Il teatro frammentato
Il teatro nella società del rischio
Osservare il teatro di questo inizio secolo vuol dire rivolgere lo sguardo, innanzitutto, oltre i confini del palcoscenico, o meglio oltre quel limite spaziale che, secondo un luogo comune, definisce l’ambito di tale genere di spettacolo. In questi ultimi anni, come in tutti i grandi momenti di rivoluzione e di criticità della società, il teatro è tornato a essere in stretto contatto con le vicende quotidiane degli uomini, con i conflitti individuali e collettivi; si è riproposto come luogo di riunione della città, spazio di messa in discussione di idee e concetti, di conflitti e tensioni. La nostra riflessione sulla particolare vitalità della scena contemporanea può avere come punto di partenza alcune riflessioni di un noto sociologo tedesco, Ulrich Beck, che ha definito il nostro attuale ambito collettivo come «società del rischio» (Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, 1986; trad. it. 2000). La sua analisi è puntuale e quanto mai adatta a comprendere il rinvigorirsi di certe forme di comunicazione come il teatro. Se il rischio, sostiene lo studioso, era nella società capitalista un dato da tener d’occhio, da controllare e dominare al fine di debellarne le potenzialità, oggi è un fattore dominante e incalcolabile; e quindi più che riflettere sulla quotidiana gestione dei problemi economici e politici del pianeta appare ormai necessario affrontare i veri interrogativi che riguardano le possibili conseguenze di eventi inattesi, di capovolgimenti climatici e catastrofi ambientali, di attacchi terroristici, di diffusioni di malattie delle quali non si conosce ancora la cura. Il mondo odierno ridefinisce continuamente i pericoli che lo minacciano, e questa dimensione ci conduce a una riflessività dell’incertezza che domina tutte le nostre azioni, facendo sì che la nostra quotidianità sia oggi un repertorio di timori, paure e conseguenti speranze oppure illusioni. E se, come afferma il sociologo, il rischio separa, esclude, stigmatizza, viene fatto di pensare che proprio la generale atmosfera di insicurezza messa in moto da tali dinamiche crea per reazione l’esigenza di moltiplicare le forme di incontro, di dialogo comune, di vicinanza, di condivisione.
Il teatro di oggi è senza dubbio il collettore di queste tensioni e raccoglie tutte le esigenze umane scaturite dalle zone di fragilità. E proprio la sala teatrale risulta il luogo in cui sempre più la società si raccoglie per ritrovarsi a riflettere sulla sua ormai diffusa e articolata instabilità.
È interessante proseguire nell’analisi di alcune affermazioni di Beck, a partire dalla sua idea che «la società industriale affermandosi si destabilizza» (p. 20). Il sociologo tedesco specifica che «il quadro strutturale della società industriale si basa su una contraddizione tra il contenuto universale della modernità, diritti civili, uguaglianza, differenziazione strutturale, metodi argomentativi e scetticismo, e la struttura delle sue istituzioni in cui questi principi possono essere realizzati solo in forma parziale e selettiva» (p. 20). Fuori quindi da un ottimismo positivistico ormai del tutto inattuale e proiettato in un futuro radioso in cui le contraddizioni sarebbero appianate proprio con l’allargamento della produzione e del mercato, e ormai coscienti che lo sviluppo industriale va nel senso opposto (soprattutto per quello che riguarda l’ambiente e le condizioni economiche della maggior parte delle persone), abbiamo acquisito un’idea di complessità che finisce per produrre quello che Beck definisce un «nuovo smarrimento» (p. 14). Questo sentimento è senz’altro rafforzato dall’onda lunga della postmodernità, ed è corroborato dalla tanto discussa messa in crisi (già indicata da Jean-François Lyotard in La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, 1979; trad. it. 1981) delle ‘metanarrazioni’, dallo sgretolarsi dei grandi contesti unitari, politici, civili o culturali che siano, compreso l’ormai inefficace armamentario ideologico di una possibile opposizione a un ordine del mondo che non sia sottoposto e sottomesso alle regole del mercato e in assenza di modelli economici alternativi.
Risulta evidente che ormai acquisiamo il mondo per frammenti contrastanti, per schegge antinomiche, siamo in grado di far convivere idealità e azioni differenti, adottiamo comportamenti assolutamente contraddittori, riempiendo di quella liquidità di cui parla Zygmunt Bauman a proposito del pensiero contemporaneo contenitori che appaiono del tutto differenti.
In questo quadro il diffuso e palpabile ‘nuovo smarrimento’ sembra confluire per più motivi nella sala teatrale. Innanzitutto perché la platea davanti a un palcoscenico è l’unico luogo di fruizione di una manifestazione in presenza e dal vivo e, nel progressivo affermarsi dell’intrattenimento e della comunicazione virtuale, ormai preponderante e ineludibile, l’idea stessa dell’evento partecipato in presenza viene percepita come vera forma di espressione artistica e umana. Se la comunicazione mediata occupa molti spazi della nostra giornata, assolve a compiti di informazione, di evasione e di svago, e, grazie alle sempre più sofisticate possibilità della rete, offre possibilità di conoscenza e di relazioni prima impensabili, il teatro è comunque sentito come uno spazio ‘altro’ e ‘alto’ del contesto civile. Per nulla screditato o abbandonato, come vorrebbero invece certi intellettuali apocalittici, viene al contrario sempre più individuato come il vero luogo dello scambio ideale e umano.
Lo dimostrano molti dati, già evidenti alla fine del secolo scorso, ma ancor più netti nelle ultimissime stagioni. E tali dati sono la testimonianza di un’attrazione verso occasioni di raduno e di fruizione di momenti culturali non virtualizzati, della vivacità di manifestazioni all’aperto e dal vivo (seppur di taglio culturalmente elevato), come i festival della filosofia o le sessioni di lezioni di storia in piazza, che da qualche anno attirano folle di ascoltatori. E anche le kermesse dai grandi numeri, come le ‘notti bianche’, e i dati di vendita relativi alle sale teatrali (che appaiono in continua crescita) dimostrano la volontà di prendere le distanze dal piccolo e dal grande schermo, alla ricerca di un segno tangibile, presente e vitale. Tutto ciò a scapito dei dati di gradimento televisivo, dai quali appare evidente una stanchezza dello spettatore casalingo dei media, certamente non riscontrabile se si tiene conto esclusivamente degli indici di ascolto (come fanno gli organismi produttivi delle televisioni pubbliche e private), rilevati con metodi discutibili e con inaffidabili proiezioni statistiche.
La rinnovata attenzione verso il teatro si deve proprio al fatto che il palcoscenico ha assunto su di sé il compito di registrare quella percezione del rischio, quell’incertezza collettiva, quello smarrimento diffuso di cui si parlava in precedenza. E rispetto ad altre forme di spettacolo dal vivo, come la musica o la danza, il teatro risulta l’unico luogo di espressione di parole complesse che possono riuscire a cogliere le difficoltà e le tensioni dell’odierno vivere.
