Il testo unico del 2011 sull'apprendistato. Modifiche in materia di apprendistato
Modifiche in materia di apprendistato*
La disciplina del contratto di apprendistato è stata interessata da intense vicende normative e giurisprudenziali, a partire dall’approvazione della riforma del 2003 (art. 47 e ss. del d.lgs. n. 276/2003). Dopo l’approvazione della riforma, alcuni fattori – l’estrema complessità attutiva delle norme, il conflitto costituzionale con le Regioni, l’inerzia delle medesime Regioni nell’esercizio di alcune attribuzioni essenziali – hanno determinato una paralisi normativa ed attuativa nella materia. Per uscire da questa situazione di stallo, le parti sociali e il governo nel 2010 hanno sottoscritto un protocollo d’intesa con il quale sono state definite le linee guida di un nuovo testo unico, che ha visto la luce nel mese di luglio del 2011. Con il testo unico, il problema delle competenze viene risolto mediante l’affidamento alla contrattazione collettiva di un ruolo centrale nella disciplina del contratto. Il testo unico, inoltre opera una massiccia semplificazione delle regole, che dovrebbe ridurre la complessità applicativa.
Con il d.lgs. 14.9.2011, n. 167, è arrivata, a quasi otto anni di distanza dall’approvazione della normativa precedente (il d.lgs. n. 276/2003, noto anche come riforma Biagi), la tanto attesa riforma dell’apprendistato. Il Consiglio dei ministri ha votato un testo normativo unitario – definito non a caso testo unico sull’apprendistato – nel quale trovano posto tutte le norme che regolano la materia. Questo intervento era atteso da molto tempo, come si diceva, a causa delle profonde problematiche di carattere costituzionale e anche attuativo che hanno interessato la riforma Biagi. Questa riforma conteneva delle intuizioni interessati: l’apprendistato era concepito «al plurale», in quanto poteva svolgersi secondo tre diversi percorsi, cuciti su misura sulle diverse fasi dell’apprendimento dei giovani, e veniva dato risalto alla formazione aziendale, come momento di apprendimento dotato di pari dignità rispetto alla formazione svolta nelle aule dei centri formativi pubblici. Queste intuizioni si sono scontrate con due difficoltà, che hanno sostanzialmente impedito alla riforma Biagi di avere un impatto significativo sul mercato del lavoro. La prima difficoltà è stata di ordine pratico: le norme erano troppo complesse, non solo nel contenuto (una inutile verbosità produceva commi lunghissimi, pieni di nozioni ridondanti ricavate dall’esperienza e dalla prassi) ma anche nella costruzione sistematica. L’apprendistato professionalizzante doveva essere regolato da due fonti chiamate a coordinarsi per forza: il contratto collettivo e le norme regionali. E se queste fonti non si coordinavano? Il contratto non poteva essere utilizzato, esattamente come è successo. Il legislatore statale ha provato a modificare questa situazione con ripetuti interventi normativi, ma qui si è innestato il secondo problema dell’apprendistato: il riparto di competenze legislative. Secondo la riforma del titolo V della Costituzione, approvata nel 2001, le Regioni hanno competenza legislativa esclusiva su tutte le materie non attribuite dall’art. 117 alla competenza statale, esclusiva e concorrente. La formazione professionale non è tra queste ultime e, di conseguenza, è considerata senza dubbio una materia di competenza legislativa esclusiva delle Regioni. Da qui a dire che l’apprendistato è una materia che deve essere disciplinata solo dalle Regioni, il passo è lungo. L’apprendistato, infatti, è pur sempre un contratto di lavoro che, in quanto tale, rientra nella competenza esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile» (art. 117, co. 2 Cost.). Inoltre, la potestà legislativa regionale trova una limitazione nel fatto che la Costituzione assegna allo Stato il compito esclusivo di individuare i «livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali». Come si coordinano queste competenze esclusive che insistono sulla stessa materia? Una risposta ha provato a darla la Corte costituzionale che, a partire dalla sentenza n. 50/2005, è intervenuta più volte nella materia, utilizzando un approccio morbido. Piuttosto che indicare rigide linee di demarcazione tra le rispettive competenze, la Corte ha più volte insistito sulla necessità di coordinare i diversi ambiti