscono il Ministero per i Beni culturali e ambientali da una parte e il Dipartimento dello Spettacolo dall’altra; non è una sorpresa che le cose rimangano come prima, salvo il ruolo politico generale svolto da un unico ministro e la ripartizione delle competenze tra due direzioni generali: per il Cinema e per lo Spettacolo dal vivo. Sono poche e irrilevanti le modifiche relative al funzionamento delle commissioni e di altri organismi consultivi.
Dall’attivazione dell’assetto regionale si possono identificare tre fasi dell’azione svolta dalle amministrazioni regionali italiane in materia di spettacolo. La prima, compresa tra il 1970 e il referendum abrogativo del Ministero del Turismo e dello Spettacolo (1993), appare caratterizzata da interventi legislativi eterogenei, occasionati da esigenze contingenti e specifiche e non certo orientati verso la definizione di una strategia regionale dello spettacolo come attività produttiva dalla forte venatura culturale. La seconda fase, connessa al decentramento e avviata dalla l. 30 maggio 1995 nr. 203, che accresce i poteri regionali in materia di politica dello spettacolo, si conclude con la sentenza 255/2004 della Corte Costituzionale, con la quale si respinge il ricorso presentato nel giugno 2003 dalla Regione Toscana contro la l. 17 apr. 2003 nr. 82. L’emergenza permanente continua a dettare l’agenda della politica culturale italiana, ma alcune regioni prendono forti iniziative a sostegno dello spettacolo dal vivo, attivano una propria Film commission e tentano di superare lo stallo legislativo centrale. L’ultima fase registra una sostanziale indifferenza tra l’azione statale e quella regionale; è quest’ultima a esplorare nuove vie capaci di estrarre il molteplice valore che la creazione, la produzione e la diffusione dello spettacolo possono riversare sull’economia del territorio e sulla comunità residente, attraverso interventi che introducono principi concreti e meccanismi trasparenti nelle dinamiche regolamentari e finanziarie tra l’amministrazione regionale e i destinatari dell’azione pubblica a sostegno dello spettacolo. Come già accennato, l’orientamento prevalente nell’esperienza legislativa e regolamentare regionale ha sostanzialmente spinto diverse amministrazioni (con una cascata di effetti simili anche a livello provinciale e municipale) a riprodurre l’ossatura del sostegno statale dello spettacolo dal vivo: bandi periodici erga omnes da parte dell’amministrazione, possesso di requisiti rigidi e formali per i candidati, valutazioni nebulose di esperti o commissioni consultive, distribuzione piuttosto ecumenica delle sovvenzioni di fatto orientate alla copertura della spesa corrente.
Questo sistema, adottato per comodità e per non incorrere in rilievi da parte degli organi di controllo, accentua la garanzia di stabilità chiesta a gran voce dagli addetti ai lavori, ma evita di introdurre credibili incentivi che esaltino le pur presenti qualità imprenditoriali e progettuali delle organizzazioni di spettacolo. Solo nei primi anni Duemila, anche in previsione di una ipotizzata e mai avviata ripartizione del FUS tra le amministrazioni regionali, compaiono iniziative legislative di spessore che tendono a sganciare progressivamente l’azione regionale dalla griglia tuttora dominante a livello centrale. Le regioni acquisiscono consapevolezza che è tempo di combinare la propria irrinunciabile autonomia con una strategia orizzontale che ne possa far emergere le sinergie, articolando strategicamente la propria azione tanto individuale quanto congiunta.
La legislazione regionale in materia di spettacolo si dipana in modo prevedibilmente variegato, in dipendenza della vistosa diversità tra le regioni quanto a ricchezza e distribuzione territoriale dell’offerta, dimensioni e composizione della domanda, solidità delle organizzazioni attive. In più di un caso si tratta di provvedimenti tesi a garantire la partecipazione finanziaria dell’amministrazione in imprese o enti che svolgono attività ritenute di rilevanza regionale; il tema delle società ‘partecipate’ si colloca spesso lungo il guado tra affidabilità progettuale da una parte e intrusione della politica locale dall’altra. Tale occasionalità dipende originariamente dall’assenza di una esplicita previsione dello spettacolo come materia di legislazione regionale: «l’art. 117 Cost. […] non menzionava lo spettacolo nell’elenco delle materie di potestà legislativa concorrente, mentre l’art. 49 comma 2 d.p.r. n. 616/1977, che assegnava alle Regioni un ruolo chiave nel settore, è rimasto di fatto inattuato, non essendo stata mai approvata la legge statale di riordino delle funzioni regionali e locali con riferimento alle attività di prosa, musicali e cinematografiche» (Barbati, Piperata, in Rapporto sull’economia della cultura in Italia 1990-2000, 2004, p. 362).
Anche in base a questa legittimazione soltanto parziale, le regioni hanno messo a fuoco, nella propria attività legislativa e regolamentare, profili secondari e comunque incapaci di incidere sulla struttura del sistema dello spettacolo e sulla caratura delle sue relazioni con le amministrazioni regionali. Fino alla conclusione degli anni Novanta le iniziative regionali in materia di spettacolo si sono limitate alla promozione delle attività e alla definizione delle azioni e degli interventi a ciò finalizzati. Alcune regioni hanno comunque elaborato norme legislative di portata generale, inglobando programmazione e promozione in provvedimenti unici (l. reg. Umbria 20 genn. 1981 nr. 7; l. reg. Puglia 11 maggio 1990 nr. 28; l. reg. Lombardia 26 febbr. 1993 nr. 9), così come altre hanno optato per la programmazione (l. reg. Toscana 1° febbr. 1995 nr. 14; l. reg. Marche 29 dic. 1997 nr. 75) o per la promozione (ll. regg. Emilia-Romagna 4 apr. 1985 nr. 11 e 22 ag. 1994 nr. 37); in altri casi gli interventi hanno messo a fuoco una specifica fase di programmazione riferita a precisi interventi di promozione (l. reg. Lazio 17 ag. 1993 nr. 36). Tali interventi risultano piuttosto eterogenei – come del resto è pertinente nell’ambito di una logica territoriale chiusa e in assenza di intense connessioni interregionali – sotto il profilo dei processi decisionali che assegnano competenza ora alla giunta ora al consiglio, nonché in termini di procedimento di elaborazione e di durata (annuale o triennale) dei piani. Numerosi interventi (per es., leggi regionali del Veneto, della Calabria, dell’Emilia-Romagna, del Lazio) sono dedicati a specifiche iniziative, alla creazione di infrastrutture, alla costituzione di soggetti operanti nel settore. Manca del tutto una strategia, e soprattutto una combinazione complementare con l’azione statale in materia di spettacolo: i due livelli di governo occupano territori contigui che talvolta si sovrappongono, duplicando criteri e strumenti, altre volte si ignorano reciprocamente.
