Il turismo alpino: non solo neve
L’esordio del turismo nelle regioni del versante meridionale delle Alpi è solitamente fatto risalire da una parte alla valorizzazione delle risorse idrominerali che ebbe luogo in quelle zone negli anni centrali del 19° sec. e dall’altra al diffondersi di un interesse crescente per l’alpinismo. Non va peraltro dimenticato che l’attivazione di un’offerta in questi campi non costituì che due dei molteplici fattori capaci di motivare l’afflusso e la presenza di forestieri nelle regioni alpine. Proprio l’efficacia, per un verso, o l’incapacità, per altro verso, nel saper declinare le diverse possibilità di interazione tra domanda e offerta seppe indirizzare i flussi turistici verso alcuni settori della montagna alpina, finendo per far ignorare altre possibili destinazioni (Leonardi 2011).
Al fine dunque di determinare il successo delle diverse aree turistiche alpine va considerata una molteplicità di fattori, in primo piano la bellezza e la suggestività dei paesaggi, la salubrità dell’aria, le condizioni climatiche favorevoli. Parallelamente va sottolineato il ruolo di primaria importanza assunto dalle diverse tipologie dei sistemi di comunicazione capaci di incoraggiare, oppure demotivare, l’afflusso verso una determinata destinazione. Tuttavia, nella realizzazione di dotazioni infrastrutturali legate all’accoglienza degli ospiti, e dunque nel determinare importanti flussi di investimenti che hanno decretato il successo di alcune località, sono intervenuti anche altri elementi. Uno di questi è quello legato all’attenzione prestata al forestiero, al forgiarsi della ‘cultura dell’ospitalità’ (Leonardi 2004). Proprio questo tipo di cultura ha avuto modo di mettersi in luce ben prima che il turismo riuscisse ad affermarsi come fenomeno di massa. In altri termini può essere individuata come una sorta di ‘marcia in più’ che è stata capace di favorire il take off turistico di diverse destinazioni alpine.
La struttura dell’offerta turistica sviluppatasi all’esordio del 20° sec., durante il periodo della belle époque, nelle regioni alpine era sostanzialmente riconducibile a quattro categorie. La prima era quella costituita dalle città collocate a ridosso delle valli alpine che, oltre a essere poli di interesse storico-artistico, erano anche punti di smistamento in direzione delle località di soggiorno alpino e dunque, per tale motivo, avevano inteso dotarsi di strutture ricettive di diverso livello qualitativo. C’era poi quella rappresentata da vecchi e nuovi Kurorte («luoghi di cura»), ivi compresi i luoghi climatici di alta montagna, vale a dire centri che non disponevano di risorse idrominerali, ma dove si respirava semplicemente aria buona; alcuni di essi, in particolare, avevano assunto una visibilità internazionale grazie alla qualità delle strutture e infrastrutture di cui si erano dotati. La categoria più innovativa era però quella rappresentata da alcune moderne ‘albergopoli’, in grado di rispondere alle richieste della clientela più sofisticata, senza tuttavia assumere i connotati dell’asetticità e dell’anonimato, ma mantenendo alcuni spunti di una genuina gestione familiare. Vi era infine un segmento d’offerta che era andato progressivamente diffondendosi ed era rappresentato dalle strutture ricettive nei tradizionali villaggi di montagna. In essi era venuto gradualmente crescendo il numero di locande e di piccoli alberghi a gestione familiare, così come lungo i tragitti più suggestivi delle escursioni in quota si erano moltiplicati i rifugi alpini, realizzati il più delle volte dai diversi Club alpini europei (Leonardi 2011).
Per tutto il periodo della belle époque le destinazioni alpine avevano attratto soprattutto una clientela elitaria, proveniente in primo luogo dall’area mitteleuropea e dalle isole britanniche, che era in grado di permettersi soggiorni resi costosi, per un verso da un sistema di infrastrutture di comunicazione ancora approssimativo e, per altro verso, dalla consuetudine di protrarre la permanenza nelle varie destinazioni frequentate esclusivamente nella stagione estiva. La guerra interruppe bruscamente tali flussi. Cessato il conflitto e trasformatisi gli equilibri europei, la clientela proveniente dalla Mitteleuropa diminuì drasticamente e non diede segnali concreti di ripresa nel breve periodo. Gli ospiti provenienti dal Mezzogiorno, per contro, apparivano piuttosto lenti ad apprezzare l’offerta turistica alpina e, a ogni modo, non parevano in grado di sostituire la più blasonata clientela prebellica e nemmeno di pareggiarla in termini quantitativi.
Il rilancio del turismo nelle regioni alpine non sarebbe passato semplicemente attraverso una sorta di empirica sostituzione degli ospiti, ma avrebbe dovuto percorrere strade nuove, volte contemporaneamente al graduale recupero della clientela tradizionale, così come ad attrarre, in termini sempre più convincenti, la domanda italiana, approfittando anche dell’onda emotiva suscitata dal desiderio insito nell’opinione pubblica di visitare i luoghi di montagna dove era stata combattuta la Prima guerra mondiale. Si constatò rapidamente come la clientela italiana, sia che risultasse motivata dalla visita ai sacrari militari e agli altri luoghi della memoria nazionale, sia che più semplicemente desiderasse conoscere la montagna alpina, apparisse orientata prevalentemente a una tipologia di vacanza breve e concentrata a un limitato periodo estivo.
