Il tramonto del Medioevo
Medioevo tecnologico
Per gli oltre dieci secoli entro i quali convenzionalmente si circoscrive il lungo periodo medievale – dalla caduta dell’ultimo imperatore romano Romolo Augustolo nel 476 alla scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo nel 1492 –, pur restando vero che i segni di decadenza rispetto all’epoca imperiale erano presenti ovunque, l’epicentro della crisi riguardò principalmente la penisola italica, dove il calo demografico aveva portato alla scomparsa di fiorenti centri commerciali, all’interramento di alcuni porti, all’interruzione di importanti arterie di comunicazione, a una stagnazione e, talvolta, a un regresso delle tecniche metallurgiche, idrauliche, architettoniche e agricole che erano state alla base del mondo romano. A questo impoverimento di tipo strutturale corrispose una decadenza del vigore culturale e intellettuale caratteristico delle città, che contribuì all’isolamento dell’Italia dai fiorenti centri del bacino del Mediterraneo. L’invasione dei ‘barbari’, con il conseguente insediamento di queste popolazioni nell’area dell’ex impero e lo sviluppo delle civiltà nordeuropee, portò gradualmente a un nuovo assetto geopolitico stabile, cui seguì una ripresa dei commerci e delle tecniche.
Limitando la nostra attenzione all’ambito tecnologico, possiamo vedere come durante i secoli medievali furono introdotte alcune importanti innovazioni che crearono le premesse per la nascita della moderna società tecnologica: l’avantreno sterzante, la polvere da sparo, le armi da fuoco, la ghisa, il dispositivo biella-manovella per la trasformazione del moto, la staffa e la bardatura del cavallo, la rotazione triennale delle colture, l’aratro pesante, il trabocco, la bussola e le soluzioni architettoniche dell’edilizia gotica. Di queste invenzioni e scoperte tecnologiche non si sa chi siano gli autori: gli artigiani e gli ingegneri che le idearono, infatti, erano semianalfabeti, non abituati alla scrittura, e, benché svolgessero un ruolo importante per il mantenimento e lo sviluppo delle comunità (sia urbane sia monastiche), non ci hanno lasciato nessun disegno o documento scritto, fatta eccezione per il caso dell’architetto francese Villard de Honnecourt (13° sec.). Il loro operato è rimasto anonimo nella stragrande maggioranza dei casi, e ci è noto soltanto attraverso fonti indirette e reperti archeologici.
Documenti e reperti di cultura materiale
Una testimonianza eccezionale sull’importanza della tecnica nel contesto della cultura monastica anteriore all’anno 1000 è la cosiddetta pianta di San Gallo (San Gallo, Stiftsbibliothek, Codex sangallensis 1092), così chiamata perché ritrovata nella biblioteca dell’abbazia di questa città svizzera. Disegnata presumibilmente intorno all’820, riproduce la planimetria di un monastero benedettino. Non sembra riferirsi a nessun edificio realmente costruito, per cui dev’essere letta come una sorta di progetto ideale, da cui i monaci avrebbero dovuto prendere ispirazione per l’edificazione dei monasteri. Essa evidenzia come queste comunità, dedite al culto religioso e all’attività agricola, fossero in realtà dei centri polifunzionali, nei quali, oltre alla vita spirituale e rurale, si pensava alla conservazione del sapere, allestendo biblioteche e scriptoria, e delle tecniche in senso lato, cioè di tutti quei processi agricoli e artigianali dai quali dipendeva il sostentamento dei monasteri e degli insediamenti urbani sorti intorno a essi. Nella pianta sono presenti un’area esterna, adibita a giardino per la coltura delle erbe officinali, e alcuni locali, destinati alle officine per le arti fabbrili, l’oreficeria, la follatura della lana e la macerazione delle erbe. Impianti molitori, fucine e pestelli potevano essere manuali o idraulici, ma in entrambi i casi richiedevano dispositivi meccanici di una certa complessità, che funzionavano per mezzo di camme, manovelle e alberi a gomito.
Per la conoscenza della tecnologia medievale, due siti archeologici importanti, risalenti entrambi al 12° sec., sono la rocca di Cerbaia sulle colline di Prato e la basilica di S. Maria Maggiore a Bergamo. Nel primo caso si tratta delle rovine di un complesso architettonico in pietra, nel quale è stata rinvenuta – unica testimonianza del genere per il periodo altomedievale – la sede della ruota calcatoria di un argano impiegato per l’edificazione e per il sollevamento dei carichi sulla sommità della torre. Nel secondo caso siamo in presenza di ben sei argani a ruota, posizionati nei sottotetti della basilica, la cui prima installazione si può far risalire alla metà del Duecento, quando fu iniziata la copertura dell’edificio (Marani 1985, pp. 16-19). Argani di questo tipo sono ancora presenti nei sottotetti di importanti cattedrali europee, come quelle delle città inglesi di Peterborough, Tewkesbury e Salisbury (Matthies 1992). Il caso di Bergamo resta comunque eccezionale, perché è il solo fino a oggi conosciuto che presenti un impianto trattorio multiplo.
Una documentazione più nutrita è quella relativa all’ingegneria idraulica. Limitandoci allo scenario italiano, tra i casi più interessanti possiamo ricordare l’acquedotto sotterraneo di Siena e la rete di canali di Bologna. Il primo, realizzato tra il 13° e il 15° sec., attraverso circa 25 km di gallerie portava l’acqua alle fonti cittadine (Balestracci, Vigni, Costantini 2006). La seconda, risalente al 12° sec., regolava le vie d’acqua della città e ne alimentava gli opifici (per la recente ‘scoperta’ di una sua importante chiusa, quella del Rondone, si veda Guenzi, Grandi, in La civiltà delle acque, 2010).
Per il Quattrocento, un caso esemplare di ingegneria è costituito dalla cupola del duomo di Firenze (S. Maria del Fiore), edificata da Filippo Brunelleschi (1377-1446) tra il 1420 e il 1434 e inaugurata nel 1436. Qui siamo in presenza di uno degli architetti più celebri dell’epoca tardomedievale, ma anche le sue invenzioni, benché immortalate da biografi quali Antonio di Tuccio Manetti e Giorgio Vasari, sono state tramandate soltanto indirettamente, attraverso testimonianze più tarde. È il caso delle macchine da cantiere utilizzate per l’edificazione della cupola, note soltanto attraverso i disegni di altri ingegneri della seconda metà del Quattrocento (si veda Gli ingegneri del Rinascimento, 1996, pp. 94-116), come Giuliano da San Gallo (1443-1517), Buonaccorso Ghiberti (1451-1516) e Leonardo da Vinci (1452-1519).
Fino al 15° sec., tuttavia, le fonti di carattere simbolico relative all’ingegneria sono estremamente rare, e l’unico manoscritto di un tecnico professionista che sia rimasto in nostro possesso è il cosiddetto Carnet del citato Honnecourt, compilato probabilmente tra il 1230 e il 1236 (Parigi, Bibliothèque nationale de France, ms. fr. 19093). Sebbene dedicato soprattutto ai rilievi architettonici, questo quaderno presenta anche alcuni disegni di macchine operatrici, come quelli di due seghe per pali di legno meccanizzate (una delle quali capace di lavorare sott’acqua) e di un elevatore a vite.
Un’altra opera interessante è quella nota con i titoli Diversis artibus o Diversarum artium schedula (il cui manoscritto più antico sopravvissuto risale all’inizio del 12° sec.: Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, ms. 2527), attribuita al monaco benedettino tedesco Teofilo (fine dell’11°-inizio del 12° sec.). Essa, pur appartenendo alla tradizione medievale dei ricettari alchemico-metallurgici, fornisce anche alcune importanti indicazioni di carattere ingegneristico per la costruzione di varie apparecchiature: fornaci, forme di fusione, forge, utensili da carpentiere, filiere, mulini per amalgama, torni per modellare il nucleo di fusione delle campane, torni da lattonieri, punzonatrici.
Gli esempi di imprese tecnologiche realizzate durante i secoli medievali sono molteplici. Tuttavia, se le tecniche, nelle loro diverse declinazioni – architettoniche, militari, manifatturiere, commerciali –, avevano mantenuto un ruolo centrale nelle comunità rurali e urbane, è soltanto dalla fine del 14° sec. che i protagonisti della ‘cultura materiale’ tornarono ad avere un’ampia visibilità sociale. Ed è a questo periodo che risalgono anche i primi trattati sulle macchine, compilati sulla scia di una tradizione di trattati militari, di origine romana e bizantina, mai sopita e perpetratasi negli scriptoria dei monasteri medievali.