di competenze utilizzando il criterio della leale collaborazione tra i diversi livelli istituzionali. Questo criterio è diventato anche il metro di giudizio che è stato utilizzato per giudicare la costituzionalità di una normativa, nazionale o regionale, in tema di apprendistato. E proprio questo criterio può tornare utile guardando il nuovo testo unico. Abbiamo detto che questo risolve le problematiche sopra descritte. La modalità con cui questa soluzione viene trovata è particolare, in quanto il testo unico, per la forma professionalizzante, semplifica il caotico concorso di fonti scegliendo di dare un ruolo centrale nella regolazione del rapporto e dei suoi aspetti formativi alla contrattazione collettiva. Questa scelta penalizza in maniera evidente le Regioni, che si vedono ridurre in maniera rilevante uno spazio di competenza esclusiva. Il testo unico lascia alle Regioni solo il compito di organizzare una quota di formazione, ma tale canale è meramente eventuale e integrativo rispetto a quello previsto dal contratto collettivo. Si tratta, allora, di una disciplina incostituzionale? Prima di dare risposte frettolose a questa domanda, bisogna ricordare il criterio della leale collaborazione, elaborato dalla nostra Corte costituzionale. Il testo unico è stato elaborato mediante un processo di consultazione istituzionale che ha visto coinvolte pienamente le Regioni, che hanno espresso il proprio consenso preventivo a tale disciplina. Questo consenso non può essere derubricato a un fatto meramente politico e burocratico ma può aiutare a leggere il testo unico in un’ottica costituzionalmente compatibile, proprio grazie al criterio elaborato dalla Consulta in questi anni. Staremo a vedere se questa lettura troverà conferma, ove mai la nuova disciplina fosse portata avanti alla Consulta. Sarebbe importante che non si ripetessero le problematiche che hanno accompagnato la riforma Biagi, in quanto l’apprendistato è un canale essenziale di primo ingresso nel mercato del lavoro per i giovani.
La riforma Biagi, tra le varie novità introdotte in materia di apprendistato, per la prima volta fece entrare nell’ordinamento una tripartizione del contratto che, secondo l’esito cui tendeva, avrebbe potuto svilupparsi in tre diversi percorsi formativi: apprendistato per il diritto dovere di istruzione e formazione, apprendistato professionalizzante, apprendistato per l’acquisizione di un diploma universitario o percorsi di alta formazione. Il primo e il terzo tipo di contratto contemplavano percorsi formativi collegati al sistema dell’istruzione, della formazione professionale e della formazione tecnica superiore o universitaria, mentre la seconda tipologia riprendeva la precedente figura di apprendistato. Questa tripartizione era il frutto dell’apprezzabile intenzione di aprire l’apprendistato a una pluralità di opzioni formative seguendo l’esempio di molti Paesi europei che lo utilizzano ampiamente per strutturare percorsi di formazione in alternanza (usualmente al fine di portare i giovani ad una qualifica, ma ormai spesso anche per formare tecnici diplomati e laureati). Le tre diverse tipologie si distinguevano tra loro per gli aspetti formativi e per le condizioni di utilizzo (età degli apprendisti, durata dei contratti), mentre erano soggette ad una disciplina unitaria per quanto riguardava gli aspetti legati al contratto di lavoro ed all’adempimento della prestazione lavorativa. In particolare, le tre diverse tipologie di apprendistato disciplinate dal d.lgs. n. 276/2003 avevano una struttura diversificata in ragione dell’età e del livello di istruzione e formazione dell’apprendista. Tali differenze erano costruite secondo un’ideale linea evolutiva che cercava di coprire, con specifici e mirati percorsi formativi, tutte le situazioni in cui viene a trovarsi il giovane dall’età di 15 anni fino ai 29: la fase dell’istruzione obbligatoria, quella dell’istruzione secondaria e universitaria e quella dell’istruzione post-universitaria. Il testo unico ha sostanzialmente confermato questa tripartizione dei periodi formativi. Sono rimaste in gran parte invariate anche le regole di base che governano la struttura dei tre diversi rapporti, mentre è cambiata radicalmente la ripartizione di competenze tra i soggetti chiamati a regolare in concreto il rapporto, come vediamo di seguito in dettaglio.