Questo nuovo tipo di domanda sembrava pertanto dover circoscrivere l’utilizzo dell’offerta turistica alpina che precedentemente alla guerra aveva conosciuto una gamma piuttosto variegata di ospiti. Fu dunque messo in campo un forte impegno di carattere organizzativo per ripristinare, in chiave rivisitata, quegli organismi a dimensione locale come le società di abbellimento, o i comitati locali di cura, che nel periodo prebellico avevano contribuito, seppure in misura diversa e con risultati altalenanti, alla creazione dell’immagine turistica di diverse destinazioni alpine, tanto nei confronti della società mitteleuropea quanto di quella italiana.
Ciò valse quanto meno fino a quando, con la promulgazione del r.d.l. 15 apr. 1926 nr. 765, non vennero stabilite le direttive che consentivano la definizione delle cosiddette stazioni di soggiorno e di cura, per la cui valorizzazione furono appositamente create le aziende autonome. Ma solo quelli che erano ritenuti i centri turistici di maggior prestigio per dotazioni ricettive e per tradizione di ospitalità si poterono dotare di tali organismi. Alla promozione delle località di minore rinomanza e con dotazioni ricettive meno rilevanti avrebbero invece dovuto provvedere le pro loco cercando di incrementare il movimento turistico e di favorirne il potenziamento attraverso la promozione e l’attuazione di molteplici iniziative di richiamo turistico, nonché l’istituzione di servizi di assistenza nei confronti degli ospiti, sostituendosi in pratica alle vecchie società di abbellimento (Leonardi 2011). Si era in notevole difficoltà in merito all’attivazione di strategie di marketing turistico capaci di individuare un target ben definito verso il quale orientare l’offerta propria delle destinazioni alpine.
La palese incertezza che accompagnava le strategie di valorizzazione delle stazioni di soggiorno alpine ebbe un sussulto quando un numero sempre maggiore di operatori economici si rese conto che la frequentazione della montagna esclusivamente nella stagione estiva cominciava a presentare qualche incrinatura a tutto vantaggio dell’affermarsi degli sport invernali. La pratica sportiva dunque, che era stata all’origine della valorizzazione turistica della montagna, attraverso l’alpinismo e la «conquista dell’inutile» (Wedekind 2000, p. 34), determinò l’avvio, peraltro ancora timido, della stagione del turismo alpino invernale. Accanto infatti alla ripresa della pratica alpinistica – che aveva visto gradualmente incrementarsi la frequentazione dei rifugi che accoglievano, oltre a un rinnovato afflusso di amanti stranieri della montagna, anche escursionisti italiani – si stava manifestando negli anni Trenta un nuovo interesse per gli sport della neve. Se dietro la ripresa dell’escursionismo estivo c’era anche l’utilizzo di una viabilità realizzata per fini bellici così come la fruizione di nuovi mezzi attraverso cui ci si poteva accostare alla montagna, la crescente attenzione per le cime innevate e dunque per gli sport invernali rappresentava una novità assoluta per le Alpi italiane. Si trattava di un’esperienza ancora in fase di rodaggio che tuttavia, una volta superati i momenti più critici prodotti della crisi economica mondiale, cominciò ad allargarsi con nuove iniziative e con l’organizzazione di un’offerta mirata.
La novità di maggior rilievo si ebbe all’inizio degli anni Trenta, quando il presidente della FIAT Giovanni Agnelli individuò sul colle di Sestriere, un’area d’alpeggio a 2000 m di quota, sovrastante la Val Chisone, il sito ideale per creare un centro di sport invernali. Agnelli e suo figlio Edoardo avevano l’obiettivo di lanciare in grande stile una stazione sciistica, destinata a quello che successivamente sarebbe stato definito dagli urbanisti francesi lo ski total: quota elevata oltre il limite del bosco per garantire un buon innevamento, sito privo di insediamenti preesistenti, presenza di un’unica gestione per le infrastrutture alberghiere e per gli impianti di risalita (Bartaletti 1994, pp. 65-71). I progettisti scelti dal presidente della FIAT concepirono la stazione invernale separando le aree da destinare alle piste da sci e agli impianti di risalita dalla zona residenziale e dai servizi. Nell’arco di pochi anni, nonostante ci si trovasse nel pieno della grande depressione, furono realizzati con i criteri dell’architettura razionalista i grandi alberghi a pianta circolare da cui partivano gli impianti di risalita e parallelamente si dotò la stazione di tutte le infrastrutture e i servizi che potevano renderla appetibile agli sciatori.