I primi protagonisti di questo ‘movimento letterario’ non furono però né ingegneri né architetti, bensì personaggi colti, di solito medici o segretari di formazione umanistica che, prestando servizio al seguito degli eserciti, iniziarono a interessarsi alla tecnologia militare e civile e ne compresero l’importanza.
La cultura della tecnica nel tardo Medioevo
Il primo trattato di ingegneria delle macchine realizzato in epoca medievale è il Texaurus regis Francie […] (Parigi, Bibliothèque nationale de France, cod. lat. 11015), che il medico italiano Guido da Vigevano (1280 ca.-dopo il luglio 1349) completò a Parigi nel 1335, quand’era medico di Giovanna di Borgogna, moglie del re di Francia Filippo VI di Valois. L’opera, che insieme al trattato di medicina Liber notabilium (1345) costituisce il lascito manoscritto di Guido, fu scritta nell’intento di facilitare la spedizione in Terrasanta progettata dal re nel 1333 (anche se mai realizzata).
Il Texaurus si compone di una prima parte, dedicata ai rimedi medici che avrebbero potuto tornare utili durante la spedizione militare (Liber conservacionis sanitatis senis), e di una seconda, suddivisa in tredici libri, nella quale si illustrano macchine militari per l’assedio delle città fortificate (Modus acquisicionis Terre sancte, Christi nomine invocato, regi Francie intitulatio). Molte di queste macchine sono concepite in maniera modulare, in modo da poter essere smontate e trasportate al seguito dell’esercito. Lo stile dei disegni è riconducibile a quello dei trattati di arte militare tardoantichi e altomedievali, che conosciamo attraverso rare copie dei Poliorketika di Apollodoro di Damasco (2° sec.) e grazie all’anonimo De rebus bellicis (4° sec.), ma è probabile che Guido, che non era un ingegnere militare, abbia descritto anche macchine che potrebbe aver visto in azione durante le guerre comunali nell’Italia settentrionale. Infatti, dalle Gesta federiciane (o Federici) e da altri resoconti della seconda metà del 12° sec., come le cronache milanesi di Galvano Fiamma, apprendiamo che in queste battaglie furono impiegati carri falcianti e torri d’assedio simili a quelli descritti da Guido. È stato inoltre ipotizzato che le macchine del Texaurus siano riconducibili a un qualche quaderno sull’arte della guerra oggi perduto e, a tale proposito, è stato proposto il nome dell’ingegnere Guintelmo – al servizio del comune di Milano tra il 1156 e il 1162 – come probabile caposcuola della tradizione tecnica a cui Guido avrebbe appunto attinto (Settia 2003).
Alcuni disegni di macchine presentati nel Texaurus, come quelli su barche modulari, otri gonfiati e ponti galleggianti, godettero di un notevole successo, e furono riprodotti anche in altri manoscritti di epoca tardomedievale e rinascimentale. Molto interessanti sono anche le soluzioni proposte per le torri da assalto, concepite per adattarsi a mura di diversa altezza attraverso piattaforme rese mobili per mezzo di funi e leve. Per i carri d’assalto vengono privilegiati i sistemi di propulsione che integrano motori a manovella, trazione animale ed energia eolica.
Un aspetto innovativo del Texaurus consiste nelle modalità di presentazione delle macchine, le quali vengono disegnate utilizzando una simbologia grafica bidimensionale che, seppure di non facile lettura, ne permette una rigorosa scansione cinematica. I disegni sono accompagnati da descrizioni nelle quali sono fornite anche le dimensioni delle parti principali delle macchine. Questo dialogo tra testo e immagine mette bene in evidenza l’inadeguatezza del linguaggio scritto per la descrizione dei cinematismi meccanici, ed è molto significativo il fatto che l’autore, per far fronte a tali insufficienze, inserisca direttamente nel corpo del testo alcuni disegni miniaturizzati di parti della macchina e alcuni riferimenti quantitativi.
Nonostante il suo carattere isolato, il trattato di Guido è un segnale evidente dell’interesse suscitato dalla tecnologia militare e pone, per la prima volta in epoca medievale, problemi di carattere lessicografico e di modalità espositive relative alle macchine, mettendo in risalto l’importanza del disegno.
A partire dalla fine del 14° sec. l’interesse per la tecnologia portò alla nascita e al consolidamento di due tradizioni fortemente interrelate, una italiana e una tedesca, dalle quali prese il via un vero e proprio genere letterario. In Germania il caposcuola di questa tradizione fu il medico militare Conrad (o Konrad) Kyeser di Eichstätt (1366-dopo il 1405), che tra il 1402 e il 1405 scrisse un trattato sulla tecnologia militare, il Bellifortis (Gottinga, Niedersächsische Staats- und Universitätsbibliothek, ms. Philos. 63). Altrettanto importante, però, fu un ingegnere militare boemo di cui si ignora il nome, conosciuto come Anonimo della guerra hussita, che intorno al 1420-30 scrisse un trattato sulle macchine militari rimasto senza titolo (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, cod. Latinus monacensis 197, parte I; si veda a tale proposito Hall 1979); in esso si dava conto in maniera dettagliata anche di alcune macchine operatrici a uso civile, come le gru, i mulini e i trapani. Gli esordi della tradizione italiana di cui abbiamo documentazione risalgono agli anni Trenta del Quattrocento e, se inizialmente possono essere assimilati alla corrente tedesca per i temi e lo stile adottato, in seguito se ne distanziarono per seguire percorsi autonomi legati al fervore culturale del movimento umanista e delle corti rinascimentali.
La rinascita della cultura tecnica nell’Italia del Quattrocento
In alcune delle principali città della penisola italica, come Milano, Venezia, Firenze, Ferrara, ma anche in centri minori, residenze di principi illuminati quali i Malatesta a Rimini e i Montefeltro a Urbino, durante il 15° sec. si crearono le condizioni sociali per lo sviluppo e la diffusione della cultura tecnica. I luoghi di maggior fervore culturale erano gli arsenali e i cantieri edili e minerari, ma non meno importante fu il ruolo svolto dalle botteghe degli artisti e degli artigiani, che diventarono centri di studio e di confronto sulle questioni tecnico-scientifiche sorte dalle attività professionali; pensiamo, per es., alle stamperie che, con la diffusione della stampa a caratteri mobili, favorirono la contaminazione culturale, dato che vi venivano in contatto personaggi di diversa formazione e origine (Eisenstein 1983, 19932, trad. it. 1995, pp. 30-51). Grazie in primo luogo alla frequentazione di umanisti, scienziati, matematici e filosofi, gli artisti-ingegneri si resero protagonisti di un rinnovamento culturale e professionale che li portò a impegnarsi, oltre che nella riorganizzazione delle proprie professioni, nella stesura in prima persona di manoscritti, prendendo come modello i trattati tecnici antichi, da poco riportati al loro splendore originario proprio dagli umanisti.
Le attività esegetiche ed ermeneutiche condotte sui trattati tecnici antichi costituirono il crocevia privilegiato per il confronto tra artisti e umanisti, nel quale i primi erano chiamati alla non secondaria attività di restituire ai trattati il loro apparato iconografico, andato perduto durante i secoli medievali. Il De architectura (1° sec. a.C.) di Vitruvio è certamente il caso più emblematico: esso portò alla formazione di accademie nelle quali gruppi di lavoro composti da letterati, artisti e architetti operavano insieme per arrivare alla redazione di un’edizione illustrata. Il decimo libro in particolare, dedicato alle macchine per uso civile e militare, richiese l’intervento di ingegneri che sapessero restituire graficamente i complessi cinematismi descritti in lingua latina, e il risultato raggiunto nell’edizione di Giovanni da Verona detto fra Giocondo (1433 ca.-1515), pubblicata a stampa nel 1511 a Venezia, costituisce uno degli esempi più significativi di questa attività.