È pur vero che i dati di maggiori incassi per i botteghini teatrali sono dovuti alla diffusione di un genere come il musical che proprio in questi ultimi anni ha incontrato grande fortuna, grazie a spettacoli accattivanti e popolari basati su musiche di artisti pop o commerciali di successo, interpretati da personaggi noti al grande pubblico perché provenienti dalla televisione, basati su storie semplici e di facile assimilazione; tuttavia, anche una nuova realtà di questo tipo riafferma il bisogno diffuso di uscire di casa, di non restare chiusi tra le mura domestiche, di non essere completamente appagati dal messaggio mediatico, e testimonia la scelta consapevole di recarsi ad ascoltare, vedere e applaudire, in un luogo dove si incontra altra gente e dove si verifica uno scambio umano.
Il corpo in scena
Fondamentale è però, in questo quadro, anche un altro fattore. Le forme che si sono affermate in tutto il mondo e che costituiscono il vero asse portante del teatro contemporaneo nelle sue espressioni più attive e vitali sono proprio quelle in cui entrano in scena istanze e ‘segni’ della vita quotidiana nelle sue espressioni di maggiore problematicità. Segni concreti e terreni, difficili, scomodi, bruschi, spesso violenti, si espongono ormai nello spazio scenico senza mediazioni, non in forma artisticamente traslata ma con il loro portato semantico più specifico ed evidente, distruggendo l’idea stessa di rappresentazione, di mimesi, di raffigurazione creativa.
Così il corpo che entra in scena non è più quello perfetto dell’attore, la voce non è più quella educata a una dizione chiara e pulita, tutt’altro. In scena entrano corpi deformati dalla malattia o dall’handicap, segnati da esperienze di vita dolorose e traumatiche, e se, comunque, a esibirsi sono attori e ballerini professionisti, questi lo fanno per mostrare sé stessi e non per fare da mediatori a figure altre con le quali si immedesimerebbero soltanto per qualche ora. Su questa linea del tutto nuova di rapporto tra corpo e palcoscenico si collocano le esperienze degli anni Ottanta del Novecento come primi momenti di una vera e propria rivoluzione formale che è ormai stata acquisita dal gusto e dall’attenzione della maggior parte degli spettatori di tutto il mondo. Se evocassimo i nomi dei più importanti innovatori dello spettacolo di questi ultimi decenni, figure consacrate da fama e successo planetario, il quadro apparirebbe quanto mai esatto. Pensiamo alla sola Pina (propr. Philippine) Bausch (n. 1940), che ha stravolto i metodi di creazione della coreografia creando un nuovo genere denominato teatrodanza. La Bausch sottopone i suoi danzatori a lunghi interrogatori per tirarne fuori le paure e le angosce più profonde, dopodiché trascrive in scena proprio quelle zone oscure dell’interiorità narrandole attraverso fratture visive e spaziali, con palcoscenici pieni di sedie o di oggetti, limitati da muri sui quali si schiantano o si interrompono improvvisamente le traiettorie dei performers.
Tutto questo rinnovamento avveniva nella seconda metà del Novecento in concomitanza con un’altra profonda rivoluzione in atto nelle arti figurative, dove iniziava ad apparire necessaria la messa in gioco dell’artista in prima persona e la sua definitiva crisi di ruolo in una società troppo articolata per stabilirne con chiarezza i limiti creativi e operativi. E qui l’elenco dei nomi fondamentali per un cambiamento totale di pensiero e di fruizione o di messa in rapporto con l’opera sarebbero davvero infiniti. Basti citare comunque Marina Abramović (n. 1946) o la più cruenta Orlan (n. 1947), Bill Viola (n. 1951) o Cindy Sherman (n. 1954), artisti che fanno dei propri momenti di vita privata, delle proprie relazioni sentimentali e della propria fisicità, con tutte le possibili mutazioni, trasformazioni, il mezzo e l’oggetto dell’arte. E certo l’azzeramento del confine tra ambiti e discipline artistiche, fortemente separati fino a qualche decennio fa, e la rottura della specificità artistica dei vari soggetti in questione sono alcuni dei dati che caratterizzano la produzione attuale. L’arte ha rubato al teatro l’idea di un’azione in presenza, secondo il concetto largamente diffuso di performance che ha iniziato a circolare verso la fine degli anni Sessanta dello scorso secolo e che è ancora pratica vitale e diffusa. Mentre il teatro prende dagli ambiti plastici e figurativi l’idea di porre fine a un’evoluzione narrativa del tracciato scenico, che diventa quindi fratturato ed episodico, fatto di momenti in successione e fortemente sottoposto alla necessità di una lettura di taglio concettuale, dove attraverso gli elementi esposti sia possibile evincere un ragionamento, suggerire idee attraverso allusioni elaborate in modo metaforico o simbolico.
Proprio l’arte figurativa e il teatro, dunque, sono stati i primi luoghi di riflessione relativi a una nuova visione del nostro corpo. Ed è proprio la nostra dimensione fisica a essere la prima e più immediata zona di rischio. L’attenzione è posta proprio lì, sulla nostra superficie epidermica e all’interno di questa, tra vasi sanguigni, organi, fibre, strutture ossee (così complessi da essere in gran parte a noi stessi sconosciuti), che spesso avvertiamo soltanto come parti di noi esposte continuamente al pericolo, all’incidente, a un morbo che ne modifichi oppure ne limiti la funzionalità. Un corpo macchina, un corpo ‘post-organico’ come lo si definisce secondo le ultime correnti critiche dell’arte, nel quale sappiamo che corrono fluidi vitali ma dove si annidano anche zone di debolezza strutturale, connaturata, profonda.
L’arte e il teatro sembrano voler mettere alla prova queste reazioni corporee, insistono su questa visione del fisico come congegno complesso e misterioso, dando meno spazio, o nessuno, all’indagine psicologica, per comprendere aspetti più concreti e sensibili. Infatti, per comprendere la vastità e la profondità della riflessione di certi artisti è necessario mettere da parte l’orientamento psicoanalitico, ormai archiviato tra i sistemi di pensiero e di analisi onnicomprensivi, tra quelle ‘metanarrazioni’ che, proprio per la loro pretesa di essere spiegazioni totalizzanti e necessarie, sembrano notevolmente distanti dalla fratturata complessità del pensiero contemporaneo.
