Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il terrorismo, con il ricorso sistematico alla violenza allo scopo di diffondere la paura tra la popolazione a fini prevalentemente politici, è tra i protagonisti del Novecento europeo. A episodi di terrorismo sono in qualche modo collegati infatti quasi tutti gli eventi di maggiore impatto di questo secolo, compreso lo scoppio della prima guerra mondiale. Le diverse caratteristiche che la violenza politica assume nel corso degli anni (di volta in volta patriottica, nazionalista, separatista, rivoluzionaria) impediscono di analizzare il fenomeno alla stregua di una categoria unitaria, evidenziando invece le mutevoli relazioni tra potere e violenza politica come una variante della ricerca del consenso nello Stato moderno.
Alla ricerca di una definizione
Definire il terrorismo è più difficile che descriverlo, se è vero che l’ONU ricerca invano da anni una definizione condivisa, come premessa per una convenzione che preveda la sua messa al bando da parte della comunità internazionale. In termini generali si è soliti ricomprendere sotto questa denominazione l’uso sistematico della violenza con il proposito di diffondere la paura e il terrore tra la popolazione per raggiungere uno scopo prevalentemente politico. Una medesima categoria raggruppa così movimenti con differenti finalità e modalità organizzative, accomunati semplicemente da una motivazione politica nel ricorso alla violenza. Malgrado la successiva correzione semantica, la comparsa del termine “terrorismo” a ridosso della Rivoluzione francese è introdotto nel Dictionnaire della Académie Française del 1798 con il significato di régime de la terreur che ne attesta la consonanza con il controllo del consenso nello Stato moderno.
L’intreccio tipicamente moderno tra ragione di Stato e relazioni tra gli Stati ha poi rilanciato il terrorismo sullo scenario internazionale, conferendogli un ruolo primario nella politica contemporanea a partire soprattutto dal Novecento. Molti eventi di questo secolo sono stati segnati dalla sua influenza. La prima guerra mondiale è innescata dall’uccisione a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando per mano di un’organizzazione terroristica serba. Nel primo dopoguerra l’ascesa dei regimi totalitari di massa è favorita dal ricorso sistematico e programmatico al terrorismo politico. Al suo epilogo la seconda guerra mondiale conosce un diffuso fenomeno di resistenza popolare punteggiato da atti di terrorismo. Il quarantennio della guerra fredda assiste alla proliferazione di organizzazioni sovversive nei Paesi considerati anelli deboli del blocco occidentale e il ricorso all’attentato mirato nei momenti di maggiore tensione, citiamo per tutti l’assassinio del presidente americano Kennedy (1917-1963) all’indomani della più grave crisi nucleare del secolo e il fallito attentato alla vita del pontefice polacco Giovanni Paolo II (1920-2005) all’inizio della rivolta popolare in Polonia, preludio alla disgregazione politica dell’Est europeo.
Dal modello anarchico ottocentesco al terrorismo moderno
La diversa fisionomia del terrorismo novecentesco è rapportabile più alla cronologia che alla tipologia interna del fenomeno. Se questo assume di volta in volta identità diverse – patriottica, nazionalista, separatista, reazionaria, rivoluzionaria, populista, terzomondista – una certa uniformità è conferita dallo scenario storico in cui esso si trova ad agire. Nell’Europa di inizio secolo, ad esempio, è evidente il retaggio di un modello anarchico ottocentesco, che individua nell’attentato alla vita del capo di Stato un’azione intesa a decapitare il vertice politico di una nazione. L’uccisione a Monza del re d’Italia Umberto I si colloca sullo stesso solco dei precedenti assassini del presidente francese Marie-François Carnot (nel 1894), del primo ministro spagnolo Canova (nel 1897) e dell’imperatrice Elisabetta d’Austria (nel 1898): non apre cioè la strada al terrorismo moderno, chiude semmai la stagione del delitto a scopo dimostrativo, basato sull’identificazione del potere con la figura del sovrano o comunque dei vertici dello Stato.
