Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La civiltà spettacolare del XVIII secolo si presenta in tutta Europa ricca e dinamica: il consumo di spettacolo, nelle sue varie forme musicali e drammatiche, acquista una centralità sociale e una rilevanza culturale ed economica mai prima raggiunte, registrando continui mutamenti e una profonda rivoluzione formale e di gusto.
La fine di un ciclo
Nel corso del Settecento tramonta definitivamente il grande spettacolo mecenatesco e accademico di matrice rinascimentale italiana, per lasciare il posto a modelli produttivi legati a logiche di mercato e di destinazione interclassista; è un cambiamento lento e controverso che registra ancora significative compresenze dei due mondi, rappresentati dal teatro di cultura (non professionale né commerciale) e dal teatro di mestiere (dominato da ferree regole di convenienza economica e produttiva).
Proprio da una tale disomogeneità di punti di vista, di destinatari, di aspettative intellettuali scaturiscono alcuni degli aspetti più vitali di una storia che si apre cronologicamente con gli ultimi fasti barocchi del melodramma e si chiude con le inquietudini romantiche del dramma storico e le grandi kermesse delle feste giacobine.
Nuova ed esclusiva destinataria dello spettacolo moderno sarà la borghesia postrivoluzionaria, amante dei linguaggi dominati dal realismo e fortemente legati alla contemporaneità, e per la quale andare a teatro significherà partecipare a un rito sociale, carico di valenze simboliche e antropologiche di lunga durata.
Lo spazio del teatro
Il quadro europeo si presenta, dal punto di vista del consumo di spettacolo, assai diseguale: ci sono capitali – Londra, Parigi, Venezia, Vienna – dove si elaborano le fondamentali tendenze del gusto, si impostano i grandi dibattiti teorici e si lanciano le mode più fortunate, e c’è una variegata galassia di “province”: realtà multiformi e parcellizzate, spesso vivacissime e originali, dove si elaborano prodotti specifici su misura per destinatari locali. Per gli uomini del Settecento le occasioni per fruire di trattenimenti rappresentativi o musicali sono continue e le più diverse: si fa teatro infatti, oltre che nei luoghi deputati, nelle case di nobili e di borghesi, nei collegi, nei conventi, nelle accademie, nei carnevali, in villeggiatura, presso fiere e mercati.
Nei teatri a pagamento si afferma, con varianti locali, il modello della sala all’italiana e del palcoscenico come macchina delle apparizioni, in grado, spesso, di accogliere sia la prosa che la musica, dotato di imponenti scenografie, di illusionismi prospettici, di decorazioni antiquarie adatte a fare da sfondo ad azioni eroiche e mitologiche. La sala combina, con vari compromessi, la disposizione ad alveare dei palchi con la cavea a gradoni di ascendenza classica, cercando di mettere d’accordo esigenze ludiche, acustiche e funzionali, ma anche di realizzare un’adeguata separazione fra fasce diverse di spettatori, lottizzando gli spazi interni in appezzamenti autonomi, tali da garantire soluzioni diverse e il massimo del guadagno.
Una serie di geniali architetti-scenografi italiani – Filippo Juvarra, Niccolò Servandoni, le famiglie dei Bibiena, dei Mauro e dei Galliari – sperimentano in tutta Europa soluzioni architettoniche, scenografiche e pittoriche di grande suggestione. Nel corso del secolo, progressivamente, i teatri non sono più di legno, ma di pietra, spesso costruiti al centro delle città e più tardi eretti anche in villaggi e in paesi molto piccoli per ospitare trattenimenti semi-privati, quali luoghi di incontro sociale e mondano adatti a generi diversissimi di spettacolo.
Diventa frequente la pubblicazione di trattati sul teatro che ne analizzano i generi, le poetiche, le possibili funzioni sociali e morali, ma anche la forma architettonica e le tecniche di costruzione delle sale e degli spazi scenici, nonché i complessi problemi acustici e illuminotecnici posti dagli allestimenti. Sintesi e bilancio di queste riflessioni può essere considerato il Trattato completo, formale e materiale, del teatro di Francesco Milizia (1794), teorico e storico dell’architettura, che illuministicamente subordina il fenomeno teatrale, e quindi le strutture che lo riguardano, a criteri di razionale e pubblica utilità.
Nel 1770 per le nozze di Luigi XVI e di Maria Antonietta si inaugura il Teatro Reale di Versailles, una macchina delle meraviglie rococò dove il pavimento della sala può rialzarsi al livello del palcoscenico per ospitare il banchetto e le danze, spettacolo nello spettacolo offerto a un ristretto manipolo di ospiti di rango. L’investimento economico richiesto sarà ingente, e il re non onorerà mai il debito nei confronti delle maestranze; tuttavia la sala sarà utilizzata per quell’unica occasione, l’ultima, simbolicamente, di una serie di feste signorili ispirate all’ostentazione di un lusso smodato e fine a se stesso.
Ormai, infatti, i tempi sono mutati: e non è forse un caso che, proprio sul finire del Settecento, si inauguri una serie di grandi teatri destinati al vasto pubblico pagante del nuovo secolo, fra i quali possiamo ricordare, ad esempio, la Scala di Milano e La Fenice di Venezia, aperti rispettivamente nel 1778 e nel 1792, il Nationaltheater di Vienna, voluto nel 1776 dall’imperatore Giuseppe II restaurando l’Hoftheater e il Königlisches Nationaltheater realizzato a Berlino, nel 1786, da Guglielmo II.
