Il superamento della centralità dell’azione di annullamento
Nei primi mesi del 2011, la giurisprudenza amministrativa è intervenuta con tre significative pronunce del Consiglio di Stato (Adunanza plenaria, nn. 3 e 15) e del TAR Lombardia (n. 1418) a ridefinire i confini delle azioni non impugnatorie esperibili davanti al giudice amministrativo, confermando in particolare la piena ammissibilità delle azioni di adempimento e di accertamento originariamente previste nello schema del codice con disposizioni cancellate dal Governo.
Con tre recenti pronunce, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenze 23.3.2011, n. 3 e 1.8.2011, n. 15) e il TAR della Lombardia (sentenza 8.6.2011, n. 1428) hanno offerto alcuni fondamentali chiarimenti sulla disciplina delle azioni esperibili nel processo amministrativo, intervenendo più in particolare rispettivamente sui presupposti dell’azione di condanna al risarcimento dei danni derivanti dalla lesione di interessi legittimi (con specifico riferimento al noto tema della cd. pregiudiziale di annullamento) e sulle azioni di accertamento (con specifico riferimento alla tutela avverso l’illegittimo utilizzo della s.c.i.a.) e di adempimento (con specifico riferimento all’ammissibilità della richiesta di una pronuncia sulla fondatezza della pretesa nel giudizio avverso un provvedimento reiettivo). Il quadro tracciato dalla sentenza n. 15 è stato tuttavia sorprendentemente rimodificato dall’art. 6, co. 1, lett. c), del d.l. 13.8.2011, n. 138, convertito nella l. 14.9.2011, n. 148, che, in termini che non appaiono condivisibili, ha riproposto il più lungo e complesso iter dell’azione avverso il silenzio (azione di adempimento). Il tema delle azioni esperibili davanti al giudice amministrativo ha costituito e costituisce uno degli ambiti più dibattuti nel nuovo codice del processo aministrativo (d.lgs. 2.7.2010, n. 104). Il legislatore delegato era stato espressamente investito del compito di tracciare la sistematica delle azioni e delle funzioni del giudice «disciplinando, ed eventualmente riducendo, i termini di decadenza o prescrizione delle azioni esperibili e la tipologia dei provvedimenti del giudice» e «prevedendo le pronunce dichiarative, costitutive e di condanna idonee a soddisfare la pretesa della parte vittoriosa», da armonizzare con l’esigenza di «assicurare la snellezza, concentrazione ed effettività della tutela, anche al fine di garantire la ragionevole durata del processo» (art. 44, co. 2, lett. . e . del d.d.l. delega). Anche se l’elenco delle azioni esperibili non rientra nel contenuto tipico dei codici di procedura, l’ampiezza della delega sul punto e l’assenza di un codice di diritto amministrativo sostanziale avevano consentito alla Commissione insediata presso il Consiglio di Stato di licenziare un testo fortemente innovativo, che, al fine di superare ogni possibile equivoco sull’effettivo superamento della tradizionale concezione di tale processo come mero giudizio di annullamento, traduceva in termini concreti l’ormai riconosciuta natura di posizione giuridica di diritto sostanziale dell’interesse legittimo e il principio costituzionale ed eurounitario di pienezza ed effettività della relativa tutela, espressamente disciplinando, accanto alle tradizionali azioni di annullamento, cautelare e di ottemperanza, l’azione autonome di condanna al risarcimento del danno derivante dalla lesione di interessi legittimi e le azioni di accertamento e di adempimento1, testualmente riconoscendo la possibilità di richiedere la condanna dell’amministrazione «all’adozione di ogni altra misura idonea a tutelare la posizione giuridica soggettiva, non conseguibile con il tempestivo esercizio delle altre azioni». Come noto, il Governo, nonostante le diverse indicazioni delle Commissioni parlamentari, ha tuttavia ritenuto di espungere le disposizioni relative alle azioni di accertamento (al di fuori dai casi tipici del silenzio e della nullità, di cui all’art. 31) e di adempimento, e di limitare il capo II del titolo III del libro I alle sole azioni di cognizione, disciplinando in modo autonomo l’azione di esecuzione e l’azione cautelare rispettivamente nel