La tradizione dei trattati tecnici sviluppatasi in Italia durante il Quattrocento ebbe quindi un carattere multiculturale sin dai suoi esordi, e già nella prima metà di quel secolo troviamo autori che, provenienti da diversi percorsi formativi e differenti esperienze professionali, fecero della tecnologia il loro principale interesse. Giovanni Fontana (1395 ca.-1455), per es., era un medico erudito, che esercitò la professione di medico condotto prima a Padova e poi a Udine; Roberto Valturio (1405-1475) era un segretario di formazione umanistica, che esercitò a Rimini presso la corte di Sigismondo Pandolfo Malatesta e di suo figlio Roberto; Mariano di Iacopo, detto il Taccola (1381-1453/1458) era un notaio di Siena che scelse di non esercitare la sua professione per dedicarsi alla pratica e allo studio delle arti e dell’ingegneria. Pur essendo assimilabili alla medesima tradizione, le loro opere, che nei contenuti in gran parte si sovrappongono, mantengono specificità proprie e originali, frutto delle diverse esperienze professionali dei loro autori.
Le macchine e gli esperimenti di Giovanni Fontana
Fontana si formò all’Università di Padova nello stesso periodo in cui vi studiavano il filosofo Nicola Cusano (o Niccolò da Cusa; 1401-1464) e lo scienziato Paolo dal Pozzo Toscanelli (1397-1482). Dalle poche testimonianze biografiche in nostro possesso, sappiamo che egli ebbe contatti con Biagio Pelacani (1347-1416), che lo introdusse agli scritti della tradizione filosofica inglese dei calculatores, attraverso la quale approfondì gli studi sulle grandezze fisiche della velocità, del tempo e dello spazio. Le sue spiccate attitudini sperimentali gli permisero di ideare strumenti per compiere indagini empiriche su queste grandezze; alcuni di essi vengono illustrati in due piccoli trattati sugli orologi (De horologio aqueo e Nova compositio horologii) scritti tra il 1417 e il 1418.
L’opera che fece assumere a Fontana una posizione di rilievo nella nascita della tradizione dei trattati tecnici è però il Bellicorum instrumentorum liber […], scritto all’incirca tra il 1420 e il 1440. Si presenta come un’antologia illustrata e, a dispetto del titolo, non è esclusivamente dedicato alla tecnologia bellica, ma spazia in molti ambiti delle tecniche e delle scienze: alchimia, esplosivi, apparati scenografici, proiezioni ottiche, fontane, gru, serrature, specchi, magia, chirurgia, mezzi di trasporto. Di particolare interesse sono le pagine dedicate all’ingegneria idraulica, basate sulla conoscenza diretta di autori antichi e altomedievali come Filone di Bisanzio (280 ca.-220 a.C. ca.), Erone di Alessandria (forse 1° sec.) e al-Kindī (801-870/873), oltre che sulla sperimentazione diretta dell’autore stesso. Fontana vi si mostra particolarmente interessato alle condutture idriche e alle fontane alimentate attraverso sistemi di sifoni o per mezzo di stratagemmi artificiali operati da valvole e fistole. Molto curiosa è la quasi totale assenza delle pompe, che sono rappresentate da un unico esemplare a bilanciere di derivazione araba. Le ragioni di questa rinuncia sono probabilmente da ricercare nel fatto che Fontana non era un ingegnere, ma un filosofo naturale, e quindi preferiva descrivere una tecnologia, come quella dei sifoni, che non dipendeva da un artificio meccanico, ma era basata sulla legge naturale del fluire dell’acqua verso il basso. Il suo interesse verso le macchine e i dispositivi idraulici non era quindi determinato da un coinvolgimento di tipo professionale, bensì dalla curiosità propria dello scienziato, più propensa a registrare la macchina eccezionale che non il dispositivo di uso comune.
Fontana dimostra di essere anche un profondo conoscitore dei trattati di ingegneria arabi, cosa che emerge principalmente da alcuni espedienti grafici, come l’uso del colore a fini funzionali alla comprensione del disegno piuttosto che decorativi. Infatti, mentre il color seppia è usato per marcare le parti in ombra e dare rilievo alle immagini, con il rosso si indicano le parti attive e in movimento dei dispositivi meccanici o l’azione degli elementi naturali come il fuoco.
È molto difficile valutare la diffusione e l’influenza del testo di Fontana, del quale non siamo in grado di stabilire quante copie furono realizzate; a oggi conosciamo soltanto quella conservata nella Bayerische Staatsbibliothek di Monaco (Codices iconographici 242). Inoltre il testo è parzialmente scritto con un alfabeto criptato, ideato dallo stesso autore, che fa pensare che l’opera dovesse circolare soltanto in un circuito ristretto di lettori, benché le parti scritte in latino siano talvolta sufficienti a comprendere il funzionamento dei dispositivi rappresentati.
Le copie degli altri manoscritti di Fontana, tra i quali il Secretum de thesauro experimentorum ymaginationis hominum (1430 ca.), il compendio enciclopedico De omnibus rebus naturalibus (1454 ca.) e un trattato di prospettiva, oggi perduto, dedicato al pittore Iacopo Bellini, sembra siano andate disperse nel mercato e, a parte quelle in possesso di chi scrive, non ne resta traccia in nessuna delle biblioteche storiche.
Da una ricerca nei principali archivi italiani, inoltre, il nome di Fontana non viene mai fuori, ed è molto difficile ricostruire le vicende biografiche di questo autore. A dispetto di una precoce carriera accademica, che in gioventù lo portò a rivestire il ruolo di lettore delle Arti all’Università di Padova, sembra che in seguito egli sia stato confinato a fare il medico condotto di provincia nel Friuli. La ragione di un tale isolamento potrebbe essere trovata nelle accuse di magia ed eresia dalle quali, come emerge dai suoi scritti, egli si trovò più volte a doversi difendere. I suoi scritti sembrano avvolti da una cortina di silenzio, e anche il De omnibus rebus, che avrebbe dovuto rappresentare il culmine dei suoi studi di filosofia naturale, venne accantonato, per essere stampato soltanto nel 1545, per di più sotto uno pseudonimo, quello di Pompilius Azalius Piacentinus.
Filologia e arte della guerra nel De re militari di Roberto Valturio
Se la carriera di Fontana si concluse purtroppo con l’isolamento e con il silenzio calato sulle sue opere, completamente diverse furono invece le sorti di Valturio e del suo De re militari, che ebbe subito un notevole successo. L’opera fu compilata a Rimini tra il 1446 e il 1455, su iniziativa di Sigismondo Pandolfo Malatesta; numerose furono le copie manoscritte (quella del 1466 si trova a Torino nell’Archivio storico AMMA, Associazione degli industriali Meccanici, Metallurgici e Affini), e nel 1472 fu il primo trattato tecnico ad avere l’onore delle stampe. Fu riedito nel 1483, insieme alla sua prima traduzione in italiano, eseguita da Paolo Ramusio. Nel 1532 e nel 1534 furono stampate altre due edizioni in latino, e nel 1555 una traduzione in francese.
Valturio era un colto segretario di corte e il suo trattato dev’essere visto in primo luogo come un compendio di tecnologia militare avente carattere storico-antiquario, scritto con intento celebrativo-propagandistico per promuovere la magnificenza del signore di Rimini. Per questo motivo venne redatto in più copie, che furono spedite ai principali esponenti dello scenario politico-militare italiano e internazionale, tra i quali il re d’Ungheria Mattia I Corvino, il sultano ottomano Maometto II e il duca di Milano Francesco I Sforza.
Anche se il De re militari non può essere considerato un trattato tecnico che riflette la realtà ingegneristica del tempo, gli va riconosciuto il merito di aver contribuito a favorire, nel contesto sociale della sua epoca, la ricezione e la diffusione della cultura tecnica. Il suo maggior pregio consiste quindi nell’essere non tanto un trattato sulle tecniche militari quanto un compendio nel quale si cerca di organizzare in maniera sistematica la tecnologia della guerra, anticipando di circa un secolo la tradizione letteraria dei ‘teatri di macchine’ (Dolza Goldstein 2005).
Tra le macchine da guerra illustrate negli ultimi due libri del De re militari, la più singolare e rappresentativa è la torre d’assalto a forma di drago (denominata arabica machina), nella quale possiamo vedere una sintesi fra tradizione (la torre e il gettaponte), innovazione (l’artiglieria) e suggestione psicologica del disegno (il drago). In questa macchina, che molto probabilmente non fu mai realizzata e che per i suoi tratti zoomorfi rimanda al mondo immaginifico dei bestiari medievali, troviamo comunque alcuni elementi tecnici interessanti, quali il paranco come elemento di trazione per l’avanzamento e per l’apertura del ponte, il ponte retrattile, la scala, ma soprattutto tre bombarde, una delle quali rappresentata nell’atto di sparare un dardo.
