Il teatro
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel V secolo a.C. si sviluppa ad Atene in modo straordinario un nuovo genere poetico che, dopo aver preso le mosse da origini remote e per noi ancora misteriose, raggiunge vertici che non saranno mai più eguagliati. Collocato all’interno delle feste religiose del dio Dioniso, legato a doppio filo con le controverse vicende della vita politica cittadina, fornito di una notevole dimensione spettacolare, il teatro ateniese comprende non solo le tragedie di Eschilo, Sofocle ed Euripide, ma anche le commedie di Aristofane prima e di Menandro poi, che arrivano fino alle soglie dell’età ellenistica.
Gli esecutori della poesia corale sono un gruppo di persone (un coro) che racconta, cantando e danzando, una storia. Se un personaggio esce da quel coro e, dopo aver assunto un’identità diversa sia da quella (immaginaria) dei suoi compagni sia dalla sua (reale) identità, si mette a dialogare, cantando e danzando, con il coro, abbiamo un primo, elementare abbozzo di teatro. Se poi i personaggi che escono dal coro sono due, e non solo dialogano (cantando) con il coro, ma parlano anche, e soprattutto, tra di loro, abbiamo allora il teatro greco dei primi anni del V secolo a.C.
Secondo le notizie degli antichi, è Eschilo che, all’inizio del secolo, porta il numero degli attori da uno a due; qualche anno dopo Sofocle alza il numero a tre, aumentando così il ritmo e la vivacità dell’azione drammatica. Con questi autori (e con Euripide, di poco più giovane di Sofocle), il teatro tragico greco vive il suo periodo d’oro; contemporaneamente, con poeti come Cratino, Aristofane ed Eupoli, anche la commedia conosce nel V secolo a.C. il momento di maggior fulgore.
Tutto questo riguarda, però, una sola città: Atene. Perché, se anche altre città si attribuiscono l’onore di aver contribuito alla nascita del teatro, è solo ad Atene che il teatro acquista una dimensione unica, non esclusivamente legata alla valenza letteraria: nel capoluogo dell’Attica il teatro è infatti un fenomeno religioso, che riveste una particolare importanza politica e ha un forte carattere agonistico.
Gli Ateniesi non vanno a teatro tutti i giorni: i drammi sono messi in scena in determinati periodi dell’anno, all’interno di celebrazioni religiose dedicate a Dioniso. La festa più importante è rappresentata dalle Grandi Dionisie, che si tengono all’inizio della primavera; poiché vi partecipano non solo i cittadini ateniesi e gli abitanti dell’Attica, ma anche molti stranieri (ambasciatori, mercanti, visitatori), la festa è un’eccellente occasione pubblicitaria per la grandezza di Atene, che può mostrare agli alleati e a tutti i Greci il suo potere, la sua ricchezza e la sua supremazia culturale. Gli spettacoli si tengono nel teatro di Dioniso, alle pendici meridionali dell’Acropoli. Seconde in ordine d’importanza sono le feste Lenee, sempre dedicate a Dioniso, che si tengono nel cuore della stagione invernale, alla presenza di un pubblico esclusivamente ateniese.
L’organizzazione degli spettacoli teatrali è complessa: molte sono le persone coinvolte, pesanti le responsabilità, alta la posta in palio. Il compito di scegliere quali tragedie e quali commedie rappresentare ogni anno alle Grandi Dionisie tocca all’arconte eponimo: i poeti si recano da lui qualche mese prima dell’inizio della festa, leggono alcuni passi dei loro drammi e gli “chiedono un coro” – una frase (choron aiteisthai) che indica la formale richiesta di designare una persona che si accolli i costi dell’allestimento scenico. Dal momento che la messa in scena di uno spettacolo è un’operazione assai onerosa, bisogna trovare qualcuno che faccia fronte a tutte le spese, dal reclutamento dei coreuti alla scelta del loro istruttore, dall’acquisto dei costumi e delle maschere all’affitto della sala dove si fanno le prove, dall’allestimento della scenografia all’onorario dell’auleta, il musicista che esegue l’accompagnamento musicale suonando l’aulos. Questa persona facoltosa è il “corego”, una figura simile a quella del nostro sponsor; la coregia è una delle forme di tassazione indiretta alle quali sono sottoposti gli Ateniesi più ricchi. Per quanto onerosa, però, questa spesa ha anche un risvolto positivo: i cittadini ambiziosi possono sfruttare simili occasioni per guadagnarsi la benevolenza del popolo e, nello stesso tempo, farsi un po’ di pubblicità. Nelle epigrafi ufficiali che registrano le generalità dei vincitori, il nome del corego non manca mai; spesso il corego fa addirittura costruire un monumento per celebrare il proprio successo.
Se l’istituto della coregia viene soppresso alla fine del IV secolo a.C., a causa del declino politico ed economico di Atene, continua ancora a suscitare il forte interesse del pubblico la dimensione agonistica, che rimane sempre strettamente connessa agli spettacoli teatrali: gareggiano tra loro non solo i poeti (per le tragedie, l’inizio delle gare è il 536 a.C.; per le commedie, il 486 a.C.), ma anche gli attori (la prima competizione alle Grandi Dionisie è datata 449 a.C.). E se, dopo il V secolo a.C., le gare fra le tragedie e le commedie hanno sempre minor presa sugli spettatori (un fenomeno dovuto probabilmente al fatto che gli autori del IV secolo non sono all’altezza di coloro che li avevano preceduti, come dimostra l’abitudine di mettere in scena, accanto ai drammi nuovi, repliche di quelli del secolo precedente), le competizioni fra gli attori suscitano negli Ateniesi una passione sempre crescente.