L’Italia
La vicenda del teatro italiano settecentesco è caratterizzata da una continua, feconda dialettica fra le istanze riformatrici della cultura arcadica e il persistere di un vasto mercato del professionismo attoriale e musicale, dominato da tenaci consuetudini formali e strutturali, le cosiddette “convenienze teatrali”, che determinano rigidamente la distribuzione interna e le gerarchie delle parti all’interno delle compagnie, così come gli schemi delle partiture musicali, ancorando la composizione di drammi, commedie, libretti e spartiti a schemi obbligati e prevedibili per gli spettatori. Ferocemente satireggiate da Benedetto Marcello nel pamphlet Il teatro alla moda (1720), capostipite di una serie di opere comiche, drammatiche e musicali che mettono in burla il mondo dello spettacolo e i suoi stereotipati protagonisti, queste regole vengono rigettate, in genere con scarso successo, dai numerosi drammaturghi dilettanti che si ispirano al gusto razionale e realistico propugnato dai teorici di poetica dell’Arcadia: Giovan Mario Crescimbeni, Ludovico Antonio Muratori, Francesco Saverio Quadrio, Gerolamo Tiraboschi, Apostolo Zeno, Scipione Maffei, Pier Iacopo Martello. Si deve a costoro un imponente lavoro erudito, filologico, editoriale e trattatistico volto al recupero della migliore tradizione drammaturgica italiana rinascimentale, presa a modello di una scena letteraria che trova nella tragedia il suo vertice qualitativo.
La fortunata Merope di Scipione Maffei, rappresentata a Venezia nel 1714, segna comunque un’illusione di breve durata circa la possibile affermazione di un teatro “riformato” al di fuori della ristretta cerchia dilettantesca e accademica.
Questa illusione verrà subito smentita, infatti, dal solenne fiasco della Scolastica dell’Ariosto, incautamente riproposta all’impietoso uditorio del Teatro San Luca. Tuttavia il trattato di Maffei De’ teatri antichi e moderni segna, nel 1753, una tappa importante in questa battaglia per il riconoscimento della dignità morale e civile del teatro contro le condanne oscurantiste di marca tridentina; è significativo che questa riabilitazione sia sancita dal consenso autorevole del pontefice Benedetto XIV, che chiude secoli di polemiche ecclesiastiche assai aspre.
La qualità e l’estensione del dibattito dei riformatori dell’Arcadia non basta, di per sé, a cambiare la realtà delle scene italiane; né la tragedia né la commedia letteraria dei dilettanti aristocratici riescono infatti a competere con il consumato mestiere delle compagnie dell’arte, che continuano a proporre un repertorio tradizionale di intrecci tragicomici e romanzeschi (spesso derivati dal teatro spagnolo), di farse satiriche, di trattenimenti misti di parole, di danza e di musica, dove inverosimiglianze e scostumatezze perpetuano una fruizione totalmente evasiva degli spettacoli. Ultimo, glorioso episodio di questa storia sono le Fiabe di Carlo Gozzi, che negli anni Sessanta, in polemica con Goldoni, propongono al pubblico veneziano dei pastiches di esotismo, satira e folklore, in parte recitate a soggetto dalle maschere, che riscuotono uno straordinario successo grazie soprattutto alle prodezze macchinistiche del palcoscenico del San Samuele e ai lazzi di uno degli ultimi grandi Arlecchini della storia, Antonio Sacchi.
Il problema capitale del teatro drammatico è quello di una cronica carenza di testi interessanti per un pubblico onnivoro e superficiale, eccessivamente sollecitato da una vivace concorrenza e da un’offerta di spettacoli troppo ricca e di troppo rapido consumo. Della pittoresca turbolenza di queste platee italiane rendono testimonianza divertita, perplessa o sgomenta, lungo tutto il secolo, le lettere e i diari dei numerosi stranieri in viaggio d’istruzione e di piacere lungo la penisola; per costoro Venezia è una tappa obbligata, quale capitale internazionale del divertimento turistico, culminante nella stagione del carnevale.
Accanto alla Serenissima, il circuito padano delle corti settentrionali, di Milano, di Bologna e di Firenze costituisce l’altra meta obbligata delle compagnie di giro che raramente si spingono fino a Roma, dove è vietata la presenza delle donne in scena fino al 1797; separata e peculiare resta, come sempre, la realtà napoletana, fecondo vivaio da cui scaturisce l’esperienza di Metastasio, dove si coltivano generi drammaturgici e musicali di tradizione locale.
Attorno all’intera civiltà teatrale del Settecento italiano ruota una sorta di paradosso: che tre eccezionali talenti, come Metastasio, appunto, Goldoni e poi Alfieri (tutti e tre impegnati a riqualificare in vari modi il testo drammatico in termini formali, morali e civili) fioriscano in un contesto tutto sommato modesto e provinciale, soffocato da un’ impasse artificiale fra letteratura e spettacolo, agitato da fermenti riformatori molto libreschi e pressato da molteplici angustie economiche e strutturali: un contesto che dopo di loro, infatti, si richiuderà per decenni in una dignitosa mediocrità, ricacciando la scrittura drammatica ai margini della cultura alta e lasciando di nuovo, e in via definitiva, il teatro agli attori, suoi generosi ma deboli paladini.
In cinquant’anni di attività produttiva (26 melodrammi, 46 azioni teatrali profane e sacre, cantate, canzonette) Metastasio domina la cultura europea con la sua fortunata riforma librettistica, volta a restaurare un rigoroso equilibrio fra parole e musica secondo criteri di misura, di gusto e di verosimiglianza che coniugano sensibilità lirica e intensità drammatica. Il suo è un successo duraturo e incontrastato che varrà ai suoi componimenti, così compiuti da poter essere recitati talvolta anche senza musica, un’infinita serie di remake, sotto rivestimenti musicali sempre diversi, fino a Ottocento inoltrato.
In continuità ideale con la riforma metastasiana si colloca l’esperienza di Carlo Goldoni, il riformatore della commedia, che percorre un cammino professionale, irto di ambiguità e di contraddizioni, con la sofferta aspirazione a porsi come autore cui sia riconosciuto il diritto di vivere dei proventi del proprio lavoro: un lavoro che appartiene alla sfera dell’ingegno, cioè dell’“arte”, intesa come libera e inalienabile creazione della fantasia, ma ancora carica di tutti gli elementi meccanici e materiali legati al possesso di un mestiere. Nel Settecento egli vive questo delicato passaggio da “arte di mestiere” ad “arte d’artista”, una storia più vasta di transizione verso un nuovo mercato delle idee e della cultura, che riguarda, con gradualità diverse, la letteratura, le arti figurative, la musica, e, in primo piano, il teatro.