Il terrorismo degli anni successivi dimostra invece di comprendere le diverse articolazioni di uno Stato moderno, che si propone di disarticolare mirando non più semplicemente al vertice, ma all’intera struttura istituzionale e persino alla sua base popolare. Se l’obiettivo anarchico consisteva nella decapitazione della leadership politica, il terrorismo moderno punta insomma alla destabilizzazione del potere e della società. Questa tattica è tradotta in pratica dai movimenti separatisti, che combattono la loro lotta con il consenso o quanto meno con la complicità di settori della comunità circostante e che, pur alternando la violenza alla mediazione politica, non disdegnano nessun obiettivo per contendere il controllo del territorio ai rappresentanti del potere costituito. Assieme al focolaio dell’irredentismo serbo, la presenza di movimenti di separazione nazionale di diversa provenienza come l’IRA irlandese e più recentemente l’ETA basca assicura una certa stabilità a questa tipologia terroristica, che si consolida come quella di più lunga continuità nel Novecento europeo e al cui interno si sperimentano alcune delle più moderne tecniche organizzative (a cominciare dal collegamento internazionale tra le diverse organizzazioni) e di aggressione, mediante l’uso sempre più sofisticato di materiale esplosivo.
La presenza di nodi ancora irrisolti nella questione nazionale contribuisce poi ad acuire in alcune aree l’impatto della violenza politica. È il caso della Spagna, un Paese destinato a convivere con il terrorismo anche nel lungo periodo della dittatura franchista, benché i regimi totalitari risultino in genere meno esposti delle democrazie per la possibilità di ricorrere a misure di contrasto più drastiche, e dove compaiono forme nuove di violenza, come gli atentados sociales che insanguinano sin dall’inizio del secolo i conflitti sindacali. Le regioni periferiche ed economicamente meno sviluppate del continente europeo si presentano inizialmente come le più predisposte all’azione di forza.
La violenza politica si diffonde invece uniformemente all’inizio del primo conflitto mondiale, avviato come si è detto da un’azione terroristica, sulla cui china si innesta una metamorfosi della politica che si prolunga nella lunga scia di sangue del dopoguerra. Gli esponenti politici diventano fomentatori di disordini o bersagli diretti dell’azione. Nella contrapposizione tra neutralisti e interventisti viene assassinato in Francia Jean Jaurès, leader dei socialisti francesi e figura di spicco del socialismo internazionale. La rivoluzione russa del 1917 contribuisce ad acuire i presupposti della violenza politica, nella prospettiva di un contagio rivoluzionario al resto d’Europa solo momentaneamente rallentato dal proseguimento della guerra.
Alimentato dalla crisi economica, nel primo dopoguerra il terrorismo politico assume le sembianze dello scontro tra rivoluzione e reazione. Se i partiti comunisti concentrano la loro offensiva nella mobilitazione delle fabbriche, secondo l’esempio dei soviet bolscevichi, i movimenti di estrema destra prediligono, accanto allo squadrismo di piazza, la modalità dell’azione terroristica. In alcuni Paesi dilaniati dal conflitto, Germania e Italia innanzitutto, organizzazioni paramilitari e clandestine si affiancano così ai partiti politici più estremisti, ma anche ai governi. In Germania i comunisti Rosa Luxemburg (1870-1919) e Karl Liebknecht (1871-1919) sono rapiti e poi assassinati dai Freikorps al servizio del ministro della Difesa tedesco Noske; in Italia il deputato socialista Giacomo Matteotti (1885-1924) è prelevato e ucciso da un gruppo di sicari alle dipendenze del capo del governo Mussolini. La modalità terroristica è adoperata da questi regimi indifferentemente nei confronti di avversari e di alleati scomodi: nella notte dei lunghi coltelli (30 giugno 1934) il cancelliere tedesco Hitler procede all’eliminazione di diversi avversari politici, ma anche dell’intero Stato Maggiore delle SA, la sua milizia di assalto. Un’altra caratteristica della violenza politica scatenata dai regimi totalitari di destra consiste nella capacità di operare al di fuori dei confini nazionali mediante una rete di organizzazioni consorelle, come nel caso della Cagoule francese, l’organizzazione terroristica francese Comité Secret d’Action Révolutionnaire, cui viene commissionato l’assassinio dei fratelli Rosselli, oppositori del fascismo italiano esuli in Francia.