Al termine delle giornate dedicate agli spettacoli la giuria pronuncia il suo verdetto: ognuno dei dieci giurati (uno per tribù) scrive su una tavoletta la sua graduatoria; la media delle cinque tavolette estratte dall’arconte costituisce la classifica definitiva. Un araldo annuncia il nome del poeta vincitore, che riceve in premio una corona d’edera. Dal momento che ogni cittadino ateniese può essere scelto come giudice, indipendentemente dalle sue competenze letterarie, non ci si deve stupire del fatto che, a noi moderni, alcuni giudizi paiano poco equilibrati. L’Edipo re (425 a.C.) di Sofocle ottiene solo il secondo premio, battuto da un dramma del mediocre Filocle. Può darsi che dietro simili giudizi poco comprensibili ci fossero evidenti favoritismi (Filocle era parente di Eschilo), ma non si deve escludere l’eventualità che tra le motivazioni della giuria ci siano fattori che oggi non siamo in grado di valutare, come la bravura degli attori e del coro, la bontà dell’esecuzione e la bellezza dei costumi.
Il compito degli attori non è facile. Poiché gli attori sono solo tre e i personaggi sono quasi sempre in numero superiore, ne consegue non solo che i tre ricoprono spesso più ruoli all’interno di ogni spettacolo, ma che talvolta lo stesso personaggio può essere interpretato da due attori differenti in due diversi momenti del dramma. A questa oggettiva difficoltà si deve aggiungere il fatto che solo i maschi possono esercitare la professione di attori: i ruoli femminili sono sempre interpretati da uomini.
Due sono gli strumenti che permettono all’attore di celare la propria identità: il costume e la maschera (prosopon, volto, letteralmente “ciò che si presenta davanti ai nostri occhi”). Tespi, che secondo la leggenda sarebbe stato il primo interprete di tragedie, recita con il volto coperto da uno strato di biacca bianca, poi sostituito da una sottile maschera di lino colorata con feccia di vino. La tradizione attribuisce a Frinico, un altro poeta tragico, l’invenzione di due tipi distinti di maschere, scure per gli uomini e chiare per le donne; Eschilo avrebbe invece usato maschere colorate che riproducono, distorcendoli ed esagerandoli, i tratti del volto umano. Gli artigiani che le costruiscono insistono sugli aspetti più caratteristici del volto (i capelli, la barba, le sopracciglia, il naso, la bocca, le rughe); il colore delle parrucche permette di capire subito l’età del personaggio.
La presenza della maschera ha essenzialmente la funzione pratica di permettere agli spettatori di identificare i diversi personaggi. Non pare verosimile l’ipotesi che la maschera abbia il compito di amplificare la voce: non solo la perfetta acustica dei teatri greci non rende necessario un simile espediente, ma è difficile credere che le prime sottili maschere di lino potessero fungere da megafoni.
“La tragedia consiste nella riproduzione di un’azione seria e compiuta, dotata di una certa estensione, composta in una lingua di stile elevato grazie a tutte le forme di abbellimento retorico in modo diverso in ciascuna delle parti che la compongono, rappresentata da personaggi che agiscono e quindi non raccontata, capace di suscitare, attraverso la compassione e la paura, la purificazione di simili sentimenti”.
Questa celebre definizione di Aristotele mette a fuoco alcuni degli aspetti principali della tragedia – secondo gli interessi particolari del filosofo, ovviamente: l’importanza dell’imitazione (“riproduzione” traduce il sostantivo mimesis), il contenuto “serio” (contrapposto a quello “ridicolo” proprio della commedia), la conclusione appropriata, la giusta lunghezza, l’equilibrio stilistico, la dimensione drammaturgica (che la differenzia dall’epica, dove prevale la dimensione narrativa), la reazione del pubblico davanti agli aspetti drammatici della vicenda.
Altre informazioni interessanti (contenute, così come la definizione precedente, nella Poetica) sono relative ai sei elementi costitutivi della tragedia. Sempre molto attento alla dimensione spettacolare del teatro, Aristotele mette al primo posto l’elemento visivo (opsis) – un valore sottolineato dalla parola stessa che designava (e designa ancora) il teatro, il sostantivo théatron derivato dal verbo theasthai (“vedere”). L’aspetto scenografico è “affascinante” (psychagogikon, capace di trascinare con sé l’animo degli spettatori), anche se non ha niente a che vedere con la tecnica poetica; l’abilità di chi prepara le scene e disegna i costumi (due compiti attribuiti a un unico individuo, lo skeuopoiós, colui che crea gli attrezzi e gli strumenti) è quasi più importante del lavoro degli stessi poeti. Dopo la vista, Aristotele mette a fuoco l’importanza dei due strumenti che rendono possibile l’imitazione: la musica (melopoiia, composizione dei canti) e le parole (lexis, linguaggio). Gli altri tre elementi sono gli oggetti della tragedia: i caratteri (ethe), vale a dire i personaggi; il pensiero (dianoia), i ragionamenti che guidano le azioni dei personaggi; la trama (mythos), le azioni compiute dai personaggi.
Sempre Aristotele ci parla delle parti costitutive della tragedia: la sezione iniziale è il prologo, che precede l’ingresso del coro nell’orchestra (la parodo); seguono gli episodi, che corrispondono più o meno ai nostri atti, intervallati dai canti corali (gli stasimi); l’ultima sezione è l’esodo.
Ugualmente importanti sono le notizie che Aristotele ci fornisce riguardo alle origini della tragedia, benché esse siano sintetiche e bisognose di integrazioni. Nella sezione della Poetica dedicata allo sviluppo dell’arte drammatica, il filosofo afferma en passant che la tragedia è nata dall’improvvisazione di coloro che guidavano il ditirambo: da questa frase, che è stata sviscerata in tutti i modi possibili, si può dedurre soltanto che esisteva uno stretto legame tra la tragedia e la lirica corale da un lato (un dato evidente, perché la tragedia non può che nascere dalla contrapposizione fra un coro e uno o più personaggi esterni al coro stesso), e tra la tragedia e Dioniso dall’altro (il ditirambo era il canto corale di Dioniso, che è anche il dio del teatro). Nulla di preciso sappiamo invece sul significato del termine “tragedia” (tragodia): il “capro” (trágos) è un animale sicuramente legato alla sfera dionisiaca, ma non è chiaro se il “canto” (odé) sia un canto sul capro (in quanto animale totemico assimilato al dio), o per il capro (in quanto premio di una competizione poetica), o del capro (in quanto cantato da un coro di attori che indossano maschere caprine).