Il ridisegno del decentramento legislativo e amministrativo attuato con la l. 59 del 1997 e con il d. legisl. 112 del 1998 attribuisce nuovi ruoli alle regioni e soprattutto incoraggia nuove iniziative normative dopo la stasi successiva al referendum. Alcune regioni hanno saputo prendere spunto da questa fase di rinnovamento istituzionale per ridisegnare il proprio sistema dello spettacolo tanto dal punto di vista della struttura organizzativa quanto da quello delle procedure di sostegno e promozione, con provvedimenti separati o unitari. In più di un caso anche le relazioni tra la regione e gli enti subregionali sono state oggetto di revisione strutturale. Affrontando e in buona parte superando il dilemma dell’attribuzione di competenze tra i livelli di governo, anche le regioni si sono trovate ad affrontare ex novo la necessità di creare un nuovo profilo intergiurisdizionale, riservando a sé le competenze più rilevanti e lasciando a province e comuni soltanto alcune nicchie d’azione (nel caso della Regione Lazio, per es., determinati interventi infrastrutturali o le residenze di spettacolo), oppure strutturando una vera e propria piramide di attribuzioni in modo da attivare una sistematica collaborazione tra i livelli di governo (come hanno fatto le Regioni Emilia-Romagna, Molise e Puglia). Nel flusso dell’innovazione vedono la luce alcuni strumenti inediti di politica dello spettacolo: la Regione Emilia-Romagna prevede la stipula di convenzioni pluriennali con soggetti pubblici o privati, o di accordi di programma con amministrazioni subregionali.
Il sostegno dello spettacolo viene realizzato attraverso l’assegnazione e la successiva erogazione di una sovvenzione annuale, di norma in modo indipendente dalla composizione della spesa progettata e non finalizzata ad alcun impiego specifico. Si tratta di una sorta di copertura preventiva di quel deficit prevedibilmente originato dalla differenza tra i costi correnti e gli incassi del botteghino. In questo quadro, del tutto comprensibile nell’ottica del sostegno acritico e volto a garantire la continuità delle attività di spettacolo, l’unica grandezza che può mutare anno dopo anno è la qualità artistica dell’offerta. Per quanto complessa da definire, la qualità è convenzionalmente considerata la misura del livello estetico degli spettacoli e di tutti i loro elementi costitutivi (dall’autore all’opera, dal regista/direttore/coreografo ai professionisti del palcoscenico, dalla scenografia ai costumi). Ora, mentre questi elementi risultano cruciali per le valutazioni del pubblico e per i giudizi dei critici, posti alla base di qualsiasi decisione pubblica essi diventano lo snodo per valutazioni censorie, controvertibili e certamente non oggettive. La capacità dell’offerta culturale di formare il senso critico dello spettatore è legata al suo pluralismo e alla sua varietà, non certo al suo limitarsi a iniziative ritenute eccellenti da alcuni esperti (Trimarchi 1993).
Nell’esperienza del sostegno statale dello spettacolo, e nella molteplicità di casi regionali e locali che ne hanno replicato in ampia misura meccanismi e prassi, la qualità artistica degli spettacoli risulta centrale nel processo di valutazione e di fissazione dell’ammontare delle sovvenzioni. Ciò presenta alcuni paradossi: sebbene l’oggetto dell’istanza di sostegno sia la stagione da realizzare, la valutazione degli esperti riguarda sostanzialmente gli spettacoli già messi in scena; sugli spettacoli in corso di programmazione si possono conoscere dettagli importanti come il regista o il direttore d’orchestra, ma si tratta di lavori non ancora rappresentati. Così, nella discussione sulla qualità, collidono le critiche conseguite nella stagione chiusa e le relazioni auto-prodotte sulla stagione da realizzare. In ogni caso, una valutazione sulla qualità artistica non dovrebbe avere alcun legame con il sostegno pubblico, la cui finalità – per quanto genericamente e confusamente enunciata nella legislazione – è connessa alla valorizzazione del patrimonio teatrale, musicale e coreutico, alla tutela e promozione delle professionalità coinvolte, alla diffusione degli spettacoli nel territorio, alla formazione del pubblico, se si vuole alle innovazioni creative e alla sperimentazione linguistica; promuovere spettacoli o stagioni il cui livello estetico risulti gradito ad alcuni esperti si trova con tutta evidenza al di fuori dei confini dell’azione statale (e ricorda pericolosamente l’azione censoria di molte dittature).
Tra gli effetti di questo meccanismo che nella definizione di molti premia l’eccellenza si ritrova proprio quella duplicazione posta in evidenza sopra, che finisce per moltiplicare distorsioni e cristallizzazioni ai diversi livelli di governo. In definitiva, il sostegno finanziario dello spettacolo viene calcolato partendo dalla spesa previdenziale complessiva di ciascuna organizzazione (cosa che per molto tempo ha rappresentato un incentivo alla sovraoccupazione) e maggiorando tale cifra secondo una serie di percentuali valutate soggettivamente e del tutto prive di riferimenti trasparenti. Ciò risulta palesemente slegato dalle finalità istituzionali, tanto dello Stato quanto delle amministrazioni subcentrali, e in tal modo ne impedisce ogni possibile combinazione ottimale.