L’enfasi con cui Goldoni insiste, nei propri Mémoires, sulla centralità della riforma e sulla sua alta natura ideologica e morale è solo un tassello di questa strategia, che la critica posteriore si è affrettata a far suo, così come ha troppo spesso avvalorato il ritratto del buon padre ilare e inoffensivo così accuratamente costruito dall’interessato. Certamente la riforma della commedia resta il risultato più importante della sua avventura umana e intellettuale, quello che lo consegna alla storia dopo la commedia dell’arte e prima del dramma borghese ottocentesco. Goldoni elabora in una fase relativamente tarda della sua vita i principi di questa riforma, che rilanciano ne Il teatro comico e nella prefazione all’edizione Bettinelli delle sue commedie (1750) molte proposizioni del classicismo aristotelico di antica tradizione, rivisitate alla luce del gusto settecentesco per il “semplice” e il “naturale”. Anche prima di incontrare Girolamo Medebach, capocomico del Teatro Sant’Angelo e partner decisivo per far decollare a Venezia la commedia nuova, Goldoni lavora a lungo per il teatro, sperimentando pressoché tutti i generi della scrittura drammaturgica. Il primato conferito a un certo punto alla commedia, del resto, non interromperà mai l’attività di Goldoni quale estensore di canovacci, libretti, intermezzi di gran fortuna, a cui, paradossalmente, dovrà per lunghi anni il suo maggior successo internazionale, finché, nel 1762, verrà chiamato a Parigi a dirigere la Comédie Italienne proprio per questo.
Negli anni tutto sommato brevi della sua attività veneziana Goldoni lavora presso tre teatri – il San Samuele, con la compagnia Imer, il Sant’Angelo con il già ricordato Medebac, e il San Luca di proprietà dell’impresario aristocratico Francesco Vendramin – accumulando un’esperienza pressoché unica per varietà e ricchezza, che metterà a frutto con ulteriore successo negli anni parigini, rassegnandosi a rinunciare, per il pubblico francese (a cui dedica peraltro due commedie in lingua), ai principi della riforma per tornare a fare soprattutto il librettista. In quasi cinquant’anni di attività Goldoni lascia una raccolta imponente di 134 componimenti drammatici di varia natura, più di un centinaio di testi per musica, e le Memorie, oltre a un folto gruppo di liriche, poemetti, traduzioni, prefazioni, lettere e manifesti che illustrano e difendono il progredire del suo lavoro.
Carlo Goldoni
Il “Mondo” e il “Teatro”
Non mi vanterò io già d’essermi condotto a questo segno, qualunque ei si sia, col mezzo di un assiduo metodico studio sull’Opere o precettive, o esemplari in questo genere de’ migliori antichi e recenti Scrittori e Poeti, o Greci, o Latini, o Francesi, o Italiani, o d’altre egualmente colte Nazioni; ma dirò con ingenuità, che sebben non ho trascurata la lettura de’ più venerabili e celebri Autori, da’ quali, come da ottimi Maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli: contuttociò i due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro. Il primo mi mostra tanti e poi tanti vari caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose ed istruttive Commedie: mi rappresenta i segni, la forza, gli effetti di tutte le umane passioni: mi provvede di avvenimenti curiosi: m’informa de’ correnti costumi: m’intruisce de’ vizi e de’ difetti che son più comuni del nostro secolo e della nostra Nazione, i quali meritano la disapprovazione o la derisione de’ Saggi; e nel tempo stesso mi addita in qualche virtuosa Persona i mezzi coi quali la Virtù a codeste corruttele resiste, ond’io da questo libro raccolgo, rivolgendolo sempre, o meditandovi, in qualunque circostanza od azione della vita mi trovi, quanto è assolutamente necessario che si sappia da chi vuole con qualche lode esercitare questa mia professione. Il secondo poi, cioè il libro del Teatro, mentre io lo vo maneggiando, mi fa conoscere con quali colori si debban rappresentar sulle Scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti, che nel libro del Mondo si leggono; come si debba ombreggiarli per dar loro il maggiore rilievo, e quali sien quelle tinte, che più li rendon grati agli occhi dilicati degli spettatori. Imparo in somma dal Teatro a distinguere ciò ch’è più atto a far impressione sugli animi, a destar la maraviglia, o il riso, o quel tal dilettevole solletico nell’uman cuore, che nasce principalmente dal trovar nella Commedia che ascoltasi, effigiati al naturale, e posti con buon garbo nel loro punto di vista, i difetti e ’l ridicolo che trovasi in chi continuamente si pratica, in modo però che non urti troppo offendendo.
Ho appreso pur dal Teatro, e lo apprendo tuttavia all’occasione delle mie stesse Commedie, il gusto particolare della nostra Nazione, per cui precisamente io debbo scrivere, diverso in ben molte cose da quello dell’altre. Ho osservato alle volte riscuotere grandissimi encomi alcune coserelle da me prima avute in niun conto, altre riportarne pochissima lode, e talvolta eziandio qualche critica, dalle quali non ordinario applauso io avea sperato; per la qual cosa ho imparato, volendo render utili le mie Commedie, a regolar talvolta il mio gusto su quello dell’universale, a cui deggio principalmente servire, senza darmi pensiero delle dicerie di alcuni o ignoranti, o indiscreti e difficili, i quali pretendono di dar la legge al gusto di tutto un Popolo, di tutta una Nazione, e forse anche di tutto il Mondo e di tutti i secoli colla lor sola testa, non riflettendo che, in certe particolarità non integranti, i gusti possono impunemente cambiarsi, e convien lasciar padrone il Popolo egualmente che delle mode del vestire e de’ linguaggi.
