Il taylorismo e gli sviluppi dell’igiene industriale
Alle origini del taylorismo
«L’obiettivo principale dell’organizzazione dell’impresa deve essere quello di assicurare il massimo benessere all’imprenditore e insieme il massimo benessere a ciascun dipendente». L’incipit del volume The principles of scientific management di Frederick Winslow Taylor (1856-1915), pubblicato nel 1911, manifesta in modo esplicito il principio di convergenza tra gli interessi dell’azienda e quelli dei lavoratori. È evidente la portata rivoluzionaria di questo approccio teorico e pratico che, a partire dai primi anni Dieci del 20° sec., determina la trasformazione radicale della produzione industriale nella maggior parte dei Paesi occidentali.
La portata innovativa del taylorismo è determinata da due fattori: da un lato il ciclo della lavorazione subisce una razionalizzazione con l’introduzione della catena di montaggio, dall’altro i rapporti di forza tra maestranze e datore di lavoro subiscono una radicale trasformazione. Questo sistema si fonda sull’aumento del profitto attraverso l’automazione produttiva e sul mutamento delle condizioni lavorative della manodopera, cui si riconosce un elevato salario e un riconoscimento dell’efficienza e delle capacità del singolo. Tuttavia, questo processo organizzativo produce alcuni effetti sul piano politico: l’espressione «massimo benessere», che compare nell’incipit, rinvia a un concetto utilizzato dai riformatori sociali a metà del 19° sec. per fornire un tentativo di risposta alle disagiate condizioni delle classi lavoratrici. L’introduzione di un concetto dai riferimenti psicofisici all’interno di un sistema di razionalizzazione promuove una visione rinnovata delle relazioni industriali, fondate sull’unione di capitale e lavoro. L’assenza di conflittualità e, dunque, l’aspirazione alla pace sociale stanno alla base dei principi dell’organizzazione scientifica del lavoro che si fondano sulla coincidenza degli interessi e del benessere dell’imprenditore e del dipendente. L’innovazione tecnologica si profila come soluzione allo scontro sociale.
Questa visione dei rapporti di forza si sviluppa all’interno di un contesto scientifico e culturale transnazionale che tra Otto e Novecento tenta di rinnovare l’ingegneria, fondata sull’interazione tra i saperi delle scienze sociali e della tecnologia.
Il progetto di razionalizzazione del processo produttivo deve essere collocato nel quadro delle elaborazioni concepite nella seconda metà dell’Ottocento dal mondo della riforma sociale, impegnato a rinnovare la società, l’ambiente urbano e la fabbrica. Tra i principali obiettivi del programma riformatore emerge la lotta contro la degenerazione delle città industriali, nei confronti della quale si promuovono numerose inchieste e analisi che forniscono una varietà di soluzioni. Alla realizzazione di queste indagini sociali ed economiche concorrono differenti competenze scientifiche: il medico, l’igienista, l’ingegnere, lo scienziato sociale. Tali competenze sono chiamate a elaborare norme e pratiche di intervento all’interno di istituzioni pubbliche e private nate con lo scopo di fornire strumenti di controllo volti a frenare il conflitto sociale. Questi istituti costituiscono le fondamenta di quanto sarà elaborato in materia del lavoro nel 20° secolo.
Nella seconda metà dell’Ottocento i centri più importanti, che diffondono la cultura scientifica positiva e incoraggiano politiche legislative sul welfare, nascono in Francia, in Germania, in Inghilterra e negli Stati Uniti: all’epoca i più noti sono il Musée sociale di Parigi, la Scuola economica di Londra, i Seminari di scienze di Stato tedeschi, i Collegi economici americani.
In Italia vi sono due sedi molto attive sulle questioni economiche e sociali, la Società Umanitaria di Milano e il Laboratorio di economia politica, fondato da Salvatore Cognetti de Martiis (1844-1901) nell’ambito universitario torinese nel 1893.
Il Laboratorio corrisponde a un’esperienza scientifica e culturale che rappresenta una novità nel panorama culturale italiano dell’epoca poiché esprime il tentativo di coniugare la tecnica con le scienze sociali e, più in generale, con le politiche dei riformatori sociali. Si tratta di un esperimento inedito e la sua unicità è testimoniata da un’operazione accademica straordinaria per quell’epoca: l’inserimento del Laboratorio nell’ordinamento del Regio Museo industriale, istituzione sorta nel 1862 come sede espositiva dell’innovazione e della tecnologia industriale e come luogo di formazione di ingegneri industriali, operando in parallelo con la Scuola di applicazione per gli ingegneri di Torino, dalla cui fusione viene istituito nel 1906 il Politecnico.
L’interazione didattica e scientifica tra Laboratorio e Museo rinvia a un progetto culturale positivista e di riforma sociale che rappresenta il tentativo di sperimentazione del rapporto tra scienze sociali e tecnica e di promozione di un programma scientifico interdisciplinare, volto a riformare la nuova società industriale: le scienze sociali forniscono un sistema di rappresentazione della realtà attraverso inchieste e classificazioni economiche e sociali per definire quantitativamente i disagi provocati dall’industrialismo; la tecnica, invece, elabora strumenti capaci di migliorare le condizioni di lavoro dell’operaio e di modernizzare il comparto industriale.
Fin dai tempi della costituzione del Laboratorio, a partire dall’anno accademico 1894-95, gli allievi ingegneri hanno la possibilità di seguire i seminari e le esercitazioni nell’ambito del corso di economia industriale. L’annessione del Laboratorio al Museo, promossa da Cognetti, segna un momento importante per la storia di entrambe le istituzioni, il cui programma culturale si fonda sullo scambio dei saperi e sull’opportunità offerta agli studenti ingegneri di frequentare le esercitazioni dell’istituto nell’ottica di consolidare l’educazione scientifica attraverso conferenze e discussioni su temi relativi a questioni economiche, di attualità scientifica o pratica e mediante visite ad aziende o istituzioni pertinenti alla vita economica. Questo progetto interdisciplinare si manifesta in particolare nelle pratiche della ricerca: le monografie degli studenti e le pubblicazioni degli assistenti rivelano un preciso interesse per le questioni sociali che riguardano l’organizzazione del lavoro, gli scioperi, il salario, la previdenza, le abitazioni popolari, i trasporti, la municipalizzazione.