2.1 Apprendistato qualificante
L’apprendistato qualificante costituisce una evoluzione del precedente contratto di apprendistato per l’espletamento del diritto dovere di istruzione e formazione, disciplinato prima dell’ap- provazione del testo unico nell’art. 48 d.lgs. n. 276/2003. Il contratto trova la sua disciplina nell’art. 3 del testo unico. Nella norma viene disciplinata solo la parte formativa del rapporto, in quanto la parte relativa agli obblighi contrattuali e lavorativi delle parti è disciplinata, come per le altre tipologie di apprendistato, secondo le norme comuni contenute nell’art. 2 del testo unico e, ove compatibili, con le norme ordinarie sul rapporto di lavoro a tempo indeterminato. L’apprendistato qualificante è un contratto di apprendistato che prevede lo svolgimento di un percorso formativo che porta al conseguimento di una qualifica o del diploma professionale; questi percorsi possono essere anche inseriti all’interno del ciclo di studi necessari per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione. La legge (art. 3, co. 2) precisa che la qualifica e il diploma professionale dovranno essere definiti ai sensi del d.lgs. 17.10.2005, n. 226. Il contratto può essere stipulato in tutti i settori di attività, e possono essere assunti come apprendisti solo i soggetti che abbiano compiuto almeno 15 anni di età. Il contratto, quindi, è l’unico rapporto di lavoro specificamente pensato per i minorenni. L’età massima per cui può essere instaurato il rapporto è la data di compimento del venticinquesimo anno di età. Oltre questa data, il contratto non può essere sottoscritto. La legge non fissa un limite minimo di durata del rapporto. Invece, viene previsto un limite massimo di durata, pari a 3 anni in generale, elevabile a 4 anni nel caso di diploma quadriennale regionale. In ogni caso, la legge prevede che la durata del contratto debba essere determinata in considerazione della qualifica o del diploma da conseguire. Durante questo periodo, l’apprendista dovrà svolgere un monte ore di formazione. Questo monte ore, secondo l’art. 2, co. 3, lett. b), del testo unico, dovrà essere definito da ciascuna Regione, nell’ambito delle normative di propria competenza, in modo da essere congruo rispetto al conseguimento della qualifica o del diploma professionale. Il monte ore dovrà rispettare gli standard minimi formativi definiti ai sensi del d.lgs. n. 226/2005. Le ore di formazione potranno essere interne o esterne all’azienda: la legge nulla dice circa la ripartizione tra questi due momenti e, pertanto, è da ritenersi rimessa alla valutazione discrezionale delle Regioni la scelta circa il peso di ciascuno di essi. Il co. 2 dell’art. 3 definisce il processo di regolamentazione della parte formativa del contratto. Secondo la norma, tale disciplina deve essere adottata dalle singole Regioni (e dalla Province autonome di Trento e Bolzano), sulla base di un preventivo accordo raggiunto nella Conferenza permanente Stato-Regioni. Infine, i contratti collettivi di lavoro stipulati a qualsiasi livello (nazionale, territoriale o aziendale) possono disciplinare le modalità di erogazione della formazione aziendale. Questa formazione dovrà comunque rispettare gli standard generali fissati dalle Regioni e potrà essere erogata anche all’interno degli enti bilaterali.