Non a caso Alain Platel (n. 1959), uno dei maggiori coreografi contemporanei, compone raffinatissime azioni corporee ispirate ai movimenti dell’isteria studiati a fine Ottocento dal neurologo francese Jean-Martin Charcot (1825-1893), ma per dar vita alla rappresentazione chiama sul palco persone con disagi psichici profondi, non potendosi più accontentare di una finzione riguardante l’argomento, di una semplice ‘rappresentazione’, e volendo invece stabilire corti circuiti da far deflagrare davanti a chi guarda. Così accade in VSPRS (2006), ispirato al Vespro della Beata Vergine (1610) di Claudio Monteverdi, e in Pitié! (2008), ideato a partire dalla Passione secondo Matteo (1727) di Johann Sebastian Bach. Rimandando, già soltanto mediante l’evocazione di uno specifico universo sonoro e musicale, a traiettorie intersecate di sofferenza e martirio, di dolore e di spiritualità, di carne e spirito, di sangue e anima.
Allo stesso modo l’esperienza della compagnia teatrale Victoria di Gent, in Belgio, mette in crisi la tradizionale concezione dell’infanzia, altra fragilissima zona di rischio, portando in scena bambini che si confrontano con il mondo degli adulti mimandolo, osservandolo, scimmiottandolo.
Il belga Jan Fabre (n. 1958), invece, si muove sul doppio fronte di una creatività artistica espressa con sculture e installazioni oppure con veri e propri spettacoli, dove i vari ambiti appaiono quanto mai contigui e, addirittura, si pongono l’uno come ulteriore approfondimento dell’altro. Al centro si colloca il tema del sangue, a partire da quel Je suis sang presentato al Festival di Avignone nel 2001 in cui apparivano spose dai candidi abiti macchiati di rosso, guerrieri medievali imponenti nelle loro lucide corazze o corpi ridotti alla più umile nudità, destinati a rotolarsi fra i fiotti del più vitale liquido umano.
L’Italia prende parte a questa linea di approfondimento scenico con esperienze che hanno avuto vasta eco in tutto il mondo, segno della loro consonanza con le migliori espressioni creative straniere. Come quella di Pippo Delbono (n. 1959) con il suo compagno di avventure sceniche Bobò, incontrato alla fine degli anni Novanta in un centro per malati mentali di Aversa. Delbono chiede a Bobò soltanto di essere sé stesso, magari affidandogli parti di testi poetici che attraverso di lui svelano il loro lato più grottesco, si colorano di ironia, o fanno emergere la loro più intima sostanza umana. E accanto a lui pone extracomunitari, rom, bambini, autentici vagabondi che esprimono e presentano sé stessi in spettacoli come Guerra (1998), Her bijit (1999), Esodo (2000). E di Bobò è il grido ferito che apre Urlo (2004) ed è ancora lui, in frac, ad accarezzare gli armadietti-guardaroba nel finale di La menzogna (2008), omaggio agli operai morti della Thyssen. Così è chiaro che nell’energia espressa dall’ormai celebre Compagnia della Fortezza, nata nel 1988 e formata da carcerati (alcuni dei quali ergastolani) dell’istituto di detenzione di Volterra, diretti da Armando Punzo (n. 1959) in lucide parafrasi brechtiane o in frammenti da Jean Genet, si sprigiona tutta la potenza di corpi massicci, che hanno attraversato la vita e la morte, il delitto e l’idea di una possibile espiazione, presenti e vivi davanti a noi, accostati alle nostre esistenze così differenti e anonime per far esplodere controsensi e paradossi inconciliabili. Spesso è dunque il teatro a uscire dalla sala e ad andare a cercare situazioni e realtà che lo rivitalizzino, che lo contaminino, che lo mettano in crisi con segni più preponderanti e umani. E appare sempre più viva e illuminante la premonizione di quel visionario che fu, negli anni Trenta, Antonin Artaud (1896-1948), primo fra i teorici e gli osservatori della scena a capire che il teatro non aveva più senso come forma di intrattenimento, ma doveva manifestarsi come una vera e propria peste, un malessere diffuso e strisciante, capace di penetrare nella società, contaminandola e mettendola in serio pericolo, e che questo sarebbe avvenuto grazie a corpi irregolari, lontani dalla realtà, sacri e intangibili, simbolici e irreali come quelli degli attori balinesi o corrotti e quotidiani come quelli di chi è più vicino alle esperienze dirette della vita.
I segni della realtà
Il teatro oggi abbandona sempre più spesso la sala teatrale e scende per le vie e per le piazze cercando di incarnarsi in nuovi soggetti. Da questo punto di vista uno degli interventi più felici di azione su un territorio disagiato è stato, nel 2006, l’innesto di un laboratorio teatrale nel difficile contesto di Scampia, quartiere alle porte di Napoli e roccaforte di violente bande camorristiche. Il laboratorio è diretto da un regista romagnolo di grande esperienza, sempre attratto dall’immaginario giovanile, come Marco Martinelli (n. 1956), arrivato in quel difficile contesto urbano non tanto, o non solo, per aprire uno spazio di recupero sociale, tantomeno per creare momenti espositivi pieni di buoni sentimenti, come attestato di espiazione di tutta una società che costringe e mantiene quei luoghi nella violenza e nel degrado. Il progetto Punta Corsara, come si chiama oggi la complessa programmazione realizzata a Scampia, si propone di fare spettacolo, di comporre narrazioni sceniche vive e vitali che abbiano una loro forza artistica, nelle quali è il teatro ad assorbire le energie di quel territorio e dell’umanità che ci vive e a tentare di restituirle, al pubblico e agli interpreti, in una trasfigurazione artistica potente, capace di mettere costantemente in moto nuovi pensieri e diverse visioni. Sono nati così gli spettacoli del gruppo a partire da testi di Aristofane, Molière o Alfred Jarry. E per il resto tutto avviene come in una normale scuola di recitazione, con laboratori, training e incontri con quelli che sono i migliori artisti italiani.
Questa felice esperienza può essere accostata all’importante iniziativa del Teatro Stabile di Roma, il Laboratorio teatrale integrato Piero Gabrielli per ragazzi con e senza handicap (creato nel 1981 e divenuto stabile dal 1994), coordinato dal 1995 da Roberto Gandini (n. 1957), che persegue il solo scopo di fare spettacolo con soggetti che hanno diverse capacità e caratteristiche e mettono in gioco la loro personalità e le proprie potenzialità espressive in armonia o in contrasto con gli altri, passando da William Shakespeare a Collodi, da Carlo Gozzi a Dante. Si viene così a creare un importante momento di reinserimento di altissimo valore pedagogico, tale da avere ottenuto un ampio riconoscimento e un notevole successo nel corso delle varie tournée internazionali intraprese.
Richiama questo tipo di lavoro quello della compagnia francese L’Oiseau-Mouche di Lille, gruppo interamente formato da disabili, che gestisce il Garage Théâtre con più sale, un bar e un ristorante, scegliendo di volta in volta un regista con il quale realizzare mirabili operazioni sceniche, tra le quali vanno ricordate quelle create con l’italiano Antonio Viganò (n. 1956). La compagnia viene sostenuta con un finanziamento statale non come gruppo di azione terapeutica e di recupero, ma come vera e propria formazione teatrale di assoluto valore artistico.
