Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra la fine del Settecento e la prima guerra mondiale, il continente europeo assiste all’ascesa e all’affermazione di una classe che – pur differenziata secondo tipologie nazionali, politiche e ideologiche – si dimostra capace di plasmare, con la propria irresistibile ascesa, un intero periodo storico, definito appunto “l’età della borghesia”.
L’impiego del termine “borghesia”
“I rappresentanti della borghesia sanno di essere borghesi, la maggior parte di loro non ha tuttavia alcuna idea di che cosa significhi esserlo e soprattutto nessuno è in grado di indicare i borghesi o di delineare le caratteristiche della borghesia”. Con questa affermazione della studiosa francese Adeline Daumard ci troviamo di fronte ai problemi definitori che l’uso della parola “borghesia” comporta nell’ambito della ricerca storica. In effetti il termine, tutt’altro che univoco, presenta l’ambiguità tipica dei significanti comprensivi di una massa di significati disposti su un lungo arco spaziale e temporale.
Nell’Inghilterra della prima metà del XIX secolo la parola burgess, che nel Medioevo indicava l’abitante dell’insediamento cittadino, è ormai soppiantata dalla locuzione middle class, densa dei caratteri acquisitivi che fanno della borghesia una classe nuova, intermedia tra l’aristocrazia e i lavoratori manuali. D’altro canto in Prussia, nucleo portante della futura Germania imperiale, il vocabolo Bürger mantiene una forte valenza giuridico-corporativa legata alla società cetuale e soltanto intorno al 1870 il ricorso al neologismo Bürgertum permette di connotare i processi innescati dalle inedite dinamiche di produzione e di scambio. In Francia, invece, l’appellativo bourgeois, entrato nell’uso comune dopo gli anni della Rivoluzione francese con l’affermazione della monarchia costituzionale di Luigi Filippo d’Orléans, è accompagnato sempre più spesso da aggettivi che sottolineano il differente peso sociale, economico e politico delle diverse componenti: petite bourgeoisie, moyenne bourgeoisie, bonne bourgeoisie. Il termine “borghesia”, a lungo adoperato al singolare con riferimento a un modello metastorico e assoluto, nella percezione dei contemporanei non indica sempre un aggregato compatto e omogeneo. Semmai – rispetto all’analisi avanzata da Marx ed Engels intorno alla metà del secolo, per cui l’identificazione del borghese ottocentesco con il capitalista avviene in base ai “rapporti di produzione” instaurati da quest’ultimo – i livelli di reddito e gli atteggiamenti culturali delle borghesie europee testimoniano una realtà molto più vischiosa e frammentata.
Il quadro generale
Quali e quante sono allora le borghesie che attraversano lo scenario continentale fino all’inizio del nostro secolo? Prima del 1850, sia nella “prima nazione industriale”, la Gran Bretagna, sia nei Paesi che arrivano secondi all’appuntamento con l’industrializzazione, la Germania e la Francia, la cifra comune alle classi borghesi è quella di un’affermazione della loro presenza. Ciò avviene attraverso un insieme di canali – la stampa e l’associazionismo, la scuola e le dottrine economiche e sociali capaci di declinarne l’alterità di fronte alle altre componenti del corpo sociale – verso l’alto, rispetto ai principi e ai modelli di vita del ceto nobiliare, detentore del potere per privilegio ereditario, verso il basso, nei confronti delle classi subalterne tradizionali e del proletariato industriale di recente formazione. In questo periodo, lo spirito di conquista delle borghesie riesce a relegare in secondo piano la frammentazione degli interessi, l’eterogeneità delle posizioni ideologiche e politiche, la variabilità dei comportamenti sociali. A partire dal 1830-1840 il termine stesso di “classe”, che fino al secondo decennio dell’Ottocento indica semplicemente il livello occupato nella società, oltre a individuare una comunanza di interessi finisce per esprimere la coscienza collettiva delle diverse borghesie.
Differenze significative separano comunque la città – visibile eccezione in un mondo nel quale la campagna rappresenta indiscutibilmente la norma – dall’universo circostante. Nel mondo rurale dell’Europa nord-occidentale il protagonista indiscusso dell’ascesa borghese è il proprietario terriero imprenditore: da un lato egli pone le premesse della rivoluzione industriale, assicurando un aumento della produttività tramite l’applicazione intensiva del fattore lavoro e con cambiamenti decisivi nelle tecniche di coltivazione; dall’altro, grazie anche al parziale miglioramento delle vie di comunicazione, asseconda le richieste di consumo dei centri cittadini in continua espansione.