Si trattava del primo esempio in ambito italiano di creazione, da parte di un’imprenditoria e di capitale esogeno all’ambiente di montagna, di una destinazione prettamente invernale. La finanza piemontese nella seconda metà degli anni Trenta intervenne con le medesime finalità anche in una convalle della Valle d’Aosta creando, in un sito d’alpeggio a 2000 m d’altezza, ai piedi del versante meridionale del Cervino, la stazione turistica di Breuil-Cervinia. L’obiettivo era quello di realizzare un centro di sport invernali di prim’ordine che potesse essere fruito anche per la villeggiatura estiva e come base di partenza per importanti escursioni alpinistiche. Anche in questo caso era stata prescelta una località non abitata permanentemente che fu resa tale solo dopo l’apertura nel 1934 di una strada carrozzabile dalla Valtournenche. Tra il 1936 e il 1938 si costruì una funivia che in tre tronchi raggiungeva i 3478 m (una quota record per l’epoca) del Plateau Rosa e parallelamente, in una decina di alberghi e pensioni, vennero messi a disposizione degli ospiti circa 500 posti letto (Leonardi 2011). L’insediamento urbanistico si rivelò fin da subito piuttosto disordinato, preludio allo scempio che si sarebbe verificato con l’espansione selvaggia che ebbe inizio negli anni del ‘miracolo economico’ postbellico (Bätzing 2005, p. 205).
Dopo la grande depressione dei primi anni Trenta la pratica dello sci cominciò a diffondersi anche in alcune località delle Alpi occidentali, già da tempo popolari come stazioni climatiche estive. Si trattava oltre che di Bardonecchia, di Limone Piemonte, Sauze d’Oulx, Courmayeur e Gressoney. La stessa cosa avvenne in altri siti delle Alpi centrali, come Bormio e Ponte di Legno e in ambiti blasonati dell’area dolomitica, come Madonna di Campiglio, Ortisei e San Martino di Castrozza, seguiti da centri fino a quel momento poco noti delle valli di Pusteria, Fiemme e Fassa, del Primiero, dell’Alta val d’Isarco, così come Solda e Trafoi alle pendici dell’Ortles, o Folgaria, Lavarone e il Passo del Tonale nel Trentino (Leonardi 2011).
L’alternanza delle stagioni turistiche rappresentò pertanto una sfida per gli operatori economici delle destinazioni turistiche alpine che cominciarono ad affrontare nuovi rischi e ingenti spese aggiuntive per la necessaria trasformazione di alberghi, pensioni e appartamenti. E se inizialmente la stagione della neve era una prerogativa di quei luoghi d’alta montagna già provvisti di una consistente organizzazione turistica, essa riuscì presto a dare respiro anche a diverse altre località che prima erano solo sfiorate dai flussi dei viaggiatori.
La grande depressione aveva certamente frenato le dinamiche del turismo anche nelle regioni alpine, senza tuttavia interrompere i flussi verso le destinazioni di montagna. A ridare slancio alla domanda turistica dopo il 1934 contribuì anche il nuovo impianto legislativo che determinò sia la riduzione dell’orario lavorativo, portato alle 40 ore settimanali nel 1937, sia l’applicazione della disciplina delle ferie pagate (Ichino 1987). Con il riconoscimento delle ferie cominciarono a sorgere organismi finalizzati alla loro valorizzazione e coordinati dall’Opera nazionale del dopolavoro. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale interruppe tuttavia una stagione che sembrava promettente e si riproposero le drammatiche situazioni già vissute un quarto di secolo prima. In particolare, il crollo delle attività turistiche esplose drammaticamente negli ultimi due anni del conflitto.
All’indomani della guerra ‒ più a causa del prosciugamento delle fonti di reddito che per le distruzioni materiali, che comunque avevano profondamente segnato le infrastrutture di comunicazione ‒ era difficilmente ipotizzabile una riattivazione dei flussi turistici con i ritmi manifestati nella seconda metà degli anni Trenta. Il riavvio dell’attività turistica era reso difficile dal clima complessivo di privazioni e di enormi difficoltà negli approvvigionamenti che rendeva, se non impraticabile, comunque estremamente complessa la ripresa di un’offerta dignitosa, oltre a rendere ovviamente debole e asfittica la domanda. Se infatti non può essere negato che cominciava a manifestarsi in Europa una reazione psicologica alle sofferenze materiali e morali generate dalla guerra, a cui si accompagnava il desiderio di rompere l’isolamento in cui si era venuta a trovare molta popolazione d’Europa, bisogna però considerare che le difficoltà economiche che comprimevano gran parte del vecchio continente rendevano estremamente difficoltoso dare attuazione, attraverso il movimento turistico, a tali profonde aspirazioni. Persistevano poi diversi vincoli operativi per gli operatori turistici, inevitabile strascico delle vicende belliche, che rendevano problematico un veloce recupero delle varie articolazioni dell’offerta turistica. Vi era la consapevolezza che fosse di fondamentale importanza assumere iniziative individuali e private e che una posizione di attendismo rispetto a possibili interventi finanziari messi in campo dal soggetto pubblico non avrebbbe pagato (Leonardi 2006).