libro II e nel libro IV2. In breve, la disciplina delle azioni di cognizione nel testo definitivo del codice contempla, accanto alla tradizionale azione di annullamento (art. 29), l’azione di condanna (art. 30), comprensiva dell’azione risarcitoria, l’azione avverso il silenzio e l’azione di accertamento della nullità (entrambe previste all’art. 31). Chiude il capo l’art. 32 sulla possibilità di cumulare più domande nello stesso giudizio e sulla conversione delle azioni. Anche nel giudizio amministrativo, dunque, al pari di quanto avviene nel processo di cognizione civile, sono previste azioni di accertamento (nullità), azioni costitutive (annullamento) e azioni di condanna, ferma restando la possibilità di esperire azioni specifiche contro l’inerzia della pubblica amministrazione o in materia di accesso agli atti amministrativi. La dottrina più autorevole3 aveva peraltro immediatamente avvertito come il predetto intervento cassatorio del Governo non fosse, evidentemente, suscettibile di produrre effetti sostanziali, costituendo, entrambe le azioni toccate dalle disposizioni cancellate, espressioni irrinunciabili del menzionato principio di effettività della tutela delle posizioni giuridiche soggettive anche nei giudizi in cui sia parte una pubblica amministrazione, come tali già presenti nel nostro ordinamento a prescindere da una loro esplicita previsione. Confermando il ruolo fondamentale tradizionalmente esplicato nella storia dell’evoluzione del nostro sistema di giustizia amministrativa, la giurisprudenza amministrativa ha, con una serie di importanti pronunce, prontamente confermato l’esattezza delle suddette considerazioni e il valore preminente e dirimente del surricordato principio generale, intervenendo con encomiabile tempestività a ridefinire i confini del nuovo giudizio amministrativo, con il riconoscimento della sicura esperibilità tanto delle azioni di condanna – a risarcire in via autonoma i danni derivanti dall’illegittima lesione di interessi legittimi e ad adottare i provvedimenti favorevoli illegittimamente negati (confermando così l’ammissibilità dell’azione di adempimento) – quanto delle azioni dirette all’accertamento dell’illegittimo esercizio del potere pubblico (anche al di fuori di quelle relative al silenzio e alla nullità).
In questo quadro si è peraltro inserita ‘a gamba tesa’ la manovra finanziaria dell’agosto 2011 (l. n. 148/2011), che, senza evidentemente smentire i principi affermati in termini generali dall’Adunanza plenaria in tema di azione di accertamento, ha però negato l’esperibilità della stessa azione ai fini di tutela avverso la s.c.i.a. (o la d.i.a.), ricostruendola, come sopra accennato, in termini di tutela avverso il silenzio inadempimento al potere-dovere di controllo.
Il primo fondamentale passaggio del percorso ricostruttivo compiuto dalla giurisprudenza è costituito, come anticipato, dalla sentenza n. 3 del 2011 con la quale, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con l’autorevolezza che le viene ormai espressamente e significativamente riconosciuta dall’art. 99 c.p.a. (imponendo il rispetto dei principi da essa affermati da parte delle Sezioni semplici, che, per discostarsene, dovranno nuovamente sottoporle la questione), è reintervenuta sull’annosa e dibattutissima questione dell’ammissibilità di un’azione risarcitoria autonoma da quella di annullamento (o di accertamento dell’illegittimità del silenzio), per chiarire, per quanto ancora potesse occorrere, la posizione assunta al riguardo dal codice. Dopo aver correttamente posto l’accento sulla natura sostanziale dell’interesse legittimo come «posizione di vantaggio riservata ad un soggetto in relazione ad un bene della vita interessato dall’esercizio del potere pubblicistico, che si compendia nell’attribuzione a tale soggetto di poteri idonei ad influire sul corretto esercizio del potere, in modo da rendere possibile la realizzazione o la difesa dell’interesse al bene» e sulla correlata coerenza di un’azione meramente risarcitoria, che «sia proponibile in via autonoma rispetto all’azione impugnatoria e non si atteggi più a semplice corollario di detto ultimo rimedio secondo una