Anche il polo urbano, raffigurato da buona parte della letteratura coeva come la sede per eccellenza della promozione sociale e del successo individuale, racchiude al suo interno un’ampia tipologia. Alla città-fabbrica, che colpisce l’immaginazione degli osservatori in maniera inversamente proporzionale alla sua marginalità statistica, si affianca la città dei ministeri e delle università, dei giornali e della politica, in grado di fondere la tradizionale funzione amministrativa con nuove vocazioni. Nel corso dell’Ottocento lo spettro delle variabili si ampia e si dilata sempre più. Attorno alle tradizionali attività artigiane e commerciali, in alcune città prende corpo il settore terziario; in altre sono le banche e i terminali finanziari delle imprese ad alimentare la scommessa modernizzatrice; in altre ancora, da tempo immemorabile punto d’incontro informale per il reclutamento della manodopera rurale, perdura la dimensione di “città del silenzio”.
Dalla seconda metà dell’Ottocento, comunque, in tutte le città – e soprattutto nelle capitali – si assiste a un processo in virtù del quale il regime, che dopo la Rivoluzione francese era stato definito come antico, si integra con uno nuovo. Si tratta di un’osmosi che non interessa soltanto le fasce superiori delle borghesie e alcuni settori della nobiltà, ma coinvolge una parte notevole dell’intera classe. Anzi, quando il volgere del secolo sostituisce al “sacro principio” della libera concorrenza la parola d’ordine dell’intervento pubblico, quel fenomeno sembra assumere proporzioni e intensità inedite, accomunando nelle richieste categorie diverse: finanzieri e possidenti, bottegai e impiegati privati, funzionari statali e liberi professionisti. È una dinamica che sposta le barriere e i livelli delle gerarchie, ma non le sopprime: al contrario, la società europea alla vigilia della prima guerra mondiale non appare fondata sulla totale distruzione dell’antica, ma a fianco o a partire da questa.
Charles Dickens
Coketown
Tempi difficili, Cap. V
Coketown, verso la quale si dirigevano i signori Bounderby e Gradgrind, era il trionfo del fatto; non era contaminata da tracce di fantasia più di quanto non lo fosse la stessa signora Gradgrind. Prima di continuare la nostra musica, suoniamo la nota dominante, Coketown.
Era una città fatta di mattoni rossi, o meglio di mattoni che sarebbero stati rossi se il fumo e la cenere lo avessero permesso; ma, per come stavano le cose, era una città innaturalmente rossa e nera, come il volto dipinto d’un selvaggio. Era una città di macchinari e di lunghe ciminiere, dalle quali strisciavano perennemente interminabili serpenti di fumo, che non si srotolavano mai. C’era un canale nero e un fiume che scorreva, arrossato da tinture maleodoranti, e c’erano enormi blocchi di costruzioni piene di finestre in cui si sentiva tutto il giorno un tintinnio tremolante e in cui il pistone della macchina a vapore andava su e giù con monotonia, come la testa d’un elefante colto da una pazzia malinconica. La città aveva molte grandi strade tutte uguali l’una all’altra, e molte piccole strade ancor più uguali l’una all’altra, abitate da persone uguali l’una all’altra, che uscivano ed entravano tutte alla stessa ora, facendo lo stesso rumore sugli stessi marciapiedi, che avevano tutte lo stesso lavoro e per le quali ogni giorno era uguale al giorno precedente e a quello futuro, o ogni anno era la copia dell’anno passata e di quello ancora di là da venire.
Questi attributi di Coketown erano per lo più inseparabili dal lavoro dal quale essa era mantenuta in vita; a contrasto con questi, si sarebbero potute mettere quelle comodità che si vanno diffondendo in tutto il mondo e quelle eleganze che concorrono, non chiederemo in quanta parte, a formare la raffinatezza d’una vera signora che potrebbe a mala pena sopportare di sentir nominare questa città. Le altre sue caratteristiche erano volute ed erano le seguenti.