Per quel che riguarda le lontane origini della tragedia, le parole di Aristotele possono essere sufficienti; per quel che riguarda il contenuto delle tragedie, che raccontano le sofferenze di un personaggio (l’eroe tragico), bisogna invece guardare anche altrove. Nel quinto libro delle Storie, Erodoto scrive che, tra i vari modi con cui gli abitanti di Sicione, una città del Peloponneso, venerano Adrasto (un mitico re di Argo), ci sono i “cori tragici” con i quali celebrano le sue sofferenze (pathea): una simile frase può far pensare che anche questi “cori tragici” siano uno degli antecedenti della tragedia fuori dall’Attica.
Ma poiché per noi la tragedia è soprattutto un fenomeno ateniese, è giusto guardare a quel che sappiamo relativamente alla messinscena delle tragedie ad Atene. Le fonti (il solito Aristotele) ci dicono che la prima rappresentazione di tragedie in gara tra loro risale agli ultimi anni della tirannia di Pisistrato: l’organizzatore del primo concorso drammatico negli anni della 61ª Olimpiade (536-533 a.C.) sarebbe stato Tespi, un attore ateniese nato nel demo di Icaria (una località connessa a Dioniso), personaggio dai contorni leggendari. Se vogliamo attenerci a dati più certi (le epigrafi che contengono le registrazioni ufficiali dei nomi dei vincitori ai concorsi tragici e comici, alle Grandi Dionisie e alle Lenee), possiamo cominciare col dire che la registrazione epigrafica delle rappresentazioni tragiche risale agli ultimi anni del VI secolo a.C. Per quel che riguarda gli autori più noti, sappiamo che Eschilo ottiene la sua prima vittoria nel 484 a.C., che Sofocle esordisce nel 468 a.C. sconfiggendo Eschilo e che la prima apparizione di Euripide è datata 455 a.C. (un esordio poco soddisfacente, perché il poeta non va oltre il terzo posto). Fino agli inizi del IV secolo a.C. le tragedie rappresentate alle Grandi Dionisie sono sempre composizioni originali; solo a partire dal 386 a.C. si cominciano a mettere in scena, accanto a testi nuovi, repliche di tragedie composte nel secolo precedente; nel 341 a.C., con la rappresentazione dell’Ifigenia di Euripide recitata dall’attore Neottolemo, l’inserimento di una antica tragedia nel programma della festa diviene una consuetudine.
Per noi, la tragedia classica ha una precisa data d’inizio: il 472 a.C., l’anno in cui Eschilo mette in scena I Persiani. Nato nel demo di Eleusi intorno al 525 a.C., Eschilo combatte nel 490 a.C. a Maratona, la battaglia che pone fine alla prima guerra persiana (492-490 a.C.), e prende probabilmente parte alla battaglia navale di Salamina nel 480 a.C.. Tra tutte le tragedie a noi pervenute, i Persiani (che, in una scena famosa, descrivono con abbondanza di particolari l’episodio decisivo della seconda guerra persiana) sono la più antica che noi siamo in grado di datare. In quell’anno Eschilo ottiene il primo premio – ma non solo per quella tragedia. Ogni poeta, infatti, presenta al concorso una tetralogia formata da quattro drammi: tre tragedie e un dramma satiresco. Spesso, soprattutto negli autori più antichi, le vicende della trilogia tragica sono connesse tra di loro (benché ogni tragedia rappresenti una storia in sé conclusa); talvolta, invece, trattano argomenti differenti, come nel 472 a.C., quando, insieme ai Persiani (l’unica tragedia di argomento storico a noi pervenuta), Eschilo mette in scena il Fineo, il Glauco potnieo e il Prometeo. Nel 467 a. C. Eschilo presenta invece una tetralogia concatenata dedicata alle vicende tebane: ci sono giunti i Sette contro Tebe, il dramma che conclude la trilogia tragica, ma non i due drammi che la precedono, il Laio e l’Edipo, e nemmeno il dramma satiresco Sfinge. L’unica trilogia pervenuta per intero è l’Orestea, rappresentata nel 458 a.C.: abbiamo le tre tragedie (Agamennone, Coefore, Eumenidi), non il dramma satiresco (Proteo). Non sappiamo quando siano state messe in scene le altre due tragedie di Eschilo che i manoscritti medievali ci hanno tramandato, le Supplici e il Prometeo incatenato (un dramma la cui autenticità è tuttora controversa). Eschilo muore in Sicilia, a Gela nel 456 a.C.
Più di sessant’anni dura la carriera di Sofocle, nato nel demo di Colono nel 496 a.C.; la sua ultima tragedia, l’Edipo a Colono, è rappresentata postuma nel 406 a.C., a cura del nipote. È una sorta di testamento spirituale che rappresenta l’ultima riflessione del poeta sulla figura di Edipo, il simbolo dell’eroe tragico, l’uomo che – pur senza colpe – è costretto a subire un destino terribile: giunto vecchio e cieco ad Atene, Edipo viene accolto con grande ospitalità dal re Teseo; la sua morte misteriosa, descritta come una scomparsa priva di gemiti e senza i dolori della malattia, è l’estremo risarcimento degli dèi alle sofferenze patite dall’eroe.
La parabola di Edipo, il suo repentino passaggio dal trono tebano alla solitudine dell’esule, è stata narrata nella tragedia più celebre di Sofocle, l’Edipo re, rappresentato intorno al 425 a.C. Ciò che fa di questa tragedia un capolavoro è la sua accurata costruzione. I dati del mito, già messi in forma scenica da Eschilo nel suo Edipo del 467 a.C., vengono disposti da Sofocle in modo teatralmente efficace: i personaggi che agiscono sulla scena cercano una persona (l’assassino di Laio) che non conoscono; gli spettatori, però, sanno bene che quella persona è Edipo. In queste condizioni, l’interesse del pubblico non è più rivolto, come nel classico mystery inglese alla Agatha Christie, alla ricerca dell’assassino; ciò che attrae la curiosità è sapere in che modo l’investigatore scoprirà il colpevole. Ma l’indagine ha due conseguenze inattese, perché il detective scopre di essere lui stesso il colpevole e di essersi macchiato di colpe ben più gravi di quanto pensasse: Edipo scopre che la vittima di quell’omicidio così lontano nel tempo è suo padre e che il premio ricevuto per aver risolto l’enigma della Sfinge non è stata la mano della vedova del re, ma le nozze incestuose con la madre e la successiva nascita di due figli maschi, Eteocle e Polinice, e di due figlie femmine, Ismene e Antigone.