2.2 Apprendistato professionalizzante
Il contratto di apprendistato professionalizzante è la tipologia più comune di apprendistato. Questo perché il percorso formativo che accompagna il rapporto di lavoro non deve concludersi mediante l’acquisizione di un titolo di studio formale ma, molto più semplicemente, è finalizzato al «conseguimento di una qualifica professionale». In altri termini, mediante questo contratto un apprendista impara a svolgere una determinata attività professionale (non a caso il legislatore definisce il contratto anche come «apprendistato di mestiere», per dare l’idea delle caratteristiche proprie di questo percorso di apprendimento). Anche se non si concretizza in un titolo di studio, la qualifica professionale che consegue l’apprendista al termine del rapporto deve trovare una rispondenza nel contratto collettivo applicato. In altri termini, il percorso formativo deve consentire l’acquisizione di un complesso di competenze che deve per forza di cose rientrare nel patrimonio di una specifica qualifica prevista dal contratto collettivo di settore. La legge (co. 5) lascia aperta anche la possibilità che il contratto di concluda con il riconoscimento della qualifica di maestro artigiano o di mestiere. Affinché tale qualifica possa essere riconosciuta, dovranno essere rispettate le modalità definite alternativamente dalle Regioni oppure dalle associazioni di categoria dei datori di lavoro di settore. Il contratto di apprendistato professionalizzante può essere utilizzato in tutti i settori di attività. La legge specifica che il contratto può essere utilizzato anche nei settori «pubblici»: viene meno, quindi, la limitazione contenuta nella riforma Biagi, la quale vietava il ricorso al nuovo apprendistato (e, più in generale, alle forme di contratti flessibili da essa regolati) alle pubbliche amministrazioni. Il testo unico ha cambiato i limiti di durata minima (2 anni, inizialmente, e poi nessun limite) e massima (6 anni) del periodo formativo previsti dalla riforma Biagi. Nella nuova disciplina contenuta nell’art. 4, co. 2 testo unico, viene confermata la scelta di non prevedere una durata minima del rapporto, mentre viene stabilito un periodo di durata massima pari a 3 anni. La durata massima del periodo formativo sale a cinque anni per le figure professionali dell’artigianato; il compito di individuare quali siano le figure soggette a questo limite di durata è assegnato alla contrattazione collettiva del settore artigiano. Nell’ambito di questa scarna disciplina legislativa, viene affidata una delega molto ampia alla contrattazione collettiva, cui viene affidato il compito di delineare le caratteristiche dell’intero periodo di formazione. In particolare, la contrattazione collettiva dovrà stabilire, innanzitutto, la durata e le modalità di erogazione della formazione per l’acquisizione delle competenze tecnico-professionali e specialistiche in funzione dei profili professionali stabiliti nei sistemi di classificazione e inquadramento del personale. Questa durata potrà essere modulata in ragione dell’età dell’apprendista e del tipo di qualificazione contrattuale da conseguire. Inoltre, gli accordi collettivi potranno introdurre anche un periodo di durata minima del periodo di formazione. Da notare che la legge affida tali compiti agli accordi interconfederali oppure ai «contratti collettivi», senza indicare il livello negoziale. Questo significa che la disciplina della formazione potrà essere adottata non solo a livello nazionale ma anche a livello territoriale o aziendale. Con il testo unico scompare qualsiasi riferimento al monte ore minimo di formazione che deve essere svolta annualmente. La fissazione di monte ore minimo annuo di formazione da svolgersi all’esterno dell’impresa era una delle grandi novità della l. n. 196/1997 (cd. pacchetto Treu), poi confermata dalla riforma Biagi, che si limitò a consentire una maggiore flessibilità nella scelta delle modalità di svolgimento del periodo formativo, anche all’interno dell’azienda. Queste previsioni sono venute meno con l’approvazione del testo unico, che ha compiuto una scelta molto coraggiosa, rimettendo integralmente alla contrattazione collettiva (e alle Regioni, per la parte di offerta integrativa che possono promuovere e organizzare) la decisione circa il monte ore di formazione da svolgere durante il periodo di apprendistato. Questa attività formativa può essere definita come «formazione aziendale», in quanto la legge stabilisce chiaramente che si svolge «sotto la responsabilità dell’azienda» (art. 4, co. 3). Accanto alle ore di formazione aziendale, disciplinate dal contratto collettivo di settore, la legge prevede la possibilità di sottoporre l’apprendista a un ulteriore percorso formativo, aggiuntivo ed eventuale rispetto a quello sopra descritto. Ciascuna Regione, infatti, può integrare l’attività di formazione aziendale prevista dal contratto collettivo, organizzando una proposta formativa (da attuarsi all’interno o all’esterno dell’azienda) che preveda la acquisizione di competenze di base e trasversali; la proposta formativa dovrà essere strutturata tenendo conto e dell’età, del titolo di studio e delle competenze dell’apprendista. Questo tipo di offerta formativa non è solo organizzata dalle Regioni, ma è anche disciplinata da tali soggetti; nell’adozione delle rispettive discipline (che, nel silenzio della legge, potranno essere adottate sia mediante leggi regionali, sia mediante atti subordinati, quali le delibere di Giunta), le Regioni dovranno consultare le parti sociali. La possibilità di svolgere questa attività formativa è meramente eventuale. Le Regioni, infatti, possono proporre tali cataloghi, così come possono scegliere di non realizzare nulla. Nel caso in cui una Regione predisponga un catalogo formativo, è da ritenere che la partecipazione alle relative iniziative debba essere obbligatoria per l’apprendista (anche se la legge tace sul punto). In ogni caso, l’art. 4 del testo unico fissa un tetto orario di attività formativa regionale: questa non può superare un monte complessivo di centoventi ore per la durata del triennio.