Valturio, come del resto altri testimoni della sua epoca quali lo stesso Fontana, Taccola e Leon Battista Alberti (1404-1472), non sembra essersi reso conto del rinnovamento introdotto nell’arte della guerra dalle armi da fuoco, che entro la fine del secolo verranno a sostituire completamente le artiglierie di tipo nevrobalistico. Nel De re militari si registrano soltanto pochi esempi di artiglierie, e curiosamente (ed. a stampa del 1472, p. 355) se ne attribuisce l’invenzione ad Archimede (287-212 a.C.). Tra gli esempi più interessanti troviamo artiglierie con alzo a pioli, una bomba incendiaria e alcune bombardelle da braccio. Sono presenti anche alcuni strumenti bellici complessi, come la «macchina tormentaria», che riunisce otto bombarde in una piattaforma circolare ruotante posta sulla sommità di una torre. Si tratta di una macchina che troviamo anche in altri manoscritti dell’epoca, provenienti sia dall’area tedesca (Leng 2002, 1° vol., tavv. 2, 3, 10) sia da quella italiana, e della cui reale esistenza troviamo testimonianze risalenti al 17° sec., quando dispositivi simili a quello descritto da Valturio furono impiegati a Ostenda (Paesi Bassi) nell’assedio del 1602-1603 (Amoretti, in Le macchine di Valturio, 1988, pp. 153, 162).
Il successo dell’opera di Valturio fu dovuto anche al suo apparato iconografico molto curato, realizzato probabilmente dal miniaturista, architetto e pittore veronese Matteo De’ Pasti (m. nel 1476 ca.), che all’epoca rivestiva a Rimini la carica di sovrintendente alle belle arti della signoria malatestiana (Rodakiewicz 1940). Un apparato iconografico che riassume, sintetizza e rende omogeneo il corpus di quelle macchine risalenti all’età classica che, dopo le raccolte miscellanee medievali, erano tornate alla ribalta con il Bellifortis di Kyeser e con le opere di Taccola.
Filologia e ingegneria nei manoscritti di Mariano di Iacopo, detto il Taccola
Un altro autore destinato ad avere un’influenza notevole sulle successive generazioni di tecnici a livello europeo, è il citato Taccola, di cui ci sono pervenuti tre manoscritti autografi, compilati nell’arco di tempo tra il 1419 e il 1450 ca.: il De ingeneis, libri I e II (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, cod. Latinus monacensis 197, parte II), il De machinis (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, cod. Latinus monacensis 28800) e il De ingeneis, libri III e IV (Firenze, Biblioteca nazionale centrale, ms. Palatino 766).
Taccola, a quanto sembra, non esercitò mai la professione di notaio, e si dedicò invece completamente alla pratica dell’arte, collaborando con artisti di primo piano come Iacopo della Quercia e Domenico di Bartolo, tra i principali protagonisti del Rinascimento senese. Tra il 1424 e il 1434, inoltre, ricoprì l’incarico di camerlengo (camerarius) della Domus Sapientiae, importante istituzione culturale cittadina, un’attività che lo portò in contatto con studenti e professori dello Studio senese, tra i quali noti umanisti come Francesco Filelfo, Mariano Socini (Sozzini) il Vecchio, Antonio Beccadelli, detto il Panormita, e Ciriaco d’Ancona.
Questa formazione eclettica e multidisciplinare lo portò a sviluppare un originale interesse per l’ingegneria, che concretò sovrapponendo il piano della ricerca antiquaria a quello delle invenzioni. Conoscendo il latino, aveva accesso diretto alle fonti che cita nei suoi manoscritti, e il suo contributo interpretativo fu importante per la comprensione di opere complesse come quelle di Filone di Bisanzio e per restituire le immagini a trattati di arte militare come gli Strategematon libri IV (scritti fra l’88 e il 96) di Sesto Giulio Frontino (30/40-103/104) e il De re militari di Vegezio (383 ca.-450 ca.), anticipando di qualche decennio l’opera sistematica di Valturio.
Una testimonianza eccezionale, che mette in risalto la diversità tra la concezione medievale e quella rinascimentale delle tecniche, è un dialogo di Taccola con Brunelleschi riportato nel De ingeneis III-IV (ff. 107v-108v), durante il quale l’architetto fiorentino esorta il più giovane collega senese a non rivelare pubblicamente le proprie invenzioni affinché altri non se ne approprino senza pagare i dovuti crediti all’inventore. Si tratta di una rivendicazione importante, che se letta sullo sfondo delle opere di Taccola fa emergere il diverso rapporto dei due autori nei confronti delle conoscenze tecniche; ancora di mentalità segretista e protezionista, Brunelleschi vuole tutelare le proprie conoscenze e per questo evita di divulgare i suoi progetti innovativi per mezzo di disegni e trattati, mentre Taccola non esita a trasferire le sue conoscenze tecniche in centinaia di pagine dense di disegni e note esplicative. Se per un certo verso Taccola era interessato a tutelare le proprie invenzioni, dall’altro però voleva farsi vanto di esse per cercare riconoscimenti pubblici di carattere culturale e sociale.
A tale proposito, in varie pagine dei suoi manoscritti esalta se stesso, sottolineando l’interesse suscitato dai suoi disegni di macchine; sintomatico di ciò è il fatto che aveva redatto una copia del De ingeneis III-IV per farne dono all’imperatore Sigismondo e per offrirgli i propri servigi come ingegnere idraulico e miniatore, dichiarandosi anche disposto a trasferirsi in Ungheria (f. 42r). A Costantinopoli, nella biblioteca del cosiddetto Serraglio (il Topkapı Saray, sede dei sultani ottomani) era presente una copia del De machinis realizzata da Paolo Santini (Parigi, Bibliothèque nationale de France, ms. lat. 7239), e si è ipotizzato che fosse un dono portato a Maometto II da Ciriaco d’Ancona, che si trovò a svolgere missioni diplomatiche presso quella corte (Galluzzi, in Prima di Leonardo, 1991, p. 23).
Figura intermedia, quindi, tra quella di Valturio, che realizza un trattato sistematico sull’arte della guerra sul modello degli antichi, e quella di Fontana, che si rivolge alla tecnologia per curiosità e con un atteggiamento in primo luogo sperimentale oltre che filologico, Taccola si presenta come un artista-ingegnere e un inventore, sufficientemente colto per appassionarsi a figure chiave della scienza e dell’ingegneria antica, al punto di autodefinirsi, in uno dei manoscritti del De machinis, «l’Archimede di Siena» (New York, Public library, ms. Spencer 136, f. 102).
La tecnologia presentata da Taccola è in gran parte mutuata dal De architectura di Vitruvio e dal De re militari di Vegezio. L’autore si mostra molto interessato, inoltre, alla tecnologia idraulica, settore per il quale rivendica delle invenzioni proprie, come il «cassone per fondare in acqua» e un impianto molitorio a ricircolo d’acqua nel quale si abbina una ruota idraulica a delle pompe a stantuffo (De ingeneis I-II, cit., f. 61r).
Molto spazio dedica ai sistemi per l’approvvigionamento dell’acqua, ed è probabile un suo coinvolgimento nell’ampliamento della rete dell’acquedotto di Siena: molteplici, infatti, sono i suoi disegni di condotti idrici basati sul funzionamento del sifone, di ponti-canali e di potenti sistemi per il sollevamento dell’acqua, sia meccanici sia idraulici, che inducono a pensare si trattasse di idee per l’audace progetto, mai realizzato, di incanalare e portare in città le acque del fiume Merse, distante circa trenta chilometri. Curiose sono anche le rappresentazioni di scene di pesca meccanizzata, da mettere in relazione con un altro progetto, sempre legato al territorio senese, nel quale si prevedeva la realizzazione di uno sbarramento fluviale, anch’esso sul Merse, finalizzato alla costruzione di un allevamento ittico per supplire alla richiesta alimentare della popolazione senese (De ingeneis I-I, cit., ff. 99r, 101r, 119v).
La concretezza dell’opera di Taccola, che accanto alle ricerche filologiche riporta la documentazione per immagini anche di progetti reali, è evidenziata anche dalle numerose rappresentazioni di strumenti topografici per il rilievo di altezze e distanze, come il teodolite e l’archipendolo, che potrebbero essere messi in relazione proprio con la necessità di tracciare il percorso dell’acquedotto (De ingeneis III-IV, cit., ff. 32r, 33r, 34r). È presumibile, infatti, che Taccola sia stato coinvolto direttamente in questi lavori durante il periodo in cui era ‘stimatore’ del comune di Siena, cioè aveva l’incarico di seguire la realizzazione di opere pubbliche e private verificando appalti, preventivi e visure catastali.