Per questo, quando alcuni adoratori d’ogni antichità esigono indiscretamente da me, sull’esempio de’ Greci e Romani Comici, o l’unità scrupolosa del luogo, o che più di quattro Personaggi non parlino in una medesima scena, o somiglianti stiticità, io loro in cose che così poco rilevano all’essenzial bellezza della Commedia, altro non oppongo che l’autorità del da tanti secoli approvato uso contrario. Moltissime son quelle cose nelle antiche Commedie, massimamente Greche, ed in particolare in quelle di Aristofane, quando elle recitavansi sopra Palchi mobili come le nostre Burlette, le quali assaissimo a que’ tempi piacevano, e riuscirebbono intollerabili ai nostri e però io stimo che, più scrupolosamente che ad alcuni precetti di Aristotele o di Orazio, convenga servire alle leggi del Popolo in uno spettacolo destinato all’istruzion sua per mezzo del suo divertimento e diletto. Coloro che amano tutto all’antica, ed odiano le novità, assolutamente parmi che si potrebbono paragonare a que’ Medici, che non volessero nelle febbri periodiche far uso della chinchina per questa sola ragione, che Ippocrate o Galeno non l’hanno adoperata.
Ecco quanto ho io appreso da’ miei due gran libri, Mondo e Teatro. Le mie Commedie sono principalmente regolate, o almeno ho creduto di regolarle, co’ precetti che in essi due libri ho trovati scritti: libri, per altro, che soli certamente furono studiati dagli stessi primi Autori di tal genere di Poesia, e che daranno sempre a chicchessia le vere lezioni di quest’Arte.
C. Goldoni, Storia del mio teatro, a cura di E. Ajello, Milano, Rizzoli, 1993
Il progetto goldoniano di portare in teatro il “vero” della vita quotidiana con un linguaggio medio e persino dialettale, prestato a personaggi con uno spessore psicologico ed etico storicamente e socialmente riconoscibile, fallisce di fronte alle chiusure e ai ritardi storici del pubblico italiano; tuttavia la sua scelta di operare dentro la realtà senza rinnegare i vincoli contingenti del mercato né le ragioni di un moderato riformismo intellettuale resta corretta. Goldoni intuisce che l’elemento decisivo all’interno delle contrastanti dinamiche che contrappongono le volgarità del teatro reale ai sogni di quello libresco può essere soltanto l’autore: egli è mediatore naturale del delicato equilibrio fra le parti in causa, forte, verso attori e impresari, del suo status prestigioso di intellettuale, ma anche libero, rispetto ai letterati veri, in quanto uomo di teatro, sottoposto semmai a leggi sui generis e depositario di competenze speciali: possessore, insomma, di un mestiere. In vista di un tale obiettivo Goldoni si impegna in una strategia editoriale di vasto raggio, curando ben quattro edizioni a stampa dei propri testi, cercando di difendere (in largo anticipo sui tempi) il proprio diritto di autore e di consegnare, attraverso i libri, l’immagine organica e accattivante di un lavoro che conosce intanto sulle scene scarti e contraddizioni di ogni genere e che sortirà, alla fine, una sostanziale sconfitta.
Il terzo grande delle scene italiane settecentesche, il conte Vittorio Alfieri, vive, sul versante della tragedia, un’esperienza altrettanto deludente e troppo precoce rispetto ai tempi: la sua drammaturgia, ormai neoclassica nei temi e nel linguaggio poetico e animata da forti aspirazioni patriottiche e libertarie, è condannata, nelle sue intenzioni, a restare per il momento relegata all’interno dei libri o di un consumo puramente elitario e dilettantesco, giacché la realtà materiale delle scene coeve gli appare con essa totalmente incompatibile. Nel suo Parere sull’arte comica in Italia (1787) egli indica la strada del rinnovamento in un rifondato rapporto fra autore, attori e spettatori. Dopo tre secoli di discussioni, di tentativi e di delusioni Alfieri consegna infine all’Italia la grande tragedia tanto sognata dai letterati, che offrirà agli uomini dell’Ottocento una campionatura di eroi di immediata spendibilità risorgimentale.
La Francia e l’Inghilterra
Se dall’Italia vengono ancora i modelli fondamentali della scenografia e dell’architettura teatrale e resiste incontrastato il primato del melodramma (italiano è ancora in larghissima parte il linguaggio musicale e librettistico), a Parigi si vive un’intensa vita spettacolare, in cui dominano i generi drammaturgici tradizionali, consacrati dalla grande triade “classica” Molière - Corneille - Racine e che gode di una salda tutela statale in condizioni di monopolio (la Comédie Française da una parte e l’Académie Royale de Musique, cioè l’Opéra, dall’altra, fondate da Luigi XIV rispettivamente nel 1680 e nel 1672 ne sono i capisaldi). A fianco di questi colossi istituzionali prosperano le realtà minori dei teatrini forains che operano stagionalmente presso i mercati di Saint-Germain e Saint-Laurent, luoghi di scambi e di divertimenti popolati da una miriade di spazi ludici diretti da impresari più o meno improvvisati, che oppongono ai fasti dello spettacolo ufficiale le prodezze disomogenee di marionette, acrobati, farceurs e illusionisti di vario genere, mentre la riapertura della Comédie Italienne, voluta nel 1715 dal reggente, riporta ai parigini le performances della commedia dell’arte, dopo la lunga eclisse seguita alla cacciata dei comici, per volere del Re Sole, nel 1697.
Il nuovo direttore Luigi Riccoboni, reduce da falliti tentativi di riforma teatrale presso gli esponenti dell’Arcadia italiana, ne rilancerà le fortune, destinate a durare molti decenni ancora, francesizzandone il repertorio con la collaborazione di un drammaturgo sottile e moderno come Marivaux. Qui lavorerà negli anni Settanta anche il vecchio Goldoni, esule volontario da Venezia, quando ormai la fusione della Comédie Italienne con l’Opéra-Comique, avvenuta nel 1762, sta prefigurando anche a Parigi l’estinzione delle fortune di Arlecchino e dei suoi compagni in maschera.