E proprio Antigone è la protagonista di una delle prime tragedie di Sofocle, rappresentata intorno al 442 a.C. Anche in questo caso esiste un rapporto tematico con Eschilo, perché la vicenda narrata nell’Antigone sofoclea prende le mosse là dove si erano arrestati i Sette contro Tebe. La trilogia di Eschilo termina con la morte simultanea dei due fratelli, Eteocle e Polinice; la tragedia di Sofocle comincia con la reazione di Antigone alle crudeli disposizioni emanate da Creonte, il nuovo sovrano di Tebe. Poiché Polinice è morto combattendo contro la sua patria, Creonte proibisce di seppellirlo, ma l’amore per il fratello caduto spinge Antigone a disobbedire. Sorpresa da una guardia nell’atto di gettare una manciata di terra – in segno di simbolica sepoltura – sul corpo di Polinice, Antigone viene condannata da Creonte a essere sepolta viva. Nulla vale a salvarla, né la sua appassionata difesa delle leggi del sangue e dei vincoli familiari (che, in questo caso, si contrappongono alla legge dello stato) né tanto meno il suo essere fidanzata con Emone, figlio dello stesso Creonte. Antigone si impicca nella sua buia prigione, ma la sua morte provoca anche la rovina del suo antagonista: Emone si uccide sul cadavere della fidanzata; disperata per la morte del figlio, si suicida anche la madre Euridice; Creonte rimane solo con il suo dolore.
Un altro esempio di “eroe tragico” sofocleo, la rappresentazione di un uomo solo contro gli dèi e il suo destino, è Aiace, il protagonista dell’omonima tragedia, l’eroe che si uccide perché privato ingiustamente delle armi di Achille. Nelle Trachinie, accanto all’eroe Eracle, la protagonista è sua moglie Deianira, che in preda alla gelosia lo uccide donandogli la tunica intinta nel sangue velenoso del centauro Nesso. Nell’Elettra, che riprende (con qualche variazione) la storia narrata da Eschilo nelle Coefore, il protagonista non è più Oreste, ma sua sorella, un personaggio destinato a fornire ispirazione a molti altri autori (Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss su tutti).
Uno degli ultimi eroi tragici sofoclei è Filottete, il protagonista della tragedia che da lui prende il nome. Tre soli personaggi si affrontano e si sfidano in questo Kammerspiel ambientato nella desolata solitudine di un’isola sperduta nel cuore dell’Egeo: Filottete, l’eroe greco abbandonato a Lemno dai suoi compagni per il fetore che emana da una ferita; Odisseo, il responsabile del suo abbandono, mandato dai compagni a recuperare l’arco e le frecce senza le quali Troia non può cadere; Neottolemo, il giovane figlio di Achille che Odisseo ha portato con sé per ingannare Filottete e convincerlo a cedergli le armi. Lo scioglimento della vicenda avviene tramite l’intervento diretto degli dèi: Eracle, apparso come deus ex machina, persuade l’eroe a cedere; Filottete parte salutando l’isola sulla quale ha vissuto per dieci anni, misteriosamente salvato ora come, altrettanto misteriosamente, era stato condannato prima.
Il Filottete è rappresentato nel 409 a.C.. Atene sembra aver superato lo choc del fallimento della spedizione in Sicilia e la breve parentesi oligarchica del 411 a.C.; con il ritorno della democrazia, la città nutre nuova fiducia nel futuro.
Nell’anno successivo avviene il trionfale ritorno in patria del figliol prodigo Alcibiade; contemporaneamente va in scena l’Oreste di Euripide. Nel prologo, dal monologo di Elettra, si capisce che ci troviamo in un momento non molto diverso da quello che contraddistingue l’inizio delle Eumenidi: dopo aver ucciso la madre, Oreste è precipitato in uno stato di prostrazione. Ma lo sviluppo della trama non ha niente a che vedere né con Eschilo, né tanto meno con il mito, perché Euripide inventa una storia che non ha precedenti, componendo un dramma dalle tinte romanzesche, fatto di processi e rapimenti, di inseguimenti e tentati omicidi, che si conclude col solito intervento “esterno” di una divinità. Con questa tragedia Euripide mostra di avere definitivamente portato a compimento la dissoluzione del dramma classico, anticipata (per quel che riguarda le tragedie che ci sono pervenute) dallo Ione, dall’Ifigenia in Tauride e dall’Elena. Del resto, la carica innovativa di Euripide, nato dieci anni dopo Sofocle, si è manifestata fin dalle sue prime tragedie: pur senza discostarsi dai moduli della drammaturgia tradizionale, la Medea, messa in scena nel 431 a.C. e giunta solo terza, è diversa dalle altre tragedie per la dimensione profondamente umana della protagonista. Non che Medea sia umana perché uccide i figli pur di vendicarsi del marito Giasone che ha deciso di lasciarla per sposare la figlia del re di Corinto: Medea è umana perché, nella vicenda narrata da Euripide, gli dèi non c’entrano; perché è una donna che si scontra con i pregiudizi e le meschinità degli uomini (esemplificati dalle ridicole scuse che Giasone accampa per giustificare la sua scelta di comodo) e, soprattutto, perché unisce ai problemi tipicamente femminili, nei quali le sue contemporanee si riconoscevano, le qualità intellettuali tipiche della cultura ateniese del V secolo a.C.