Sul finire degli anni Novanta, la progressiva contrazione dei fondi statali destinati allo spettacolo e, al tempo stesso, la nuova vitalità legislativa delle regioni inducono alcune amministrazioni regionali a elaborare nuovi protocolli che consentano di valutare i progetti di spettacolo in base alla propria capacità di perseguire obiettivi istituzionali regionali, introducendo meccanismi di valutazione trasparenti tali che gli stessi destinatari delle sovvenzioni possano calcolarne facilmente l’influenza sull’ammontare dei fondi che saranno loro assegnati. In un quadro che disegni in modo complementare l’azione dei diversi livelli di governo a sostegno dello spettacolo (Trimarchi, 1995) si dovrebbe ipotizzare che il governo centrale persegua la conservazione e la documentazione del patrimonio culturale dello spettacolo, incoraggiando le innovazioni e le sperimentazioni; che i governi regionali si impegnino per il radicamento e la diffusione dello spettacolo nel proprio territorio, insieme alla salvaguardia delle professionalità e alla formazione del pubblico; che i livelli provinciali e municipali promuovano la valorizzazione delle infrastrutture teatrali e musicali, l’uso degli spazi urbani e il collegamento con i percorsi scolastici.
Sotto questo profilo la regione occupa un ruolo cruciale e delicato, non soltanto per la rilevanza dei propri obiettivi istituzionali e per la loro capacità di innervarsi nella crescita complessiva della società e dell’economia regionali, ma anche per la posizione di snodo intermedio tra le finalità ampie e di lungo periodo del governo centrale, e quelle più specifiche e materiali degli enti subregionali. Appare chiaro come, in questo contesto, valutare la qualità artistica dei progetti di spettacolo non possa contribuire in alcun modo al perseguimento degli obiettivi istituzionali e pertanto al benessere delle comunità territoriali. Le finalità della regione indicano con chiarezza quali siano le variabili da tenere in conto per valutare la congruità dei progetti di spettacolo con le aspettative dell’amministrazione. Innanzitutto, è opportuno valutare le caratteristiche di fondo degli spettacoli ai fini della loro capacità di arricchire l’offerta culturale e di diffonderla nel territorio regionale, attribuendo un valore positivo anche alla circuitazione al di fuori dei confini della regione (elemento virtuoso in termini tanto artistici quanto commerciali). Un altro profilo da considerare è il valore delle risorse umane utilizzate nella produzione di spettacoli, tenendo conto di alcuni aspetti che permettono di misurare l’aderenza dei programmi alle attività del governo regionale: l’impiego di risorse anagraficamente giovani o precedentemente non occupate, la combinazione di competenze variegate e integrate, la riqualificazione delle persone coinvolte. Infine, è importante valutare le dinamiche connesse al pubblico che fruisce degli spettacoli, misurandone la crescita dimensionale nel tempo, la proporzione di nuovi spettatori sull’intera audience, la possibilità di maturazione attraverso specifiche iniziative formative.
Negli anni compresi tra il 1999 e il 2002 alcune regioni scelgono di affrontare il tema degli indicatori per rendere efficace e trasparente il proprio sistema di sostegno dello spettacolo. Emilia-Romagna, Sardegna e Lombardia analizzano le opportunità connesse con una griglia di indicatori o punteggi che permetta di determinare l’ammontare delle sovvenzioni da assegnare alle organizzazioni di spettacolo operanti nel proprio territorio, potendone variare nel corso degli anni il livello in conseguenza di una misurazione complessiva di performance che vada al di là delle valutazioni di qualità e tenga conto del grado di affidabilità professionale e di congruità con gli obiettivi istituzionali. Tra i sistemi adottati il più complesso risulta quello scelto in Emilia-Romagna che, sulla base della l. reg. 5 luglio 1999 nr. 13, introduce dal 2000 un programma triennale (quello approvato dal Consiglio regionale in data 17 gennaio 2012, in vigore fino al 2014, replica sostanzialmente i precedenti), secondo il quale le sovvenzioni allo spettacolo dal vivo vengono determinate in base a specifici indicatori di performance nel quadro di convenzioni stipulate tra ciascun destinatario e la regione. Il programma rivede un ulteriore strumento, gli accordi con le province, da destinare a un insieme di organizzazioni operanti in un ambito territoriale meno esteso, includendo attività consolidate e nuovi progetti. I settori considerati coprono lo spettro delle attività di spettacolo, con i necessari adattamenti per le iniziative cinematografiche e per i festival.
L’adozione di indicatori viene inserita in un quadro tecnico che tiene conto dell’esigenza di continuità e della naturale eterogeneità dimensionale delle diverse organizzazioni operanti nel settore dello spettacolo. L’ammontare della sovvenzione è determinato su una ‘quota base’ pari al 70% della media dei finanziamenti conseguiti nel triennio precedente; in questo modo si evitano variazioni di livello che possano compromettere la continuità delle attività, con rischi per le risorse umane e per i progetti culturali in programma. Alla quota base così determinata si aggiunge una somma risultante dagli indicatori che, consistendo nella misura aritmetica di varie grandezze in proporzione alle dimensioni complessive dell’offerta di ciascuna singola organizzazione, sono facilmente calcolabili.
Gli indicatori sono molto diversificati, come chiarisce lo stesso programma: «La gamma degli obiettivi e dei parametri è stata intenzionalmente predisposta in modo ampio e articolato, per far sì che ogni soggetto attuatore possa riconoscersi in una parte di essi e trovarvi valutata la propria vocazione» (Regione Emilia-Romagna 2012, p. 23). Il primo gruppo di indicatori è riferito alla valorizzazione delle risorse culturali e comprende: a) la proporzione delle nuove creazioni; b) la proporzione del repertorio raro; c) la proporzione delle coproduzioni e delle residenze; d) la quota delle risorse con formazione interna certificata. Il secondo gruppo, relativo all’efficacia della produzione culturale, riguarda: a) la proporzione delle recite fuori sede in regione; b) la circuitazione fuori regione; c) le riprese di allestimenti precedenti; d) le iniziative legate a settori contigui (mostre, audiovisivi, registrazioni); e) la quota dei ricavi da attività propria. Il terzo gruppo, riferito all’accesso del pubblico, concerne: a) la variazione degli abbonamenti; b) la variazione dei biglietti; c) la proporzione tra biglietti venduti e abbonamenti; d) l’adozione di strumenti di vendita a distanza; e) la bigliettazione last minute; f) la proporzione di abbonamenti di giovani e anziani; g) le iniziative formative per il pubblico. Sul medesimo alveo metodologico ma con sostanziali differenze tecniche si muovono la Regione Lombardia (2003) e la Regione Sardegna (2005).