Tuttavia nell’arco di pochi anni l’offerta turistica delle regioni alpine fu in grado di impostare una gamma rinnovata di proposte, riuscendo a consolidare l’esperienza della doppia stagionalità che prima del conflitto aveva solo timidamente iniziato a muovere i primi incerti passi. Nel medio periodo gli elementi alla base della ripresa del turismo nelle regioni alpine, ma allo stesso tempo dell’intero movimento turistico dell’Occidente europeo, erano riconducibili al graduale miglioramento del PIL pro capite dei Paesi occidentali, che avrebbe reso possibile assecondare il desiderio di spostarsi di crescenti masse di popolazione. Ciò fu possibile, come accennato, grazie all’istituto delle ferie pagate e al forte impegno per il ripristino e il potenziamento delle infrastrutture e dei mezzi di comunicazione, ma anche in conseguenza delle misure di liberalizzazione valutaria e doganale, che gradualmente i Paesi facenti parte dell’OECE (Organizzazione Europea di Cooperazione Economica) avevano introdotto. Dunque a seguito dello sviluppo innescato dal Piano Marshall, le migliorate condizioni economiche e il moltiplicarsi delle occasioni di scambio legate all’avvio della politica di integrazione europea consentirono un’accelerazione della ripresa e con essa anche il ripristino del movimento turistico (Leonardi 2006).
Al crescere del flusso turistico si accompagnava, e in parte era anche motivo del suo verificarsi, non un semplice adeguamento dell’offerta, ma un suo costante rinnovamento e ampliamento e una sua diversificazione. Artefice del nuovo take off del turismo alpino si dimostrò un complesso di fattori, ciascuno dei quali di significato circoscritto, ma capace, interagendo in termini concomitanti con gli altri, di produrre un effetto di rilievo nei confronti di una domanda in costante espansione. È infatti indiscutibile che già a partire dai primi anni Cinquanta, parallelamente con il manifestarsi del miracolo economico, si verificò un’espansione quantitativa accompagnata da un progressivo miglioramento qualitativo delle attrezzature ricettive. Va comunque sottolineato che tale passaggio basilare fu reso possibile, oltre che dall’intraprendenza degli operatori locali, da un massiccio intervento di capitale di provenienza esogena rispetto alle regioni alpine (Bätzing 2005, pp. 205-07).
Non può peraltro essere sottaciuto il ruolo esercitato in due dei contesti territoriali alpini con più solida tradizione nell’offerta turistica ‒ quello del Trentino-Alto Adige e quello valdostano ‒ dagli interventi normativi delle rispettive Regioni, dotate dal 1948 di autonomia speciale, che attribuiva a Trento e Aosta competenze primarie in materia di ‘turismo e industrie alberghiere’. Ad aprire la strada fu una prima legge emanata dalla Regione Trentino-Alto Adige (l. reg. 24 sett. 1951 nr. 12), che stabiliva incentivi, anche finanziari, per valorizzare il marketing turistico. L’anno successivo, attraverso due nuove leggi (leggi reg. 30 apr. 1952 nr. 17 e nr. 18), si intese stimolare una serie di iniziative volte a valorizzare e potenziare il patrimonio alpinistico regionale, con lo stanziamento di appositi fondi per sostenere i privati nella realizzazione e nel miglioramento di infrastrutture sia di carattere ricettivo sia di intrattenimento (Leonardi 2006). Parallelamente in Valle d’Aosta venne disciplinato l’esercizio della professione di guida alpina e di maestro di sci, come passaggio indispensabile per stimolare la fruizione turistica della montagna (l. reg. 28 settembre 1951, n. 2). Si trattava delle prime di una serie di forme di intervento, che si sarebbero successivamente consolidate in termini sempre più organici, coinvolgendo dopo il 1963 anche il Friuli Venezia Giulia e dopo il 1972, a seguito del nuovo assetto autonomistico, le due Province autonome di Bolzano e Trento.
Le varie iniziative, assunte sia dal soggetto pubblico sia da operatoti privati, erano solo parzialmente mirate a sostenere e promuovere la forma più tradizionale di turismo, peraltro ancora prevalente nella maggior parte delle destinazioni alpine, vale a dire quello estivo. Accanto a questo si svilupparono le prime diffuse forme di soggiorno invernale, seppure praticato con modalità innovative, legate al progressivo affermarsi della motorizzazione privata. Fin dall’inizio degli anni Cinquanta si intraprese un vigoroso potenziamento degli impianti a fune, più che per assecondare le nuove richieste dei frequentatori estivi della montagna soprattutto per rendere possibile una crescente diffusione degli sport invernali. Proprio il potenziamento di seggiovie in un primo tempo, quindi di funivie e in seguito di numerose sciovie, contribuì in maniera sostanziale a modificare la fisionomia dell’offerta turistica delle diverse regioni alpine (Bartaletti 1994, pp. 31-33).
Con il progressivo incremento del traffico lungo le strade d’Europa, legato alla ricostruzione e allo sviluppo economico (Wirtschaftswunder) in Germania e in Italia (il miracolo economico), si venne delineando, accanto a un’ospitalità di carattere prevalentemente familiare coincidente con la villeggiatura estiva, quella che doveva rispondere al cosiddetto turismo di scorrimento. Alla nuova e sempre più numerosa tipologia di ospiti di provenienza sia italiana sia straniera, che tendeva a soffermarsi nelle zone di montagna solo il tempo indispensabile per appagare le proprie curiosità, bisognava offrire infrastrutture e servizi adeguati. Per consentire la ‘stabilizzazione’, ancorché di durata contenuta, di questi ospiti si doveva offrire un’organizzazione di accoglienza in sintonia con i nuovi gusti della clientela; si doveva in altre parole diversificare l’offerta.