Tutti questi esempi dimostrano in maniera inequivocabile che il teatro ormai non si pone più come mezzo dotato di superiorità culturale e intellettuale in grado di arricchire zone meno vitali della società. Al contrario, è proprio il teatro che va a cercare linfa vitale nella realtà, tracce e segni non convenzionali, presenze concrete, e lo fa indagando nelle zone della convivenza umana a più alto rischio.
A dimostrare quanto siano composite le traiettorie della scena contemporanea provvede un nuovo fenomeno affermatosi definitivamente proprio in questo inizio di secolo, il cosiddetto Nouveau cirque. Di matrice e sviluppo tutto francese, questa fruttuosa forma di spettacolo è nata dal desiderio di creare nuove modalità attraverso le quali descrivere il mondo contemporaneo, e si è consolidata grazie all’iniziativa di una scuola per i giovani circensi, il Centre national des arts du cirque (CNAC) con sede a Châlons-en-Champagne. È in questo luogo che è morta definitivamente l’idea del circo ottocentesco, catalogo riassuntivo del mondo con il suo bestiario errante e con l’esposizione di abilità ai confini con l’umano, in bilico tra la comicità del clown e l’esoterismo evocato da un prestigiatore. Oggi il circo ha abbandonato animali e mostruosità e ha messo da parte la clowneria e la magia. Al CNAC si studia drammaturgia, danza, storia del teatro. Resta l’acrobazia come elemento centrale della costruzione immaginativa, e non è un caso, visto che proprio la peripezia aerea dell’acrobata è la prima e più immediata trascrizione dell’idea di rischio, dove tutto si gioca tra equilibrio e caduta, tra slancio aereo e gravità. Proprio in molti esempi di nuova arte della pista l’esibizione fisica tra trapezi, bascule e corde viene declinata in modi completamente differenti: non appare più tesa alla sola dimostrazione di abilità, ma viene inserita in forme narrative, in sequenze che danno vita a un racconto e a un pensiero preciso, con un immediato rimando al mondo circostante e alle sue più ardite problematiche.
Non bisogna certo dimenticare che alcuni esiti del Nouveau cirque sono diventati una forma di intrattenimento leggero, come è accaduto, per es., per il popolarissimo Cirque du soleil (fondato nel 1984) oppure per certe esperienze un po’ calligrafiche come le coreografie del Théâtre equestre Zingaro (creato anch’esso nel 1984 da Bartabas, nome d’arte di Clément Marty). Ma un gran numero di compagnie ha invece prodotto spettacoli straordinari, nei quali sono stati affrontati il tema della guerra e della distruzione, quello della solitudine e dei difficili ambiti familiari o sentimentali, in una dimensione compositiva e visiva davvero emozionate, attraverso un gioco di corpi tesi in equilibri e disequilibri che da soli sono capaci di narrare le confuse tracce e gli incerti bilanciamenti delle nostre vite. Così è stato per la Compagnia Anomalie, fondata nel 1995 da alcuni studenti del CNAC e ormai annoverata tra le più brillanti espressioni del circo contemporaneo, o per il geniale artista del tappeto elastico Mathurin Bolze (n. 1974).
Il mondo e la sua rappresentazione
Torniamo al saggio di Beck, nel quale, quasi di sfuggita, compare un altro tema di riflessione che consente di capire l’osmosi ancora possibile tra mondo reale e realtà rappresentata. «Oggi, alle soglie del 21° secolo, sappiamo per esperienza vissuta che le visioni di un Nietzsche o le rappresentazioni teatrali di drammi coniugali o familiari della modernità letteraria classica (cioè vecchia) hanno ormai luogo quotidianamente, in modi più o meno rappresentativi, nelle nostre cucine e nelle nostre stanze da letto» (trad. it. 2000, p. 17). Ormai la vicinanza tra esperienza sensibile e riflessione culturale si è assottigliata e, aggiunge lo studioso: «La nostra esperienza vissuta ci dice anche, ben oltre ciò che la letteratura poteva presagire, che bisogna continuare a vivere, anche dopo. In un certo senso, la nostra è l’esperienza vissuta di ciò che accade una volta calato il sipario su un dramma di Ibsen. Ciò che noi viviamo è la realtà non teatrale dell’epoca postborghese. O, detto con riguardo ai rischi della civilizzazione, noi siamo gli eredi di una critica della cultura divenuta ormai realtà che proprio per questo non può più accontentarsi della sua diagnosi, sempre concepita come un pessimistico monito per il futuro» (p. 17). Questa notazione sottilissima svela proprio il cambiamento di fondo nel nostro rapporto con il mondo e con la sua rappresentazione. È vero, in fondo, che il teatro, per come viene comunemente inteso, non ci interessa più, o ci interessa meno, in quanto non è che il prolungamento realistico delle nostre esistenze, un’osservazione passiva di dinamiche interiori che ci appartengono direttamente e che dobbiamo attivamente affrontare nella nostra quotidianità. Il teatro come riproduzione di una plausibile realtà, al di là della quarta parete invisibile di una stanza, non suscita più la nostra curiosità o il nostro interesse. La nostra vita è ben più articolata e complessa: non chiediamo più alla rappresentazione di raffigurarci il mondo com’è. Certo, è stato Aristotele a suggerirci che le arti della scena nascono perché l’uomo è l’unico animale che imita, perché imitando impara a conoscere le cose che lo circondano, ma è stato poi il positivismo ottocentesco a fare del palcoscenico un tassello esplicativo ed espositivo della realtà, fino a quando il regista russo Konstantin S. Stanislavskij non ha inaugurato il filone della più perfetta riproduzione scenica della vita, magari allestendo per la prima volta alcuni capolavori di Anton P. Čechov e cercando per questi una dimensione interiore ed esteriore assolutamente fedele a un ipotetico originale. E dunque, siccome Aristotele ha comunque ragione, non ci resta che comprendere che il nostro istinto di raffigurazione mimetica del reale lo abbiamo trasportato in un altro luogo, al cinema, poiché è la macchina da presa ad avere la possibilità di farci vedere la realtà così com’è. Il grande schermo è quindi divenuto lo strumento di rispecchiamento del mondo e della nostra interiorità. Tanto che le celebri teorie attoriali di Stanislavskij sono poi passate negli studi hollywoodiani grazie agli insegnamenti della più famosa scuola di recitazione statunitense, l’Actors Studio, nata appunto per continuare a tener vivo il ‘metodo’ del grande regista russo, in chiave tutta introspettiva e realistica.