logica gerarchica che il codice del processo ha con chiarezza superato» (autonomia dell’azione, che, sempre secondo le chiare parole della sentenza, si ricava, con argomento a contrario, dall’inciso iniziale del co. 1 dell’art. 30)4, l’Adunanza plenaria evidenzia, in termini di assoluta ‘sincerità’ che «il codice ha suggellato un punto di equilibrio capace di superare i contrasti ermeneutici registratisi in subiecta materia tra le due giurisdizioni e, in parte, anche in seno ad ognuna di esse. Il legislatore, in definitiva, ha mostrato di non condividere la tesi della pregiudizialità pura di stampo processuale al pari di quella della totale autonomia dei due rimedi, approdando ad una soluzione che, non considerando l’omessa impugnazione quale sbarramento di rito, aprioristico ed astratto, valuta detta condotta come fatto concreto da apprezzare, nel quadro del comportamento complessivo delle parti, per escludere il risarcimento dei danni evitabili per effetto del ricorso per l’annullamento. E tanto sulla scorta di una soluzione che conduce al rigetto, e non alla declaratoria di inammissibilità, della domanda avente ad oggetto danni che l’impugnazione, se proposta nel termine di decadenza, avrebbe consentito di scongiurare». La soluzione, come ben chiarito dalla pronuncia, è assunta anche in un quadro di necessaria coerenza al diritto eurounitario, il cui valore pregnante è espressamente richiamato, unitamente a quello dei principi costituzionali, dall’art. 1 del codice, in un’ottica di tutela piena ed effettiva. Nel rinviare alla voce sul risarcimento del danno un’analisi più puntuale della sentenza, preme qui soprattutto evidenziare, ai fini della ricostruzione del sistema delle azioni esperibili dinanzi al giudice amministrativo, che essa ha efficacemente posto in luce il «superamento della centralità della tutela di annullamento ove siano percorribili altre e più appropriate forme di tutela» (desumibile anche dalla distinzione tra vizi formali e vizi sostanziali introdotta dall’art. 21 octies, co. 2, della l. 7.8.1990, n. 241), significativamente confermato dall’art. 34, co. 3, del codice, che, anche a fronte di un’azione impugnatoria «quando nel corso del giudizio l’annullamento del provvedimento non risulti più utile per il ricorrente» riconosce espressamente al giudice il potere dovere di pronunciarsi attraverso una decisione di mero accertamento della sua illegittimità se ne sussiste comunque «l’interesse a fini risarcitori». Il principio ha trovato recente applicazione nella sentenza Cons. St., Sez. V, 12.5.2011, n. 2817, che, muovendo dalla premessa che l’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato è contenuto nel petitum di annullamento come un presupposto necessario, ha precisato che, nell’ipotesi sopra considerata, «il giudice limita la sua pronuncia ad un contenuto di accertamento in seguito ad una valutazione dell’interesse a ricorrere, quindi da compiere d’ufficio: in quanto manca l’interesse all’annullamento, ma sussiste l’interesse all’accertamento ai fini risarcitori». Invocando la recente giurisprudenza costituzionale in tema di rapporti tra giudice amministrativo e ordinamento sportivo (sentenza n. 49 dell’11.2.2011), la medesima sentenza n. 3 del 2011 sottolinea quindi significativamente il superamento dell’impostazione tradizionale che vedeva l’annullamento quale sanzione indefettibile a fronte del riscontro di un vizio di legittimità. «dandosi vita ad un sistema delle tutele duttile, che consente un accertamento non costitutivo dell’illegittimità, a fini risarcitori » e rileva che, ad avviso dell’autorevole Collegio giudicante, «l’analisi dei rapporti sostanziali debba essere svolto, piuttosto che sul piano dell’ingiustizia del danno valorizzato dalle pronunce in esame, su quello della causalità giuridica». Viene a tal fine richiamato l’art. 1227, co. 2, c.c., «alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e, soprattutto, del principio di solidarietà sociale sancito dall’art. 2 Cost.», invocato quale «canone di valutazione anche delle condotte processuali», che «opera anche nella fase patologica del rapporto obbligatorio», con il risultato che «si deve