Non si vedeva nulla a Coketown che non parlasse severamente di lavoro. Se i membri di una setta religiosa vi costruivano una cappella - come avevano fatto i membri di diciotto sette religiose - ne facevano un pio magazzino di mattoni rossi, dotato qualche volta (ma soltanto negli edifici più ornati) di una campana chiusa in una gabbia sulla cima. L’unica eccezione era la Chiesa Nuova, un edificio ricoperto di stucchi con un campanile quadrato sopra la porta, terminante in quattro corti pinnacoli simili a floride gambe di legno. Tutte le iscrizioni pubbliche in città erano dipinte allo stesso modo, in severi caratteri bianchi e neri. La prigione avrebbe potuto essere l’ospedale, l’ospedale avrebbe potuto essere la prigione, il municipio avrebbe potuto essere l’uno o l’altra o tutti e due, o qualunque altra cosa, per quel che appariva dalle grazie di quelle costruzioni. Fatti, fatti, fatti ovunque nell’aspetto materiale della città; fatti, fatti, fatti ovunque in quello spirituale. La scuola di M’Choakumchild era solo fatti, la scuola di disegno era solo fatti, le relazioni fra padrone e operai erano solo fatti e tutte le cose erano fatti, tra l’ospedale dove si nasceva e il cimitero, e ciò che non si poteva tradurre in cifre o che non si poteva acquistare più a buon mercato o vendere al prezzo più alto, non esisteva e non avrebbe mai dovuto esistere, nei secoli dei secoli, amen.
Naturalmente, una città così consacrata ai fatti e così trionfante nella loro affermazione andava avanti bene, non è vero? Ebbene, no, non così bene. No? Oh, povero me!
No. Coketown non usciva dalle sue stesse fornaci sotto tutti gli aspetti come oro temprato dal fuoco. Per prima cosa, il mistero più sconcertante del luogo era: chi apparteneva alle diciotto sette religiose? Chiunque fosse, non era certo qualcuno degli operai. Era stranissimo camminare per le strade la domenica mattina ed osservare come pochi di essi dessero ascolto al barbaro clangore delle campane che facevano impazzire i malati e i nervosi, e fossero richiamati dal loro quartiere, dalle loro stanze opprimenti, dagli angoli delle loro strade, dove indugiavano indifferenti, guardando il viavai delle chiese e delle cappelle, come una cosa che non li riguardasse affatto. Non era solo l’estraneo a notare ciò, poiché c’era un’organizzazione nata proprio a Coketown, i cui membri, ad ogni sessione della Camera dei Comuni, chiedevano indignati un atto del Parlamento che costringesse questa gente ad essere religiosa. Poi c’era la società della Temperanza, che si lamentava che questa stessa gente voleva ubriacarsi e dimostrava con tabelle e statistiche che si ubriacava realmente dichiarando, durante le riunioni per il tè, che nessuna convinzione umana o divina (tranne forse un premio, o una medaglia) li avrebbe indotti ad abbandonare la loro abitudine di ubriacarsi. Poi c’erano il farmacista e il chimico, con altre tabelle, che dimostravano che quando la gente non era ubriaca, prendeva l’oppio. Poi c’era l’esperto cappellano della prigione, con ulteriori tabelle che superavano tutte le tabelle precedenti, che dimostrava che quella stessa gente si riuniva in locali malfamati, ben nascosti agli occhi degli altri, dove ascoltava canti indecenti e vedeva danze indecenti e forse vi partecipava; e dove A. B., che avrebbe presto compiuto ventiquattro anni, condannato a diciotto mesi di prigione, aveva detto (non che fosse mai stato molto degno di fede) che in quel modo era cominciata la sua rovina, poiché egli era perfettamente sicuro che altrimenti sarebbe stato un giovane della più elevata moralità. Poi c’erano il signor Gradgrind e il signor Bounderby, i due signori che stavano camminando verso Coketown, entrambi eminentemente pratici, che avrebbero potuto, all’occasione, fornire ulteriori tabelle derivate dalla loro esperienza personale e illustrate dai casi che essi avevano visto e conosciuto, dai quali appariva chiaramente - insomma, era l’unica cosa chiara in tutto il caso - che questa gente non era niente di buono, signori; che qualunque cosa si facesse per loro, non erano mai contenti né grati, signori; che erano irrequieti, signori; che non sapevano quel che volevano; che vivevano nel miglior modo possibile e compravano burro fresco, non volevano caffè che non fosse Moca, esigevano i pezzi migliori di carne eppure erano eternamente scontenti e intrattabili.