Teoria e pratiche sceniche europee sono andate in senso opposto, proprio perché, svincolato il palcoscenico dal suo dovere documentaristico, su quello spazio finalmente svuotato di alberi di cartone o di tavoli con le gambe tagliate a seconda della pendenza del palcoscenico, potevano più liberamente correre idee, pensieri, riflessioni. E proprio le più recenti stagioni della regia in area russa e più in generale postsovietica hanno rappresentato uno dei più alti luoghi di riflessione per l’arte dell’attore e per le finalità dell’azione teatrale, ben oltre l’idea di immedesimazione perseguita nella fase centrale dell’elaborazione concettuale e artistica di Stanislavskij; anzi, partendo proprio dalle ultime intuizioni del grande maestro, orientate verso una nuova dimensione del gesto e una più sottile relazione fra movimento fisico e descrizione del personaggio. È stata proprio la fine di questa dimensione psicologizzante e realistica del teatro, demandata ormai ad altri ambiti comunicativi, ad aver aperto spazi infiniti di possibilità per chi desideri creare attraverso i mezzi della scena.
Infatti, se c’è una profonda novità nella diffusione e nella percezione delle più recenti forme artistiche nate in palcoscenico è che quelle che potrebbero sembrare manifestazioni estreme e di ricerca del teatro internazionale, ne costituiscono ormai il settore più vitale e acclamato, con spettacoli rappresentati ai quattro angoli del globo e con un pubblico vastissimo disposto a mettersi in gioco davanti a tali complesse elaborazioni estetiche ed espressive.
Castellucci e la tragedia della contemporaneità
Da questo punto di vista è importante segnalare il successo e la diffusione del lavoro realizzato da uno degli artisti più complessi e difficili della scena internazionale, l’italiano Romeo Castellucci (n. 1960), il regista cesenate che con la sua compagnia, la Socìetas Raffaello Sanzio (nata nel 1981), rappresenta la punta più avanzata della riflessione sulle potenzialità della messa in scena nella nostra civiltà. Vasta risonanza ha avuto il ricchissimo ciclo della Tragedia Endogonidia, realizzato tra il 2002 e il 2004 con undici spettacoli realizzati in varie città italiane ed europee, elaborando segnali visivi, sonori e spaziali talmente criptici e misteriosi da sconvolgere l’interiorità dello spettatore, non certo a livello psicologico, ma nel tentativo di recuperare sensazioni lontanissime dell’esperienza umana, appartenenti a una memoria animalesca, preumana. La particolare dimensione figurativa e immaginativa di queste creazioni rende ancor più importante la presenza dello spettatore e si compie in un rito collettivo, in quanto Castellucci sembra cogliere un nuovo e attuale significato del teatro, cosciente che la sua creazione prende forza dal pubblico; anzi, come lui stesso ha affermato, prende forma nella mente dello spettatore e vive lì e soltanto lì. Per questo le immagini proposte da questo artista sono complesse e indecifrabili, non chiedono decodificazioni di marca intellettuale o colta, anzi stabiliscono definitivamente la fine della critica teatrale e di ogni forma di ermeneutica. Proprio il titolo della complessa operazione fa pensare alla posizione che il regista affida alle sue creazioni nel mondo contemporaneo. Il senso è quello di cercare la tragedia della contemporaneità, di indagare su certe zone fragili e dolorose dell’esperienza, di riportarne alla mente una dimensione traumatica. E ciò consente di capire anche quale possa essere il nostro posto nel mondo e quanto questo sia precario, non soltanto da un punto di vista fisico, ma ancor di più da quello di una possibile reazione intellettuale, che nulla risolve e si arresta inerme davanti a paure profonde, a insondabili zone di oscurità. La tragedia in questione è appunto endogonidia, contiene in sé gli apparati riproduttori dei due sessi, può generare da sola e al suo interno nuovi segni vitali, può dare vita e rigenerarsi in varie forme senza bisogno di sollecitazioni o apporti esterni.
Castellucci ha avuto la possibilità di approfondire il suo rapporto fisiologico e filosofico con la scena grazie al ruolo svolto come direttore della sezione Teatro della 37a Biennale di Venezia (Festival nazionale di teatro). Il composito cartellone delle manifestazioni ospitate in laguna nel settembre del 2005 ha suscitato un accesissimo dibattito, dando vita a schieramenti critici di opposta fazione. Secondo alcuni le azioni e le performances riunite all’Arsenale non potevano definirsi teatro; altri ravvisavano invece in questa rassegna così anomala uno spazio di riflessione incentrato non soltanto sulla vitalità della scena in ambito internazionale ma proiettato su un più complesso ragionamento a proposito della dimensione percettiva e comunicativa dell’azione spettacolare.
Una colonna di fuoco azionata a mano (Flame Tornado), una grande sfera piena dei rumori del sottosuolo, spettacoli sul nostro rapporto con il cibo o con il denaro, un testo tratto dai manuali di tortura della CIA (Physical interrogation techniques), un’opera musicale ermetica sulle angosce dello scrittore danese Hans Christian Andersen (presentata da straordinari performers, ossia i cantanti del gruppo danese Hotel Pro Forma), corpi che intessevano sinuose linee di danza astratta e formale tutta basata su una descrizione esteriore della fisicità. La manifestazione che si sviluppava in quei giorni diveniva a mano a mano un percorso di proposte talmente energico e sorprendente da innalzare la rassegna veneziana allo stesso livello di altre manifestazioni di altissimo prestigio internazionale. Anche se, dopo quella eccezionale esperienza, Castellucci non è stato più chiamato a occupare la carica di direttore della sezione Teatro della Biennale.
Con l’ultimo impegno teatrale (Divina Commedia. Inferno; Divina Commedia. Purgatorio; Divina Commedia. Paradiso), poderoso tentativo realizzato attraverso l’opera di Dante in occasione dell’edizione del Festival di Avignone del 2008, Castellucci ha cercato nuove strade, e ha affrontato lo spazio scenico non più soltanto come luogo di sollecitazione di una sopita e arcaica relazione subliminale con i segni del mondo, né tantomeno si è spostato verso un’idea di spettacolo come luogo di possibili trascrizioni figurative delle cantiche del grande poema. Per questo artista lo spazio scenico è soprattutto filosofico e di pensiero e quindi non ha cercato di fornire illustrazioni didascaliche, né di snidare significati o comporre una campionatura critica di quella scrittura. Il regista ha ripreso dalle terzine dantesche alcune suggestioni che poi ha rovesciato a suo modo, seguendo l’idea che la Commedia sia la prima opera in cui l’artista espone per la prima volta sé stesso, entra in gioco in prima persona con la sua identità, tanto che nella scena iniziale dell’Inferno, ambientato nella corte d’onore del Palazzo dei Papi, lo stesso Castellucci si presenta con una tuta gommata e viene assalito da tre cani inferociti che tentano di sbranarlo. Purgatorio si compone, invece, di un difficile e ardito apologo su un dio crudele che sente il bisogno di essere perdonato dagli uomini, per poi passare a una visione assoluta e accecante del nulla, nell’istallazione che, in maniera geniale e stupefacente, ripropone la concezione teologica centrale del Paradiso.