allora preferire al tradizionale indirizzo che esclude, per definizione, la sindacabilità delle condotte processuali ai sensi del capoverso dell’art. 1227 c.c., un più duttile criterio interpretativo che, in coerenza con le clausole generali in materia di correttezza, buona fede e solidarietà di cui la norma in esame è espressione, consenta la valutazione della condotta complessiva, anche processuale, del creditore, con riguardo alle specificità del caso concreto». Applicando detto criterio interpretativo al rapporto azione risarcitoria dei danni da lesione di interessi legittimi - azione di annullamento dell’atto o di accertamento dell’illegittimità del silenzio, l’Adunanza plenaria ne ricava che «la scelta di non avvalersi della forma di tutela specifica e non (comparativamente) complessa che, grazie anche alle misure cautelari previste dall’ordinamento processuale, avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in tutto o in parte il danno, integra violazione dell’obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l’effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile. Detta omissione, apprezzata congiuntamente alla successiva proposizione di una domanda tesa al risarcimento di un danno che la tempestiva azione di annullamento avrebbe scongiurato, rende configurabile un comportamento complessivo di tipo opportunistico che viola il canone della buona fede e, quindi, in forza del principio di auto-responsabilità cristallizzato dall’art. 1227, co. 2, c.c., implica la non risarcibilità del danno evitabile». Ad evitare il rischio di un’apparente sostanziale riproduzione della pregiudiziale di annullamento, la sentenza chiarisce che la regola non trova applicazione «laddove la decisione di non fare leva sullo strumento impugnatorio sia frutto di un’opzione discrezionale ragionevole e non sindacabile in quanto l’interesse all’annullamento oggettivamente non esista, sia venuto meno e, in generale, non sia adeguatamente suscettibile di soddisfazione»5. In conclusione, il supremo consesso giurisdizionale amministrativo affronta anche il delicato tema dei profili probatori della buona fede, ponendo in luce la necessità di adattare l’applicazione della regola iuris sottesa all’art. 1227, co. 2, c.c. alle peculiarità del processo amministrativo imperniato sul metodo acquisitivo che permea l’operatività del principio dispositivo (ribadito dalla sentenza Cons. St., sez. IV, 11.2.2011, n. 924 e tradotto dall’art. 63, co. 2, c.p.a.), tenendo peraltro conto «della specificità del tema probatorio in esame, il quale impinge in buona misura su quaestiones iuris – quelle relative all’individuazione degli strumenti giuridici di tutela praticabili, al plausibile esito del ricorso per annullamento ed agli sbocchi degli ulteriori mezzi di tutela anche stragiudiziali – che soggiacciono al principio iura novit curia». Viene dunque in definitiva affermato, con un principio guida che dovrà orientare la successiva giurisprudenza, che sulla base di principi già desumibili dal quadro normativo precedente ed oggi recepiti dall’art. 30, co. 3, del codice. il giudice amministrativo è chiamato ex lege «a valutare, senza necessità di eccezione di parte ed acquisendo anche d’ufficio gli elementi di prova all’uopo necessari, se il presumibile esito del ricorso di annullamento e dell’utilizzazione degli altri strumenti di tutela avrebbe, secondo un giudizio di causalità ipotetica basato su una logica probabilistica che apprezzi il comportamento globale del ricorrente, evitando in tutto o in parte il danno». La lettura della sentenza, confermando la piena e consapevole adesione del Consiglio di Stato, nella sua massima espressione, al quadro normativo delineato al c.p.a. in sostanziale coerenza alle tesi espresse dalla Corte di cassazione, offre – finalmente – un elemento di ‘sincerità’ sulle regole del sistema risarcitorio dei danni derivanti dalla lesione degli interessi legittimi e, in termini più generali, sul nuovo atteggiarsi dei rapporti tra le azioni esperibili davanti al giudice amministrativo, alla luce del richiamato valore pregnante riconosciuto dallo stesso codice ai principi costituzionali e eurounitari.