Anche a Londra le cose dello spettacolo sono affare di Stato, da quando, nel 1737, il parlamento stabilisce il monopolio teatrale e il controllo pubblico sui due soli teatri autorizzati, Drury Lane e Lincoln’s Inn Field, con l’intento di scoraggiare le polemiche antigovernative di Henry Fielding, attivo al Little Theatre, o la satira del regime del primo ministro Robert Walpole che ne fa John Gay ne L’opera del mendicante del 1728, rappresentata con grande successo per 62 giorni di fila.
È dal gusto moraleggiante del pubblico medio londinese che scaturisce il fortunato modello di domestic drama creato da George Lillo con Il mercante di Londra (1731) e con Curiosità fatale (1736): entrambi ricavati da ballate popolari su casi di cronaca nera, portano in scena personaggi e ambienti mercantili con linguaggio medio e chiaro intento edificante, e avranno vasta fortuna europea e molte imitazioni.
Ma la novità più importante che l’Inghilterra porta all’Europa settecentesca è lo Shakespeare ritrovato di David Garrick, un geniale attore-drammaturgo che dirige il Drury Lane dal 1747 al 1776. Garrick rinnova in senso realistico la recitazione dei testi fortemente rimaneggiati dai suoi predecessori (e già oggetto di una radicale e moderna revisione filologica), e ripropone in chiave purgata molti drammi della Restaurazione promuovendo il fiorire di una commedia urbana raffinata e moderna: è lui a educare il turbolento pubblico londinese a una fruizione più consapevole del teatro drammatico e a esportare in tutta Europa il più grande drammaturgo nazionale che la cultura romantica avrebbe di lì a poco assunto come il suo modello ideale.
È Voltaire, reduce da un soggiorno londinese, a divulgare in Francia le novità del teatro inglese, tentandone il ricalco in una serie di tragedie in cui intende salvare anche le ragioni del classicismo e lo spessore filosofico che gli stanno a cuore.
Ma il pubblico parigino predilige piuttosto il nuovo genere patetico-sentimentale della comédie larmoyante di Nivelle de La Chaussée, versione meridionale ed edulcorata delle tragedie domestiche inglesi, vicina al romanzo coevo nell’impianto e nella tipizzazione psicologica dei personaggi: Diderot lo respinge come un pregiudizio nel suo romanzo Les bijoux indiscrets (1747) e fa proprie le nuove tendenze del teatro inglese e italiano, proponendo piuttosto il genere serio, il “dramma” come il più idoneo a rappresentare la realtà per un pubblico moderno: La Scozzese di Voltaire, rappresentata alla Comédie Française nel 1760, e Il padre di famiglia dello stesso Diderot dell’anno successivo segnano le prime affermazioni del nuovo stile.
Denis Diderot
Saint-Albin si strugge d’amore
Il padre di famiglia, Atto II, scena VI
Scena 6 - Il PADRE DI FAMIGLIA, SAINT-ALBIN
SAINT-ALBIN [entrando vivamente]: Papà! [Il padre di famiglia passeggia e resta zitto. Saint-Albin, seguendo suo padre e in tono supplicante] Papà!
PADRE DI FAMIGLIA [fermandosi e in tono serio]: Ragazzo mio, se non sei tornato in te, se la ragione non ha di nuovo i suoi diritti su di te, non venire ad aggravare i tuoi torti e il mio dispiacere.
SAINT-ALBIN: Ma ne sono più che consapevole. Mi avvicino a voi tremando... Sarò calmo e ragionevole... Sì, lo sarò... Me lo sono imposto. [Il padre di famiglia continua a passeggiare. Saint-Albin avvicinandosi timidamente, gli dice con voce bassa e tremante] L’avete vista?
PADRE DI FAMIGLIA: Sì, l’ho vista. È bella, e la credo seria. Ma che pretendi di farne? Un passatempo? Non potrei permetterlo. Tua moglie? non è adatta.
SAINT-ALBIN [trattenendosi]: È bella, è seria e non mi è adatta! Qual è dunque la donna adatta a me?
PADRE DI FAMIGLIA: Quella che per l’educazione, la nascita, lo stato e il patrimonio, può assicurarti la felicità e soddisfare le mie speranze.
SAINT-ALBIN: Così il matrimonio sarà per me un fatto d’interesse e d’ambizione! Padre mio, non avete che un figlio; non lo sacrificate ad opinioni che riempiono il mondo di coniugi infelici. Ho bisogno d’una compagna onesta e sensibile, che m’insegni a sopportare le difficoltà della vita, e non d’una donna ricca e titolata che le aumenti. Ah! auguratemi la morte, e che il cielo me la conceda piuttosto che darmi una donna come ne vedo tante.
PADRE DI FAMIGLIA: Non te ne propongo nessuna; ma non permetterò mai che tu sia di questa di cui sei follemente innamorato... Potrei usare la mia autorità e dirti: Saint-Albin, non mi va, non può essere, non pensarci più. Ma non t’ho mai chiesto niente senza mostrartene il motivo. Ho voluto che mi approvassi obbedendomi; e anche ora avrò la stessa bontà. Calmati e ascoltami.
Figlio mio, saranno presto vent’anni da quando ti bagnai delle prime lacrime che m’abbia fatto versare. Mi s’allargava il cuore vedendo in te un amico che la natura mi dava. T’ho ricevuto nelle mie braccia dal grembo di tua madre; e, alzandoti al cielo, e mescolando la mia voce alle tue grida, dissi a Dio: “Oh Dio! che m’hai accordato questo figlio, se manco ai doveri che m’imponi in questo giorno, o se lui non dovesse rispondervi, non guardare la gioia di sua madre; riprenditelo”.