È l’osservazione del lavoro di questo regista, conteso dalle città più importanti del mondo, a far capire quanto si sia spostato l’asse della rappresentazione, e anzi quanto il termine rappresentare sia oggi usurato e inerte, mentre la necessità per il creatore e per lo spettatore è quella di trovare eventi e opportunità di confronto con una riflessione, con un’ipotesi di ragionamento sugli interrogativi più profondi dell’individuo contemporaneo. La Socìetas Raffaello Sanzio appare espressione di un teatro complesso, spesso ostico e di difficile approccio, ma quanto mai vicino agli aspetti più impervi dell’esperienza umana e certamente iscritto nella nostra attualità più bruciante, non certo sospeso in ermetismi compiaciuti e genericamente poetici. E tanto vitale e centrale per la riflessione artistica di questi ultimi anni è il lavoro di Castellucci da essere facilmente accostabile a quello di un regista come David Lynch (n. 1946) o a quello di un artista noto per i suoi video, Matthew Barney (n. 1967), tutti e tre volti a indagare una dimensione dell’insondabile, di qualcosa di terribile che emerge e scompagina la nostra percezione superficiale e accomodante delle cose. E in considerazione dell’accostamento con due personalità che si esprimono tramite il mezzo del cinema e del video, è possibile comprendere meglio quanto più forti e sconvolgenti appaiano le operazioni di Castellucci, capaci di prendere forma e quindi frantumarsi dal vivo davanti agli occhi degli spettatori, presenze che per questo artista sono assolutamente necessarie, in quanto termine di compimento del rito che si sta celebrando sulla scena.
García e il rifiuto del bello
Altra esperienza fondamentale per capire il teatro attuale è quella di Rodrigo García (n. 1964), regista argentino residente a Madrid, dove ha dato vita alla sua compagnia che porta un nome quanto mai indicativo: La Carnicería Teatro. García si pone all’opposto rispetto agli spazi immaginativi e figurativi di Castellucci. Il suo è un teatro scabro che rifiuta qualunque estetismo. Il palcoscenico è vuoto, gli attori portano abiti di tutti i giorni, quando non sono completamente nudi, e sono lì per smontare le seduzioni consumistiche del nostro universo contemporaneo. Quello di García è un grido rivolto contro una società che consuma cibi precotti, che compra mobili tutti uguali, che trascorre le giornate nei centri commerciali, distruggendo di giorno in giorno qualunque comunicazione vera e sincera, come quella che García indica essere ancora possibile nel nucleo familiare. Nonostante venga quasi sempre considerato un provocatore trasgressivo e nichilista, il regista intende invece ribellarsi contro un universo commerciale che mina la possibilità di stabilire affetti e relazioni importanti, che impedisce la costruzione di spazi in cui vi sia uno scambio affettivo profondo. In una delle sue ultime messe in scena risalente al 2007, dal titolo Cruda. Vuelta y vuelta. Al punto. Chamuscada, riferito ai vari gradi di cottura della carne, García invitava in palcoscenico un gruppo di bambini provenienti dai bassifondi di Buenos Aires a improvvisare partite di pallone, a rincorrersi, a gridare, a raccontare storie dolorose di famiglie violente e minate da condizioni di povertà profondissime; e attraverso ciò intendeva dimostrare che nonostante tutto nei giochi di quei ragazzi si nasconde comunque un profondo senso di gioia, una sorridente capacità di vita, assente invece, secondo il regista, in universi sociali economicamente avanzati e più protetti, nei quali però le regole del mercato hanno distrutto qualunque verità umana, qualunque autenticità e qualunque capacità di percepire a fondo il senso dell’esistenza.
Zone di rischio e nuove direzioni
Queste opposte esperienze, che costituiscono alcune delle zone più vitali dell’arte scenica contemporanea, dimostrano che, per arrivare a confrontarsi in maniera così frontale con gli smarrimenti e i rischi del mondo contemporaneo, il teatro non poteva non mettere in discussione le sue strutture stesse. Doveva necessariamente smantellare le certezze artistiche e figurative sulle quali si era basato per centinaia di anni e mettersi in gioco esponendo la sua stessa fragilità, mostrandosi come luogo di labilità e incertezze, ponendo in discussione sia lo spazio scenico sia la presenza e la fisionomia dell’attore, facendo saltare il rapporto con il testo quando non con la stessa parola (spesso assente dalla scena), rovesciando il rapporto con la musica, vanificando qualsiasi idea della durata temporale dell’evento teatrale, che può essere di pochi minuti o occupare giornate intere, costituire un flash più vicino all’happening o divenire una sorta di viaggio esperienziale che si dispiega in un’intera notte.
In questo si può rintracciare senza dubbio la cospicua eredità delle esplosive avanguardie degli anni Settanta, a loro volta condizionate dalle profonde deflagrazioni provocate dalle avanguardie storiche. È tra la fine degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo che si sono polverizzate tutte le certezze della forma spettacolare. E in quest’ambito alcune fra le migliori elaborazioni di una nuova visione della scena nacquero in Italia. In quegli anni la forma scenica costituì il luogo in cui gli artisti posero in discussione il proprio operato e la propria funzione, in vari modi tutti rintracciabili in quelle che sono le odierne direzioni della scena. Nel momento in cui fu necessario confrontarsi con la struttura economica e sociale di un mondo sempre più avviato verso una dimensione produttiva e consumistica, l’artista cercò di sottrarsi a questo meccanismo di puro consumo, rifiutandosi di divenire lo strumento di espiazione di una borghesia inquieta. Da Carmelo Bene (1937-2002), che tendeva a diventare pura voce, puro suono, a discapito della struttura del testo affrontato, a Carlo Quartucci (n. 1938), creatore in fieri di un’opera sempre incompleta e mai dominata; alla vitale corrente di un teatro-immagine pronto a rinunciare alla parola come nel caso di Claudio Remondi (n. 1927) e Riccardo Caporossi (n. 1948), Giancarlo Sepe (n. 1946), Giuliano Vasilicò (n. 1940), Mario Ricci (n. 1932).
In questi ultimi anni in cui l’artista ha messo in crisi il suo operato e la sua funzione, il ruolo del regista è rimasto comunque centrale, anche se si è assistito al definitivo tramonto della figura del ‘regista critico’ (personalità dominante di tutta la scena dalla fine dell’Ottocento e incarnatasi nel secondo dopoguerra in Italia in figure innovative come quelle di Luchino Visconti e Giorgio Strehler, e poi in Luigi Squarzina, Giancarlo Cobelli, Mario Missiroli, Massimo Castri, Luca Ronconi).