2.1 L’ammissibilità dell’azione di adempimento
Il TAR Lombardia, con la ‘creativa’ sentenza 8.6.2011, n. 14286, estendendo l’ambito applicativo del principio introdotto dall’at. 31 c.p.a. nel caso di accertamento dell’illegittimità del silenzio, ha a sua volta affrontato la vexata quaestio dei limiti all’esperibilità delle azioni di adempimento nel giudizio amministrativo, espressamente affermandone la piena ammissibilità anche a fronte dell’esito favorevole della domanda caducatoria di un provvedimento di diniego7. Riprendendo e sviluppando il tema del superamento della centralità dell’annullamento svolto dall’Adunanza plenaria nella citata sentenza n. 3, il TAR ha rilevato che la limitazione della tutela avverso il diniego allo strumento impugnatorio deriva dall’opinione tradizionale che escludeva di poter riconnettere alle sentenze del giudice amministrativo l’effetto di imporre una disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino «sostitutiva» di quella dettata dall’atto annullato. In altri termini, anche quando si condivideva la natura sostanziale dell’interesse del cittadino istante, si riteneva che il giudice potesse conoscere del rapporto tra amministrazione e amministrato solo attraverso lo «schermo» del problema di validità dell’atto amministrativo. Tale impostazione deve tuttavia considerarsi superata dal c.p.a., il quale abbandona definitivamente ogni residuo della concezione oggettiva del giudizio amministrativo di annullamento come strumento di controllo dell’azione amministrativa, e consolida lo spostamento dell’oggetto del giudizio amministrativo dall’atto, teso a vagliarne la legittimità alla stregua dei vizi denunciati in sede di ricorso e con salvezza del riesercizio del potere amministrativo, al rapporto regolato dal medesimo, al fine di valutare la fondatezza della pretesa sostanziale azionata, con l’unico ostacolo della non sostituibilità di attività discrezionali riservate alla p.a. Su quest’ultimo punto la pronuncia, compiendo un grandissimo passo avanti rispetto all’orientamento tradizionale e alla stessa disciplina codicistica del giudizio sul silenzio, specifica peraltro che lo scrutinio sulla fondatezza dell’istanza può essere effettuato da parte del giudice amministrativo (i cui poteri ne risultano ancora una volta significativamente rafforzati) anche in presenza di un’attività astrattamente discrezionale, purché la fattispecie concreta, a seguito della progressiva concentrazione in giudizio delle questioni rilevanti (ad esempio, mediante il combinato operare di ordinanza propulsiva e motivi aggiunti), risulti oramai «segnata» nel suo sviluppo, restando peraltro in capo al ricorrente l’onere di dimostrare l’esaurimento degli spazi di scelta da parte della p.a. e la fondatezza della pretesa sostanziale. Il cammino che dottrina e giurisprudenza dovranno fare sul punto è ancora lungo e difficile, soprattutto per evitare una inopportuna e pericolosa confusione tra potere esecutivo e giudiziario, ma la pienezza e l’effettività della tutela hanno ancora una volta saputo vincere sul dato formale e la giurisprudenza ha dimostrato di saper cogliere le occasioni perse dal legislatore.