Il concetto di un centro di studi per la conoscenza approfondita dei problemi economici e sociali, per la diffusione della cultura scientifica positiva e per la propaganda della legislazione sociale si rafforza con la collaborazione alla rivista «La Riforma sociale», fondata nel 1894 da Francesco Saverio Nitti (1868-1953), diretta in seguito da Luigi Einaudi (1874-1961) e dedicata alle questioni sociali, politiche e istituzionali a cavallo tra Otto e Novecento. La redazione della rivista è costituita dagli stessi membri e soci dell’istituto di Cognetti, con il quale si avvia uno stretto e proficuo rapporto sia sul piano della collaborazione redazionale sia sul piano della ricerca scientifica.
L’interazione tra Laboratorio e Museo industriale rinnova il modo di concepire il sapere relativo al settore industriale e conferma una tradizione culturale formatasi a Torino a metà del 19° sec. in cui i rapporti tra scienza economica e tecnica si fanno sempre più stretti grazie al contributo delle élites accademiche aperte ai metodi pluridisciplinari.
Nella seconda metà dell’Ottocento si profila, dunque, un fenomeno inedito relativo al rapporto tra ingegneria ed economia che si manifesta in modo più evidente in Francia grazie al contributo scientifico dell’ingegnere Pierre-Guillaume-Frédéric Le Play (1806-1882), mentre in ambito italiano si può fare riferimento a due ingegneri piemontesi, Quintino Sella (1827-1884), ministro delle Finanze, e Vilfredo Pareto (1848-1923), laureatosi in ingegneria presso la Scuola d’applicazione di Torino.
Nella fase di costruzione del nuovo Stato unitario gli economisti rivolgono particolare attenzione all’istruzione tecnica, persuasi che lo sviluppo e il progresso industriale dipendano anche da questo tipo di formazione e, quindi, incoraggiano l’organizzazione di un nuovo sistema scolastico in grado di istruire e formare tecnici e operai preparati. Politici come Marco Minghetti (1818-1886) e Luigi Luzzatti (1841-1927) o economisti come Gerolamo Boccardo (1829-1904) e Cognetti sono fautori di questo rinnovamento delle scuole industriali e tecniche.
Sotto questo profilo il Museo industriale risulta essere un inedito modello di didattica per l’interesse nei confronti delle scienze sociali e, in particolare, dell’economia. Gli insegnamenti offerti dall’istituto, infatti, sono multidisciplinari e riguardano materie come l’economia rurale, l’economia commerciale e industriale, il diritto mentre, nella prima fase della sua fondazione, sono tenute lezioni di letteratura italiana, geografia e storia. Con l’istituzione del corso di ingegneria industriale nel 1879, tra gli insegnamenti è inserito il corso di economia industriale e di materie giuridiche, indirizzato ad abilitare alla direzione di opifici industriali, di costruzioni ferroviarie, metalliche, idrauliche e meccaniche. Il promotore principale di questo rinnovamento didattico è il già citato Cognetti impegnato nell’attività didattica dal 1883 fino al 1901, poi sostituito da Einaudi, che manterrà la cattedra al Politecnico fino al 1936.
Dal 1888 al 1897, negli anni di insegnamento di Cognetti, il Museo è presieduto da Domenico Berti (1820-1897), la cui presenza è fondamentale sia per l’aumento di prestigio dell’istituto sia per l’importanza attribuita all’insegnamento dell’economia industriale.
Berti, impegnato sul fronte dell’istruzione tecnica e dell’attenzione al ceto operaio dai tempi dei suoi incarichi politici nei primi governi dell’Italia unita, è una figura chiave per comprendere l’aspetto riformatore della cultura tecnica, poiché è il primo ad affrontare in parlamento argomenti concernenti la legislazione sociale nell’ambito del lavoro (come l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, la regolamentazione degli scioperi, il riconoscimento giuridico delle società di mutuo soccorso, l’assicurazione per la vecchiaia).
I temi dell’istruzione tecnica e della legislazione sociale, promossi da Berti in sede parlamentare, sono presenti nel programma didattico di Cognetti e ciò sta a indicare come quella corrente di liberalismo sociale, indirizzata a promuovere il progetto riformatore nella fase dell’industrializzazione del Paese, informi profondamente la gestione dell’istituto.
Cognetti , infatti, come esponente della scuola positiva della scienza economica, tenta di fornire gli strumenti di lettura e di analisi della modernizzazione produttiva. Il suo contributo e, successivamente, quello di Einaudi, come insegnanti di economia e legislazione industriale, aderiscono ampiamente al progetto di formazione di una nuova élite tecnica e di una cultura dell’innovazione e della produzione. Cognetti rivolge particolare attenzione all’educazione e alla pedagogia tecnico-scientifica e all’abbinamento scienza economica e scienze tecnologiche. Su questi temi egli redige la voce Industria italiana per l’Enciclopedia delle arti e industrie (1885), diretta dagli ingegneri Raffaele Pareto, padre del noto economista Vilfredo, e Giovanni Sacheri, nella quale ribadisce l’obbligo dello Stato liberale di diffondere e sviluppare l’istruzione tecnica attraverso istituti quali il Museo industriale. Cognetti sottolinea l’importanza del ruolo svolto dal Museo per il progresso industriale e per la formazione di una classe dirigente nazionale in grado di gestire l’intero sistema produttivo.
Le linee guida del suo programma relativo allo sviluppo economico nazionale si fondano sull’unione delle scienze esatte e della produzione industriale, sul ruolo centrale dello Stato come mediatore degli interessi generali, sulla formazione di nuove generazioni di tecnici e di una cultura tecnica innovativa.
Nell’ambito del suo programma di insegnamento per il corso d’ingegneria industriale, Cognetti dedica particolare attenzione alla costituzione di un’inedita ‘cultura industriale’. Infatti, non tratta solo gli aspetti più propriamente economici dell’impresa e del capitale, ma affronta anche i problemi sociali e igienici delle imprese, come quelli posti dai mestieri insalubri, dalle malattie degli operai, dagli infortuni sul lavoro, affronta le questioni legate alla responsabilità giuridica degli industriali, alla prevenzione, all’assicurazione contro gli infortuni, alla legislazione sugli infortuni, ai patronati d’assicurazione e di soccorso, alle case operaie.
L’ingegneria sociale nella fase del riformismo giolittiano
Cognetti costituisce un gruppo di ricerca formato da ingegneri (Effren Magrini e Mauro Amoruso) e da economisti come Attilio Cabiati (1872-1950) ed Einaudi, che, oltre a sperimentare nuovi metodi di indagini sull’industria e sul lavoro, promuovono la formazione di una nuova figura professionale e accademica d’ingegnere che comprende i saperi delle scienze sociali e della tecnica.