L’atteggiamento che poneva il regista-demiurgo al centro del controllo delle varie componenti della scena, capace di amalgamarle in un tutt’uno armonico e coerente, appare ormai un modo di fare teatro non più attuale. Soprattutto sembra venuta meno l’esigenza di una figura registica che affronti un testo con le armi della cultura e dell’acume critico, cercandone i significati più profondi e le sfumature più recondite, da rendere poi con il lavoro degli attori e con le componenti visive dell’allestimento. Il regista oggi continua a dominare la scena, ma ha mutato ruolo, giacché il suo rapporto con il testo è divenuto estremamente libero. Il nuovo demiurgo ha sicuramente rafforzato il suo potere e può permettersi qualunque cosa, tanto da decidere con quali elementi comporre il gioco scenico, magari rinunciando alla parola, o facendo a meno degli attori, scartando completamente l’ipotesi di un testo scritto oppure lavorando su nuove e più ardite formule estetiche. In molti casi, infatti, viene adottata l’espressione scrittura scenica per indicare l’esito di un’operazione in cui l’artista compone direttamente in palcoscenico partendo da immagini e suggestioni, ideando in questo modo un percorso e un andamento drammaturgico, una traccia narrativa che viene via via sviluppata, una concatenazione di sequenze visive.
Non va comunque dimenticato che ancora esiste un teatro di forma più tradizionale non identificabile soltanto con quello degli stanchi spettacoli per abbonati che circolano spesso in Italia. Soprattutto all’estero prosegue un’analisi effettuata in palcoscenico della migliore drammaturgia di tutti i tempi, trascritta con una sensibilità diversa, più vicina a noi, e comunque svincolata dalla costrizione a una resa più possibile fedele alle intenzioni del testo. Torna utile anche in questo caso la nostra idea di partenza che il teatro faccia da sismografo per zone a rischio. Non è certo un caso se l’autore più rappresentato in tutti i Paesi del mondo, compreso il nostro, sia William Shakespeare, del quale si continuano a mettere in scena molte opere e soprattutto le tragedie più note. Amleto sembra ormai diventato un passaggio obbligato per giovani artisti e compagnie di più solida tradizione, comprese quelle dirette da maestri assoluti del teatro come lo statunitense Bob Wilson (n. 1941), l’inglese Peter Brook (n. 1925) o il lituano Eimuntas Nekrosius (n. 1952). Vero è che nelle produzioni di minore levatura artistica si è esagerato nell’attribuire a Shakespeare consonanze con il nostro presente, visto che nella complessa e ricchissima opera del drammaturgo inglese convivono molte dimensioni, alcune delle quali strettamente legate alla riflessione poetica e filosofica del suo tempo. Tesi come quelle del politologo tedesco Ekkehart Krippendorff secondo le quali si può leggere la politica dei nostri giorni attraverso un’analisi delle opere shakespeariane (cfr. il suo lavoro Politik in Shakespeare dramen. Historien, Römerdramen, Tragödien, 1992; trad. it. 2005) appaiono riduttive quando non ovvie, giacché è evidente che il drammaturgo elisabettiano ha colto alcune dinamiche profonde delle relazioni umane, private o di potere che siano. Ma Shakespeare è molto altro e qualsiasi restringimento di ottica sull’ambito infinito e ramificato della sua creatività finisce puntualmente per limitarne la potenzialità immaginativa ed espressiva.
Nuove figure di regista ancora legate all’interpretazione di un testo attraversano in questi anni le scene internazionali: il tedesco Thomas Ostermeier (n. 1968) e il suo conterraneo Michael Thalheimer (n. 1965), l’ungherese Árpád Schilling (n. 1974), l’inglese Declan Donnellan (n. 1953), lo svizzero Christoph Marthaler (n. 1951), le cui operazioni mostrano sempre uno sguardo acuto e illuminante sia sul rapporto con il copione sia con gli altri elementi formali della scena. Analoga sensibilità si riscontra tra i nuovi nomi fioriti nell’ambito della regia italiana, ognuno caratterizzato da un segno ben preciso e particolare, e da un serio e coerente desiderio di indagine sulle possibilità della scena: Fabrizio Arcuri (n. 1968), Valerio Binasco (n. 1965), Arturo Cirillo (n. 1968), Massimiliano Civica (n. 1974), Giuseppe Emiliani (n. 1954), Valter Malosti (n. 1961), Antonio Latella (n. 1967).
Una menzione a parte merita l’estrema vitalità del teatro di area postsovietica, territorio di eccellenza di una riflessione sull’arte dell’attore sempre viva e vivace, grazie a maestri operosi e attivi come Lev Dodin (n. 1944), Anatoli Vassiliev (n. 1942), Kama Ginkas (n. 1941) ed E. Nekrosius (spesso presente in Italia con produzioni nate nel nostro Paese), straordinario elaboratore di una nuova visione tutta fisica e concreta del lavoro dell’attore e della visione scenica. Esistono inoltre filoni di drammaturgia particolarmente vitali, e se la scomparsa di Harold Pinter (1930-2008) ha significato una grave perdita data la grandezza dell’opera di questo scrittore, sempre legata a un profondo e coraggioso impegno civile, correnti vitalissime di scrittura si rintracciano nell’Europa del Nord, come nel caso del norvegese John Fosse (n. 1959), vicinissimo alla lezione di maestri come Henrik Ibsen o Ingmar Bergman, oppure degli svedesi Lars Norén (n. 1944) e Per Olov Enquist (n. 1934); ma in realtà tutta l’Europa (Italia compresa) continua a mostrare sempre nuove tracce di scrittura per il palcoscenico con esiti di grande interesse. Nuovi nomi della drammaturgia si sono affermati anche nel nostro Paese: tra questi si possono citare Emma Dante (n. 1967), Fausto Paravidino (n. 1976), Letizia Russo (n. 1980).
Lo spazio scenico come spazio di riflessione
L’altra zona di rischio di cui il teatro si fa sensibile strumento di rilevazione in questi ultimi anni è certamente quella politica, ovvero quella relativa alla società, alla sua organizzazione, alle strutture che la governano e l’amministrano, alle forme del potere e al rapporto di queste con la collettività. Sono temi divenuti quanto mai scottanti per la società italiana, e sempre più complessi e problematici in questo primo decennio del 21° secolo.
Proprio il teatro sembra essere diventato un luogo di riunione in cui tornare a discutere liberamente di questioni che gli spazi istituzionali e i normali canali comunicativi trattano in maniera schematica e specificamente e artatamente orientata.