Euripide è un tipico uomo del suo tempo: se non prende mai parte in modo diretto, come Eschilo e Sofocle, alla vita pubblica ateniese, è un vero intellettuale, esperto conoscitore delle tecniche della nuova retorica insegnate dai sofisti a partire dalla seconda metà del V sec. a.C. Particolare sensibilità dimostra nello scavo della psicologia femminile: oltre a Medea, oltre a Fedra (protagonista dell’Ippolito, premiato col primo posto nel concorso del 428 a.C.) e Macaria (la giovane che si immola negli Eraclidi, rappresentati in questi stessi anni), oltre alle numerose eroine che danno il titolo alle tragedie conservate (Andromaca , Ecuba, Elettra), spiccano tra i suoi personaggi femminili le prigioniere di guerra che compongono il coro delle Troiane. Nel 415 a.C., quando l’esercito ateniese è sul punto di salpare per la Sicilia, Euripide scrive la trilogia “troiana” formata dall’Alessandro, dal Palamede e dalle Troiane. Per esprimere il suo punto di vista contrario alla deriva imperialistica che ha preso in quegli anni la politica ateniese, Euripide mette sotto gli occhi degli spettatori il dramma dei vinti, rappresentandolo attraverso le sofferenze di Ecuba, vedova di Priamo, di Cassandra destinata al letto di Agamennone, di Andromaca che, poco dopo aver perso il marito Ettore, è costretta ad assistere impotente alla morte del figlioletto Astianatte.
Le sue ultime tragedie sono l’Ifigenia in Aulide e le Baccanti, andate in scena postume alle Grandi Dionisie del 405 a.C. (o forse, secondo un’altra ipotesi, sotto il governo dei Trenta Tiranni nel 403 a.C.) e premiate con il primo posto. Il testamento spirituale di Euripide, che nel 408 a.C. ha lasciato Atene ed è andato a vivere alla corte del re macedone Archelao è così consegnato a due drammi nei quali il poeta tragico condanna per l’ennesima volta le assurdità della guerra e affida il ruolo di protagonista al dio del teatro. Con le misteriose Baccanti, che mettono in scena il contrasto tra Penteo re di Tebe e Dioniso – interpretato come il conflitto tra razionalità e misticismo, fra lo spirito critico e la fede, tra la religiosità tradizionale degli dèi olimpici e i nuovi culti dionisiaci, tra la società umana e le leggi divine – si conclude il periodo aureo della tragedia greca.
Nella sezione della Poetica dedicata all’origine della tragedia, Aristotele afferma che il genere tragico ci mise un po’ di tempo ad acquistare la sua solennità perché dovette prima modificare il suo aspetto satiresco (to satyrikon). Questo elemento, connesso alle figure dei satiri, le divinità semiferine che fanno parte del corteo di Dioniso, è stato visto giustamente come una testimonianza dell’antico legame che congiunge le originarie forme drammatiche al dio del teatro. Per non cancellare del tutto un collegamento così significativo, le feste ateniesi prevedono, al termine della giornata dedicata alle tre tragedie scritte da un singolo autore, la rappresentazione di un quarto dramma che, pur essendo costruito, dal punto di vista della forma (e, parzialmente, anche da quello della lingua), come una tragedia, contiene una serie di elementi comici che lo rendono la giusta conclusione per sollevare l’animo del pubblico.
La caratteristica principale del dramma satiresco (inventato, secondo la tradizione, da Pratina di Fliunte guidati alla fine del VI secolo a.C.) è la presenza di un coro composto da satiri guidati dall’anziano Sileno, che era stato precettore del giovane Dioniso. Il coro si trova coinvolto in avventure che prendono spunto da vicende mitiche o letterarie modificate in modo scherzoso: nei Pescatori con la rete di Eschilo, i satiri portano a riva la cassa che contiene Danae col piccolo Perseo; nei Cercatori di tracce di Sofocle aiutano Apollo a ritrovare le mandrie rubate dal piccolo Ermes.
Questa deformazione comica è ben visibile nell’unico dramma satiresco a noi pervenuto intero, il Ciclope di Euripide, che prende le mosse dall’undicesimo libro dell’Odissea: prima che i satiri decidano di collaborare con Odisseo e i suoi compagni all’accecamento del Ciclope, Sileno cerca di ingannare l’eroe greco facendo il doppio gioco – ma mal gliene incoglie, perché Polifemo, ubriacato dal vino, si ritira nel fondo del suo antro per soddisfare su di lui le sue voglie sessuali eccitate dalla bevanda di Dioniso.
Se l’origine di “tragedia” presenta ancora molti aspetti oscuri, quella di “commedia” è molto più chiara. Per questo termine disponiamo di due etimologie, entrambe fornite da Aristotele: “commedia” (komodía) significherebbe o “canto della kóme” (villaggio), se si accetta l’origine dorica della commedia (kóme è il termine usato dagli abitanti del Peloponneso per indicare i villaggi nei quali gli attori comici esiliati dalle città errano recitando i loro spettacoli), o “canto del kômos” (il festoso “corteo” dionisiaco), se invece si propende per l’origine attica.
Esistono in effetti alcune testimonianze di forme comiche pre-letterarie e letterarie legate ad ambienti dorici, come la farsa megarese, le opere dei poeti siciliani Epicarmo e Formide, vissuti tra il VI e il V secolo a.C., e, successivamente allo sviluppo della commedia ad Atene, i mimi di Sofrone, un altro poeta siciliano attivo nella seconda metà del V secolo a.C.; tuttavia, poiché per noi la commedia è un fenomeno soprattutto ateniese, è meglio privilegiare le testimonianze che collocano nell’Attica l’origine e lo sviluppo della commedia. Del resto, le caratteristiche peculiari della poesia comica (lo scherzo, l’invettiva, la volgarità) ne fanno un fenomeno che per sua natura non può essere circoscritto con precisione – e questo lo sapevano anche gli antichi, che attribuiscono la sua invenzione a un personaggio, Susarione, che secondo alcune fonti è originario del demo attico di Icaria (come Tespi, l’inventore della tragedia) e secondo altre è nato proprio a Megara, una città di origine dorica non lontana da Atene.