L’importanza del sostegno pubblico dello spettacolo e la limitata capacità delle organizzazioni di conseguire un grado sufficiente di autonomia finanziaria sul mercato giustificano da tempo il finanziamento ‘a pioggia’, adottato anche in altri comparti dell’economia con la finalità prevalente di garantire la continuità alle organizzazioni sovvenzionate. Tale sistema finisce per risultare comodo tanto per la burocrazia pubblica (che ne ricava potere negoziale e facilità procedurale) quanto per gli addetti ai lavori (che evitano responsabilità gestionali e realizzano la propria attività ‘sotto l’ombrello’ della pubblica amministrazione). Un abbrivio così lento e monocorde si svolge lontano da qualsiasi orientamento strategico e tende a mantenere lo status quo con un consenso generalizzato. Il sostegno dello spettacolo si svolge in questo modo a livello centrale. Per quanto le regioni, come si è osservato, tendano spesso a replicare i meccanismi in vigore presso l’amministrazione statale, non sono poche quelle che, nel corso degli anni, hanno scelto di dotarsi di uno strumento tecnico per la rilevazione e la valutazione dei dati relativi all’offerta e alla domanda di spettacolo, arricchendone le investigazioni con la messa a fuoco di aree e aspetti specifici (dal multiculturalismo ai confronti internazionali, dalle avanguardie ai percorsi formativi).
In seguito alla costituzione dell’Osservatorio nazionale dello spettacolo (previsto dalla l. 163 del 1985 che istituisce il Fondo unico dello spettacolo), alcune amministrazioni avviano progetti che ne riproducono tanto la filosofia di fondo quanto gli orientamenti tecnici: la Provincia autonoma di Trento (1987), la Regione Lombardia (1988), la Città di Lecce (1988), la Regione Emilia-Romagna (1988), ma anche l’Unione delle province d’Italia (UPI) e il Centro studi investimenti sociali (CENSIS), entrambi nel 1988, attivano osservatori della cultura o dello spettacolo presso le proprie strutture o semplicemente ne prevedono il prossimo avvio. Nel 1988 viene costituito il Gruppo nazionale sugli osservatori culturali, orientato anche a un confronto internazionale: il Consiglio d’Europa aveva lanciato il Programma nr. 10 Cultura e regioni con lo scopo di analizzare sistematicamente le connessioni tra sviluppo regionale e dinamiche culturali. Negli anni Novanta la questione degli osservatori viene rilanciata: la spinta iniziale sembra esaurirsi per una serie di ostacoli: «problemi di ordine finanziario e organizzativo, strumenti legislativi che ne legittimino il sostegno, parziali diffidenze di alcuni settori che vedono negli osservatori strumenti di controllo» (Osservare la cultura, 2011, p. 43). Nel 1993 nasce finalmente l’Osservatorio dello spettacolo della Regione Emilia-Romagna, gestito dall’Associazione teatrale Emilia-Romagna (ATER); nel 1998 un protocollo d’intesa tra vari soggetti pubblici e privati fonda l’Osservatorio culturale del Piemonte che copre l’intero spettro delle attività culturali; in seguito a incontri e convegni nascono altri osservatori presso la Regione Puglia (2004), la Regione Marche (2005), la Regione Sardegna (2006), la Provincia autonoma di Bolzano-Alto Adige (2007), la Provincia autonoma di Trento (2007), la Regione Friuli Venezia Giulia (2008).
Nonostante la naturale varietà degli orientamenti e delle azioni, gli osservatori regionali appaiono sempre più accomunati da un percorso condiviso. Ne mette a fuoco i profili strategici e tecnici il convegno Le regioni e lo spettacolo. Le proposte delle regioni per una legge nazionale di principi nel quadro delle riforme costituzionali tenuto a Bologna il 9 luglio 2004, nel corso del quale emerge con forza l’esigenza di una costante ricognizione critica degli aspetti rilevanti sul piano produttivo, economico e finanziario, senza ignorare quelli culturali e sociali, attraverso l’istituzione di ulteriori osservatori regionali dello spettacolo che svolgano le proprie indagini, fondandone la realizzazione su protocolli metodologici e tecnici concertati e uniformi, producendo rapporti periodici, studi e ricerche, i cui risultati dovrebbero confluire in un centro di documentazione unico.
L’esigenza di un dialogo coordinato tra gli osservatori regionali dello spettacolo viene percepita con crescente intensità a partire dal 2004, anche per effetto di una forte attenzione delle amministrazioni regionali verso le prospettive di un nuovo sistema di attribuzione delle risorse finanziarie pubbliche, incentrato sul ruolo delle regioni. Mai avviato in concreto, anche se frequentemente ipotizzato, tale sistema avrebbe comportato una più ampia potestà e una più incisiva responsabilità da parte delle regioni in materia di spettacolo: la prospettiva di ripartizione regionale del FUS ha stimolato la Commissione beni e attività culturali della Conferenza delle regioni e delle province autonome a studiare approfonditamente gli effetti giuridici e finanziari che ne sarebbero conseguiti. Un’appropriata misurazione e valutazione dello spettacolo nelle sue molteplici forme è un’implicazione naturale di tale prospettiva.