Come sottolineato in precedenza, gli insegnamenti di Cognetti e di Einaudi prendono in esame la questione del processo produttivo e dell’organizzazione del lavoro, la legislazione e le condizioni del lavoro, l’igiene delle fabbriche. In particolare, è sul tema del lavoro che l’interazione tra Museo e Laboratorio elabora strumenti di intervento volti a modernizzare la fabbrica e a mantenere la pace sociale all’interno del mondo produttivo. Questa elaborazione teorica concepisce una nuova figura professionale che, in realtà, costituisce un’innovazione per la storia del sapere tecnico. Nell’équipe di lavoro fondata da Cognetti merita segnalazione l’attività del suo assistente, Magrini (1876-1926), tra le più interessanti all’interno del Museo e nei primi anni di vita del Politecnico, poiché ricopre un ruolo di cerniera tra i programmi riformatori del Laboratorio e l’esperienza didattica effettuata al Museo, proprio relativamente all’intersezione tra tecnica e riforme sociali. Il suo percorso professionale testimonia il tentativo di trovare nel progresso tecnologico la soluzione della questione sociale.
La sua carriera è articolata e la sua originalità sta nell’aver potuto dedicare i suoi studi all’analisi dei fenomeni dell’industrialismo in settori diversi del mondo industriale: all’esperienza di assistente del Laboratorio di economia politica fa seguito prima quella d’ingegnere sociale come ispettore del lavoro, quindi la pratica e la sperimentazione nell’ambito dell’ingegneria meccanica come direttore presso la Fiat, e infine l’attività di imprenditore in qualità di progettista e produttore di automobili.
Nel corso del suo impegno presso il Museo e il Laboratorio, Magrini elabora gli elementi per la concettualizzazione dell’ingegneria sociale. Si tratta di istituire una figura d’ingegnere inserita nel mondo produttivo, con un ruolo di intermediazione tra l’operaio e l’industriale. Il suo compito è quello di prevenire gli infortuni e le malattie professionali, di occuparsi delle abitazioni degli operai e della previdenza per «rendere sempre più prossima l’unione completa fra il capitale ed il lavoro» (E. Magrini, Le istituzioni patronali e l’ingegneria sociale, 1902, p. 4).
Il contributo scientifico di Magrini si rivela innovativo sia nell’ambito dello stesso istituto sia nel mondo culturale torinese. Egli può affrontare la questione in modo puntuale grazie anche alla ricca biblioteca del Laboratorio che fornisce materiale di studio e strumenti di aggiornamento. I riferimenti del suo lavoro provengono principalmente da pubblicazioni francesi, apparse sulla rivista «Réforme sociale» e riconducibili all’ambiente riformatore del Musée social di Parigi e alla cerchia di allievi di Le Play. Le origini dell’ingegneria sociale sono rintracciabili nell’elaborazione teorica e pedagogica di Le Play, per il quale i principi che muovono l’azione del riformatore o dell’ingegnere sociale riguardano essenzialmente la questione dell’armonia tra capitale e lavoro, con lo scopo di costituire nuovi strumenti di tutela e controllo sociale nell’ambito della previdenza, dell’igiene e dell’idoneità delle abitazioni, della protezione delle donne e dell’infanzia.
L’elaborazione teorica di Magrini si concentra sul rapporto tra operaio e industriale. La sua analisi prende spunto dagli effetti negativi che la trasformazione dei modi di produzione a grande scala ha provocato nell’ambiente di lavoro. L’allontanamento del padrone dall’officina e dal contatto diretto con gli operai ha prodotto uno squilibrio tra questione tecnica e questione sociale. Gli industriali tendono a perfezionare l’industria con nuovi macchinari per abbassare il costo di produzione e migliorare la qualità della merce, senza interessarsi al miglioramento delle condizioni lavorative dei propri operai, ovvero senza favorire case igieniche e ampie, un corretto stile di vita e sostegni previdenziali. Magrini richiama l’industriale al suo principale dovere che concerne la realizzazione di servizi medici e farmaceutici, di casse speciali per gli infortuni e le malattie dei dipendenti, di pensioni, di case per gli operai a buon mercato e di comodi mezzi di trasporto per raggiungere le officine, di scuole di arti e mestieri, di biblioteche circolanti, di scuole di ginnastica.
Nel clima di tensioni sociali d’inizio secolo, «l’unione completa fra capitale e lavoro» dovrebbe essere la spinta che obbliga gli industriali a fondare istituzioni sociali volte a eliminare l’antagonismo tra le classi. In questo contesto la funzione dell’ingegnere sociale all’interno delle istituzioni patronali è quella di gestire i conflitti tra imprenditori e maestranze, quindi di mediare il rapporto tra industriali e operai. Istruito in economia e legislazione industriale, nonché sulle questioni delle assicurazioni e sulle cooperative, il suo ruolo è al di sopra delle parti nella decisione di intervenire sul salario, sul numero delle ore di lavoro e sulla creazione di istituzioni sociali, sull’igiene nel lavoro, sugli infortuni e le malattie professionali.
Il compito dell’ingegnere sociale è quello di elaborare un piano di riforme partendo da inchieste preliminari e tenendo conto del ‘punto di vista sociale’ dell’ambiente in cui intende realizzare il suo programma di rinnovamento. A supportare questo programma di interazione tra capitale e lavoro, è indispensabile la presenza di una moderna élite industriale che applichi le teorie e l’intermediazione dell’ingegneria sociale negli stabilimenti a vantaggio delle maestranze, a loro volta disposte ad accettare queste istituzioni che possono contribuire al loro benessere economico, intellettuale e morale.
Tale elaborazione teorica, comprendente il concetto di ‘pace sociale’, è recuperata da Einaudi nell’ambito della didattica del Politecnico. Le lezioni di economia politica e legislazione industriale indirizzate agli allievi ingegneri nell’anno accademico 1909-10, e pubblicate sotto forma di manuale, costituiscono una fonte inedita a questo riguardo (L. Einaudi, Lezioni di economia politica e legislazione industriale, [dettate nel] R. Politecnico di Torino, stenografate da C. Benevolo, 1910).