C. Dickens, Tempi difficili, trad. it. di G. Lonza, Milano, Garzanti, 1995
I casi nazionali
Il mito della perfetta borghesia inglese, elaborato dai sostenitori di un culto laico del Progresso e imposto dal prestigio della classe dirigente, sul terreno dell’analisi concreta cede il posto a un’evoluzione più articolata. Il fatto che la Gran Bretagna raggiunga tra le nazioni europee il maggior equilibrio tra lo sviluppo economico e l’evoluzione politico-istituzionale non elimina la difficoltà di individuare un percorso che delimiti con precisione le classi borghesi. “Senza dubbio è in Inghilterra – scrive Marx nel Capitale – che la società moderna nella sua struttura economica ha raggiunto il suo sviluppo più ampio e più classico. Tuttavia la stratificazione delle classi non appare neppure lì nella sua forma pura.Fasi medie e di transizione cancellano anche qui tutte le linee di demarcazione [...]”. Del resto, anche se unificata da parametri come il livello del reddito, lo stile di vita e le aspirazioni, la “grande borghesia” dei ricchi imprenditori e dei commercianti facoltosi, dei professionisti affermati e dei finanzieri d’assalto rappresenta pur sempre un’élite davvero esigua: circa l’1 percento della popolazione nel 1840, appena il 2 percento nel 1870 e poco di più nel 1890. Solo includendo le categorie dei bottegai e degli impiegati agiati, dei fittavoli e degli ufficiali dell’esercito, nel penultimo decennio dell’Ottocento le borghesie si dilatano, fino a raggiungere il 25 percento del totale. Queste, però, rimangono escluse dall’esercizio diretto di un potere politico che, anche dopo la prima guerra mondiale, rimane privilegio esclusivo di un’oligarchia borghese capace di eliminare il limite superiore che la divide dall’aristocrazia.
L’avvio ritardato del processo di sviluppo economico in Germania, che ha inizio dopo il 1830, porta con sé anche la debolezza degli ambienti borghesi, limitati alle città anseatiche, a Berlino, Francoforte e Dresda. Tuttavia in alcune città c’è una radicata presenza di medici, avvocati, professori e maestri artigiani già prima che inizi la rivoluzione industriale. Sono queste borghesie “di tipo tradizionale” a perpetuare le tradizioni e la cultura del passato, sia che si conservino intatte oppure che si uniscano agli esponenti del commercio e dell’industria. Capitani d’impresa, finanzieri e banchieri, dal canto loro, con una cura spiccata per la qualità dei prodotti e con un’accorta politica degli investimenti accrescono in misura considerevole i loro profitti. Le fonti fiscali prussiane rivelano che, tra il 1852 e il 1867, la quota del loro reddito imponibile sale dal 16 percento al 22 percento, mentre numericamente essi non sono che poche decine di migliaia, meno dell’1 percento della popolazione. A partire dalla fine degli anni Settanta la fondazione del Reich e la forte concentrazione monopolistica delle attività produttive e creditizie producono un effetto moltiplicatore delle fasce impiegatizie pubbliche e private, dei tecnici e dei quadri intermedi: nel 1870 esse rappresentano il 15 percento e nel 1900 salgono al 25 percento della popolazione. Ma all’inizio del XX secolo la classe dirigente si recluta ancora nelle file dell’aristocrazia, sia tra i proprietari terrieri della Prussia e della Sassonia, sia nel ceto professionale che ha accumulato una larga esperienza nella carriera amministrativa.
A differenza delle borghesie tedesche e in parte anche di quelle inglesi, in Francia le borghesie esercitano un’influenza politica decisiva sulla società. Fin dal periodo rivoluzionario gli avvocati, i professori, i medici e gli alti funzionari sono presenti in tutte le assemblee, si tratti di occupare un seggio in un Consiglio generale di dipartimento o alla Camera dei deputati di Parigi. Il precoce predominio sulla nobiltà si rivela probabilmente uno svantaggio dopo il 1830, quando i ritmi della trasformazione economica già avviata non toccano i livelli raggiunti in Germania e in Gran Bretagna. La forza delle professioni si mantiene intatta in pieno Ottocento e fino al declinare del secolo l’immagine del borghese è legata alle figure di redditieri, proprietari terrieri e avvocati “di grido”, piuttosto che a quella del grande imprenditore capitalista. Nel 1880, al termine di un periodo di transizione economica e sociale, il 4,5 percento delle famiglie, vale a dire 500 mila capifamiglia, detengono un terzo dei redditi dell’intero Paese, circa 7 miliardi di franchi, con un’entrata media di 14 mila franchi mensili. L’alimentazione assorbe circa 3.000 franchi, l’affitto 2.000, l’abbigliamento 2.000, il salario di due domestici una parte variabile del rimanente, mentre almeno un terzo viene risparmiato. Ma la società francese non produce soltanto queste fasce di alta e media borghesia; al di sotto di esse esistono numerosi gruppi intermedi che, dopo il 1870, arrivano a oltre 4 milioni di persone: piccoli imprenditori, negozianti, funzionari di livello inferiore, impiegati di aziende e imprese. È soprattutto per loro tramite che i comportamenti sociali della nobiltà, assimilati dai bons bourgeois parigini e rielaborati sulla base dei propri modelli politici e culturali, sopravvivono alla fine del “lungo Ottocento” borghese.