Merita piuttosto di essere presa in considerazione un’altra notizia di Aristotele, il quale, subito dopo aver affermato che la tragedia è nata dall’improvvisazione di coloro che guidano il ditirambo, dice che a dar vita alla commedia sono coloro che guidano le processioni falliche (ta phalliká), i riti che vengono compiuti per scongiurare la carestia e per favorire la fertilità: la cospicua presenza, nelle commedie greche del V secolo a.C., di riferimenti alla sessualità dimostra che un legame tra i due fenomeni è sicuramente presente; negli Acarnesi (425 a.C.), la più antica delle commedie di Aristofane che noi possediamo, viene rappresentata proprio una falloforia, una cerimonia nella quale il protagonista e la sua famiglia portano in processione un gigantesco membro maschile cantando “l’inno fallico” (to phallikón). Certo, l’insistere sugli aspetti più espliciti della sessualità non è un’esclusiva della commedia: anche la poesia giambica è contraddistinta da questa libertà, e non a caso il giambo, con i suoi violenti attacchi personali rivolti ai “nemici”, è visto come uno degli antecedenti della commedia.
Per quanto riguarda il suo sviluppo storico, la commedia così come noi la conosciamo si perfeziona dopo la tragedia: il primo concorso comico è vinto dal poeta Chionide nel 486 a.C., quando Eschilo aveva fatto il suo esordio da più di un decennio. La stessa forma della commedia risulta modellata su quella della tragedia: anch’essa comincia con il prologo, prosegue con la parodo e si conclude con l’esodo; non c’è una rigida divisione fra episodi e stasimi, ma abbiamo una successione di scene giambiche intercalate da brevi canti corali. Due sono le novità: l’agone e la parabasi.
L’agone è il momento cruciale della commedia, il punto di svolta dell’azione, che si svolge secondo un percorso più o meno costante: per risolvere una situazione che non gli piace, il protagonista (il cosiddetto “eroe comico”) elabora un piano che si scontra però con la diversa opinione di un antagonista (che può essere il coro oppure, più spesso, un altro personaggio); l’agone è il serrato confronto fra l’eroe comico e i suoi avversari, che si conclude regolarmente con la vittoria del primo. Eliminato ogni ostacolo, il protagonista può finalmente mettere in atto il suo piano. Prima, però, c’è l’altro momento peculiare della commedia antica: il coro si toglie la maschera e sfila davanti al pubblico recitando un ampio brano privo di qualsiasi rapporto con la trama della commedia. Questo “farsi avanti” del coro è chiamato parabasi (dal verbo parabainein, “avanzare”), che rompe l’illusione scenica (perché il coro non parla come personaggio, ma si identifica con l’autore discutendo di argomenti che vanno dalla politica alla letteratura, con continui riferimenti all’attualità) e funge per così dire da intervallo. Nella parte finale vengono rappresentati i felici risultati del piano dell’eroe comico, che celebra con un ricco banchetto il successo della sua impresa.
L’autore che conosciamo meglio è Aristofane: di lui ci restano 11 commedie complete, che coprono uno spazio temporale molto ampio, dal 425 a.C. (gli Acarnesi) al 388 a.C. (il Pluto), dai primi anni della guerra del Peloponneso a quelli del declino politico e culturale di Atene. Per sapere qualcosa dei poeti che l’hanno preceduto, bisogna rivolgersi al solito Aristotele ma anche allo stesso Aristofane che, nella parabasi dei Cavalieri, messi in scena nel 424 a.C., traccia per bocca del coro una breve storia della commedia antica.
Il primo degli autori citati nei Cavalieri è Magnete, un poeta che Aristotele ricorda insieme a Chionide; da altre fonti più tarde sappiamo che i loro drammi erano molto brevi, ed è probabile che consistessero in una serie di canti corali inframmezzati da alcune scene recitate. Un altro autore menzionato da Aristofane è Cratete, che ottiene la sua prima vittoria nel 450 a.C.; Aristotele ci dice che è il primo a cercare di costruire una trama ben strutturata, sacrificando per questo gli attacchi personali che costituiscono uno degli elementi base della commedia delle origini.
Ma, tra i predecessori di Aristofane, il più importante è Cratino: le numerose notizie sul suo conto, unite a circa 500 frammenti (di cui alcuni anche abbastanza estesi), ci permettono di farci un’idea sufficientemente chiara di lui – nonché di rimpiangere la perdita delle sue commedie. È un poeta poliedrico: predilige le commedie di argomento politico, attaccando violentemente le figure più in vista (soprattutto Pericle, eletto per la prima volta stratego proprio negli anni in cui Cratino esordisce sulla scena comica), ma nel catalogo delle sue opere compaiono anche parodie mitologiche (la Nemesi e il Dionisalessandro, dove gli antichi racconti del mito sono il pretesto per prendere in giro Pericle sul piano personale – la sua relazione con Aspasia – e politico – la sua aggressiva politica militare). Non ha esitazioni nemmeno quando deve mettere in scena se stesso: nella sua ultima commedia, la Damigiana, scritta nel 423 a.C., replica ad Aristofane (che nella citata parabasi dei Cavalieri lo aveva descritto come un vecchio ubriacone incapace di scrivere un solo verso) raffigurandosi come un poeta privo di ispirazione che tradisce la moglie legittima (la “commedia”) con una giovane amante (la “damigiana” del titolo) e difendendosi con l’affermazione che il vino (il dono di Dioniso, dio del teatro, agli uomini) è uno strumento necessario per aiutare l’ispirazione poetica.
Merita di essere citato dopo Cratino e prima di Aristofane il poeta che, come testimonia Orazio nella quarta satira (Eupolis atque Cratinus Aristophanesque poetae), forma la triade comica (che bilancia quella tragica formata da Eschilo, Sofocle ed Euripide): poco più anziano di Aristofane, anche Eupoli sopravvive soltanto attraverso circa 500 frammenti. La sua commedia di maggior successo, i Demi, è rappresentata negli ultimi anni della sua vita, in un momento particolarmente drammatico, tra il disastro della spedizione siciliana e la sconfitta definitiva di Atene. Grazie alle numerose testimonianze antiche e ad alcuni papiri, è possibile ricostruirne la trama: nella prima parte l’eroe comico Pironide (un nome che ricordava il generale Mironide che aveva avuto un ruolo di primo piano durante le guerre persiane) decide di richiamare in vita quattro grandi ateniesi del passato, Solone, Milziade, Aristide e Pericle, per affidare alle loro mani la rinascita di Atene; nella seconda, dopo aver messo ciascuno in pratica le sue virtù, i quattro ritornano nell’Ade accompagnati dal saluto dei concittadini riconoscenti.