Ecco il voto che feci su te e su me. L’ho avuto sempre presente, non t’ho mai affidato a cure mercenarie. T’ho insegnato io stesso a parlare, a pensare, a sentire. Man mano che crescevi, ho studiato le tue inclinazioni, ho tracciato in base ad esse il piano della tua educazione, l’ho seguito senza posa. Quante pene mi son date per risparmiartene! Ho regolato il tuo avvenire sulle tue capacità e i tuoi gusti. Non ho trascurato nulla perché ti distinguessi. E quando sto per raccogliere il frutto della mia sollecitudine; quando mi rallegro d’avere un figlio degno della sua nascita, che lo destina ai migliori partiti, e delle sue qualità personali, che lo chiamano a grandi compiti, una passione insensata, il capriccio d’un momento avrà distrutto tutto; ed io vedrò i suoi più begli anni perduti, la sua condizione fallita e la mia attesa ingannata, e sarò d’accordo? Te lo sei giurato?
SAINT-ALBIN: Quanto sono infelice!
PADRE DI FAMIGLIA: Hai uno zio che ti ama e ti destina un considerevole patrimonio; un padre che t’ha dedicato la vita, e cerca di dimostrarti in tutto la sua tenerezza; un nome, dei parenti, degli amici, le prospettive più lusinghiere e meglio fondate, e sei infelice? Che altro vuoi?
SAINT-ALBIN: Sophie, il cuore di Sophie, e il consenso di mio padre.
PADRE DI FAMIGLIA: Ma che osi propormi? Di condividere la tua follia, e il biasimo generale che ne seguirebbe? Che esempio da dare ai padri e ai figli? Io, autorizzare una debolezza vergognosa, il disordine della società, la mistione del sangue e dei ranghi, la degradazione delle famiglie?
SAINT-ALBIN: Quanto sono infelice! Se non ho quella che amo, un giorno bisognerà che sia di quella che non amerò; perché non amerò altra che Sophie. Paragonerò sempre un’altra a lei. Quest’altra sarà un’infelice; lo sarò anch’io; voi lo vedrete e morrete di rimorso.
PADRE DI FAMIGLIA: Avrò fatto il mio dovere; e guai a te se non farai il tuo.
SAINT-ALBIN: Papà, non mi togliete Sophie.
PADRE DI FAMIGLIA: Smetti di chiedermela.
SAINT-ALBIN: Cento volte m’avete detto che una donna onesta è il favore più grande che il cielo possa concedere. L’ho trovata; e siete voi che me ne volete privare! Padre mio, non me la togliete. Adesso che sa chi sono, che cosa non deve aspettarsi da me? Saint-Albin sarà meno generoso di Sergi? Non me la togliete. È lei che m’ha rimesso la virtù nel cuore; solo lei può conservarcela.
PADRE DI FAMIGLIA: Vuol dire che il suo esempio farà quello che il mio non ha potuto fare.
SAINT-ALBIN: Voi siete mio padre e potete comandare: lei sarà mia moglie e avrà un altro diritto.
PADRE DI FAMIGLIA: C’è differenza tra un innamorato e uno sposo! Tra una moglie e un’amante! Uomo ingenuo, questo tu non lo sai.
SAINT-ALBIN: Spero di ignorarlo sempre.
PADRE DI FAMIGLIA: C’è un innamorato che guarda la donna che ama con altri occhi e parla diversamente?
SAINT-ALBIN: L’avete vista Sophie! ...Se l’abbandono per un rango, delle dignità, delle speranze, dei pregiudizi, non meriterei di conoscerla. Padre mio, disprezzate tanto vostro figlio da poterlo credere?
PADRE DI FAMIGLIA: Lei non s’è avvilita, cedendo alla tua passione: imitala.
SAINT-ALBIN: E m’avvilirei diventando suo marito?
PADRE DI FAMIGLIA: Chiedilo alla società.
SAINT-ALBIN: Per cose poco importanti, prendo la società com’è; ma quando si tratta della felicità o dell’infelicità della mia vita, della scelta d’una compagna...
PADRE DI FAMIGLIA: Non sarai tu a cambiarne le idee. Quindi accettale.
SAINT-ALBIN: Sconvolgono tutto, guastano tutto, subordinano la natura alle loro miserabili convenzioni, e io dovrei sottoscriverle?
PADRE DI FAMIGLIA: Se no, ne sarai disprezzato.
SAINT-ALBIN: Le fuggirò.
PADRE DI FAMIGLIA: Il disprezzo ti seguirà, e questa donna che avrai coinvolto non sarà meno da compiangere di te... L’ami?
SAINT-ALBIN: Se l’amo!
PADRE DI FAMIGLIA: Ascolta, e trema alla sorte che le prepari. Un giorno sentirai tutto il valore delle cose che le avrai sacrificato. Ti troverai solo con lei, senza condizione, senza beni, senza prestigio; la noia e la tristezza t’assaliranno. L’odierai; la coprirai di rimproveri. La sua pazienza e la sua dolcezza t’inaspriranno del tutto; la odierai di più; odierai i figli che t’avrà dato, e la farai morire di dolore.
SAINT-ALBIN: Io!
PADRE DI FAMIGLIA: Tu.
SAINT-ALBIN: Mai, mai.
PADRE DI FAMIGLIA: La passione vede tutto eterno, ma la natura umana vuole che tutto finisca.
SAINT-ALBIN: Io cessar d’amare Sophie! Se ne fossi capace, non saprei più, credo, se vi voglio bene.
PADRE DI FAMIGLIA: Vuoi saperlo e provarmelo? Fa’ quel che ti chiedo.
SAINT-ALBIN: Lo tenterei invano. Non posso. Son troppo preso. Padre mio, non posso.
PADRE DI FAMIGLIA: Sciagurato, e tu vorresti esser padre? Ne conosci i doveri? Se li conosci, permetteresti a tuo figlio ciò che t’aspetti da me?
SAINT-ALBIN: Ah! se osassi rispondere.