Sul piano della tecnologia bellica, le opere di Taccola ripropongono in sostanza la machinatio classica, definita a partire dal trattato di Guido da Vigevano. Le armi da fuoco, seppure trattate in maniera diffusa, non si differenziano da quelle presentate nei manoscritti della tradizione tedesca, e vengono tralasciate completamente le questioni relative alle tecniche di fusione per concentrarsi, invece, sui sistemi di posizionamento, riparo e alzo dei cannoni. L’unica nota relativa agli aspetti metallurgici legati alla fusione delle artiglierie è un riferimento al «ferro colato» come materiale più resistente dell’acciaio (De ingeneis I-II, cit., f. 14r). Si tratta di un’osservazione molto interessante, perché potrebbe riguardare l’impiego della ghisa nella fusione dei cannoni, mentre il riferimento alla maggiore resistenza del ferro colato rispetto all’acciaio potrebbe derivare dal fatto che questa lega non era impiegata per la fusione, ma per realizzare le armi da fuoco alla fucina – una laboriosa tecnica di carpenteria in cui la canna da sparo veniva costruita saldando insieme una serie di doghe –; le canne, però, non offrivano sufficienti garanzie di tenuta alle pressioni esercitate dalla deflagrazione della polvere da sparo.
Nel De ingeneis I-II (f. 30v) e nel De machinis (f. 43v) sono presenti anche alcune delle rappresentazioni più antiche di una fucina alimentata da una soffieria idraulica; una tecnologia, questa, che portò a un forte sviluppo delle tecniche di fusione e delle lavorazioni termomeccaniche prima dell’introduzione degli altiforni e dello sviluppo dei forni a riverbero.
Di estremo interesse, infine, sono anche alcuni disegni di dispositivi per le immersioni e di attrezzature per il recupero di relitti e tesori sommersi, alcuni dei quali ricordano il ritrovamento delle navi romane sul fondale del Lago di Nemi, del cui recupero, attorno alla metà del 15° sec., fu incaricato Alberti. Speciali pontoni per sollevare i relitti sommersi dai fondali vengono descritti sia nelle opere di Taccola (De ingeneis III-IV, cit., f. 18r) sia in altri manoscritti anonimi dello stesso periodo (per es., quello conservato a Firenze, Biblioteca nazionale centrale, ms. EB 16.5, parte II, f. 76v).
Ingegneri-autori: tecnologia e disegno tecnico in Francesco di Giorgio
La singolare figura di Taccola, al contempo artista-ingegnere e lettore appassionato di trattati scritti in latino, ma anche protagonista e testimone delle imprese e della gestione dello ‘sviluppo tecnologico’ del territorio senese, può essere presa come riferimento per illustrare il cambiamento in atto del ruolo sociale e culturale dei tecnici rinascimentali. Un segnale inequivocabile di questa svolta professionale, che guardava in primo luogo all’emulazione degli umanisti, lo ritroviamo anche in altri artisti della prima metà del Quattrocento, come Lorenzo Ghiberti (1381-1455) e il suo allievo Antonio Averlino, detto il Filarete (1400 ca.-1469 ca.), che scrissero entrambi un trattato.
Ghiberti, che lo stese, probabilmente nel periodo 1452-55, in forma di commentario (Commentari, libri I-III; Firenze, Biblioteca nazionale centrale, Fondo nazionale II.I.333), disquisisce sulle conoscenze artistiche e sulla loro storia, dedicando ampio spazio, nel III libro, al tema dell’ottica, che tratta sulla base di fonti antiche e medievali. Filarete compilò negli anni 1460-64 un Trattato di architettura (Firenze, Biblioteca nazionale centrale, Fondo nazionale II.I.140), il primo scritto in lingua italiana. Il trattato è dedicato alla progettazione della città ideale di Sforzinda, così chiamata in onore della famiglia Sforza. In esso, oltre a svolgere una riflessione sull’architettura, viene messa in risalto l’importanza delle arti e delle tecniche in genere, come la metallurgia e l’arte vetraria. In particolare, si auspica per la formazione dei giovani un programma pedagogico che spazi in ogni branca del sapere, incluse le arti meccaniche.
In questo ‘fervore letterario’ che investì il mondo delle arti, estremamente significative sono l’opera e la vicenda biografica di Francesco di Giorgio di Martino, meglio noto come Francesco di Giorgio (1439-1501), un altro artista-ingegnere senese. Autodidatta, egli assimilò tutta la tecnologia disegnata e descritta da Taccola, delineando in questo modo una linea di continuità negli studi sulle macchine e dando il via a una tradizione che, a partire dalla fine del 15° sec., impose a livello europeo lo Studio di Siena come una delle principali scuole di ingegneria. Segno evidente di questa continuità sono sia le note autografe nelle pagine conclusive del De ingeneis III-IV (f. 130v), che ci restituiscono l’immagine di un giovane Francesco impegnato in uno studio accurato dei manoscritti di Taccola, sia i molti disegni di un’opera di Francesco nota come Codicetto (Città del Vaticano, Biblioteca apostolica vaticana, ms. Latino urbinate 1757), che riproducono tutte le macchine di Taccola.
La vita professionale di Francesco si divise essenzialmente tra Urbino, dove fu al servizio del duca Federico da Montefeltro, e la sua città natale, Siena, dove fu membro attivo della Camera del Comune (un organo amministrativo che si occupava della gestione della città e del suo sviluppo urbano e militare), capomastro nel cantiere del duomo (S. Maria Assunta) e operaio dei ‘bottini’ (i condotti sotterranei che portavano l’acqua in città). Fu anche un architetto molto prolifico; tra i suoi interventi più importanti si ricorda il completamento del Palazzo ducale di Urbino, per il quale concepì anche il fregio esterno, formato da 72 formelle in pietra (lavorate a bassorilievo) rappresentanti macchine da guerra e civili, che suggellano sul piano monumentale l’importanza della tecnologia militare. Fu inoltre un rinnovatore dell’architettura militare, avendo introdotto soluzioni come le rocche di forma arrotondata, concepite per cercare di contenere l’effetto dei colpi delle artiglierie, e le fortezze a pianta pentagonale.
Come ingegnere militare partecipò alla ‘guerra di Colle’ (1475), nella quale i senesi si schierarono contro i fiorentini, e celebre è il suo intervento a Napoli, quand’era al seguito del re Ferdinando II d’Aragona, durante l’assedio alle truppe francesi asserragliate dentro Castel Nuovo, contro le quali ebbe la meglio grazie all’esplosione di una mina da lui stesso concepita. Significativa è anche la sua produzione di artiglierie per l’esercito senese, che realizzò insieme al suo collaboratore Giacomo (o Iacopo) Cozzarelli (1453-1515). Importante, anche se più circoscritta, è la sua produzione artistica, scultorea e pittorica.
Quando raggiunse la maturità professionale, Francesco si dedicò all’approfondimento teorico della propria disciplina, e un passaggio significativo di questa svolta è rappresentato dalla rinuncia alla bottega che condivideva con il pittore Neroccio di Bartolomeo di Benedetto de’ Landi (1447-1500; cfr. Mussini 2003, 1° vol., pp. VII-IX). In tal modo Francesco si lasciò alle spalle il passato di artista e ingegnere legato alla dimensione culturale delle botteghe artigiane, per trasformarsi in un intellettuale dell’architettura e dell’ingegneria, dedito allo svolgimento di un’attività prevalentemente progettuale e di rappresentanza per la gestione e lo sviluppo del patrimonio tecnologico della Repubblica senese e del ducato di Urbino.
Spinto dall’interesse verso l’architettura e la meccanica degli antichi e stimolato dal fervore degli studi umanistici della corte urbinate di Federico da Montefeltro, Francesco s’impegnò nella compilazione di un Trattato di architettura, a cui aggiunse la traduzione in italiano di una parte del De architectura di Vitruvio, sintomo evidente del raggiungimento di una notevole autonomia culturale. Questa indipendenza di pensiero portò Francesco a riconoscere al disegno tecnico un’importante funzione epistemologica, in quanto linguaggio principale per inventare nuove macchine e comunicarne le modalità di funzionamento.