Il testo di Einaudi si apre con un capitolo dedicato ai compiti dell’economia politica, intesa come scienza che studia le leggi della ricchezza, benché a quell’epoca tale disciplina fosse ancora in stato di formazione e non possedesse precisi strumenti di indagine per la sperimentazione come nel caso delle scienze fisiche. Secondo Einaudi, questo carattere scientifico della disciplina non comprende il compito di ‘dare consigli pratici’: egli attribuisce all’industriale, al tecnico, all’ingegnere, il buon senso e l’abilità nella pratica per la risoluzione dei problemi. Tra i compiti che il moderno imprenditore deve svolgere, Einaudi inserisce quello relativo al suo impegno sociale e alla promozione della figura dell’ingegnere sociale, secondo l’elaborazione di Magrini.
Se in un contesto di piccola impresa i rapporti tra imprenditore e maestranze si fondano su modelli paternalistici di tipo familiare, la presenza di migliaia di operai in una fabbrica modifica le relazioni industriali, fondate sulla necessità di negoziare con i rappresentanti delle associazioni e delle leghe. Secondo Einaudi, l’interesse principale dell’industriale sul piano economico è quello di mantenere buoni rapporti con gli operai mediante un’efficace organizzazione del lavoro aziendale. L’economista, infatti, sottolinea come il successo di un’azienda dipenda dalla cordialità tra imprenditore e dipendenti: gli attriti e l’avvicendarsi continuo di operai sono elementi di interruzione del lavoro e, dunque, dannosi per un’industria la cui produttività dipende da un sistema di mercato con regole ferree e tempi fissi.
All’interno di quest’analisi sulla necessità di pacifiche relazioni industriali, Einaudi si fa sostenitore della tesi secondo cui fidelizzare l’operaio alla fabbrica è un compito fondamentale e ciò può avvenire non solo per mezzo di associazioni miste di lavoratori e imprenditori, ma attraverso la creazione di casse di soccorso per malattia e per vecchiaia e la costruzione di abitazioni operaie. A queste istituzioni intermedie si affianca la figura dell’ingegnere sociale, il cui compito è quello di mediare i conflitti del lavoro, di organizzare la produzione e di essere l’anello di congiunzione tra le diverse professionalità implicate (sociologi, medici, architetti e così via).
Se sul piano teorico e didattico, il gruppo di studiosi, formatosi nell’ambito del Laboratorio e del Museo industriale, pone le basi scientifiche per la costituzione di una nuova disciplina in grado di formare giovani leve di ingegneri industriali (lo stesso Adriano Olivetti sarà allievo di Einaudi al Politecnico), sul piano istituzionale gli esiti sono diversi.
Dopo la scomparsa di Cognetti, avvenuta nel 1901, il Laboratorio intraprenderà altri percorsi, nell’ambito dei quali la questione sociale, inizialmente al centro dei suoi interessi, non troverà più la sua collocazione originaria.
Questa trasformazione del progetto originario del suo fondatore corrisponde anche alla fase del tramonto del liberalismo sociale che ha sempre sostenuto una posizione di rifiuto dell’identificazione del liberalismo politico con il liberismo economico, sostenendo l’urgenza di vaste riforme economiche e sociali. All’inizio del Novecento, la svolta liberista concentra l’attenzione sulla difesa della libera iniziativa contro ogni forma di protezionismo e di statalismo e per la classe dirigente liberale la questione sociale diventa uno strumento di controllo delle rivendicazioni dei ceti operai.
Le aspettative di attribuire agli ingegneri una funzione e un ruolo innovativi in quanto figure legate allo scambio disciplinare sono disattese con la costituzione del Politecnico (1906), mediante la fusione del Museo industriale e della Scuola d’applicazione a costituire un unico centro di formazione tecnica, avviando un processo che tende a separare le discipline e a promuovere una professionalità sempre più specialistica.
In questo contesto è comprensibile la progressiva scissione del Laboratorio dal Politecnico. Tale distacco segna la formazione di una cultura tecnica attenta all’organizzazione del lavoro e alla razionalizzazione produttiva, senza però confrontarsi con le altre discipline economiche e sociali. La definizione di un sapere che si fonda solamente sugli aspetti tecnico-scientifici allontana qualsiasi possibilità d’interconnessione con altri saperi, mettendo in secondo piano le scienze sociali, come l’economia politica. I mutamenti del sistema accademico e la trasformazione del mondo del lavoro, sempre più attento alla produzione, hanno contribuito a mettere in crisi questo sistema di sapere. Con la separazione del Museo e del Laboratorio scompare quell’anomalia d’inizio secolo per cui i medici e gli economisti, più degli architetti e degli ingegneri, si occupavano di problemi di abitazioni operaie e di crescita della città. L’unica realizzazione pratica di queste ricerche tra il sociale, l’economico e il tecnologico è l’allestimento della Mostra permanente d’Igiene industriale nel 1911, con sede nel nuovo Politecnico, promossa dagli ingegneri Magrini e Riccardo Bianchini per la divulgazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro (C. Accornero, Il governo del territorio. Istituzioni, comunità e pratiche sociali a Torino (1861-1926), nuova ed. riveduta 2011).
Con l’avvento della Prima guerra mondiale il progetto di riforma della società tramonta di fronte alle nuove esigenze industriali e di mercato e anche la figura dell’ingegnere sociale perde la sua connotazione pluridisciplinare per assumere un profilo specialistico legato all’introduzione della razionalizzazione industriale che rivoluziona l’intero sistema produttivo e sociale. Nonostante ciò, come emergerà nelle pagine successive, la questione della lotta sociale all’interno della fabbrica e, dunque, del consenso dei dipendenti, studiata e analizzata dall’ingegneria sociale, resta una costante nei processi di modernizzazione industriale.
‘Taylorismo all’italiana’ negli anni tra le due guerre
Quando Taylor scompare nel 1915 la sua teoria dello scientific management è ampiamente diffusa, grazie anche alle applicazioni di Henry Ford (1863-1947) nel suo complesso industriale, divenuto un modello internazionale. In ambito europeo la ricezione di Taylor avviene nel 1911, tramite l’ingegnere Henry Le Châtelier, traduttore della sua opera in Francia e tra i primi ad applicare i principi dell’efficienza a industrie statali durante il conflitto mondiale.
In Italia l’esperienza bellica è decisiva per l’introduzione dei metodi scientifici dell’organizzazione del lavoro e per lo sviluppo tecnologico. La Fiat è la prima azienda a seguirne i precetti nel 1912 con la fabbricazione del primo modello di autovettura costruita in serie (la tipo Zero).