Il 25 gennaio 2007 Stato, regioni, ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) e UPI sottoscrivono il Patto per le attività culturali di spettacolo. Qualche mese dopo, il Coordinamento delle regioni presenta al Ministero per i Beni e le Attività culturali il progetto La realizzazione di osservatori regionali e la collaborazione con l’osservatorio nazionale nel settore delle politiche per lo spettacolo, mirando all’ottimizzazione dell’azione pubblica di sostegno e all’accrescimento dell’efficacia della spesa, anche attraverso forme di monitoraggio dell’offerta culturale nel territorio e lo scambio reciproco di conoscenze e informazioni in merito all’offerta culturale e agli strumenti economici di intervento adottati. Non si tratta, in sostanza, di effettuare confronti gerarchici tra diverse regioni, ma al contrario di cogliere i profili comuni e le specificità territoriali che consentano di sintonizzare l’azione regionale alla crescita della produzione di spettacoli e alla loro diffusione quanto più estesa nei territori di riferimento. Questo orientamento si concreta nel progetto ORMA (Osservatorio delle Risorse e dei Mercati dell’Arte), che mira a facilitare e sostenere tecnicamente la costituzione di un sistema coordinato di osservatori regionali, capaci di condividere metodologia e strumenti d’analisi, di stabilire protocolli di scambio e collaborazione con organismi di ricerca e di elaborazione dei dati relativi al settore dello spettacolo. Il progetto è realizzato da tre organizzazioni tecniche che vantano una lunga esperienza di affiancamento degli osservatori dello spettacolo: la Fondazione ATER Formazione (Osservatorio regionale dell’Emilia-Romagna), la Fondazione Fitzcarraldo (Osservatorio regionale del Piemonte), la società ECCOM Progetti (Osservatorio nazionale).
Il progetto, nato da un bisogno percepito con eguale forza da parte di amministrazioni con esperienze e priorità eterogenee, risponde a un’urgenza non più eludibile: «costruire un sistema finalizzato alla conoscenza reale di un settore culturale, cogliendone le trasformazioni e l’evoluzione nel loro divenire, un sistema la cui funzione primaria è quella di implementare strumenti per meglio governare, ma anche per condividere in maniera trasversale e diffusa uno straordinario patrimonio cognitivo» (Osservare la cultura, 2011, p. 97). In effetti, oltre a rappresentare un agile ed efficace strumento al servizio delle scelte pubbliche regionali, esso può rivelarsi un incisivo snodo d’ausilio per le organizzazioni e i professionisti operanti nel settore dello spettacolo e nei comparti economici contigui (per es. nell’editoria, nell’audiovisivo, nel digitale, nei servizi alla persona che sempre più si avvalgono di intuizioni e tecniche teatrali): gli addetti ai lavori ne potranno ricavare utili indirizzi ai fini della progettazione, per la gestione delle proprie attività e nel segno delle strategie imprenditoriali più adeguate.
Il progetto ORMA si muove nell’alveo delle raccomandazioni elaborate in sede UNESCO per la costituzione di una Rete internazionale degli osservatori sulle politiche culturali (UNESCO 2000). Anche in relazione alla crescita di una società complessa e cosmopolita, e all’emergere di nuovi mercati culturali, il progetto intende sviluppare analisi del pubblico (anzi dei diversi pubblici) che superino la consueta omogeneizzazione di spettatori ricchi, adulti e istruiti per mettere a fuoco la vitalità di una domanda in espansione tra nuovi strati sociali e nuove aree del tessuto urbano; al tempo stesso specifica attenzione è riservata ai modelli e alle prassi gestionali che si mostrino in grado di indirizzare lo spettacolo verso un più elevato grado di sostenibilità, nonché al valore delle risorse umane, elemento cruciale in un settore sempre più multidimensionale.
Tra gli aspetti più incisivi del progetto ORMA emerge il tentativo – già apparso in occasione del varo del sistema di indicatori nella Regione Emilia-Romagna – di stabilire nuove relazioni tra l’amministrazione regionale e gli addetti ai lavori, superando il modello ormai obsoleto dei bandi erga omnes o della reiterazione di un ventaglio consolidato di sovvenzioni. Lo spettacolo ha certo bisogno di continuità, tuttavia la sua stessa natura creativa e tendenzialmente innovativa richiede regole certe ma al tempo stesso relazioni snelle e flessibili insieme a opportunità inedite. Il modello dominante del sostegno pubblico (non solo allo spettacolo) continua a risultare costituito da un erogatore ecumenico e da un recettore passivo delle scelte pubbliche.
La prospettiva di un sistema di misurazione e valutazione delle molteplici attività e dei variegati effetti che lo spettacolo genera sulla società e sull’economia richiede un feedback costante che permetta la valutazione delle diverse fasi dell’azione regionale e di conseguenza la sintonizzazione degli strumenti adottati a specifiche esigenze del settore e delle singole organizzazioni che vi operano. Anche a questo fine è prevista la realizzazione di convegni e seminari così come la produzione di rapporti periodici e di pubblicazioni, in modo da accrescere e approfondire la consapevolezza tecnica tanto degli amministratori pubblici quanto degli addetti ai lavori. Lo scopo ultimo di questo processo è la costruzione concertata degli strumenti dell’azione regionale a sostegno dello spettacolo, accrescendo la responsabilità e l’affidabilità dei destinatari e al tempo stesso la necessaria flessibilità dell’amministrazione in un contesto creativo e produttivo che evolve rapidamente.
Un ulteriore aspetto che va enfatizzato è la cooperazione orizzontale tra enti, organizzazioni e istituzioni che operano in settori contigui e che possono arricchire le proprie analisi e le proprie valutazioni grazie allo scambio di dati e informazioni; il tradizionale isolamento delle attività culturali va infatti superato restituendo agli operatori del settore piena cittadinanza in un’economia molto ramificata e caratterizzata da intense sinergie. Le rilevazioni statistiche, base necessaria ma non sufficiente per interpretare l’evoluzione della società e dell’economia, devono essere lette da prospettive molteplici, anche per costruire un adeguato cultural mapping che colga i fenomeni rilevanti e sia in grado di comprenderne la capacità di contribuire naturaliter al perseguimento degli obiettivi istituzionali e sociali.
La struttura organizzativa, produttiva e distributiva dello spettacolo è sostanzialmente condizionata dai meccanismi del finanziamento pubblico, soprattutto a livello statale. La situazione risulta progressivamente aggravata dalle contrazioni di fatto irreversibili del bilancio pubblico, che si concretano in un drenaggio acritico e uniforme delle risorse che consentono comunque la sopravvivenza del settore. Le regioni svolgono da molti anni un ruolo determinante, non soltanto per la proporzione crescente del loro impegno finanziario rispetto alle altre fonti pubbliche, ma anche per la forte attenzione nei confronti del palinsesto infrastrutturale di teatri monumentali e comunque belli dei quali garantiscono l’operatività, spesso intervenendo per ristrutturarli. L’amministrazione di prossimità può dunque attivare un dialogo bilaterale con il settore dello spettacolo, spostando il peso della propria azione da dinamiche esteriormente rigide e sostanzialmente informali verso processi negoziali, che disegnino i meccanismi dell’azione pubblica di sostegno sulla base di specifiche e contingenti esigenze che non possono certo essere ridotte a modello e che invece tengano conto della naturale varietà e della frequente site-specificity delle organizzazioni di spettacolo. Da istituzione di ‘soccorso’ la regione può così diventare l’artefice di percorsi interattivi basati sulla cascata di benefici specifici che lo spettacolo genera sull’economia regionale, conciliando in questo modo l’orizzonte creativo cosmopolita con le sinergie produttive territoriali.