Francesco sviluppò una serie di espedienti grafici che gli consentirono di mettere in evidenza le specificità della macchina rappresentata e di visualizzarne le parti essenziali: viste in esploso, viste in trasparenza, rappresentazioni in successione dei particolari per evidenziarne la sequenza di montaggio. L’espediente che più di ogni altro caratterizza il contributo di Francesco allo sviluppo del disegno tecnico, è l’ideazione di singolari strutture grafiche che servono per rappresentare la macchina nei suoi tratti essenziali. All’interno di queste strutture, le macchine vengono decontestualizzate dal loro ambiente operativo e poste su un piano ideale, in modo da mettere in risalto in maniera chiara l’architettura dei leveraggi e dei ruotismi che compongono il dispositivo meccanico (Kemp, in Prima di Leonardo, 1991). Le pagine del Trattato sono caratterizzate da un fitto dialogo tra testo e immagine e, in alcuni casi, oltre a osservazioni e riflessioni sui modi di funzionamento e sul modo di migliorare il rendimento delle macchine, vengono dati anche riferimenti quantitativi, che inducono a pensare a un tentativo di standardizzazione dei dispositivi disegnati.
La già citata versione del Codicetto conservata nella Biblioteca apostolica vaticana (e proveniente dalla Biblioteca storica di Urbino) è il manoscritto più antico realizzato di prima mano da Francesco. Si tratta di un quadernetto tascabile, compilato in gran parte prima del trasferimento a Urbino (1477), dal quale emerge l’assiduo impegno di Francesco nell’assimilare la tecnologia presente nei manoscritti di Taccola, talvolta da lui interpretata in maniera originale; come quando illustra il dispositivo pignone-cremagliera e l’abbinamento del volano al sistema biella-manovella. Particolarmente interessante è la rappresentazione di un volano a sfere, che potrebbe essere il disegno più antico in nostro possesso di questo dispositivo. Al periodo urbinate risalgono, invece, i numerosi disegni di soggetto architettonico e militare.
Il secondo manoscritto di Francesco è un album di disegni, l’Opusculum de architectura, la cui copia autografa è conservata a Londra (British library, ms. 197.b.21). Pur non essendo databile con certezza, lo si colloca tra il 1475 e il 1478 sulla base della dedica a Federico da Montefeltro, che possiamo interpretare come un tentativo di captatio benevolentiae effettuato dall’autore prima di trasferirsi a Urbino.
Questo album ha dimensioni (276 × 230 mm) molto maggiori di quelle del Codicetto (81 × 59 mm); presenta una serie di macchine che spazia dall’arte della guerra (di terra e di mare) all’idraulica, dal settore dei trasporti a quello dei lavori stradali e agricoli, e comprende anche una serie di fortificazioni. I disegni non sono studi e schizzi a uso privato, ma riproduzioni in bella copia, prive di note e di didascalie esplicative, che si caratterizzano per la loro originalità e perché segnano il superamento e l’abbandono di gran parte delle soluzioni tecnologiche derivate da Taccola.
La terza opera realizzata da Francesco e pervenutaci autografa è il citato Trattato di architettura, che fu realizzato in due stesure successive, rispettivamente negli anni Ottanta e negli anni Novanta del Quattrocento. Per la sua compilazione Francesco prese come riferimento l’opera di Vitruvio, ma approfondì anche il pensiero di altri autori, come Aristotele, dal quale derivò lo schema di organizzazione del sapere scientifico che deve procedere dal generale al particolare. Questo salto qualitativo sul piano dell’organizzazione delle conoscenze tecniche emerge da un confronto delle due stesure del Trattato: possiamo infatti vedere come gli incerti tentativi di introdurre un criterio di classificazione dei dispositivi idraulici e meccanici, caratteristici della prima stesura, nella seconda diventano rigide categorie, nelle quali si registrano soltanto i prototipi di una determinata tecnologia, che spetta all’artefice usare e variare a seconda delle problematiche che si trova a dover risolvere.
Nella prima stesura (nota attraverso i codici Saluzziano 148 della Biblioteca reale di Torino e Ashburnham 361 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze), Francesco, contrariamente ai suoi manoscritti precedenti, integra i disegni di macchine con dettagliate descrizioni scritte. Nonostante le innovazioni grafiche, l’impiego di un lessico tecnico esteso e puntuale, e il tentativo di organizzare in maniera innovativa la conoscenza tecnica, questa prima stesura appare ancora fortemente condizionata dalla tecnologia di Taccola. Gli apporti più originali riguardano le armi da fuoco, le quali, però, sono sempre rappresentate insieme alle tradizionali macchine da assedio, a quelle per il trasporto e a quelle per la depurazione delle acque.
Il manoscritto Ashburnham 361 è una copia parziale (con alcune rielaborazioni) di quello torinese, la cui stesura dev’essere quindi considerata leggermente posteriore. Il codice torinese presenta due particolarità: il fatto di avere le miniature a colori e la presenza di alcune annotazioni realizzate dalla mano di Leonardo, al quale è stato di conseguenza attribuito per lungo tempo da alcuni storici (Prima di Leonardo, 1991, p. 216).
Di concezione più moderna è la seconda stesura, che presenta un’organizzazione più razionale del materiale: spariscono quasi del tutto le macchine da assedio, che restano soltanto come riferimento storico, per lasciare spazio alle artiglierie, di cui Francesco ci offre uno dei primi tentativi di classificazione e standardizzazione dei calibri (Bernardoni 2009, pp. 40-45).
Anche di questo manoscritto possediamo due copie, una conservata alla Biblioteca comunale di Siena (cod. Senese, S.IV.4) e una alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze (cod. Magliabechiano II.I.141). Quest’ultima, l’unica autografa, contiene anche la traduzione parziale di Vitruvio fatta da Francesco (ff. 103-192).
Lo sforzo di organizzare gli argomenti per tipologia portò Francesco a una considerevole riduzione dell’apparato iconografico. Dei mulini, per es., si individuano sei categorie, distinte sulla base della fonte di energia impiegata: mulini con ruota idraulica alimentata dall’alto, mulini con ruota orizzontale a ritrecine, mulini a vento ad asse orizzontale, mulini a frucatoio con volano a sfere di metallo, mulini a energia animale, mulini con ruota calcatoria. Una delle parti più innovative del Trattato è quella dedicata alle fortezze, le quali, per far fronte al potere distruttivo delle armi da fuoco, hanno mura perimetrali più basse e un profilo spezzato e integrato con spazi atti a ospitare le artiglierie.
Queste ultime vengono trattate in maniera succinta, nel solo f. 48r della seconda stesura, in cui si fornisce una classificazione per tipi basata sul calibro e sul peso della palla. Sono del tutto assenti gli exempla di sistemi di puntamento, riparo e trasporto delle artiglierie, come se questo tipo di tecnologia non riguardasse più l’architettura, e ci si limita a dare soltanto il disegno di un esemplare per ogni tipo di artiglieria. L’introduzione delle artiglierie costituisce comunque un elemento di novità che implica, oltre al superamento definitivo delle macchine da assedio, anche una rilettura delle conoscenze tradizionali delle tecniche di fortificazione.
La seconda stesura si contraddistingue anche per un atteggiamento ‘revisionista’ verso la tecnologia degli antichi. L’architettura (e in generale tutto il sapere) si fonda sulle conoscenze scoperte dagli antichi, ma queste, per Francesco, assumono un valore relativo. Il percorso di riqualificazione professionale e culturale degli ingegneri del Rinascimento viene tradizionalmente fatto concludere con Leonardo, la cui opera assume un significato esemplare del cambiamento epocale avvenuto durante il 15° sec. nell’ambito della cultura tecnica. Quella di Leonardo però, non fu un’esperienza isolata e, insieme a quella di Francesco, rappresenta oggi l’espressione più compiuta di quella tradizione culturale e professionale nella quale tecnici, artisti e artigiani avevano dato luogo a un dibattito che si spingeva oltre il dominio della tecnica e attraverso il quale stava prendendo forma un nuovo modo di rapportarsi, non solo alla tecnologia, ma anche al mondo dell’uomo e della natura, che in seguito produrrà le sue affermazioni più radicali con la rivoluzione scientifica del 17° secolo.
Oltre l’ingegneria: Leonardo da Vinci e la scienza della meccanica
La singolarità della figura di Leonardo risiede senza dubbio nella vastità degli interessi che egli seppe sviluppare durante la sua carriera professionale, attraverso la quale riuscì a trasformarsi da ‘garzone di bottega’, dedito al tirocinio nelle arti pittoriche presso la bottega fiorentina di Andrea di Michele, detto il Verrocchio (1435/1436-1488), a ingegnere, scienziato, sperimentatore e filosofo al servizio del re di Francia Francesco I di Valois.