Tuttavia, la situazione sociale e politica del dopoguerra condiziona le scelte delle élites industriali nell’affrontare i nuovi metodi per la direzione aziendale. La trasformazione produttiva non è vista solo sotto il profilo tecnico, ma anche sotto quello politico: i nuovi criteri direzionali hanno come obiettivo non solo l’alta produttività, ma il superamento della lotta di classe e la collaborazione tra capitale e lavoro. Come già sottolineato, tali questioni avevano costituito l’asse portante delle teorie di economisti e ingegneri del 19° secolo. La ricerca del consenso e la fidelizzazione dei lavoratori diventano fattori determinanti per il progresso economico. I principi tayloristici, infatti, considerano l’operaio come individuo, sviluppando al massimo la sua personalità e la sua efficienza e, dunque, l’intreccio tra razionalizzazione capitalistica e partecipazione operaia si fonda principalmente sul ‘fattore umano’, dal quale la produzione e le buone condizioni ambientali della fabbrica non possono prescindere.
Il contesto italiano dei primi anni Venti si presenta estremamente complesso da diversi punti di vista: il cosiddetto biennio rosso e l’ascesa al potere del fascismo mettono in crisi la classe dirigente liberale e il mondo industriale che, di fronte a una realtà urbana molto complessa, sono indotti a scelte conservatrici e di chiusura rispetto all’organizzazione del lavoro.
L’atteggiamento paternalistico degli imprenditori e la difficoltà di realizzare una modernizzazione di tutto il sistema industriale e infrastrutturale nazionale sono le condizioni più rilevanti che impediscono un’applicazione integrale del modello americano di organizzazione del lavoro. In merito a quest’ultimo si possono evidenziare due forme di rielaborazione e di interpretazione distinte sul piano istituzionale e su quello delle dinamiche complesse delle relazioni industriali negli anni tra le due guerre.
La prima concerne l’organizzazione culturale impegnata a diffondere e pubblicizzare i principi tayloristici con l’obiettivo di promuovere un’egemonia dei tecnici all’interno degli organismi dello Stato fascista, in cui il personale dirigente è l’anello di congiunzione tra ceto politico e industriali; la seconda rivela come nel caso italiano l’applicazione dei concetti dello scientific management non sia stata integrale, ma discontinua nelle diverse esperienze industriali, dimostrando come la borghesia imprenditrice del nostro Paese abbia accolto e rielaborato solo alcuni aspetti del taylorismo fornendo esempi differenti di applicazione, come nel caso della Fiat e dell’Olivetti.
Il fascismo comprende il valore propulsivo del taylorismo come potente strumento di controllo del mondo produttivo e dell’amministrazione statale: dal punto di vista istituzionale, l’introduzione di enti pubblici preposti all’organizzazione di intere branche produttive, al welfare, alla propaganda e alle attività ricreative contribuisce alla creazione di uno Stato pianificatore e imprenditoriale che controlla dal centro ogni attività periferica. Gli esiti di questa politica di razionalizzazione deludono le aspettative, come nel caso del cosiddetto mito del ‘taylorismo amministrativo’ concernente la modernizzazione degli ambienti e del lavoro d’ufficio, che si afferma parzialmente e solo in settori dalle peculiarità tecnologiche, come quello postale-telegrafico.
Inoltre, rispetto a quanto predisposto dalle gerarchie, non è raro il verificarsi di situazioni anomale all’interno di questi enti che diventano strumento di carriera e di tutela delle professionalità e degli interessi di categoria, trovando legittimazione e rappresentanza nella pubblica amministrazione. Ciò si è potuto constatare in occasione della creazione dell’Ente nazionale italiano per l’organizzazione scientifica del lavoro (ENIOS), costituito nel 1926 su proposta della Confederazione fascista dell’industria, molto attenta ai principi tayloristici, ma soprattutto interessata a consolidare le relazioni tra regime e borghesia industriale e a esercitare la propria influenza nell’ambito di questo settore decisivo per lo Stato fascista. L’ENIOS, infatti, si pone come un ente organizzativo e di coordinamento delle industrie, diventando così l’anello di congiunzione tra i programmi infrastrutturali dello Stato e le ambizioni di una borghesia industriale, consapevole del compito difficile che le spetta nell’affrontare la recessione degli anni Trenta.
Al vertice di questo organismo vi è l’ingegnere Francesco Mauro, coadiuvato nella segreteria da Gino Olivetti, impegnati principalmente a svolgere un’intensa opera di propaganda presso le varie confederazioni e istituzioni private e pubbliche. Se da un lato il regime fascista offre una struttura scientifica e amministrativa di riferimento, dall’altro la realtà industriale italiana si presenta contraddittoria e squilibrata e manifesta lentezza nel recepire nuovi modelli d’innovazione. Il programma dell’ENIOS per l’applicazione dell’organizzazione scientifica del lavoro mette al centro il processo di standardizzazione e di unificazione dei materiali industriali con l’obiettivo di intensificare la produzione, di diminuire il tempo della lavorazione e il costo dell’utensileria e di parti di macchine.
A questo proposito, nel 1931 si costituisce l’Ente nazionale per l’unificazione dell’industria, con un’attività concentrata essenzialmente sull’elaborazione di tabelle unificatrici anziché sulla questione della lavorazione in serie. Tuttavia, questa normativa, imposta dall’alto, ma anche dalle esigenze del mercato internazionale, fa emergere un atteggiamento di diffidenza da parte del mondo imprenditoriale, poco disponibile a condividere i risultati della produzione, a diffondere i propri prototipi per timore della concorrenza e poco incline ad adattarsi alla nuova nomenclatura. Tale reazione dimostra come il percorso della razionalizzazione non sia stato così lineare e come il ‘fordismo in fabbrica’, rappresentato dalla catena di montaggio, sia stato interpretato non sul piano del profitto e della quantità produttiva, quanto sulle qualità tecniche del prodotto, come elemento distintivo rispetto al mercato concorrenziale.
In merito all’applicazione dell’organizzazione industriale il quadro nazionale si presenta tutt’altro che compatto e offre un’eterogeneità di esperienze a seconda del tipo di produzione. Negli anni tra le due guerre gli esiti più convincenti sono rappresentati dal settore meccanico che permette l’applicazione della produzione in serie. Il modello tayloristico si adatta alle variazioni tecnologiche e alle pratiche operative di ogni singola azienda e quindi assume declinazioni differenti. Nel panorama produttivo nazionale la Fiat e l’Olivetti rappresentano gli esempi più rilevanti dal punto di vista dell’innovazione.