2.2 L’azione di accertamento nel giudizio sulla s.c.i.a.
Il terzo, fondamentale, passaggio dell’evoluzione giurisprudenziale sulle azioni esperibili nel nuovo processo amministrativo è offerto dalla recentissima sentenza 29.7.2011, n. 15, resa dall’Adunanza plenaria sulla delicatissima questione della tutela avverso la s.c.i.a. (già d.i.a.). Nel rinviare anche in questo caso alla voce specifica per un esame più puntuale della pronuncia e delle più ampie tematiche da essa affrontate, merita in questa sede evidenziare la conferma, da parte del massimo organo di giustizia amministrativa, della piena ammissibilità nell’attuale sistema di giustizia amministrativa dell’azione diretta ad accertare l’illegittimità dell’operato delle pubbliche amministrazioni, consistente, nel caso della s.c.i.a., nell’omesso esercizio del potere inibitorio e/o repressivo a fronte di un’attività illegittimamente ‘segnalata’ come conforme all’ordinamento. Attraverso un percorso assolutamente apprezzabile per la sua coerenza e per la progressiva e completa disamina e soluzione delle numerose questioni poste da una disciplina massimamente contorta e contraddittoria8, la sentenza supera (recte, aggira) anche l’ostacolo costituito dall’art. 34, co. 2, c.p.a., che fa drasticamente divieto al giudice amministrativo di «pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora eser citati ». Per un verso, infatti, proprio da tale statuizione, che riproduce l’identica formulazione contenuta nella soppressa norma del testo approvato dalla Commissione del Consiglio di Stato, dedicata all’azione generale di accertamento, l’autorevole Collegio ricava l’implicita ammissione dell’azione di accertamento. Detta disposizione, tesa ad evitare, in omaggio al principio di separazione dei poteri, che il giudice si sostituisca alla pubblica amministrazione esercitando una cognizione diretta di rapporti amministrativi non ancora sottoposti al vaglio della stessa, «non può invero che operare per l’azione di accertamento, per sua natura caratterizzata da tale rischio di indebita ingerenza, visto che le altre azioni tipizzate dal codice sono per definizione dirette a contestare l’intervenuto esercizio (od omesso esercizio) del potere amministrativo». La formula legislativa, come era stato rilevato in dottrina, non lascia peraltro dubbi sul fatto che fino al termine di conclusione del procedimento di controllo (al decorso del quale l’Adunanza plenaria lega creativamente, ma molto opportunamente la formazione di un silenzio con valore tipico di decisione negativa sulla necessità di adottare provvedimenti inibitori dell’attività segnalata) il giudice non possa adottare una pronuncia di merito. Attraverso un opportuno rinvio ai principi generali sulle condizioni dell’azione – che impongono di distinguere tra i presupposti processuali (ossia «i requisiti che devono sussistere ai fini della instaurazione del rapporto processuale, che devono esistere sin dal momento della domanda») e le condizioni dell’azione (ossia «i requisiti della domanda che condizionano la decidibilità della controversia nel merito – che devono esistere al momento della decisione») – la sentenza osserva che «tale impedimento cessa però alla scadenza del termine predetto, che implica la definizione della procedura con l’esercizio del potere nei sensi prima esposti», evidenziando che, nella specie, la scadenza del termine di conclusione del procedimento è soltanto un fatto costitutivo integrante una condizione dell’azione che, ai sensi del disposto dell’art. 34, co. 2, cit., deve esistere al momento della decisione. Con la conseguenza che l’assenza del definitivo esercizio di un potere ancora in fieri, afferendo ad una condizione richiesta ai fini della definizione del giudizio, non preclude l’esperimento dell’azione giudiziaria, ma semplicemente impedisce l’adozione di una sentenza di merito. Ancora una volta, il valore pregnante dei ricordati principi di effettività e di pienezza della tutela giurisdizionale, è quindi invocato dall’Adunanza plenaria ad ammettere non soltanto l’esperibilità dell’azione di accertamento nelle more del decorso del predetto termine di conclusione del procedimento di controllo, ma anche, in considerazione della rilevanza fondamentale assunta per tali principi dalla tutela interinale è declinazione fondamentale, l’adozione, da parte del giudice amministrativo, delle misure cautelari necessarie, ai sensi dell’art. 55 del c.p.a., al fine di impedire che, nelle more della definizione di tale procedimento e della conseguente maturazione della condizione dell’azione, l’esercizio dell’attività segnalata possa infliggere al terzo un pregiudizio grave ed irreparabile. In altri termini, con una sapiente ed equilibrata rilettura del sistema anche alla stregua dei principi generali, tanto tradizionali quanto risultanti dal nuovo processo di integrazione eurounitaria, nonché dell’evoluzione del canone che privilegia l’interpretazione conforme a Costituzione, il massimo organo della giustizia amministrativa sembrava aver finalmente costruito in modo ordinato e coerente il complesso e contorto strumento della s.c.i.a. Come anticipato nei precedenti paragrafi, il sistema proposto dall’Adunanza plenaria è stato però ‘smontato’ dalla manovra finanziaria del 13 agosto (d.l. n. 138), che, con un ingiustificato colpo di spugna (confermato dalla legge di conversione n. 148 del 2011), pur apprezzabilmente smentendo in termini che si auspicano definitivi la tesi dell’impugnabilità della d.i.a./s.c.i.a., ha optato per la più tradizionale alternativa dell’azione – di adempimento – avverso il mancato esercizio del potere di controllo nei termini prestabiliti, così riaprendo la complessa e insolubile questione della compatibilità delle misure di autotutela ex artt. 21 octies e 21 nonies con l’assenza di un provvedimento da annullare o revocare.