PADRE DI FAMIGLIA: Rispondi.
SAINT-ALBIN: Me lo permettete?
PADRE DI FAMIGLIA: Te l’ordino.
SAINT-ALBIN: Quando avete voluto mia madre; che tutta la famiglia si sollevò contro di voi e il nonno vi chiamò figlio ingrato, e voi lo chiamaste in fondo alla vostra anima padre crudele, chi di voi due aveva ragione? Mia madre era virtuosa e bella come Sophie; era povera, come Sophie; voi l’amavate come io amo Sophie. Avete forse permesso che ve la strappassero, papà; e non ho anch’io un cuore come il vostro?
PADRE DI FAMIGLIA: Avevo dei mezzi e tua madre veniva da una buona famiglia.
SAINT-ALBIN: Chi può sapere chi è Sophie?
PADRE DI FAMIGLIA: Chimere.
SAINT-ALBIN: I beni? L’amore, la necessità me ne forniranno.
PADRE DI FAMIGLIA: Attento ai mali che te ne verranno.
SAINT-ALBIN: Non averla è il solo male che temo.
PADRE DI FAMIGLIA: Attento a non perdere il mio affetto.
SAINT-ALBIN: Lo riconquisterò.
PADRE DI FAMIGLIA: Chi te l’ha detto?
SAINT-ALBIN: Vedrete scorrere le lacrime di Sophie; v’abbraccerò le ginocchia; i miei figli vi tenderanno le braccia innocenti, e non li respingerete.
PADRE DI FAMIGLIA [a parte]: Mi conosce anche troppo bene... [Dopo una piccola pausa assume l’aria e il tono più severi e dice]: Figlio mio, vedo che parlo invano; che la ragione non conta per te, e che il mezzo che ho sempre temuto di usare è il solo che mi resti. L’userò, visto che mi costringi. Abbandona i tuoi progetti. Lo voglio e te l’ordino con tutta l’autorità che un padre ha sui suoi figli.
SAINT-ALBIN [con un sordo impeto]: L’autorità, l’autorità; non sanno dire altro.
PADRE DI FAMIGLIA: Rispettala.
SAINT-ALBIN [andando su e giù]: Sono tutti così. È così che ci amano. Se fossero dei nemici che cosa potrebbero farci di peggio?
PADRE DI FAMIGLIA: Che dici? cosa borbotti?
SAINT-ALBIN [ancora tra sé]: Si credono saggi perché hanno passioni diverse dalle nostre.
PADRE DI FAMIGLIA: Taci.
SAINT-ALBIN: Ci hanno dato la vita solo per disporne a modo loro.
PADRE DI FAMIGLIA: Taci.
SAINT-ALBIN: Ce la riempiono d’amarezza; e come potrebbero commuoversi ai nostri dolori? Hanno perso l’abitudine.
PADRE DI FAMIGLIA: Dimentichi chi sono e a chi parli. Taci, se non vuoi attirare il segno più terribile dell’ira dei padri.
SAINT-ALBIN: I padri! i padri! Non ce n’è... Ci sono solo dei tiranni.
PADRE DI FAMIGLIA: Oh cielo!
SAINT-ALBIN: Sì, dei tiranni.
PADRE DI FAMIGLIA: Vattene da me, figlio ingrato e snaturato. Ti maledico. Vattene. [Il figlio se ne va. Ma ha appena fatto pochi passi, che il padre lo rincorre e gli dice] Dove te ne vai, disgraziato?
SAINT-ALBIN: Papà!
PADRE DI FAMIGLIA [si getta su una poltrona e suo figlio si mette ai suoi piedi]: Io tuo padre? Tu mio figlio? Io non sono più niente per te. Non sono mai stato niente. M’avveleni la vita. Ti auguri la mia morte. Ma perché è stata tanto rimandata? Perché non sono con tua madre! Lei non c’è più, e i miei giorni infelici sono stati prolungati.
SAINT-ALBIN: Papà!
PADRE DI FAMIGLIA: Vattene. Nascondimi le tue lacrime. Mi strazi il cuore, ed io non posso cacciartene.
D. Diderot, Teatro e scritti sul teatro, a cura di M. Grilli, Firenze, La Nuova Italia, 1980
Gli intellettuali dell’Illuminismo difendono la funzione civile ed educativa del teatro in una serie di scritti polemici, fra cui ricordiamo la voce “Genève” scritta da D’Alembert per l’ Encyclopédie nel 1757, in polemica con le autorità calviniste della città ostili agli spettacoli; la Lettera a D’Alembert sugli spettacoli (1757), replica di Rousseau che contrappone alle illusioni grossolane del teatro drammatico l’alternativa della festa in cui il popolo è soggetto dell’evento; il Saggio sul genere drammatico serio, che introduce la commedia Eugenia di Beaumarchais (1767), autore de Il Barbiere di Siviglia e Le nozze di Figaro, che racconta, attraverso una trama romanzesca ambientata in una Spagna convenzionale, la vittoria dei servi sui propri padroni. È una linea di teatro impegnato sul piano politico e sociale, che informa le esperienze di molti altri autori prerivoluzionari.
Molte cose si stanno muovendo in questi anni in vista di una riabilitazione morale e civile del teatro dopo secoli di diffidenze e di emarginazioni; una battaglia importante in questo senso è quella per la difesa del diritto d’autore, per tutelare l’integrità dei testi dalle interpolazioni commerciali degli attori e riconoscerne ai legittimi creatori il dovuto profitto economico: un decreto del 1780 ne riconosce in Francia, con largo anticipo su altri Paesi europei, la legittimità, assegnando agli scrittori un settimo degli incassi degli spettacoli.