A partire sostanzialmente dagli anni Sessanta, la strada su cui si incamminarono diverse stazioni turistiche della montagna alpina italiana fu proprio quella volta ad allargare l’offerta e superare la monostagionalità. Si consolidò dunque il concetto di doppia stagionalità e si allargò parallelamente la sfera dell’offerta, cominciando ad attrezzare per l’accoglienza di diverse tipologie di ospiti anche aree e stazioni che non avevano alle spalle alcun tipo di blasone (Rohrer 2003, pp. 134-38). Nella diffusione generalizzata di un modello di nuovo sviluppo per la montagna si cercarono scorciatoie che nel medio-lungo periodo si rivelarono poco remunerative tanto per l’ambiente quanto per le comunità locali. La nascita, in quegli anni, delle stazioni di seconda generazione, come le definì Rémy Knafou (1978), in siti privi di insediamenti preesistenti, e soprattutto delle cosiddette stazioni integrate che, partite dall’Alta Savoia, nel corso degli anni Settanta cominciarono a diffondersi anche sul versante alpino italiano, ha lasciato ferite anche profonde in un delicato scenario ambientale.
Lo sviluppo talora anarchico di insediamenti, come quelli realizzatisi a Breuil-Cervinia o al passo del Tonale, o anche quello semplicemente scomposto di stazioni come il Sestriere o Folgarida e Fassa Laurina, o quello quanto meno problematico delle stazioni finalizzate allo ski total, come Prato Nevoso, Artesina, Pila e San Sicario nelle Alpi occidentali, Alpiaz e Montecampione nelle Alpi centrali, Marilleva nell’area dolomitica e Piancavallo nelle Alpi orientali, ha certamente comportato dei costi ambientali non irrilevanti (Bätzing 1990). Il nuovo quadro istituzionale che promosse nel 1970 le Regioni a statuto ordinario, trasferendo loro, nel 1972, tutti i servizi, le strutture e le attività inerenti il turismo e mantenendo allo Stato solo alcune peraltro rilevanti funzioni, contribuì a generare non pochi elementi di confusione per i conflitti di competenze creatisi, che si riversarono anche sul disordine con cui si andavano affermando le nuove stazioni invernali (Berrino 2011, pp. 290-91). D’altro canto, la coscienza ambientale non era ancora un elemento abbastanza forte da caratterizzare le scelte messe in campo nella fase espansiva degli anni Settanta, quando si misero in atto decisioni le cui conseguenze sul paesaggio sarebbero risultate evidenti solo successivamente (Le Alpi: culture del territorio e futuro sostenibile, 2003).
La riorganizzazione delle infrastrutture di ricezione procedette per tappe successive ed ebbe un andamento differenziato nelle diverse regioni alpine italiane. Mentre infatti in tutte le Alpi centro-occidentali, ma anche in quelle venete e friulane, nella predisposizione di tali infrastrutture venne assumendo una marcata prevalenza la logica delle ‘seconde case’ realizzate talora in termini caotici, nell’area dolomitica, e più marcatamente nelle località sudtirolesi rispetto a quelle trentine, continuò a mantenere un ruolo primario l’ospitalità alberghiera. Del resto, il quadro normativo messo in atto dalle regioni conobbe una fase di incubazione piuttosto delicata prima di arrivare a definirsi coerentemente con gli obiettivi che ciascun territorio seppe attribuirsi. Solo a quel punto venne attivata una politica di marketing da parte delle singole regioni, finalizzata a valorizzare e promuovere quanto caratterizzava ciascuna area di montagna: dai tratti sciabili alle zone con fonti minerali, dai percorsi adatti al trekking, ai paesi ricchi di tradizioni folkloriche o gastronomiche (Franch 2007).
In un quadro sicuramente differenziato venne quindi imponendosi una nuova tipologia insediativa e organizzativa che assunse anche tratti piuttosto complessi. Se fino ai primi anni Settanta a frenare l’espansione dell’offerta turistica delle regioni alpine fu la disponibilità ancora modesta di capitale reperibile localmente, successivamente si andò lentamente imponendo un vero e proprio salto di qualità nelle iniziative assunte dagli operatori del settore ‒ sostenuti dagli interventi delle singole regioni ‒ per cercare di intuire e anticipare le esigenze esternate dalla clientela. Non ci si poteva infatti limitare a concentrare i propri sforzi sulla sola stagione estiva, ma si dovevano moltiplicare gli interventi per soddisfare pienamente un fenomeno divenuto ormai di massa.
Fu in questo contesto che vennero gradualmente emergendo, accanto a centri che vantavano una solida tradizione di ospitalità, anche località che seppero potenziare le proprie infrastrutture ricettive per favorire l’accesso di nuovi forestieri, dimostrando una certa duttilità nel predisporre l’offerta. Del resto i centri turistici più blasonati, che con maggiori o minori fortune avevano comunque rappresentato sia nelle Alpi occidentali sia nell’area dolomitica quasi delle entità a sé stanti, in una realtà dai connotati marcatamente rurali, cominciavano invece a essere considerati come poli d’attrazione anche per i villaggi circostanti (Leonardi 2006). A vecchie e nuove destinazioni si affiancarono poi le stazioni create dal nulla per rispondere alle esigenze di chi intendeva praticare gli sport invernali.