La violenza politica con modalità terroristiche contraddistingue lo svolgimento della seconda guerra mondiale, soprattutto nei territori di occupazione militare. La resistenza della popolazione si caratterizza sin dall’inizio come un’attività di guerriglia, sostenuta da azioni mirate nei confronti dei rappresentanti del potere nemico. L’episodio più significativo è rappresentato dall’uccisione nel 1942 di Reinhard Heydrich (1904-1942) da parte della Resistenza ceca. Apposite formazioni clandestine – come nel caso dei GAP italiani, i Gruppi di Azione Patriottica – sono organizzate per eseguire esecuzioni personali, i cui obiettivi non risultano sempre funzionali alla guerra contro l’occupante. In Italia nel corso di un’azione terroristica viene eliminato il filosofo Giovanni Gentile (1875-1944), fervido sostenitore del regime fascista, ma anche figura di spicco della cultura italiana.
Nel secondo dopoguerra la stabilità internazionale determinata dalla contrapposizione dei blocchi sembra scoraggiare l’attività terroristica, che riemerge invece verso la fine degli anni Sessanta. A eccezione dell’iniziativa dei movimenti separatisti, che rappresentano però una espressione di lunga durata nel contesto di uno scenario caratterizzato dalla discontinuità, la ribalta è inizialmente occupata dall’esplosione del terrorismo mediorientale, che condiziona in vario modo la ripresa del terrorismo europeo. Il terrorismo palestinese irrompe più volte sulla scena europea, in particolare con gli attacchi agli atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco del 1972 e a un aereo di linea americano nell’aeroporto romano di Fiumicino nel 1973, conclusi entrambi con una strage.
La necessità della lotta armata: i casi di Italia e Germania
Germania e Italia sono anche le nazioni in cui si propaga con maggiore intensità il germe della lotta armata. Accanto a quello palestinese, un secondo modello di riferimento è rappresentato dall’America Latina, cui si ispira soprattutto Giangiacomo Feltrinelli, l’antesignano italiano di una nuova fase rivoluzionaria. Erede di una dinastia imprenditoriale e fondatore di una importante casa editrice europea, Feltrinelli è convinto assertore della necessità di organizzare un movimento armato per prevenire l’instaurazione di regimi autoritari. La paura di una svolta reazionaria, già realizzata in tempi diversi nella penisola iberica e in Grecia, rende incerto lo scenario della democrazia italiana tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta. In questo periodo si sviluppa anche un terrorismo di destra con ambigui rapporti di collaborazione con settori dei servizi segreti, che alterna la strategia degli attentati esplosivi a quella degli omicidi contro magistrati e uomini delle forze dell’ordine.
I terrorismi di destra e di sinistra convivono a lungo in Italia, ma il primo è un fenomeno con caratteristiche nazionali, mentre il secondo dimostra di possedere sin dall’inizio un certo respiro internazionale, derivante anche dai rapporti di collaborazione di Feltrinelli con Fidel Castro e la classe dirigente cubana (a lui si deve anche la fortunata importazione in Occidente dell’iconografia di Che Guevara), ma soprattutto dai contatti con i servizi segreti dell’Europa orientale e con le organizzazioni mediorientali. La strategia della lotta armata, dopo la prima approssimativa elaborazione di Feltrinelli (il cui marginale contributo personale, anche a causa della sua morte nel 1972 durante la preparazione di un attentato, è limitato al coinvolgimento nell’uccisione ad Amburgo del console boliviano Roberto Quintanilla), viene ripresa dalle Brigate Rosse italiane e dalla Rote Armee Fraktion tedesca.
La rete di collaborazione internazionale e un ampio retroterra di reclutamento nei movimenti sovversivi dell’estrema sinistra, alimentato anche dalla contestazione studentesca del Sessantotto, assicura a queste formazioni un certo rilievo politico nella cosiddetta stagione degli anni di piombo. L’attacco al cuore dello Stato si materializza con il rapimento in Germania del presidente della Confindustria tedesca Hans Martin Schleyer nel 1977 e l’anno successivo del leader democristiano italiano Aldo Moro, conclusi in entrambi i casi con l’uccisione dell’ostaggio. La destabilizzazione delle istituzioni non raggiunge però nessuno dei suoi obiettivi: le nazioni interessate riescono ad arginare il terrorismo con un irrigidimento delle misure di contrasto, ma senza alterare i propri fondamenti costituzionali e sfruttando anche la collaborazione di alcuni membri dell’organizzazione. Lo smantellamento delle basi terroriste è accelerato dalla progressiva trasformazione degli equilibri politici internazionali, che inaridisce le fonti di rifornimento del terrorismo. Già sul finire degli anni Ottanta l’attenzione si sposta dal versante continentale a quello internazionale, con la minaccia di un terrorismo di matrice fondamentalista.