Aristofane nasce ad Atene intorno al 445 a.C e comincia giovanissimo la sua carriera di poeta comico: nel 427 a.C. porta in scena la sua prima commedia, i Banchettanti; a causa della giovane età, però, deve farla presentare da Callistrato, un amico al quale affida anche la sua seconda opera, i Babilonesi. Se queste due commedie sono andate perdute, ne possediamo cinque che vengono messe in scena nei cinque anni successivi, dal 425 a.C. al 421 a.C.: gli Acarnesi (i tentativi di un cittadino ateniese di superare l’isolamento commerciale provocato dall’invasione spartana), i Cavalieri (un attacco a Cleone, che aveva preso il posto di Pericle alla guida del partito democratico), le Nuvole (una presa in giro di Socrate e dei sofisti), le Vespe (una critica del sistema giudiziario, divenuto uno strumento nelle mani del potere politico) e la Pace (la celebrazione della “pace di Nicia” che poneva temporaneamente fine alla guerra fra Atene e Sparta). Al 414 a.C. risalgono gli Uccelli, il trionfo dell’utopia, dove l’eroe comico Pisetero (nome che significa “colui che riesce a convincere i compagni”) costruisce con l’aiuto degli uccelli una città a metà strada fra la terra il cielo diventandone il signore assoluto; il 411 a.C. è l’anno di due commedie “femminili”, la Lisistrata (dove la protagonista convince le donne ateniesi e spartane a mettere in atto uno “sciopero del sesso” per indurre gli uomini a fare la pace) e le Tesmoforiazuse (un attacco al poeta Euripide). Il suo capolavoro sono le Rane, messe in scena nel 405 a.C., alla vigilia della resa di Atene: il dio del teatro scende nell’oltretomba accompagnato dal fido servo Xantia per far ritornare in vita Euripide ma torna sulla terra portando con sé Eschilo, ritenuto più adatto a fornire utili consigli alla città nel momento del massimo pericolo; nel celebre agone il poeta comico non solo mette alla berlina vizi e difetti artistici e personali dei due poeti tragici, ma traccia un quadro affettuoso di un mondo vicino alla definitiva scomparsa.
Rappresentate all’inizio del IV secolo a.C., le ultime due commedie appartengono a un genere che non è più lo stesso: la parabasi viene eliminata, il coro perde progressivamente importanza fino a scomparire, l’eco degli eventi contemporanei si affievolisce, gli attacchi personali sembrano stanca routine, lo slancio fantastico perde vigore. Negli ultimi anni del V secolo a.C., oltre ad Aristofane, sono attivi anche altri poeti, come Platone comico (così chiamato per distinguerlo dal ben più famoso Platone filosofo) e Strattide. Anche di loro non restano che pochi frammenti – sufficienti però per farci capire che con il crollo militare e politico di Atene la commedia attica antica, quella miscela originale di letteratura e politica, di mitologia e storia contemporanea, è ormai scomparsa.
Le due tragedie euripidee rappresentate postume segnano per noi la fine del teatro tragico ateniese. Di tutti i drammi messi in scena dopo la caduta dei Trenta Tiranni e il ritorno della democrazia ci rimangono solo alcuni titoli e pochi frammenti, benché anche i poeti del IV secolo a.C. siano apprezzati dai loro contemporanei. Sul solco dei loro predecessori, alcuni sviluppano tendenze destinate ad avere successo: Agatone, vissuto a cavallo tra V e IV secolo a.C., compone una tragedia (l’Anteo) che vede come protagonisti personaggi inventati, portando così alle estreme conseguenze le continue modifiche alle trame tradizionali proposte dall’ultimo Euripide; trasforma, inoltre, i canti corali in semplici intermezzi completamente avulsi dall’azione drammatica, prestando maggiore attenzione alla musica che non alle parole e seguendo le proposte innovative dei poeti del cosiddetto “nuovo ditirambo” vissuti tra il V e il IV secolo a.C. (Timoteo, Frinide, Melanippide e Filosseno).
Parallelamente a questo fenomeno, le parti musicali della tragedia vengono a poco a poco trasferite dal coro agli attori, che assumono un ruolo sempre più importante: i brani solistici scritti e musicati espressamente per loro suscitano l’entusiasmo del pubblico come le arie del melodramma ottocentesco. Nel V secolo a.C. si afferma sempre più la figura dell’attore, che finisce quasi per diventare più importante del poeta stesso. Conosciamo numerosi aneddoti sulle star che in quegli anni calcano il palcoscenico: interpretando in modo sublime un ruolo femminile, Teodoro fa piangere il feroce tiranno Alessandro di Fere, che deve lasciare il teatro (perché, come spiega più tardi allo stesso Teodoro, si vergogna della propria capacità di commuoversi per le false disgrazie patite da un attore e di non saperlo fare per quelle vere sofferte dai suoi concittadini). Nel corso della sua carriera Teodoro guadagna compensi così alti da potersi permettere di donare la ragguardevole cifra di 70 dracme (la stessa somma versata da Figalia, una città dell’Arcadia) per la ricostruzione di un tempio a Delfi e di farsi costruire un monumento funebre sulle rive del Cefiso per rendere eterno il suo nome.
Diversa è la situazione per il teatro comico. Per i primi decenni del IV secolo a.C. possediamo due commedie intere di Aristofane; per i decenni finali, i papiri ci hanno conservato quasi per intero una delle prime commedie di Menandro, lo Scontroso (il Dyskolos), rappresentato alle lenee del 317 a.C. e premiato con la vittoria; lo spazio temporale tra questi due autori è popolato da molti altri nomi, che ci hanno lasciato una gran quantità di titoli e un discreto numero di frammenti. Ma la differenza tra Aristofane e Menandro non è solo misurabile in anni e decenni: si tratta di due generi teatrali che hanno lo stesso nome ma caratteristiche molto differenti.