I surrichiamati interventi giurisprudenziali hanno, come anticipato, offerto fondamentali chiarimenti sul regime delle azioni esperibili dinanzi al giudice amministrativo. Restano peraltro evidentemente aperti alcuni problemi, legati in particolare alle concrete applicazioni dei principi da essi affermati. Resta invero rimessa al futuro interprete la ricerca del giusto equilibrio tra ammissibilità della domanda sulla fondatezza della pretesa sostanziale illegittimamente respinta e tutela della sfera di discrezionalità delle pubbliche amministrazioni e tra la pienezza e l’effettività della tutela risarcitoria degli interessi legittimi e l’esigenza di evitarne un uso distorto e strumentale, che, omettendo il previo o contestuale ricorso alle azioni caducatorie e di accertamento, lasci volontariamente e colpevolmente irrisolte le esigenze di tutela dell’interesse pubblico sostanziale pregiudicato dalla condotta lesiva. Più grave, come già accennato, la questione della compatibilità della costruzione della tutela contro la s.c.i.a. come azione avverso il silenzio senza valore legale tipico con la conferma del potere di annullamento o revoca del titolo abilitativo.
1 La previsione si ispirava all’ordinamento processuale tedesco, su cui cfr. il testo tradotto di Falcon- Fraenkl (a cura di), Ordinamento processuale amministrativo tedesco (VwGO), Trento, 2000.
2 I vari passaggi dell’iter di approvazione del Codice sono puntualmente ricostruiti da Chieppa, Il Codice del processo amministrativo, Milano, 2011.
3 Cfr. Merusi, In viaggio con Laband…, in www.giustizia-amministrativa.it, aprile 2010; Travi, Osservazioni generali sullo schema di decreto legislativo con un ‘codice’ del processo amministrativo, ivi, maggio 2010; Chieppa, Il Codice, cit., 172.
4 L’inciso dispone invero che, salvi in casi di giurisdizione esclusiva del giudizio amministrativo – segnatamente, con riferimento alle azioni di condanna a tutela di diritti soggettivi – ed i casi di cui al medesimo articolo – relativi proprio alle domande di risarcimento del danno ingiusto di cui ai successivi commi 2 e seguenti – la domanda di condanna può essere proposta solo contestualmente ad altra azione; sicché, «per converso la domanda risarcitoria è proponibile in via autonoma rispetto al rimedio caducatorio»).
5 Si richiamano a tal fine, a titolo esemplificativo, l’ipotesi in cui il provvedimento sia stato immediatamente eseguito producendo una modificazione di fatto irreversibile; o quella in cui i tempi tecnici del processo non consentano, ragionevolmente, di praticare, in modo efficiente, il rimedio della tutela ripristinatoria; o, ancora, le situazioni in cui, per effetto di specifica previsione di legge (cfr. l’art. 246, co. 4, del codice dei contratti pubblici, da ultimo confluito nell’art. 125, co. 3, del c.p.a.), il mezzo dell’annullamento non possa soddisfare, in termini reali, l’aspirazione al conseguimento del bene della vita desiderato.
6 Annotata da Carbone, Fine delle perplessità sull’azione di adempimento, in Foro amm. - TAR, 2011, 5.
7 In dottrina si vedano in argomento per tutti Clarich, Le azioni nel processo amministrativo tra reticenze del Codice e apertura a nuove tutele, in Giornale dir. amm., 2010, 1121 ss.; Follieri, Le azioni di annullamento e di adempimento nel codice del processo amministrativo, in www.giustamm.it, 2010.
8 Su cui sia consentito il rinvio a Sandulli, Primissima lettura della Adunanza Plenaria n. 15 del 2011, in Riv. giur. ed., 2011, 490 ss..