La nuova tipologia di offerta, peraltro, doveva necessariamente fare i conti con la crescente dilatazione quantitativa, ma parallelamente con la contrazione del profilo qualitativo della domanda turistica. Di fronte all’espandersi della domanda, al mutare della tipologia dei servizi richiesti, al prorompere sullo scenario europeo dei turisti motorizzati, si rendeva necessario predisporre un’offerta sempre più articolata. Risultava importante poter disporre, accanto alle diverse categorie di alberghi e pensioni, di nuove tipologie di ospitalità. Trovarono così spazio i camping, le colonie, le case per ferie, alla cui base oltre a gruppi imprenditoriali locali, stavano non di rado operatori provenienti dall’esterno. Una novità di grande significato fu poi quella connessa all’ospitalità diffusa, rappresentata dalla messa a disposizione dei turisti tanto nei mesi estivi che in quelli invernali, di parte delle stesse abitazioni dei residenti e della graduale predisposizione di alloggi destinati a uso turistico. Allo stesso tempo si rendeva necessaria una consapevole maturazione professionale degli operatori turistici, che non si sarebbe potuta basare unicamente sul consolidamento della locale ‘cultura dell’ospitalità’, ma doveva passare anche attraverso appositi interventi di formazione professionale promossi dalle regioni (Leonardi 2011).
La realizzazione e la ristrutturazione di numerose infrastrutture ricettive sono state certamente facilitate da appositi interventi della legislazione sul turismo, a partire dalla promulgazione della legge quadro per il turismo (l. 17 maggio 1983 nr. 217) cui fecero seguito diversi provvedimenti normativi assunti sia dalle Regioni a statuto ordinario, Piemonte, Lombardia e Veneto, sia da quelle a statuto speciale. Di particolare significato risultarono gli interventi finalizzati al potenziamento e alla qualificazione dell’offerta turistica che le diverse regioni con territori alpini misero in atto dalla seconda metà degli anni Ottanta, riuscendo a determinare precise strategie promozionali di indubbia portata (Franch, Martini, Mich 2002). Significativo risultò anche l’impegno assunto da intermediari creditizi istituiti ad hoc, come la Sezione autonoma per l’esercizio del credito alberghiero e turistico della Banca nazionale del lavoro. E un ruolo di rilievo è sicuramente attribuibile anche ai vari assessorati al turismo – dopo l’istituzione nel 1970 delle regioni a statuto ordinario – posto che le regioni a statuto speciale avevano provveduto già dalla loro istituzione nella fase immediatamente postbellica a sostenere il settore turistico in base alle competenze loro attribuite (Romanelli 1995). La maggior parte degli interventi tuttavia non si sarebbe mai potuta concretizzare senza l’intraprendenza messa in campo da tanti piccoli operatori delle aree interessate al potenziamento dell’offerta turistica. Questa del resto non avrebbe potuto far presa su una domanda sollecitata da una marea crescente di proposte se non fosse stata opportunamente sorretta da un apparato promozionale che trovò un’efficace regia negli Enti provinciali per il turismo e un punto di riferimento per la penetrazione nei mercati esteri nell’ENIT, Agenzia nazionale italiana del turismo (Cinalli 1988).
Il flusso alimentato dalla motorizzazione privata sarebbe ulteriormente aumentato quando, dopo una lunga fase progettuale, poté essere realizzata l’autostrada del Brennero, così come la Torino-Aosta. Ad accelerare ulteriormente l’arrivo dei turisti contribuì però anche il miglioramento della viabilità ordinaria, così come risultò di indiscutibile attrazione il fatto di poter disporre in tutte le aree di montagna di un rilevante numero di impianti a fune. Questi conobbero una marcata trasformazione a partire dagli anni Sessanta quando cominciarono a essere introdotte le seggiovie biposto che aumentarono la portata oraria degli impianti. Durante gli anni Settanta in diverse aree cominciarono a essere messe in funzione le telecabine, si diffusero enormemente le sciovie e comparvero anche sulle Alpi italiane le funivie dei ghiacciai (Bartaletti 2006).
A consolidare la funzione basilare della stagione invernale contribuirono i campionati mondiali di sci alpino in Val Gardena nel 1970, a Bormio nel 1985 e nel 2005, al Sestriere nel 1997, quindi lo sci nordico in Val di Fiemme nel 1991, nel 2003 e nel 2013 e le olimpiadi invernali di Torino nel 2006. Tali eventi non esercitarono semplicemente una formidabile funzione promozionale nei confronti delle aree direttamente interessate dalle manifestazioni, ma furono l’occasione per la realizzazione di importanti interventi tanto sulle infrastrutture ricettive quanto su quelle di comunicazione.