2.3 Apprendistato di alta formazione e ricerca
Il terzo tipo di apprendistato – definito «di alta formazione e ricerca» dall’art. 5 del testo unico – è finalizzato al conseguimento di alcuni titoli di studio superiori. In particolare, il contratto può essere abbinato all’attività lavorativa quando è preordinato al conseguimento di un diploma di istruzione secondaria superiore, al conseguimento di titoli di studio universitari e della alta formazione, compresi i dottorati di ricerca. Il contratto può essere anche finalizzato alla specializzazione tecnica superiore (disciplinata dall’art. 69 l. 17.5.1999, n. 144), e con particolare riferimento ai diplomi relativi ai percorsi di specializzazione tecnologica degli istituti tecnici superiori (disciplinati dall’art. 7 d.P.C.m. 25.1.2008). L’apprendistato di alta formazione può essere utilizzato anche per il praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche o per esperienze professionali, e per lo svolgimento di attività di ricerca. Il contratto può essere utilizzato in tutti i settori di attività, e da parte di tutti i datori di lavoro, compresa la pubblica amministrazione. Pertanto, come per le altre tipologie di apprendistato, viene meno qualsiasi limitazione e differenza di regole tra pubblico e privato. Possono essere assunti con questi tipo di apprendistato i giovani di età compresa tra i 18 anni e i 29 anni. La legge non fissa come data ultima quella in cui il giovane compie il ventinovesimo anno di età, e quindi si deve ritenere che il contratto possa essere stipulato sino al giorno antecedente alla data di compimento dei 30 anni. Per soggetti in possesso di una qualifica professionale conseguita ai sensi del d.lgs. n. 226/2005, il contratto di apprendistato di alta formazione può essere stipulato a partire dal diciassettesimo anno di età. Al contrario di quanto accade per le altre tipologie di apprendistato (qualificante e professionalizzante), la legge non stabilisce un tetto di durata massima del periodo formativo per la tipologia di alta formazione e ricerca. La durata massima di questo periodo potrà quindi essere stabilita dalle fonti competenti (le intese regionali, di cui parliamo di seguito), senza dover rispettare un vincolo legale. La legge non stabilisce alcun monte ore di formazione minimo che deve essere attuato nell’ambito di questa forma di apprendistato, così come non definisce in alcun modo le caratteristiche del percorso formativo. Questi aspetti dovranno essere compiutamente disciplinati nelle intese regionali cui viene demandata la possibilità di regolare l’istituto. Per quanto riguarda questa tipologia contrattuale, viene confermato l’impianto previsto dalla riforma Biagi che, al contrario di quanto accaduto con l’apprendistato professionalizzante, ha dato luogo ha sperimentazioni interessanti e non ha prodotto la sostanziale inutilizzabilità del contratto. Pertanto, come nella precedente disciplina viene affidato alle Regioni il compito di disciplinare la durata e le modalità di svolgimento del periodo di formazione. La legge (art. 5, co. 2) non definisce lo strumento con cui deve essere adottata la disciplina regionale. Si può trattare, quindi, di una legge o di un atto subordinato. Peraltro, il riferimento al raggiungimento di un accordo con altri soggetti lascia aperta la possibilità di regolare l’istituto mediante semplici convenzioni, come già sperimentato nel periodo di vigenza della riforma Biagi. L’accordo appena accennato è una condizione per l’approvazione di qualsiasi disciplina. La legge stabilisce, infatti, che la regolamentazione regionale deve essere definita in accordo con una serie molto lunga di soggetti in primo luogo, le associazioni territoriali dei datori di lavoro e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. L’intesa con le parti sociali non basta. La legge include nell’elenco le università, gli istituti tecnici e professionali e altre istituzioni formative o di ricerca. La norma non stabilisce se le intese regionali debbano prevedere la contestuale