Se fermiamo l’attenzione sul lascito di Leonardo, vediamo come esso consista, oltre che in una produzione artistica di limitate dimensioni, in circa seimila fogli manoscritti (dedicati prevalentemente a temi di meccanica, idraulica, ottica, geologia e anatomia), che tuttavia si stima siano soltanto una parte della sua produzione complessiva. Nessun altro artista a lui anteriore o contemporaneo ha lasciato una così vasta documentazione sulle proprie attività. Un caso emblematico, questo, che fa di Leonardo non solo una figura singolare tra gli ingegneri, ma in primo luogo un testimone privilegiato del suo tempo, attraverso la cui opera è possibile visualizzare gran parte della tecnologia dell’epoca tardomedievale e rinascimentale.
L’interesse di Leonardo per la tecnologia emerse già durante il periodo della sua formazione a Firenze, quando, nella bottega di Verrocchio, insieme al disegno e alla pittura ebbe modo di fare anche esperienze significative nella lavorazione dei metalli e nelle tecniche di fusione. Tra gli anni Settanta e Ottanta del Quattrocento, Verrocchio realizzò alcune importanti sculture in bronzo (L’incredulità di S. Tommaso e il modello del monumento equestre a Bartolomeo Colleoni) ed ebbe anche l’incarico di realizzare l’enorme sfera di rame che doveva sovrastare la lanterna della cupola del duomo di Firenze. Questa sfera era un’opera di carpenteria metallica molto complessa, ma la difficoltà maggiore fu il montaggio, che dovette essere eseguito proprio sulla sommità della cupola, a oltre cento metri di altezza dal suolo. Da un appunto del cosiddetto manoscritto G (Parigi, Bibliotèque de l’Institut de France, f. 84v) risalente al 1515, cioè a circa quarant’anni dopo questa vicenda, apprendiamo che il giovane Leonardo partecipò ai lavori per la realizzazione della sfera, e fu in questa occasione che ebbe modo di entrare in contatto diretto con le macchine ideate da Brunelleschi per l’edificazione della cupola.
La tecnologia di Brunelleschi segnò profondamente Leonardo, che ne riprodusse le gru e gli argani nei suoi manoscritti, arrivando a prendere perfino il calco di una di quelle viti di trazione che ne costituivano l’elemento distintivo (Milano, Biblioteca ambrosiana, Codice Atlantico, f. 909v). Il precoce interessamento di Leonardo per l’ingegneria meccanica trova conferma anche in alcuni disegni di macchine, come quello dell’argano a leva presente in uno dei fogli più antichi del Codice Atlantico, il 30v. L’importanza di questo disegno consiste, oltre che nella complessità meccanica del sistema di trasformazione del moto, nelle soluzioni grafiche adottate da Leonardo, che presentano la macchina vista di insieme e in esploso.
Tecniche di rappresentazione come le viste in esploso e in trasparenza permettevano di visualizzare gli organi interni delle macchine e di illustrarne il funzionamento. Questo singolare approccio ‘anatomico’ allo studio di organismi dinamici complessi come le macchine, assumerà quindi una valenza gnoseologica e diventerà, per Leonardo, il principale metodo analitico nell’ambito della tecnologia e della filosofia naturale.
Dopo il suo trasferimento a Milano al servizio del duca Ludovico I Sforza, detto il Moro, Leonardo allargò l’orizzonte dei suoi interessi, impegnandosi, oltre che nella pittura, in studi di carattere tecnologico-ingegneristico: tecniche di fusione, architettura, idraulica. Stimolato dalla convinzione che la perfetta imitazione della natura in pittura passa attraverso la comprensione delle leggi generali che ne regolano i processi, arrivò ad approfondire questioni che assumevano sempre più una valenza filosofica e scientifica.
Perseguendo questa nuova prospettiva di ricerca, che trovava il suo completamento nella verifica empirica delle leggi teoriche trovate nei libri, si convinse che la geometria è la disciplina teorica con la quale si possono esprimere i principi generali unificati di tutte le scienze. Forte di questo approccio metodologico, avviò, cosa inedita per un ingegnere, un programma di ricerca sulla natura, e pianificò la stesura di vari trattati su diversi argomenti di scienze naturali e di ingegneria. Così, durante gli anni Novanta, insieme al matematico Luca Pacioli (1446/1448-1517) iniziò a studiare i principi della geometria attraverso gli Elementi di Euclide.
Sotto l’influenza di questo trattato e di altre opere importanti, come il De ponderibus (forse 12° sec.) attribuito a Giordano Nemorario, elaborò l’idea di scrivere un trattato sulla meccanica nel quale rendere conto degli aspetti pratici e teorici di questa disciplina, oltre a fornire un catalogo dei meccanismi semplici tramite la cui combinazione si potevano costruire macchine complesse. In particolare, nei manoscritti compilati dopo il 1500 si fa riferimento più volte a un libro chiamato Trattato degli elementi macchinali, che probabilmente può essere identificato con il manoscritto 8937 oggi noto come Codice di Madrid I (Madrid, Biblioteca nacional de España). Quest’opera costituisce una novità assoluta per la storia della meccanica, e rappresenta il risultato più alto raggiunto da un artista-ingegnere sul piano scientifico ed epistemologico.
Con Leonardo l’ingegneria, ma si potrebbe dire la scienza in generale, entra in una prospettiva che era stata completamente assente durante i secoli medievali, e nella quale il ‘fare’ dei tecnici e la speculazione teorica dei filosofi convergono in un unico processo conoscitivo. Leonardo non si limita allo studio cinematico delle macchine, ma va oltre, chiamando in causa le forze in gioco nei dispositivi meccanici. I suoi studi culminano nella presa di coscienza dell’inadeguatezza della meccanica antica e medievale (la tradizione de ponderibus) per la progettazione delle macchine. I principi teorici esposti nella meccanica aristotelica e archimedea si occupavano infatti di oggetti ideali, mentre il rendimento effettivo delle leve e dei piani inclinati reali dipendeva dalla resistenza del materiale e dal grado di finitura delle superfici di contatto; queste variabili incidevano sugli attriti che, se trascurati, impedivano alla macchina di funzionare.
I quattro principi fondamentali della meccanica leonardiana (forza, moto, peso e percussione) erano i medesimi sia per il regno della natura sia per il mondo dell’artificiale (Frosini 2011) e costituivano, quindi, il fondamento per la comprensione di tutti i fenomeni naturali e per tentare una loro riproduzione artificiale. Leonardo non arrivò a un’identificazione compiuta dei prodotti naturali con quelli artificiali, ma una sua apertura verso questa prospettiva, che giungerà a maturazione tra la fine del 16° sec. e la prima metà del 17° nelle opere di Francis Bacon e di René Descartes, emerge chiaramente già nel suo riferirsi al mondo creato dall’uomo come «seconda natura» (Londra, British library, Codice Arundel, P12v, f. 151v) e alla Terra come «universal macchina» (Parigi, Bibliothèque de l’Institut de France, ms. A, f. 59v), mutuando una terminologia di derivazione lucreziana.
L’analogia tra corpo umano e macchina portò Leonardo a concludere che la stessa natura, per dare movimento agli animali, ha fatto uso di «strumenti macchinali» e, seguendo questa intuizione, arrivò a concepire delle vere e proprie protesi meccaniche che riproducevano gli arti umani e animali (Windsor castle, Royal library, 12619r, K/P152r). Questi studi, nei quali i muscoli sono ridotti a corde e pulegge, lo scheletro a leve e giunti meccanici, il cuore a un forno (Codice Arundel, cit., P127v, f. 24r), fanno da cornice agli studi di robotica e automazione che portarono Leonardo alla progettazione di automi antropomorfi e zoomorfi, come il famoso leone meccanico donato a Francesco I, che era in grado di compiere alcuni passi, sedersi e aprire un vano posto sul petto per lasciare uscire dei fiori, oppure come i vari modelli di macchina volante ad ala battente con i quali egli cercò di compiere la metamorfosi meccanica del corpo dell’uomo in quello dell’uccello (La mente di Leonardo, 2006, p. 178).