Se il costante incremento dei traffici commerciali e turistici aveva reso indispensabile l’apertura di imponenti arterie autostradali capaci di superare le Alpi, pur creando profonde ferite in un contesto ecologicamente di estrema fragilità, le trasformazioni della domanda turistica avevano parallelamente comportato un adeguamento dell’offerta che si era inevitabilmente riversata anche sui mezzi di trasporto propri della montagna.
Il crescente diffondersi dello sci rendeva necessaria la realizzazione di strutture che velocizzassero l’accesso alle piste e che permettessero, prima di tutto, di aumentare la loro fruizione da parte degli sciatori. Tale aumento era possibile non solo grazie a una maggior velocità degli impianti di risalita, ma soprattutto tramite una loro nuova impostazione. Si cominciarono a progettare e realizzare nuovi impianti che vennero gradualmente a sostituire le funivie bifune nelle quali il veicolo viene mosso da una fune traente su una portante con cosiddetto movimento va e vieni che comporta la salita e discesa dei passeggeri a veicoli fermi. I nuovi impianti, entrati in funzione negli anni Settanta, erano invece impostati in modo tale da generare la possibilità di rendere continuo il flusso degli utenti. Avevano infatti in comune la caratteristica di far ruotare senza interruzioni le cabine o i sedili delle seggiovie. L’evoluzione tecnologica giunse fino alle versioni monofune (ad ammorsamento automatico) che permettono salita e discesa dei passeggeri senza che ciò richieda fermate all’impianto. Se tra gli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta si assistette a una crescita tumultuosa di seggiovie e sciovie, dalla seconda metà degli anni Settanta tali impianti cominciarono a cedere il passo agli impianti monofune, destinati a una crescita costante. Da quel momento il numero totale degli impianti subì un’inversione di tendenza, andando lentamente a calare. Tale riduzione è, però, inversamente proporzionale al dato realmente importante: la portata oraria che invece risultò in costante ascesa (Leonardi 2013). Al potenziamento dell’efficienza degli impianti di risalita si accompagnò un parallelo incremento delle piste da sci e dei servizi indispensabili alla loro fruizione, e tutto ciò provocò un pesante irrobustimento dell’antropizzazione della montagna, con un impatto ambientale estremamente grave per un ambiente delicato come quello alpino (Messner 2001).
Le trasformazioni più recenti del sistema trasportistico che stanno coinvolgendo l’area alpina – dai progetti dell’alta velocità ferroviaria alle realizzazioni dei transiti autostradali, o alle diverse caratterizzazioni della circolazione intervalliva per giungere all’ultima generazione degli impianti di risalita – sono divenute oggetto di vivaci dibattiti in cui si confrontano, e talora si scontrano, impostazioni non solo economiche, ma anche ideologiche profondamente diverse.
Negli ultimi decenni del 20° sec., in concomitanza con l’affermazione prorompente dello sci, indotta anche dai successi della nazionale di sci alpino, la cosiddetta Valanga azzurra, esplose il fenomeno della ‘cementificazione’ della montagna. Questo processo nel suo dilagare ha finito per coinvolgere accanto a vecchie e nuove stazioni direttamente interessate agli sport invernali – da Madonna di Campiglio a Cortina d’Ampezzo, da Corvara al Plan de Corones – anche località circostanti che hanno così progressivamente perso la loro tradizionale fisionomia economica e urbanistica.
In alcune località, soprattutto del Piemonte e della Valle d’Aosta, ma anche della Lombardia, del Veneto, del Friuli e in una certa misura anche del Trentino, ispirandosi al modello di ridefinizione urbanistica attuato nei nuovi insediamenti dell’Alta Savoia, vennero create dal nulla nuove destinazioni turistiche a vocazione marcatamente sciistica. I risultati conseguiti tramite tale tipo di scelta che proponeva un raccordo diretto tra insediamenti abitativi e piste o impianti di risalita, nel complesso, possono essere considerati quanto meno discutibili (Le Alpi: culture del territorio e futuro sostenibile, 2003). La convergenza di capitale speculativo, di provenienza esogena, con gruppi di interesse locali portò a realizzazioni che, specie nelle regioni alpine centro-occidentali, non sempre sono andate nella direzione che i loro promotori si attendevano, causando evidenti ferite ambientali. Pesanti interrogativi sono successivamente stati formulati sia sul significato urbanistico-ambientale di tali insediamenti, sia sui rapporti con il tessuto connettivo dei territori che li ospitavano (Bartaletti 2006).
L’ingombrante presenza di una tipologia di destinazione turistica che costituiva una frattura rispetto a un utilizzo della montagna più in linea con l’ambiente cominciava a suscitare una serie di reazioni anche al di fuori della cerchia dei soli ambientalisti, da sempre attenti nel mettere in guardia di fronte ai pericoli di un’eccessiva antropizzazione della montagna. A promuovere infatti una nuova attenzione per le risorse ambientali, che in diversi siti della montagna alpina correvano il rischio di affievolirsi o addirittura di venir meno a causa dell’eccessiva cementificazione, fu la presa di coscienza degli stessi operatori turistici rispetto al rischio che correvano di fronte a una nuova dimensione della domanda. In presenza di aree di indiscutibile pregio, che a causa di sfregi ambientali sarebbero potute risultare meno appetibili rispetto a destinazioni alternative anche molto lontane, ma comunque facilmente raggiungibili tramite collegamenti aerei a costi contenuti, emerse con chiarezza la necessità di una regolamentazione complessiva degli insediamenti turistici in vecchi e nuovi siti alpini (Le Alpi: culture del territorio e futuro sostenibile, 2003).