Nel caso della fabbrica torinese l’interesse per il sistema di produzione fordista nasce in conseguenza di una serie di viaggi d’istruzione negli Stati Uniti, in particolare di una visita svolta da parte di un gruppo di ingegneri nel 1926. Da questa esperienza la direzione assume alcune linee guida per indurre l’aumento della produttività e per ridurre ulteriormente i costi del lavoro. È significativa la scelta di applicare il sistema Bedaux, che rappresenta un metodo di retribuzione a cottimo, elaborato dall’ingegnere meccanico francese Charles Eugène Bedaux (1887-1944), il quale propone una versione semplificata dell’organizzazione tayloristica costosa e complessa. Rispetto al modello americano che rivoluziona l’intera attività aziendale, dall’amministrazione ai reparti, il sistema francese prevede un’analisi dei tempi di lavorazione senza intervenire sulle tecniche e sui metodi. Lo scopo di aumentare la produttività tralasciando il settore dirigenziale si fonda sul controllo del rendimento individuale degli operai spinti a un impegno costante in officina, obbligando a una collaborazione stretta tra questi ultimi e la direzione, ulteriormente rafforzata dalla creazione di istituzioni previdenziali come la cassa mutua interna, intesa quale strumento di fidelizzazione e di controllo. Nonostante ciò, il sistema a cottimo crea malcontento e gli stessi sindacati fascisti polemizzano a tal punto che nel 1934 il comitato corporativo centrale emana una serie di direttive per regolamentare il cottimo all’interno delle aziende.
L’Olivetti di Ivrea è un altro esempio di applicazione dell’organizzazione scientifica del lavoro. Al rientro da un viaggio negli Stati Uniti nel 1925, Adriano Olivetti (1901-1960) elabora un adattamento e una trasformazione delle tesi tayloriste, coinvolgendo anche gli aspetti sociali. Tra il 1926 e il 1932 l’industria eporediese è protagonista di una trasformazione che concepisce l’impresa nella sua globalità tramite una pianificazione razionale concepita dall’alto, dalla direzione aziendale. Sono anni in cui Olivetti elabora un concetto innovativo della direzione d’impresa, che si attuerà pienamente nel secondo dopoguerra, rappresentata dalla figura di un nuovo capo d’azienda la cui prerogativa è quella di formare una ‘comunità di fabbrica’, in cui ognuno svolge un incarico qualificato sia sul piano tecnico sia su quello intellettuale.
La grande crisi avvenuta nel 1929 mette a dura prova il programma dell’ENIOS e induce a sperimentare nuove strategie organizzative in risposta all’instabilità dei mercati. Le conseguenze, che si riflettono sul processo di organizzazione del lavoro, determinano la riduzione non solo della manodopera, ma anche dei cicli di lavorazione a lunga scadenza e di forti investimenti a capitale fisso. Nel corso di questa congiuntura la pianificazione del lavoro è ostacolata dalla precarietà delle commesse e, dunque, si profila un ridimensionamento del rapporto uomo-macchina nell’ambito dei reparti di fabbrica, si diffonde nuovamente il sistema a cottimo elaborato da Bedaux, aumenta il controllo padronale nel processo produttivo.
Ciò che emerge in questo frangente, è la debolezza che caratterizza l’organizzazione scientifica del lavoro, espressa dal divario tra le teorizzazioni delle élites tecniche e l’applicabilità effettiva a grande scala della razionalizzazione produttiva. Il programma di aumentare i redditi industriali grazie a una ferrea organizzazione scientifica del lavoro, volta a elevare il plusvalore e a salvaguardare l’integrità psicofisica degli operai, incontra difficoltà nel realizzarsi di fronte a un sistema produttivo debole e contradditorio.
Questa situazione si ripercuote sulla funzione dell’ENIOS, che dal 1932 si trasforma in un ente burocratico della confederazione industriale, svuotato delle sue idealità iniziali e della sua funzione di organismo propulsore, mentre nel contempo emerge la tendenza alla creazione di centri di studi alternativi, con l’intento di formare una nuova élite tecnocratica, come il GAR (Gruppo Amici della Razionalizzazione), il CISA (Centro Italiano Studi Aziendali), l’ORGA (ORGanizzazione Aziendale) nell’ambito amministrativo, e l’ANEOP (Associazione Nazionale Esperti Organizzazione della Produzione), costituita dall’ingegnere torinese Mario Fossati, fondatore di un istituto-laboratorio dedicato alla divulgazione dell’organizzazione scientifica della produzione applicata a vari settori industriali, dal commercio all’agricoltura.
Assumendo caratteristiche burocratiche e divenendo lo strumento di controllo della politica industriale fascista nei confronti del mondo produttivo, l’ENIOS perde i suoi contenuti originari e nel momento in cui aderisce alla propaganda del regime tralascia le analisi sui problemi dell’organizzazione scientifica del lavoro, con la conseguente perdita del consenso e del sostegno del mondo imprenditoriale.
Tuttavia, vale la pena segnalare che, all’ufficialità delle istituzioni e degli organismi corporativi che si costituiscono come sede per la rappresentazione e per l’interpretazione ortodossa della razionalizzazione, corrisponde una realtà diversa e contraddittoria.
Nel 1931 la rivista mensile dell’Azienda elettrica municipale di Torino, organo rivolto ai suoi dipendenti, pubblica un estratto di un volume dedicato all’organizzazione scientifica del lavoro, intitolato L’arte di dirigere le officine del professor Luigi Lavagnolo. È significativo che un periodico aziendale pubblichi un testo ricco di spunti critici e polemici in cui l’autore mette in rilievo l’importanza del fattore umano nel processo di razionalizzazione che non deve essere considerato unicamente come una tecnica volta al rendimento e al profitto, ma anche come uno strumento per il miglioramento del benessere dell’uomo. In questo senso il valore di benessere è inteso come giustizia sociale unita alla competenza tecnica, per cui l’organizzazione scientifica del lavoro risulta «un’arte di saper ottenere, col minimo sforzo, con la rimunerazione più alta possibile e nelle migliori condizioni di lavoro, la produzione di ricchezze che devono essere ripartite bene e largamente fra gli uomini» (L. Lavagnolo, Arte di dirigere le officine, 1932).
Negli anni tra le due guerre, dunque, il taylorismo vive in Italia una stagione contraddittoria, di entusiasmi affievoliti, di diffidenza e di moderati convincimenti. Soprattutto, si sviluppa la tendenza ad adattare la razionalizzazione a ciascuna situazione produttiva, cogliendo solo gli aspetti che più si adeguano al contesto di ogni singola impresa.