Gli studi di Leonardo sulla meccanica teorica e su quella pratica procedettero in maniera integrata, e se le osservazioni sulla dinamica del volo meccanico lo portarono a risultati fallimentari sul piano sperimentale, diverso fu invece l’esito dell’applicazione delle leggi degli elementi macchinali ai calcoli statici dell’architettura. Gli edifici sono per Leonardo degli organismi dinamici, che si sostengono grazie all’equilibrio delle forze prementi e resistenti degli elementi costruttivi; un arco, per es., può essere assimilato alle macchine semplici, perché ogni pietra della volta agisce come un cuneo, scaricando sui montanti laterali i carichi statici dell’arco (Codice di Madrid I, cit., f. 143r).
Il ‘caso Leonardo’ rompe gli schemi e ci pone di fronte a una complessità che sicuramente stentiamo a trovare negli autori di cultura tecnica a lui contemporanei. I suoi sforzi di comprendere la natura al fine di imitarla artificialmente si riflettono sul piano epistemologico nel tentativo di integrazione in un unico processo conoscitivo del momento speculativo e operativo, il che fa di Leonardo non soltanto un artista-ingegnere, ma anche un ‘filosofo delle macchine’.
La fine del Medioevo
Sul piano della cultura materiale, il rinnovamento di fine Quattrocento affondava le proprie radici nell’epoca medievale, ed è difficile individuarne gli elementi di frattura radicali, se non nell’applicazione intensiva e nello sviluppo di scoperte e invenzioni fatte a partire dall’anno 1000. Diverso è invece il caso della consapevolezza che del loro ruolo culturale e sociale ebbero i tecnici, che durante il 15° sec. arrivarono ad avere una visibilità non inferiore a quella degli umanisti. Con la fine del Medioevo, quindi, iniziò il tramonto dell’atteggiamento mentale di subordinazione epistemologica dei cultori delle arti meccaniche: questi lentamente abbandonarono lo stato di semianalfabetismo, completamente incentrato sulla dimensione del fare, per conformarsi e strutturarsi in conoscenze condivise, con una propria identità e autonomia culturale che sancì l’alba di una nuova era sempre più impregnata di cultura tecnica.
La rinascita della letteratura tecnica innescò un processo di rinnovamento epistemologico che si concretizzò, in primo luogo, attraverso una svolta teorica basata sul disegno e sulla matematica, la quale permise la progettazione e la realizzazione di macchine sempre più efficienti. Alla fine del Quattrocento non esisteva ancora una scienza delle costruzioni, e l’uso dei materiali era basato sull’intuizione e sull’esperienza. Il merito principale degli studi sulle macchine condotti dagli ingegneri italiani fu dunque quello di aver sollevato, per la prima volta, la necessità di quantificare le forze resistenti che caratterizzano il comportamento meccanico degli oggetti reali e, come nel caso di Leonardo, di provare a considerare questi coefficienti nei calcoli teorici. Sarà, tuttavia, con Galileo Galilei, circa un secolo dopo, che meccanica teorica e pratica si salderanno finalmente insieme, dando così il via a quella che sarà la scienza moderna.
Bibliografia
E. Rodakiewicz, The ‘editio princeps’ of Roberto Valturio’s “De re militari” in relation to the Dresden and Munich manuscripts, «Maso Finiguerra. Rivista della stampa incisa e del libro illustrato», 1940, 19-20, pp. 15-82.
P. Rossi, I filosofi e le macchine, 1400-1700, Milano 1962, 19712.
B. Gille, Les ingénieurs de la Renaissance, Paris 1964, 19672 (trad. it. Leonardo e gli ingegneri del Rinascimento, Milano 1972).
Encyclopédie de la Pléiade, 41° vol., Histoire des techniques, éd. B. Gille, Paris 1978 (trad. it. Storia delle tecniche, Roma 1985).
B.S. Hall, The technological illustrations of the so called ‘Anonymous of the hussite wars’, Codex latinus monacensis 197, Part 1, Wiesbaden 1979.
E.L. Eisenstein, The printing revolution in early modern Europe, Cambridge-New York 1983, 19932 (trad. it. Le rivoluzioni del libro, l’invenzione della stampa e la nascita dell’età moderna, Bologna 1995).
E. Battisti, G. Saccaro Battisti, Le macchine cifrate di Giovanni Fontana, Milano 1984.
P.C. Marani, Leonardo, gli ingegneri e alcune macchine lombarde, XXV lettura vinciana, Vinci, Biblioteca leonardiana, 13 aprile, Firenze 1985.
Le macchine di Valturio nei documenti dell’Archivio storico AMMA, a cura di P.L. Bassignana, Torino 1988 (in partic. P.L. Bassignana, L’iconografia di Valturio. Il valore di una testimonianza, pp. 91-116; G. Amoretti, Le macchine da guerra nei disegni di Roberto Valturio, pp. 143-65).
Prima di Leonardo. Cultura delle macchine a Siena nel Rinascimento, a cura di P. Galluzzi, catalogo della mostra, Siena, Magazzini del Sale (9 giugno-30 settembre 1991), Milano 1991 (in partic. P. Galluzzi, Le macchine senesi: ricerca antiquaria, spirito di innovazione e cultura del territorio, pp. 15-44; M. Kemp, «La diminuizione di ciascun piano»: la rappresentazione delle forme nello spazio di Francesco di Giorgio, pp. 105-12).
A.L. Matthies, Medieval treadwheels: artists’ views of building construction, «Technology and culture», 1992, 3, pp. 510-47.
V. Marchis, Il “Texaurus” come protocollo per la nuova tecnologia, in Le macchine del re. Il “Texaurus regis Francie” di Guido da Vigevano: trascrizione, traduzione e commento del codice lat. 11015 della Bibliothèque nationale di Parigi, a cura di G. Ostuni, Vigevano 1993, pp. 206-13.
V. Marchis, Storia delle macchine. Tre millenni di cultura tecnologica, Roma-Bari 1994, nuova ed. riv. e accresciuta 2005.
Gli ingegneri del Rinascimento: da Brunelleschi a Leonardo da Vinci, a cura di P. Galluzzi, catalogo della mostra, Palazzo Strozzi, 1996-97, Firenze 1996.
P.O. Long, Openness, secrecy, authorship. Technical arts and the culture of knowledge from antiquity to the Renaissance, Baltimore-London 2001.
R. Leng, Ars belli. Deutsche taktische und kriegstechnische Bilderhandschriften und Traktate im 15. und 16. Jahrhundert, 2 voll., Wiesbaden 2002.
M. Mussini, Francesco di Giorgio e Vitruvio. Le traduzioni del “De architectura” nei codici Zichy, Spencer 129 e Magliabechiano II.I.141, 2 voll., Firenze 2003.
A. Settia, Guido da Vigevano, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 61° vol., Roma 2003, ad vocem.
L. Dolza Goldstein, I primi teatri di macchine, l’occhio e le immagini, in La transmission des savoirs au Moyen Âge et à la Renaissance, Actes du Colloque international, Besançon-Tours (24-29 mars 2003), 2° vol., Au XVIe siècle, sous la direction de F. La Brasca, A. Perifano, Besançon 2005, pp. 187-208.
D. Balestracci, L. Vigni, A. Costantini, La memoria dell’acqua: i bottini di Siena, a cura di R. Ferri, Siena 2006.
La mente di Leonardo: nel laboratorio del genio universale, a cura di P. Galluzzi, catalogo della mostra, Galleria degli Uffizi, 2006-2007, Firenze 2006.
L. Dolza, Storia della tecnologia, Bologna 2008.
A. Bernardoni, Le artiglierie come oggetto di riflessione scientifica degli ingegneri del Rinascimento, in Oggetti di scienza, a cura di F. Favino, «Quaderni storici», 2009, 1, nr. monografico, pp. 35-65.
La civiltà delle acque tra Medioevo e Rinascimento, Atti del Convegno, Mantova (1-4 ottobre 2008), a cura di A. Calzona, D. Lamberini, Firenze 2010 (in partic. R. Greci, Le città navigabili. I progetti dell’età comunale, pp. 177-95; F. Salvestrini, Navigazione e trasporti sulle acque interne della Toscana medievale e protomoderna, secoli XIII-XVI, pp. 197-219; A. Guenzi, M. Grandi, Interpretazione e valorizzazione di un ‘monumento idraulico’ di Bologna. La chiusa del Rondone tra XII e XV secolo, pp. 473-89).
F. Frosini, Il concetto di forza in Leonardo da Vinci, in Il Codice Arundel di Leonardo: ricerche e prospettive, Atti del Convegno, Bergamo (24 maggio 2010), a cura di A. Bernardoni, G. Fornari, Poggio a Caiano 2011, pp. 115-28.