Nella sala teatrale si può dibattere liberamente rispetto alle sedi istituzionali, soprattutto non si è inquadrati in partiti o formazioni politiche, organizzazioni che in questi anni hanno visto logorarsi la propria immagine e il loro ruolo di associazioni di rappresentanza dei cittadini. Così la sala teatrale si affolla quando propone forme spettacolari semplificate nelle quali è importante il rilancio di una riflessione collettiva sulle esigenze e sulle necessità derivanti dal contesto sociale. Molte provocazioni politiche hanno cercato uditori (trovandone in gran numero) nella sala teatrale, e in scena sono saliti giornalisti con le loro inchieste, così come alcuni comici si sono trasformati in oratori o in arringatori barricadieri; si è creato inoltre un vero e proprio filone di ricostruzione istruttoria di certi scandali, o di un intero sistema di corruzione, o ancora si sono ricostruite le trame e le relazioni tra politica e finanza (materie alle quali la storia recente della nostra Repubblica offre un repertorio infinito). Anche in questo caso tale tipo di operazioni ha ottenuto ampio successo, e il motivo di tanto richiamo non è certo quello dello spostamento dal vivo di situazioni o personaggi che rimandano al seducente universo televisivo. La ragione sembra rintracciabile nel bisogno di ritrovarsi lontano dalle bandiere e dalle sigle delle organizzazioni rappresentative, fra gente comune, dove non si delineino schieramenti contrapposti, ma si crei invece una sorta di diffusa opposizione della collettività a un sistema politico cristallizzato nelle sue regole e nei suoi linguaggi astratti. Proprio perché questi spettacoli traggono la loro forza dal fatto di essere contestazioni frontali di tutto un apparato politico e non solo di una parte o dell’altra. In queste formulazioni sceniche non mancano certo rischi di qualunquismo, pericoli di una deviazione cabarettistica di temi scottanti, possibili sbandamenti populistici o retorici, dando luogo a derive che, in molti casi, snaturano la forza di riflessione del momento teatrale. Ma il teatro è comunque divenuto dagli anni Novanta del secolo scorso uno spazio di recupero di tensioni e memorie collettive, per lo meno da quando il fortunatissimo filone del teatro di narrazione, nelle sue migliori incarnazioni, primo fra tutti Ascanio Celestini (n. 1972), ha asciugato il linguaggio espressivo riducendolo a un solo attore fermo, in scena, seduto su una sedia, che racconta, mettendo però in moto la ricostruzione di memorie storiche e sociali. Questa dimensione creativa ha alimentato il recupero di immagini e situazioni, sospese tra il reale e le concrezioni fantastiche prodotte dall’immaginario popolare, sollecitando riflessioni particolarmente importanti. Così Celestini ha ripreso la vicenda delle Fosse Ardeatine a Roma in Radio clandestina (2000), quindi l’epopea dei lavoratori delle acciaierie e delle miniere italiane nei primi anni del Novecento in Fabbrica (2002). Ma proprio avvertendo una certa stanchezza di quel modulo rappresentativo, causato anche da una pletora di esperienze epigonali, da un semplicistico e troppo diffuso recupero di micro e macrostorie di ogni tipo, lo stesso artista romano ha cercato poi di confrontarsi con una ‘memoria del presente’ volgendo la sua attenzione alla scottante situazione del precariato, alle strutture fagocitanti e inumane di lavoro dei call centers, alle nuove strategie dello sfruttamento. Temi su cui è basato lo spettacolo Appunti per un film sulla lotta di classe (2007), nato dagli incontri con i lavoratori del call center Atesia, che gli hanno poi ispirato il documentario sul precariato Parole sante (2007).
Generazioni emergenti
Altro dato nuovo delle ultime stagioni teatrali in Italia è il continuo sorgere di nuove formazioni composte da giovani artisti, un ininterrotto fiorire di espressività di segno diverso e spesso opposto rispetto alle esperienze teatrali di chi ha pochi anni di più, in un rapido superamento di posizioni artistiche e intellettuali acquisite. Sono formazioni che si muovono nell’ambito della scrittura scenica, cioè lontane dalla formalizzazione canonica di un testo poi interpretato e messo in scena da un regista e da un gruppo di attori, e che mirano a un’immediata elaborazione formale a diretto contatto con lo spazio scenico, secondo moduli, ipotesi, tentativi e sperimentalismi molto diversificati tra loro. Il fenomeno è per molti versi sorprendente, in primo luogo perché l’Italia è un Paese che non sostiene e non diffonde le arti della scena e, soprattutto, perché i giovani frequentano poco i teatri ufficiali, che offrono biglietti sempre piuttosto costosi e programmazioni difficilmente stimolanti. Per di più stampa e informazione radiotelevisiva concedono sempre meno spazio al teatro, ritenendo, in maniera del tutto discutibile e arbitraria, che il grande pubblico nutra poco interesse per questo settore culturale. Ciononostante l’Italia è piena di laboratori, stage, seminari dedicati al teatro e affollati di giovani, e l’elenco delle compagnie di recente formazione che propongono lavori in scena va continuamente aggiornato con nomi sempre nuovi. Altro dato curioso è che queste compagnie agiscono in circuiti alternativi e paralleli, quasi del tutto ignorati dalle istituzioni teatrali, senza finanziamenti o forme di sostegno. Ma il fatto nuovo è che riescono comunque a essere immediatamente conosciute, e che girano l’Italia proponendo i loro spettacoli con grande facilità, passando attraverso una rete costituita da centri sociali e piccole sale, in grandi città o in centri minori, nell’ambito di piccoli e vivacissimi festival o centri di produzione dalle possibilità ridotte ma dalla sicura capacità di individuazione del nuovo. Certo è che proprio in questi spazi apparentemente secondari circolano spunti e soluzioni nuovi ed estremamente interessanti nell’elaborazione formale e concettuale della scena. La maggior parte di queste compagnie, costituite da giovani ventenni, propongono lavori di notevole maturità artistica, raggiungendo spesso livelli espressivi notevolissimi, elaborando nuove tessiture drammaturgiche, lavorando sulle parole della quotidianità e sui linguaggi massificati della nostra società, componendo originali e ardite metafore visive intorno al mondo della medialità. Questi spettacoli sono sempre attraversati da elementi problematici e di attualità e dimostrano quanto le nuove generazioni siano in grado di osservare le incertezze e le trasformazioni troppo rapide di una nazione segnata da eterne e insanabili contraddizioni.
Tutto ciò dimostra come, anche nel caso delle generazioni più giovani, sia proprio il teatro a denunciare il nuovo smarrimento, registrando tematiche, presenze, idee relative agli aspetti più complessi, ruvidi e scomodi della realtà ed evidenziando l’imprecisa e difficoltosa definizione del loro futuro.
Bibliografia
R. Castellucci, Epopea della polvere, Milano 2001.
V. Valentini, Mondi, corpi, materie. Teatri del secondo Novecento, Milano 2007.
Conversazioni sul dubbio. Il teatro di Rodrigo García in 7 interviste, a cura di V. Iacobini, Roma 2007.
R. Giambrone, F. Carbone, Pina Bausch. Le coreografie del viaggio, Macerata 2008.
Senza corpo. Voci dalla nuova scena italiana, a cura di D. Pietrobono, Roma 2009.