presenza di tutti questi soggetti. L’art. 5, co. 3, testo unico si preoccupa di stabilire un meccanismo che consenta di utilizzare il contratto anche in caso di inerzia delle singole Regioni. Secondo la norma, in mancanza di una disciplina regionale l’attivazione dell’apprendistato di alta formazione o ricerca è rimessa ad apposite convenzioni stipulate dai singoli datori di lavoro o dalle loro associazioni con le università, gli istituti tecnici e professionali e le istituzioni formative o di ricerca. La norma precisa che queste intese possono essere raggiunte senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. Tale disposizione riproduce fedelmente la formulazione dell’art. 50 d.lgs. n. 276/2003 introdotta dall’art. 23, co. 3 e 4, l. n. 133/2008, la quale ha superato il vaglio della Corte costituzionale. In particolare, la Consulta, con sentenza del 14.5.2010 n. 176, ha respinto le questioni di legittimità costituzionale proposta da alcune Regioni, rilevando che la previsione di un meccanismo sostitutivo per i casi di inerzia regionale non lede alcuna prerogativa legislativa delle medesime Regioni.
Possono ora passarsi in rassegna le questioni più importanti che pone la nuova normativa sopra segnalata.
3.1 Durata e natura del contratto di apprendistato
Nel contratto di apprendistato convivono due rapporti, che seguono regole diverse e concorrenti. Il rapporto di lavoro è un normale rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, soggetto alla regole ordinarie (fatti salvi alcuni elementi di specialità che servono ad adattare il rapporto alle peculiari caratteristiche del lavoratore apprendista), mentre il rapporto apprendistato è un rapporto di durata determinata soggetto a regole speciali, che variano secondo il percorso di formazione svolto (qualificante, professionalizzante, di alta formazione). Prima dell’approvazione del testo unico, la qualificazione dell’apprendistato come rapporto a termine oppure rapporto a tempo indeterminato aveva dato luogo a interpretazioni difformi. Era pacifico che all’apprendistato non si applicavano le norme sul contratto a termine contenute nel d.lgs. 6.9.2001, n. 368. Tale esclusione era sancita espressamente dall’art. 10, co. 1, d.lgs. n. 368/2001, che cita i rapporti di apprendistato tra i contratti non rientranti nel campo di applicazione del decreto. Tuttavia, questa esclusione non era considerata sufficiente per decidere se l’apprendistato dovesse essere qualificato come uno speciale rapporto a termine, oppure come un rapporto a tempo indeterminato (ugualmente speciale). Vi erano diverse norme che definivano la fase di passaggio dal periodo di apprendistato al periodo successivo come una «trasformazione » a tempo indeterminato del rapporto (così l’art. 21, co. 6, l. n. 56/1987 e l’art. 4 bis, co. 5, d.lgs. n. 181/2002). Questa incertezza era accresciuta dagli artt. 47, 48 e 49 d.lgs. n. 276/2003, che parlavano – con riferimento a ciascuna delle tre tipologie di contratto disciplinate nel decreto legislativo – di «durata del contratto» di apprendistato. Questa dicitura poteva legittimare la ricostruzione dell’apprendistato come un contratto a tempo determinato. Tuttavia, la maggioranza della dottrina e della giurisprudenza considerava errata questa ricostruzione e anche il Ministero del lavoro, interpellato al riguardo, riconobbe una diversa natura al contratto (risposta a interpello n. 79/2009). Sul piano teorico e dottrinale veniva messo in evidenza che la presenza della disdetta impedisce di considerare l’apprendistato come un rapporto a termine. Se il contratto avesse una propria autonoma scadenza, dovrebbe interrompersi automaticamente, senza la necessità di comunicare la disdetta. Tale ricostruzione è stata confermata in sede giurisprudenziale, su diversi livelli. La Corte costituzionale, con la sentenza del 28.11.1973, n. 169, si era occupata della questione in epoca lontana, quando ancora vigeva la l. n. 25/1955, e aveva sostenuto che l’apprendistato doveva essere assimilato a un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e, sulla