Il ‘taylorismo dal volto umano’ nel secondo dopoguerra
Alla fine del secondo conflitto mondiale, indipendentemente dalle modalità di applicazione, il paradigma fordista è a pieno titolo inserito nella mentalità imprenditoriale e in quella tecnico-scientifica ed è divenuto un patrimonio i cui principi indirizzano le scelte produttive in molti settori industriali. È sufficiente osservare, ad es., come negli stabilimenti piemontesi l’appropriazione e l’applicazione dell’organizzazione scientifica del lavoro raggiunga i massimi livelli, anche nella gestione dei servizi e delle officine. Nel 1955 la produzione della Fiat 600 stabilisce il passaggio definitivo al fordismo, convalidato nel 1957 con il modello della nuova 500, inaugurando così la fase della massificazione del trasporto privato e contribuendo a costruire l’immagine di Torino città fordista e laboratorio sociale e politico.
A questo proposito nell’area piemontese si verifica uno degli esempi più interessanti del modello taylorista. L’azienda Olivetti si distingue per l’innovazione tecnologica e l’avanguardia dei prodotti, per il modello di imprenditorialità, di gestione aziendale e per l’impostazione delle relazioni industriali, improntate a una forma di paternalismo applicato a innovative pratiche di welfare e sindacali. Nel 1960, nell’ambito di un congresso dedicato al Progresso tecnologico e la società, Luciano Gallino, assunto come ricercatore sociale da Olivetti nel 1955, interviene con una relazione dedicata al progresso tecnologico dell’azienda sotto il profilo sociologico, analizzando il rapporto tra ciclo lavorativo, forza lavoro, qualifiche e retribuzioni (L. Gallino, Progresso tecnologico ed evoluzione organizzativa negli stabilimenti Olivetti, 1946-1959: ricerca sui fattori interni di espansione di un’impresa, 1960).
Ciò che emerge nel quadro delle attività promosse da Olivetti, è l’ambizioso progetto di umanizzazione del lavoro operaio, il cosiddetto taylorismo dal volto umano (definizione di Gallino), che tende a valorizzare le capacità del dipendente. Tra gli anni Venti e Trenta un gruppo di giovani ingegneri, assunti da Olivetti per applicare i criteri scientifici dell’organizzazione del lavoro, avevano elaborato il concetto di ‘allenatore’, figura volta ad attenuare il meccanicismo del ciclo lavorativo: le prestazioni di un operaio venivano assunte come modello dagli altri lavoratori per determinare ritmi e metodi già sperimentati e, dunque, ripetibili in serie.
È fuor di dubbio che il tipo di produzione e di prodotto leggero e pulito dell’impresa eporediese, a scala più ridotta rispetto all’industria automobilistica, presenti un livello di fatica inferiore e permetta più facilmente la razionalizzazione del lavoro, raggiungendo con meno difficoltà elevati risultati produttivi.
D’altra parte, il sociologo francese, Georges Friedmann (1902-1977), critico del taylorismo, i cui lavori vennero pubblicati per i tipi delle Edizioni di Comunità, a conferma dell’ampia visione culturale dell’imprenditore, stima la fabbrica Olivetti la meno alienante nel contesto europeo. Al centro del progetto olivettiano, infatti, si colloca un apparato assistenziale per il benessere psicofisico dei dipendenti, come la creazione negli anni Quaranta del Centro di psicologia, effettuata con la collaborazione di Cesare Musatti (1897-1989), invitato insieme ad altri intellettuali a contribuire allo sviluppo dell’azienda. Il progetto di Olivetti abbina all’efficienza dell’impresa, che realizza profitti, buoni salari e un positivo impatto sul territorio, la concezione di una fabbrica come strumento di diffusione di cultura, di bellezza e di qualità della vita.
Nella fase del cosiddetto miracolo economico, la connessione stretta tra progresso tecnologico e sviluppo capitalistico permette il raggiungimento di elevate prestazioni e di successi sul piano del profitto. Malgrado ciò, le prime avvisaglie della crisi del taylorismo si avvertono nell’ambito tecnico con l’introduzione dell’automazione dipendente dall’elettronica e dall’informatica. Anche sul piano sociale e politico emergono forti criticità, in particolare a partire dalla metà degli anni Sessanta per raggiungere l’apice nella fase del cosiddetto autunno caldo. L’organizzazione scientifica del lavoro nelle fabbriche accresce il senso di frustrazione dell’operaio provocando fenomeni di disagio, malumori che si esprimono in forma di proteste, scioperi e assenteismo.
Con il riconoscimento dello Statuto dei lavoratori nel 1970 e il contributo del mondo sindacale attraverso inchieste e statistiche, si pone all’attenzione dell’opinione pubblica e della politica la questione cruciale relativa alla salute in fabbrica e agli ambienti di lavoro. Non si tratta più dell’igiene sociale e dell’infortunio sul lavoro che, a partire dalla metà dell’Ottocento, erano stati i temi principali del mondo riformatore, rielaborati negli anni del fascismo con la sperimentazione della psicotecnica.
Tra gli anni Sessanta e Settanta la tutela della salute nell’ambiente di lavoro si colloca al centro delle politiche sindacali ed è oggetto delle contrattazioni tra le diverse categorie. Sono gli anni che corrispondono alla rottura rispetto al modello dell’imprenditore paternalista che elargisce provvidenze dall’alto: le rivendicazioni e la propositività della classe operaia innescano una serie di innovazioni sul piano delle relazioni industriali e introducono nuove forme di negoziazione. Anche l’ingresso di nuovi soggetti professionali, definiti tecnici della salute, contribuisce al rinnovamento e al ripensamento dell’ambiente industriale.
Nel 1961, infatti, entrano a far parte della Camera del lavoro di Torino assistenti sociali, medici, periti chimici, ingegneri, a seguito della denuncia degli operai dell’azienda milanese di prodotti farmaceutici Farmitalia, da cui scatta un’indagine da parte del sindacato chimico sulla situazione di nocività ambientale.
Attraverso un’analisi specifica, basata anche su una serie di interviste ai lavoratori, emerge un quadro particolareggiato dell’ambiente lavorativo della fabbrica e dell’enorme bagaglio di esperienze degli operai intervistati. Da questa indagine derivano due importanti effetti: le rivendicazioni per il miglioramento dell’ambiente di lavoro per il futuro contratto dei chimici e un convegno dedicato alla salute dei lavoratori di Farmitalia nel 1961.