La raccolta di dati relativi alla produzione e alla diffusione di spettacoli nel territorio delle regioni italiane è un’attività relativamente agevole, grazie alla rilevazione dell’offerta e della domanda regolarmente svolta dalla SIAE (Società Italiana degli Autori ed Editori) anche al servizio delle finalità fiscali pubbliche. Interpretarli è compito di gran lunga più difficile, anche perché la tentazione – pur diffusa – di confronti gerarchici tra territori, aggregati sociali o forme produttive va evitata con decisione: anche cedendo al desiderio di istituire graduatorie non si potrebbe riuscire a effettuare alcun confronto credibile dal momento che sia l’offerta sia la domanda di spettacoli non presentano i sufficienti caratteri di omogeneità che quanto meno giustificherebbero siffatti confronti.
Le tabelle che seguono descrivono la struttura essenziale del mercato dello spettacolo in Italia secondo una ripartizione regionale. Le Province autonome di Bolzano-Alto Adige e di Trento sono unificate nel territorio del Trentino-Alto Adige; non perseguendo alcuna finalità di confronto tale aggregazione non crea alcun problema nella lettura dei dati, il cui profilo saliente risiede nella proporzione delle grandezze per 100.000 abitanti. Per quante differenze ne possano emergere a causa del reddito, ma soprattutto della struttura territoriale, del grado di urbanizzazione e di mobilità, delle prassi sociali consolidate in ogni porzione del territorio, va sottolineato un sostanziale equilibrio: i tratti comuni all’esperienza italiana nella sua articolazione regionale appaiono prevalenti sulle differenze, pur presenti e talvolta rilevanti.
Dalla tabella 1 emerge il dato della spesa totale nazionale al botteghino, corrispondente sostanzialmente alla spesa complessiva per gli eventi sportivi (ISTAT 2010), il che è molto interessante perché permette di affrontare le questioni relative alla cultura e allo spettacolo senza doverle percepire come attività neglette, cosa che accade, invece, frequentemente. Inoltre si può rilevare come la domanda assume dimensioni che appaiono decisamente condizionate dall’offerta: il pubblico si mostra reattivo, in questo senso la dimensione e la frequenza dell’offerta rappresentano il vincolo più incisivo, per cui accrescerne le opzioni dovrebbe poter generare incrementi consistenti della domanda.
I dati della tabella 2 forniscono un quadro eloquente della distribuzione dell’offerta di spettacolo per sottosettori. Non sorprende che la prosa e i concerti registrino un’offerta più consistente, godendo di una più estesa diffusione territoriale, di un più elevato grado di accessibilità semantica (altre forme di spettacolo risultano più complesse come la lirica o più attraenti per una nicchia specialistica come la danza), in buona parte di una gamma di prezzi maggiormente diversificata, agevolando anche per questa via l’accesso di una domanda più ampia e pertanto riuscendo a insediarsi in varie località o potendo intensificare il ritmo della propria offerta.
La tabella 3 va letta con molta cautela. Alcuni risultati salienti nella dimensione della domanda si spiegano con la presenza di situazioni eccezionali sul versante dell’offerta; valga per tutti l’elevato numero dei biglietti venduti per la lirica in Veneto, dovuto alla capienza e alla peculiarità stagionale dell’Arena di Verona. Allo stesso modo i dati relativi alla prosa tanto in Trentino-Alto Adige quanto in Friuli Venezia Giulia si possono spiegare con la presenza di vivaci minoranze linguistiche in entrambi i territori. Un punto importante che i dati non consentono di percepire e che richiede ulteriori specifiche indagini è relativo alla differenza tra presenza e partecipazione: i biglietti venduti danno la misura della domanda complessivamente intesa, ma non possono dire se lo stesso spettatore abbia acquistato, nel corso dell’anno, più biglietti (e pertanto abbia assistito a diversi spettacoli) o se ciascun biglietto si riferisca a un diverso spettatore.
La partecipazione (ossia la frequenza media degli spettatori) riveste un’importanza notevole ai fini dell’analisi dei processi culturali e in particolare della formazione del gusto e del senso critico grazie all’esperienza culturale.
Il quadro che emerge dall’analisi dell’offerta e della domanda di cultura pone in evidenza la diffusione dei luoghi dello spettacolo nelle diverse aree del territorio nazionale.
Si tratta di una stratificazione molto lunga nel tempo, dai teatri greci di Siracusa, Segesta, Selinunte e Tindari al teatro greco-romano di Taormina all’anfiteatro romano di Verona (tutti operativi nella buona stagione) fino ai teatri che dal Seicento al tardo Ottocento disegnano una fitta mappa dello spettacolo in città grandi e piccole nelle regioni dell’Italia centrale, con punte avanzate della progettazione teatrale nel rifacimento contemporaneo del Teatro comunale di Firenze, del Teatro regio di Torino, del Teatro Carlo Felice di Genova o del Teatro delle muse di Ancona, e nella costruzione ex novo del Teatro Comunale di Bolzano, dell’Auditorium dell’Aquila e del Parco della musica di Roma, senza dimenticare lo stadio della pallacorda di Macerata, i bagli di Gibellina Nuova e altri spazi urbani spesso utilizzati come quinte teatrali, anche grazie alla vocazione scenica di molta architettura del passato.