base di ciò, aveva riconosciuto la piena applicabilità a tale rapporto della l. n. 604/1966 (la disciplina limitativa dei licenziamenti individuali). In un’epoca più recente, quando le norme della l. n. 25/1955 erano state integrate dal pacchetto Treu, prima, e dalla riforma Biagi, dopo, la giurisprudenza di merito è tornata ad occuparsi della questione, giungendo alla stessa conclusione: il contratto di apprendistato deve essere considerato come un contratto a tempo indeterminato, al cui interno c’è un periodo di formazione che ha una durata determinata (Trib. Milano, 13.8.2002 e Trib. Milano 17.6.2005). Come detto, questi problemi ricostruttivi sono ampiamente superati dal testo unico. Il decreto, con maggiore precisione terminologica rispetto alla disciplina previgente, distingue chiaramente la durata del «contratto di lavoro» – che è a tempo indeterminato, (art. 1, co. 1) dalla durata del «periodo di formazione» – che ha una durata predeterminata (art. 2, co. 1, lett. m); quando si parla di «durata dell’apprendistato», quindi, si fa riferimento solo alla durata del periodo formativo, e non alla durata del contratto di lavoro. La durata del periodo formativo, peraltro, varia in funzione della tipologia di apprendistato utilizzata dalle parti (artt. 3, 4 e 5 testo unico), e non è fissata direttamente dalla legge, che si limita a individuare la fonte competente e un eventuale tetto massimo di durata. L’idea di fondo che sta dietro a questa costruzione è che la durata dei contratti viene definita in funzione della disciplina della formazione che viene data dai soggetti deputati a tale compito e quindi tiene conto di questo percorso.
3.2 Centralità del contratto collettivo e competenze regionali: quale compatibilità costituzionale?
È fuori di dubbio che il meccanismo attuativo previsto dal testo unico garantirà una maggiore facilità di regolazione dell’apprendistato professionalizzante. La sostanziale concentrazione in capo al solo contratto collettivo della facoltà di regolare gli aspetti formativi del contratto consentirà di evitare le sovrapposizioni con la normativa regionale, da un lato, e garantirà una maggiore omogeneità sul territorio nazionale della relativa disciplina dall’altro. Si tratta di capire se questi obiettivi sono compatibili col riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni, come risultante dagli articoli 117 e 118 Cost. Una prima disamina dei precetti costituzionali, come riformati dalla legge costituzionale n. 3/2001, porterebbe ad escludere la legittimità della nuova disciplina. L’art. 117, nella parte in cui assegna alle Regioni il compito di regolare tutte le materie non devolute alla competenza esclusiva statale oppure alla competenza concorrente tra Stato e Regioni, di fatto colloca la formazione professionale – che non appartiene a nessuna delle due aree anzidette – fuori dalla sfera di competenza legislativa statale. Quindi, in linea teorica, il legislatore nazionale dovrebbe astenersi non solo dall’assegnare a soggetti diversi dalle Regioni la competenza a regolare la materia, ma addirittura dovrebbe arretrare completamente sulla materia, non potendo fissare neanche principi generali. Questa conclusione sarebbe ingenua e limitativa. La giurisprudenza della Corte costituzionale, già a partire dalla sentenza n. 50/2005, ha messo in evidenza che nella materia dell’apprendistato viene sicuramente in gioco il tema della formazione professionale, ma questo tema si lega in maniera pressoché inscindibile con gli aspetti del contratto di lavoro, che sono di competenza esclusiva dello Stato, e anche con quello delle politiche attive, che rientra nella competenza concorrente tra Stato e Regioni. La convivenza di competenze cosi diverse sulla stessa materia, secondo la Corte, deve suggerire all’interprete – e anche al giudice delle leggi – di non usare schemi rigidi. Il criterio che, in luogo di questi schemi, viene suggerito dalla Corte è quello della «leale collaborazione» tra i diversi livelli istituzionali. Sulla