Questa visione moderna e razionale del teatro investe anche gli attori, pronti a difendere in termini nuovi la loro professionalità e a scrivere trattati teorici sul loro mestiere. Nel 1750 esce, infatti, L’arte teatrale di Valentino Riccoboni, figlio di Luigi, e nel 1760 a Berlino compare Garrick o gli attori inglesi, libera traduzione di un saggio inglese di Michele Sticotti, figlio a sua volta di due compagni di Riccoboni, colto artista con esperienze europee che proclama la necessità, da parte degli interpreti, di coltivarsi e di addomesticare la propria sensibilità per rendere al meglio i personaggi.
Ma il saggio più importante e innovativo in materia si deve ancora a Diderot, che nel suo Paradoxe sur le comédien (pubblicato soltanto nel 1830) elabora la tesi, destinata a lungo futuro, per cui il miglior attore è colui che, con adeguati strumenti tecnici e culturali, è in grado di interpretare il proprio personaggio nella maniera più distaccata possibile, esercitando un ferreo controllo sulle sue passioni.
L’Europa del Nord
Nei Paesi germanici, dove le piccole corti mecenatesche affiancano le libere municipalità cittadine, si colmano nel Settecento alcuni storici ritardi che avevano fatto dell’Europa nord-orientale una tradizionale “terra di conquista” per le compagnie soprattutto inglesi e italiane. Resistono più che mai in auge le fortune della commedia dell’arte, da sempre cara ai principi d’oltralpe: Dresda, Varsavia, Mannheim, Stoccarda, Bayreuth, Berlino, Monaco, Praga, Amburgo, Drottnigholm, vicino a Stoccolma (dove si costruisce nel 1762 uno splendido teatrino all’italiana che sopravvive ancor oggi come un gioiello barocco perfettamente conservato), Vienna sono, in questo secolo, insieme alle lontane corti di Lisbona e di Pietroburgo, mete ambite e lucrose di tournée estere per le maschere italiane, che ripropongono con fortuna a questi pubblici nobiliari pantomime, commedie all’improvviso, trattenimenti musicali tradizionali del loro più antico repertorio; altrettanto vezzeggiati e ricercati sono virtuosi, cantanti e musicisti italiani.
Il melodramma resta un trattenimento elitario promosso in genere da patrizi e da sovrani che lo hanno conosciuto nei loro viaggi e lo importano nei propri Paesi, dove cominciano ad affermarsi sistemi misti di teatri impresariali su concessione sovrana che conservano alla corte, quando c’è, alcuni privilegi pur smantellandone progressivamente il potere assoluto. A Vienna, in particolare, dove fin dal 1650 l’imperatore mantiene un gruppo fisso di librettisti italiani, domina l’astro di Metastasio, per lunghi anni al servizio degli Asburgo, che irradia in tutta Europa i principi della sua fondamentale riforma.
Le istanze di rinnovamento che percorrono un po’ tutta la cultura europea raggiungono anche le città tedesche: a Lipsia, negli anni Venti, la compagnia dei coniugi Neuber comincia a mettere in scena il repertorio classico francese. È il primo impulso a un rinnovamento dei gusti del pubblico che vede la nascita di una drammaturgia nazionale destinata a raggiungere in breve alti livelli qualitativi, grazie soprattutto all’impulso dell’editore Gottsched che dà alle stampe, fra il 1740 e il 1747, una raccolta di 37 opere drammatiche in lingua tedesca. Una serie di giovani intellettuali si impegnano generosamente in un recupero delle radici nazionali della loro poesia: fra loro spicca il genio di Lessing, drammaturgo e teorico, traduttore di Diderot, che, alla guida del teatro di Amburgo nel breve periodo compreso fra il 1767 e il 1769, promuove, in collaborazione con il grande attore Eckof, una appassionata battaglia per il superamento del modello francese, in nome di una nuova concezione di comico e di tragico e di un nuovo gusto interpretativo.
Sono gli attori i più tempestivi ed entusiasti interpreti del rinnovamento: si deve a molti di loro la diffusione del repertorio di Lessing e l’introduzione in Germania di quello shakespeariano, mentre si leva l’astro di un altro grande padre della scena tedesca: Goethe. Proprio sulla falsariga di Shakespeare, egli si dedica al dramma storico con Götz von Berlichingen del 1771, per poi approfondire, con straordinaria versatilità, una drammaturgia volta a esplorare i più intimi dissidi interiori, il simbolismo classico, le tensioni fra il mondo cortigiano e quello popolare. La centralità del teatro quale crogiolo di decisive esperienze umane, artistiche e civili, è alla base del romanzo di formazione La vocazione teatrale di Wilhelm Meisters, a cui lavora lunghi anni. Del teatro farà esperienza diretta come attore e allestitore a Weimar, presso la corte del granduca Carlo Augusto, sperimentando, dal 1791 al 1817, innovative messe in scena per più di 600 spettacoli.
Questa dei poeti-drammaturghi, in Germania, è un’esperienza chiave, che investe anche un altro inquieto innovatore come Schiller, autore di drammi storici dal forte spessore politico, di cui, negli anni Ottanta, dirige gli allestimenti presso il Nationaltheater di Mannheim, spesso in aspro conflitto con le autorità.
Creatore del dramma tedesco moderno, che sarà alla base della drammaturgia romantica ottocentesca, legato a Goethe e agli altri esponenti dello Sturm und Drang, Schiller espone nel Discorso sulla funzione educatrice del teatro (1784) la propria concezione del dramma come specchio dell’universale sentire dell’anima e dei grandi conflitti storici in corso. Con le prime teorizzazioni romantiche dei circoli di Jena e di Heidelberg il quadro muta in modo radicale, così come con gli eventi della Francia rivoluzionaria, dove il teatro, schierandosi sull’uno o sull’altro fronte, partecipa di quanto accade: si sopprime la censura teatrale, si rompe il monopolio della Comédie Française, si epura il repertorio tradizionale di tutti gli elementi giudicati oscurantistici, si indulge, nelle feste giacobine, alla celebrazione dei nuovi riti laici in onore della Dea Ragione, mentre gli attori conquistano storicamente, per la prima volta, dignità e prestigio di cittadini.