Questi fatti incoraggiano e favoriscono l’avvio di nuove esperienze, come la Quinta lega Mirafiori realizzata qualche anno più tardi, il cui modello sarà di riferimento per le altre vertenze a scala nazionale sulle questioni di nocività ambientale. Inoltre, nel 1969 avviene il primo sciopero generale unitario sui problemi della salute e nel 1972 le tre confederazioni, CGIL, CISL e UIL, organizzano a Rimini una conferenza nazionale sulla tutela della salute nell’ambiente di lavoro e sulla salvaguardia psicofisica dei lavoratori. Le lotte e le contrattazioni sindacali permettono di sviluppare strumenti di analisi e di interventi con caratteristiche nuove rispetto al passato, grazie alla costituzione di organismi quali il Centro ricerche e documentazione rischi e danni da lavoro (della Federazione CGIL-CISL-UIL), la rivista unitaria «Medicina dei lavoratori» e una dozzina di Centri regionali e provinciali di lotta contro la nocività. La creazione di questi centri permette l’aggregazione di intellettuali e specialisti (tecnologi, chimici, medici del lavoro, psicologi del lavoro), impegnati nella formazione tecnica e politica di operai e sindacalisti coinvolti nel problema dell’ambiente di lavoro.
Oltre il taylorismo
A seguito della mobilitazione sindacale e operaia e dell’attività scientifica dei tecnici della salute, si avvia, dunque, un processo autonomo rispetto alle decisioni dei vertici aziendali, in cui si elabora un percorso indipendente sulle questioni della salubrità della fabbrica e, più in generale, della riforma sanitaria a essa connessa. Lo sviluppo di questa linea programmatica corrisponde a un tentativo interessante di creare una nuova cultura basata sull’assunzione di responsabilità in contrasto con l’atteggiamento passivo legato alla pratica della delega.
Uno dei medici più impegnati sul campo della medicina del lavoro, Ivar Oddone (1923-2011), individua nell’intuizione gramsciana di cultura un percorso da seguire. Secondo Gramsci, evidenzia Oddone, creare cultura
non significa solo fare individualmente delle scoperte originali; significa anche e specialmente diffondere criticamente delle verità già scoperte, ‘socializzarle’ per così dire, e pertanto farle diventare base di azioni vitali, elemento di coordinamento e di ordine intellettuale e morale (I. Oddone, Torino: il processo di conquista di una linea autonoma, «Quaderni di rassegna sindacale», gennaio-febbraio 1971, 28, p. 16).
Il trasferimento delle questioni di organizzazione della fabbrica, dei saperi formatisi all’interno degli ambienti produttivi, dei problemi della salute nella società ha una portata rivoluzionaria. Scienziati sociali e sindacato rimettono in discussione il sistema capitalistico con il tentativo di superare un modello industriale che nel decennio 1973-83 entra fortemente in crisi a tal punto da chiudere definitivamente un’epoca non solo dal punto di vista tecnologico.
Nel contesto produttivo italiano il sistema dell’organizzazione scientifica del lavoro ha prodotto due forme di cultura: una relativa al mercato, l’altra concernente la produzione (A. Michelsons, I nuovi imprenditori a Torino. Tra innovazione tecnologica e progetto sociale, «Piemonte vivo», 1987, 4, pp. 44-49). La prima ha condizionato pesantemente le scelte imprenditoriali ed è stata la tendenza prevalente nel corso del 20° sec., caratterizzata dalla valorizzazione del profitto e dalla produzione di massa, collocando in secondo piano gli aspetti più innovativi del taylorismo, come la questione del fattore umano e il valore delle competenze. La seconda, invece, proviene da una tradizione, testimoniata nelle pagine precedenti, che pone al centro le prerogative della professionalità, del lavoro e della tecnica. Nel corso del tempo si è formato così un patrimonio industriale costituito di avanzate capacità tecnologiche e innovative che sono il risultato del contributo delle istituzioni scientifiche, sorte a metà dell’Ottocento, del savoir-faire imprenditoriale, delle competenze tecniche frutto di un sistema scolastico formativo le cui origini risalgono all’epoca preunitaria, grazie all’impegno e alle intuizioni di scienziati come Carlo Ignazio Giulio (1803-1859).
Il metodo taylorista ha obbligato il mondo produttivo a ripensare l’organizzazione dei tempi e degli spazi della fabbrica e ha persuaso generazioni di industriali, politici, tecnici-intellettuali dell’infallibilità della tecnica e della sua vocazione a risolvere i problemi della società contribuendo al suo benessere. Non si può non constatare il paradosso di questi principi razionalizzatori in cui profitto ed efficienza possono contenere i valori del bene comune e della solidarietà sociale. Bisogna tener conto di questa contraddizione per comprendere l’origine della crisi del capitalismo a partire dagli anni Settanta. Da un lato, lo sviluppo delle tecnologie elettroniche e informatiche ha contribuito a modificare radicalmente il modo tradizionale di lavorare; dall’altro, le rivendicazioni salariali e una maggiore presa di coscienza sulle condizioni della salute in fabbrica hanno evidenziato la necessità di estendere un sistema di welfare a tutta la collettività.
Sul piano politico e sociale c’è un nodo strategico che nel corso del Novecento è stato il filo rosso per eccellenza dei processi tecnologici e del saper organizzare: è la questione del consenso e della fidelizzazione dei lavoratori, che rinvia alle elaborazioni del mondo riformatore del secolo precedente. Su questo aspetto il taylorismo e la sua forma più pragmatica di applicazione, il fordismo, hanno posto le basi dei principi dell’organizzazione scientifica del lavoro, la cui riuscita sta proprio nell’ottenere una partecipazione convinta di tutti i dipendenti. Questa necessità di adesione è l’aspetto più complesso che i principi di Taylor hanno lasciato in eredità, in quanto mettono al centro del processo produttivo il fattore umano. Eredità che lascia aperti alcuni interrogativi sul ruolo della tecnica nell’epoca postfordista, chiamata a fornire soluzioni per contribuire al progresso e al benessere della società e nel contempo a difendere la sua autonomia rispetto alle necessità di mercato e alle richieste della politica.
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L. Lavagnolo, Arte di dirigere le officine, Torino 1932.
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I. Oddone, Torino: il processo di conquista di una linea autonoma, «Quaderni di rassegna sindacale», gennaio-febbraio 1971, 28, pp. 15-32.
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