Numerosi luoghi dello spettacolo sono peraltro il frutto di un adattamento – frequente ancor di più nel settore dei musei, in cui oltre il 90% dei palazzi che ospitano collezioni d’arte non sono stati concepiti come luoghi espositivi e sono stati adeguati in modo imperfetto e talvolta insufficiente alle esigenze di una domanda sempre più sofisticata e cosmopolita – che ospita attività di spettacolo in saloni di residenze patrizie, chiese sconsacrate o tuttora in funzione, palazzi dell’amministrazione territoriale del passato, monasteri o altri edifici originariamente destinati ad altre finalità. La distribuzione territoriale dei luoghi dello spettacolo non è omogenea, e vede prevalere – in termini di densità per 100.000 abitanti – regioni come il Trentino-Alto Adige e l’Emilia-Romagna (da 9 a 18 luoghi), seguite da Lombardia, Umbria e Marche (da 7 a 9), e da Veneto, Friuli Venezia Giulia e Toscana (6 o 7); ciò non significa che alcune regioni siano prive di palcoscenici, ma che l’offerta teatrale è concentrata soltanto in alcune città (un esempio per tutti è il Lazio, regione che mostra cinque luoghi dello spettacolo per 100.000 abitanti, tutti a Roma). Un dato confortante riguarda i teatri che sono stati chiusi e che risultano essere meno di 100 su un totale di oltre 3500 sale (Trivisano, in Rapporto sull’economia della cultura in Italia 1990-2000, 2004).
Il limite più evidente del quale soffrono i luoghi dello spettacolo quasi nella loro totalità è una sorta di isolamento rispetto al tessuto urbano che pure li circonda, mostrando un basso grado di permeabilità rispetto ai percorsi quotidiani dei residenti e spesso anche rispetto ai percorsi turistici: tale limite si può superare con alcune innovazioni regolamentari che estendano le aree pedonali, disciplinino in modo coerente il commercio e le attività produttive dell’area, offrano i necessari servizi pubblici (dalla vigilanza ai trasporti, dai parcheggi all’accesso gratuito al web) che incoraggino l’uso dell’intera area e quindi la presenza estesa nel tempo nei luoghi stessi, accrescendone per questa via non soltanto la partecipazione del pubblico alle iniziative culturali ma anche le opzioni commerciali in favore di una più elevata sostenibilità. La programmazione di spettacolo viene realizzata con frequenza sempre maggiore presso luoghi complessi e versatili costruiti come spazi industriali e poi riqualificati per lo svolgimento di un’ampia funzione sociale e culturale; spesso si tratta di luoghi di notevole fascino per la capacità di combinare efficacemente l’aspetto originario con i linguaggi creativi contemporanei; tenuti inattivi per molto tempo sotto l’etichetta di ‘archeologia industriale’ oggi rivedono la luce come ‘centri culturali’ (per quanto la definizione non chiarisca a sufficienza quale sia la strategia o il progetto). Ne sono esempi notevoli il Centro servizi culturali Santa Chiara di Trento, il Centro arti opificio Siri di Terni, Zo Centro culture contemporanee di Catania; sono tutti complessi architettonici che si articolano in una varietà di spazi teatrali, espositivi, di socializzazione nonché di incubatori per attività creative e culturali. Pur non prefigurando un modello unitario, tali esperienze, scaturite anche dalla capacità progettuale degli imprenditori culturali che ne sono responsabili, rappresentano un approccio fertile che connette in modo incisivo idee creative, programmi culturali e orientamenti sociali contemporanei.
Una lettura diversa e certamente più articolata del rapporto tra territorio e produzione di spettacolo emerge dal fenomeno dei festival, fino a qualche tempo fa manifestazioni tematiche o stagionali che sotto un’etichetta ecumenica e per molti versi proteiforme permettevano approfondimenti esecutivi e interpretativi di notevole unicità. Il Festival dei due mondi di Spoleto, il Rossini opera festival di Pesaro, il Festival di Sant’Arcangelo dei Teatri, il Festival internazionale RomaEuropa e poche altre manifestazioni presenti nel territorio italiano da molti anni rappresentano oggi i prodromi nobili di un fenomeno che è andato espandendosi a dismisura non soltanto attribuendo la qualifica di ‘festival’ a semplici per quanto blasonate rassegne di spettacoli ‒ distribuiti regolarmente in molti teatri durante la stagione invernale ‒, ma anche ampliando lo spettro tematico a ogni materia dello scibile umano, dalla scienza alla religione, dall’economia al design, incoraggiati dal successo del Festivaletteratura di Mantova, giunto nel 2012 alla sua sedicesima edizione. Organizzati da gruppi spesso multidisciplinari, finanziati dalle pubbliche amministrazioni del territorio ma di norma capaci di attrarre il sostegno finanziario delle imprese private, di attivare utili flussi commerciali e di stimolare l’impegno volontario di tanti giovani professionisti e studenti, i festival rappresentano una fase di passaggio dall’isolamento autoreferenziale di molta produzione culturale verso una morbida riconquista del territorio urbano da parte di una comunità composita la cui vitalità incuriosisce i turisti culturali contemporanei.
Nuove relazioni tra la produzione di spettacolo e i territori regionali prendono forma nel settore cinematografico, per molto tempo affidato all’iniziativa di produttori talvolta finanziati dal Fondo unico dello spettacolo ma senza alcun rapporto progettuale con le amministrazioni subcentrali. Sono molte le città e le aree territoriali italiane che hanno offerto nel corso dei decenni una eloquente location cinematografica a opere di prima grandezza: Roma (Roman holiday, 1953, Vacanze romane, di William Wyler), Venezia (Summertime, 1955, Tempo d’estate, di David Lean), Palermo (Il Gattopardo, 1963, di Luchino Visconti, girato anche a Palazzo Chigi di Ariccia), Matera (Il Vangelo secondo Matteo, 1964, di Pier Paolo Pasolini), Taormina (The Godfather part III, 1990, Il padrino - Parte III, di Francis Ford Coppola) sono solo alcuni esempi.
