Il Trattato sulle armi e i suoi nemici
Dopo un negoziato di 7 anni, le Nazioni Unite hanno approvato un testo che segna un avanzamento del diritto internazionale in un campo in cui gli interessi nazionali hanno sempre prevalso. Ma i lunghi tempi di attuazione e il fronte dei paesi contrari fanno temere una sua sostanziale inefficacia.
L'adozione da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 2 aprile 2013, del Trattato sul commercio internazionale di armi convenzionali (Arms Trade Treaty, ATT) è stata valutata da osservatori ed esperti come un sostanziale successo. L’accordo, che regolamenta un mercato da 70 miliardi di dollari, presenta indubbi elementi positivi che giustificano tale reazione, ma non è privo di criticità che è necessario considerare.
L’essere giunti a un accordo, dopo un processo negoziale durato 7 anni e interrottosi più volte, costituisce di per sé un risultato notevole. Il fatto poi che ben 154 paesi – su 193 – abbiano votato a favore del testo finale fa ben sperare circa l’esistenza di una volontà internazionale condivisa su una materia sicuramente controversa. Soprattutto, il Trattato segna l’avanzamento del diritto internazionale in un campo in cui gli interessi nazionali hanno fatto sempre prevalere le proprie ragioni. Fino a oggi il regime internazionale sul commercio di armamenti si era basato esclusivamente sul Registro internazionale delle Nazioni Unite per il commercio delle armi convenzionali: istituito nel 1991, il registro prevede che tutti gli Stati comunichino i dati relativi a esportazioni e importazioni di armi convenzionali con la massima puntualità e trasparenza, requisiti peraltro facilmente eludibili. Il nuovo accordo colma in parte le lacune che caratterizzavano tale registro. Nell’ambito di applicazione del Trattato rientrano infatti, oltre alle 7 categorie di armi convenzionali già incluse nel registro (carri armati, veicoli da combattimento, artiglieria da campo, aerei da combattimento, elicotteri, navi da guerra e missili), anche le armi di piccolo calibro e leggere. Inoltre, il Trattato non regolamenta le semplici attività di importazione ed esportazione, bensì impone agli Stati aderenti l’obbligo di introdurre nelle proprie legislazioni nazionali un sistema di controllo sui ‘trasferimenti internazionali’, categoria nella quale rientrano anche le operazioni di transito, trasbordo e intermediazione. Tali controlli devono essere guidati dal principio no weapons for abuse: gli Stati non potranno autorizzare alcun trasferimento di armi convenzionali verso paesi soggetti a embargo o nel caso in cui abbiano la consapevolezza che tali armi servirebbero a perpetrare genocidi, crimini contro l’umanità o crimini di guerra.
Un testo, insomma, innovativo e positivo, che sconta però alcune mancanze e criticità che potrebbero minarne l’efficacia. In primo luogo, i lunghi tempi di attuazione. L’accordo entrerà in vigore solamente 90 giorni dopo la cinquantesima ratifica. Considerando i precedenti, è ragionevole supporre che siano necessari almeno 3 anni affinché l’iter si completi. La reale efficacia del Trattato dipenderà poi dal numero dei paesi che effettivamente procederanno alla sua ratifica. Il voto contrario di Siria, Iran e Corea del Nord, e le astensioni di Russia e Cina – rispettivamente il secondo e il quinto paese esportatore – rendono il Trattato inapplicabile in alcuni dei paesi in cui esso avrebbe dispiegato i maggiori effetti. A ciò si aggiunge l’incognita statunitense. Gli Stati Uniti hanno votato a favore in sede ONU, e hanno provveduto a firmare il Trattato a margine dei lavori dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ma potrebbero incontrare serie difficoltà nel processo di ratifica, data la necessità di un parere favorevole di due terzi del Senato. La precaria maggioranza che sostiene il presidente Obama, così come l’opposizione della potente NRA (National rifle association), potrebbero quindi impedire la ratifica statunitense, privando di fatto il Trattato di un altro contraente fondamentale (il principale esportatore).
I dubbi maggiori sulla reale efficacia del Trattato attengono però agli aspetti che esso lascia scoperti. Innanzitutto, rimangono escluse dall’ambito di applicazione munizioni, singole parti e componenti delle armi convenzionali non assemblate e il trasferimento di armi ad attori non statali. Il Trattato non prevede poi alcun organismo di controllo, ma solo l’istituzione di una Conferenza degli Stati contraenti che avrà il compito di monitorare lo stato di attuazione dell’accordo, ma non avrà il potere di sanzionare eventuali comportamenti illeciti. Un’ultima, ma non meno significativa, lacuna è data dal fatto che il Trattato non impedisce agli Stati di ideare ipotesi alternative – quali il prestito o il dono – per il trasferimento delle armi. Soluzioni ‘creative’, insomma, come quella ideata nel 1941 da Roosevelt con il Lend-Lease Act che, per aggirare il parere contrario del Congresso americano circa la vendita di armi agli alleati europei, ne prevedeva il semplice prestito.
Per una prima valutazione concreta dell’efficacia del Trattato, basta applicarlo ipoteticamente al caso siriano: se anche il Trattato fosse già in vigore, esso non impedirebbe il trasferimento di armi ai ribelli (dal momento che essi rappresentano un attore non statuale), né il prestito di armi al regime di Assad da parte di Russia e Iran, più che probabili non segnatari dell’accordo.
Occorre dunque una certa prudenza nel valutare la portata dell’accordo che non può prescindere dalla considerazione dei diversi punti deboli che sono il risultato degli inevitabili compromessi ai quali gli Stati contraenti hanno fatto ricorso allo scopo di arrivare a un testo condiviso. Ancora una volta, le buone intenzioni dei promotori sono state ridimensionate dalle durezze del processo negoziale, che hanno creato cavilli e lacune che possono minare l’efficacia dell’accordo. Solo in futuro capiremo se le buone intenzioni si tramuteranno in qualcosa di più di una ‘eccellente premessa’.
Geopolitica delle armi
Secondo il rapporto pubblicato a marzo 2013 dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), i trasferimenti internazionali delle principali armi convenzionali sono aumentati, nel 2008-12, del 17% rispetto al 2003-07. Per la prima volta dopo la Guerra fredda, fra i 5 principali esportatori si segnala la presenza di uno Stato non europeo o americano, la Cina, al quinto posto dietro USA, Russia, Germania e Francia. Pechino è anche fra i 5 maggiori importatori di armi, tutti asiatici: prima è India, seguita da Cina, Pakistan, Corea del Sud e Singapore. Nel 2008-12 è incrementato il flusso di armi sia verso l’Africa (9% delle importazioni totali, ma +104% rispetto al 2003-07), sia verso l’Asia e l’Oceania (47% delle importazioni, +35% rispetto al 2003-07). Infine, l’aumento del 169% delle forniture di armi al Sud-Est Asiatico certifica le tensioni geopolitiche che insistono nel bacino dell’Oceano Pacifico.