Già le ultime due commedie di Aristofane mostrano alcuni aspetti che le differenziano dalle altre nove. Solo 13 anni separano le Rane dalle Ecclesiazuse, messe in scena nel 392 a.C., ma già si vedono le prime differenze: la parabasi non c’è; l’agone non è completo (e non è nemmeno un vero e proprio agone, perché la protagonista, Prassagora, non si confronta con un antagonista, ma si limita a esporre il suo programma); i riferimenti all’attualità politica sono sporadici. Nella commedia (che racconta la presa del potere da parte delle donne, le quali, dopo aver conquistato la maggioranza nell’assemblea, mettono in atto le loro idee rivoluzionarie) c’è solo un riferimento alle discussioni sull’uguaglianza e sul “comunismo” che si leggono anche nella contemporanea Repubblica platonica, e nulla più. Questo mutamento è ancora più visibile nel Pluto, rappresentato quattro anni dopo, dove le novità non sono confinate agli aspetti formali (un agone ancora più ridotto, la parte del coro ridotta ai minimi termini), ma toccano l’intera commedia, che è una sorta di apologo moraleggiante sui vantaggi e sugli svantaggi della ricchezza (il Pluto del titolo è il dio della ricchezza), quasi del tutto privo di attacchi polemici, ambientato in un’Atene poco caratterizzata. Si tratta, in breve, di una commedia diversa, più attenta alla dimensione privata e individuale che non a quella pubblica e collettiva, destinata a trasformarsi, da commedia della polis, in commedia familiare, una sorta di “dramma borghese” ante litteram, dove l’occhio del poeta mette a fuoco i piccoli spazi di una casa lasciando perdere gli spazi grandi di una città (l’agorà, l’assemblea, i tribunali, il porto), che rimangono indistinti sullo sfondo.
Il passaggio dalla commedia “antica” del V secolo a.C. alla commedia “nuova” di Menandro, Filemone e Difilo, che occupa gli anni a cavallo tra IV e III secolo a.C., non è né repentino né graduale, ma vede per circa mezzo secolo il convivere di una forma comica che non è più la prima e non è ancora la seconda: per questo i grammatici greci dei secoli successivi hanno creduto di individuare una fase intermedia, la cosiddetta “commedia di mezzo”, che vede tra gli autori più celebri Antifane, Anassandride e Alessi. La mancanza di drammi completi non ci permette di giudicare se questa tripartizione sia valida o meno; tra i circa 500 titoli delle commedie scritte in questo periodo intermedio spiccano soprattutto le parodie mitologiche; la maggior parte dei frammenti descrive personaggi che mangiano squisiti manicaretti e bevono buon vino (due argomenti senz’altro adatti alla commedia, ma che trovano una spiegazione più attendibile se si pensa che i frammenti più lunghi ci sono tramandati sotto forma di citazioni dall’erudito egiziano Ateneo di Naucrati che nel II secolo scrive il Banchetto dei sofisti, un’opera che in 15 libri descrive il lungo pranzo offerto da un console romano ad alcuni dotti).
Menandro nasce ad Atene nel 342 a.C. Non è un autore molto fortunato: scrive più di 100 commedie, ma vince solo otto volte; dopo la sua morte diviene un autore popolarissimo, ma le sue opere sono perdute in epoca medioevale. Se non ci fossero state alcune importanti scoperte papiracee a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, di lui possederemmo soltanto un migliaio di frammenti; i papiri ritrovati nelle sabbie dell’Egitto, invece, ci hanno restituito più o meno integre sei commedie (lo Scontroso, lo Scudo, la Fanciulla tosata, la Donna di Samo, il Sicionio e l’Arbitrato).
Il protagonista dello Scontroso, una delle sue prime commedie, è un vecchio misantropo, Cnemone, che si è ritirato in campagna; la figlia vive con lui, mentre la moglie abita nelle vicinanze insieme a Gorgia, il figlio di primo letto. Ma la tranquillità di Cnemone è messa a dura prova dall’insistenza di Sostrato, un giovane cittadino innamorato della figlia: quando alcuni ricchi ateniesi cercano di celebrare un sacrificio nel tempio che si trova accanto alla sua casa, Cnemone, nel tentativo di fuggire cade in un pozzo; salvato da Gorgia con l’aiuto di Sostrato, capisce l’assurdità del suo modo di vivere. La commedia si conclude con un doppio matrimonio: Sostrato sposa la figlia del vecchio mentre Gorgia sposa la sorella di Sostrato. Pur immatura nello studio dei caratteri (che diventerà uno dei punti di forza dei drammi successivi) e non perfettamente in equilibrio tra il serio (i tormenti del protagonista) e il comico (i battibecchi tra lo schiavo Geta e il cuoco Sicone), la commedia mostra già in alcuni dettagli il caratteristico tocco menandreo, il profondo rispetto che egli nutre per i suoi personaggi, così lontano dall’irrisione beffarda che spesso si legge in Aristofane.
Più bilanciata è invece la Donna di Samo, dove la capacità di cogliere ed evidenziare la diversa personalità dei protagonisti (il giovane Moschione, il suo padre adottivo Demea, la concubina Criside) va di pari passo con la vivacità della trama, ricca di colpi di scena; Menandro analizza con grande finezza come il variare delle circostanze agisca non solo sul carattere dei singoli personaggi ma anche sui loro rapporti interpersonali (Moschione con Demea, Demea con Criside, Criside con Moschione). E proprio con la figura di Criside, la “donna di Samo”, fa la sua comparsa un personaggio nuovo: la prostituta non è più oggetto di scherno o di disprezzo, ma un essere umano con i suoi sentimenti, che conserva la sua dignità e non rinuncia alla sua lealtà.
Menandro muore nel 291 a.C., all’età di cinquant’anni; Difilo è scomparso da poco; Filemone morirà intorno al 260 a.C., quasi centenario. Con loro finisce la lunga, prodigiosa stagione del teatro ateniese. Le loro commedie saranno adattate e tradotte da Plauto, Cecilio e Terenzio tra il 220 a.C. e il 160 a.C. per i palcoscenici romani. Ma in tutto il mondo greco, a partire dall’età ellenistica, tragedia e commedia sono destinate a cedere il passo a un’altra forma di spettacolo, dove, a differenza di quanto è accaduto nel V e (parzialmente) nel IV secolo a.C., l’aspetto verbale, legato alla parola, è molto meno importante di quello musicale e coreutico: la pantomima.