Pur rappresentando per il territorio, la sua popolazione e alcune attività commerciali localizzate nell’area una buona opportunità di scambio (dal lavoro delle comparse all’industria ricettiva), il cinema non è per lungo tempo rientrato nella strategia culturale ed economica delle amministrazioni territoriali. Considerando la ricchezza delle possibili locations italiane che, tanto per il cinema internazionale quanto per le produzioni locali, offrono città d’arte, cittadine e villaggi con vistose tracce medievali e rinascimentali, aree rurali e paesaggistiche di grande rilievo, appare evidente che l’industria cinematografica può generare una cascata di benefici economici sul territorio, non soltanto attraverso l’impiego di risorse umane e lo scambio di servizi, ma anche attivando relazioni e sinergie con imprese locali operanti nell’esteso indotto del cinema, oltre alla possibilità di negoziare strategicamente più di un caso di pubblicità indiretta (product placement), favorendo la produzione locale.
Il cinema è tradizionalmente soggetto alla legislazione nazionale, il che può risultare comprensibile alla luce delle dimensioni finanziarie del settore da una parte e della necessità di accedere a una rete distributiva diffusa e solida dall’altra; nelle altre aree dello spettacolo la questione non si pone a causa del processo produttivo specifico: il prodotto cinematografico risponde a protocolli organizzativi, produttivi e distributivi del tutto diversi da quelli dello spettacolo dal vivo (il che genera problemi diversi anche per la filiera della distribuzione). L’attenzione delle amministrazioni regionali viene stimolata dall’opportunità di svolgere una sistematica azione di promozione del territorio tanto dal punto di vista economico e commerciale quanto per promuovere aree, luoghi e monumenti attraverso l’opera cinematografica che ne veicoli l’immagine e pertanto ne costruisca una reputazione turistica. Sulla scia delle Film commission nate negli anni Quaranta negli Stati Uniti, replicate negli anni Ottanta in Gran Bretagna e successivamente sorte in altri Paesi europei, le amministrazioni regionali istituiscono – sotto la comune definizione di Film commission – organizzazioni ad hoc, dedicano uffici interni o creano strutture miste (Ghedini 2006), la maggior parte delle quali aderisce al Coordinamento delle Film commission creato nel 2001. Oltre a un’ampia azione di agevolazione delle fasi tecniche della produzione, alcune tra le più attive strutture regionali, snellendo i passaggi burocratici, gestiscono incentivi finanziari o fondi a sostegno della produzione; in alcuni casi le Film commission ottengono dalle amministrazioni comunali del territorio interessato l’assistenza gratuita della polizia municipale, l’abolizione della tassa di occupazione del suolo pubblico, la disponibilità gratuita di edifici e luoghi di proprietà dell’ente locale. L’Emilia-Romagna Film commission, oltre a garantire i servizi appena elencati, rende disponibile ai produttori cinematografici tanto la Guida alla produzione in cui si illustra la normativa vigente e si offre un database di professionisti e organizzazioni di supporto, quanto la Location guide che elenca e documenta le possibili località nelle quali si possono effettuare riprese cinematografiche. Oltre alla già citata Emilia-Romagna Film commission, sono operative sul territorio italiano una ventina di strutture omologhe, per quanto come si è detto sia la forma giuridico-istituzionale sia lo spettro di azioni risultino piuttosto variegati. La Torino Piemonte Film commission, una fondazione costituita nel 2000 dalla Regione Piemonte e dal Comune di Torino, ha collaborato a circa 500 produzioni cinematografiche, audiovisive e televisive (Fondazione ENI Enrico Mattei 2011). Più recente la creazione della Apulia Film commission, che dal 2007 ha creato due ‘cineporti’ (a Bari e Lecce) che mettono a disposizione della produzione uffici e servizi, e gestisce un fondo dedicato al cinema (film fund) oltre a realizzare attività formative e di documentazione. Il panorama delle Film commission regionali è piuttosto vivace e, per quanto le differenze strutturali tra le varie aree del territorio italiano comportino specifici vincoli e opportunità, si deve sottolineare che anche per questa via le regioni italiane contribuiscono in misura crescente al rafforzamento della relazione che intercorre tra il sistema dello spettacolo, il proprio territorio e la comunità regionale.
M. Trimarchi, Economia e cultura. Organizzazione e finanziamento delle istituzioni culturali, Milano 1993.
L. Trezzini, Il quadro di riferimento dello spettacolo dal vivo, in Rapporto sull’economia della cultura in Italia 1980-1990, a cura di C. Bodo, Roma 1994, pp. 367-83.
M. Trimarchi, Spesa pubblica per la cultura e politiche per lo spettacolo, «Quaderni per la discussione dell’Istituto di economia e finanza», 2, 1995.
M. Trimarchi, Le politiche per l’arte e la cultura tra decentramento e privatizzazione, in La finanza pubblica italiana. Rapporto 1999, a cura di L. Bernardi, Bologna 1999, pp. 343-64.
UNESCO, Towards an international network of observatories on cultural policies, Hannover 2000.
Rapporto sull’economia della cultura in Italia 1990-2000, a cura di C. Bodo, C. Spada, Bologna 2004 (in partic. C. Barbati, G. Piperata, L’evoluzione del quadro istituzionale e della legislazione statale e regionale, pp. 357-64; M.N.Trivisano, I luoghi dello spettacolo, pp. 391-401).
O.P. Ghedini, Le Film commission: esperienze e prospettive, «Le istituzioni del federalismo. Regione e governo locale», 2006, Supplemento 4: Cultura, spettacolo e promozione d’impresa. La legge regionale n. 12 del 2006, pp. 29-38.
M. Trimarchi, Chi ha paura delle regioni? Valori, interessi e regole, «Economia della cultura», 2006, 1, pp. 67-78.
ISTAT, Statistiche culturali, Roma 2010.
Fondazione ENI Enrico Mattei, Le opportunità del cineturismo in Basilicata: dal successo di Basilicata coast to coast alla nascita di una Film commission Lucana, Milano 2011.
Osservare la cultura. Nascita, ruolo e prospettive degli osservatori culturali in Italia, a cura di A. Taormina, Milano 2011.
Regione Emilia-Romagna, Programma regionale in materia di spettacolo (legge regionale 5 luglio 1999 nr. 13). Obiettivi, azioni prioritarie e procedure per il triennio 2012-2014, Bologna 2012.
Si ringrazia Marta Vimercati per la ricerca dei materiali normativi e statistici citati e discussi in questo saggio.