base di tale criterio, secondo la Consulta, la legittimità costituzionale delle norme – statali e regionali – che disciplinano l’apprendistato deve essere verificata alla luce del coinvolgimento dei diversi attori istituzionali dotati di competenze in materia. Nel caso del testo unico, questo coinvolgimento c’è stato in fase di consultazione istituzionale con le Regioni, le quali in sede di preparazione del decreto legislativo hanno dato un formale assenso alla nuova disciplina. Questo assenso non può essere confinato alla semplice dialettica politico-istituzionale, ma – nell’ottica della «leale collaborazione» richiesta dalla giurisprudenza della Consulta – può incidere positivamente sulla legittimità costituzionale della nuova normativa. In questa ottica, assume rilievo anche l’attribuzione alle Regioni della competenza a organizzare la formazione integrativa degli apprendisti. Tale competenza, già astrattamente spettante in virtù dell’art. 118 Cost., viene confermata e ribadita all’interno della nuova disciplina.
3.3 Il regime sanzionatorio
Il riconoscimento degli incentivi di carattere economico e normativo ai datori di lavoro che utilizzano il contratto di apprendistato trova giustificazione solo se viene realizzato un effettivo addestramento professionale del lavoratore, mediante il pieno e integrale rispetto degli obblighi formativi previsti dalla legge e dal contratto collettivo. Il mancato rispetto di questi obblighi costituisce, quindi, il momento centrale del regime sanzionatorio del contratto di apprendistato, che si articola secondo fattispecie diverse, la cui gravità varia in relazione alla diversa gravità degli obblighi formativi violati. L’art. 7, co. 1, testo unico esplicita questo concetto, specificando che la violazione degli obblighi formativi comporta per il datore di lavoro l’obbligo di versare la differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta con riferimento al livello di inquadramento contrattuale superiore che sarebbe stato raggiunto dal lavoratore al termine del periodo di apprendistato, maggiorata del 100 per cento, con esclusione di qualsiasi altra sanzione per omessa contribuzione. In altri termini, se l’apprendistato è irregolare per mancata erogazione della formazione, il datore di lavoro deve ricostruire la storia contributiva del dipendente, assegnando ab origine l’inquadramento nel livello finale cui tendeva il contratto, e pagando i contributi previdenziale in relazione a tale livello. Da tale somma devono essere sottratti i contributi agevolati già pagati per l’apprendistato e la somma risultante da questo calcolo deve essere raddoppiata. Questa sanzione esclude l’applicazione di ogni altra sanzione per omessa contribuzione. La mancata esecuzione degli obblighi formativi dà luogo alla sanzione sopra indicata solo in presenza di due presupposti: deve impedire la realizzazione delle finalità formative della tipologia contrattuale applicata e deve dipendere dalla esclusiva responsabilità del datore di lavoro. Il primo elemento serve a selezionare solo le violazioni gravi degli impegni formativi, ed escludere l’applicabilità della sanzione per i casi in cui, pur essendo riscontrate delle violazioni, queste non hanno compromesso l’attuazione delle finalità formative del contratto.
* Legge 12.11.2011, n. 183. Novità in tema di apprendistato e occupazione femminile. La cd. legge di stabilità per l’anno 2012 ha parzialmente modificato la disciplina degli incentivi contributivi connessi al contratto di apprendistato. La legge prevede uno sgravio totale dei contributi per un periodo massimo di 3 anni, per le imprese che non superano i 9 dipendenti. Tale disciplina ha carattere sperimentale. La stessa legge di stabilità modifica la disciplina del contratto di inserimento, affidando al Ministero del Lavoro il compito di individuare, con proprio decreto, le aree di sotto utilizzo della manodopera femminile; le donne residenti in tale aree potranno essere assunte secondo le regole previste dagli art. 54 e ss. d.lgs. n. 276/2003.