A rendersi protagonisti di una diffusa regolamentazione furono, seppure senza un disegno omogeneo, diversi interventi di programmazione, adottati dalle amministrazioni regionali, di un modello di sviluppo che intendeva valorizzare le variegate e differenti potenzialità espresse dalle aree della montagna alpina, cercando però di salvaguardarne il fascino (De Vecchis 1998). L’avvio di una serie di iniziative di natura urbanistico-programmatoria consentì in diversi casi di impostare la realizzazione di zone destinate a parchi attrezzati a uso turistico-residenziale accanto ad aree specificamente destinate a scopi di tutela ambientale e definite come parchi naturali. In tutti i territori alpini dove venne messa in atto una politica di riorganizzazione ambientale, il turismo, sia pure con modalità differenti, andò gradualmente a ridefinirsi, accettando la compresenza di stazioni attrezzate per gli sport e la residenza invernale (oltre che estiva) e di ambienti tutelati e preservati da ogni tipo di speculazione. Le diverse regioni e le due province autonome, attraverso la promulgazione di specifiche leggi di settore (finalizzate alla tutela ambientale ma anche all’attivazione di un crescendo di interessi nei confronti della montagna e della sua fruizione), offrirono un indiscutibile impulso al consolidamento e alla diversificazione dell’offerta turistica dei territori alpini (Sereno 2000).
Il settore turistico delle regioni alpine si è dunque progressivamente saputo rinnovare anche attraverso la graduale affermazione di una coscienza ambientale (Messner 2001).
Il turismo, avviatosi ormai nella fase finale del 20° sec. a divenire uno dei pilastri portanti dell’economia di molti territori alpini, ha dovuto procedere negli anni più recenti a un’ulteriore riqualificazione lungo la direttrice della diversificazione e riqualificazione dell’offerta (Bartaletti 2006).
Le circa 200 stazioni invernali ubicate in Piemonte e Valle d’Aosta e soprattutto in Trentino-Alto Adige, ma anche, seppure in numero meno rilevante, in Lombardia, Veneto e Friuli, capaci di offrire complessivamente oltre mezzo milione di posti-letto in alberghi ed esercizi complementari, a cui sono da aggiungere circa 1.600.000 posti-letto in residence e seconde case, hanno ormai raggiunto una capacità ricettiva di assoluto rilievo. Se poi si considerano le potenzialità delle dotazioni di tali stazioni, vale a dire gli oltre 6600 km di piste da sci e i circa 2300 impianti a fune in bacini sciistici particolarmente estesi, si può cogliere come il turismo invernale sul versante italiano delle Alpi non abbia nulla da invidiare sul piano delle dotazioni a quello delle Alpi francesi, svizzere e austriache (Bätzing 2005, p. 217; Italia neve. Indagine ENIT sul turismo montano invernale, «ENIT Italia», 2006, 22, pp. 21-63, www.enit.it/de/pressroomonline/rivistaenititalia.html?download=10:2006, 5 maggio 2014).
In effetti, già dagli anni Ottanta, il turismo della neve – sull’onda delle emozioni suscitate da Gustav Thoeni prima e soprattutto da Alberto Tomba e dagli altri campioni della Valanga azzurra – ha vissuto un grande momento di espansione in termini sia di flussi turistici sia di crescita delle infrastrutture, nonostante in alcune stagioni sia risultato frenato dalla scarsezza di precipitazioni nevose. Superato tale handicap con la sempre più diffusa pratica dell’innevamento programmato, divenuta con gli anni Novanta una prassi generalizzata, la montagna alpina ha finito per diventare sinonimo della vacanza invernale. Lo sci e le pratiche a esso connesse sono infatti diventate il punto di riferimento più evidente per il turismo di tutte le regioni alpine italiane (Bartaletti 2002).
Con lo stabilizzarsi dei flussi turistici è peraltro venuta emergendo la necessità di rinnovamento non solo per gli impianti e per le aree sciabili, ma anche per tutte quelle infrastrutture che accompagnano il cosiddetto après ski. Accanto dunque alle piste (garantite innevate dagli impianti di neve programmata), accanto a impianti di risalita veloci ed efficienti che rendono possibili numerosi collegamenti intervallivi capaci di garantire agli sciatori scenari sempre nuovi, accanto a dotazioni che consentono la compresenza non solo di sci e snowboard, ma anche di percorsi tecnici per lo sci da fondo, così come per le escursioni con le ciaspole, è diventato indispensabile poter mettere a disposizione degli ospiti anche attrezzati centri benessere (wellness centers) per il relax del dopo sci e parallelamente ogni tipologia di svago per le ore serali e notturne.
La creazione di impianti di wellness, con annessi reparti di massaggio e beauty, si è andata imponendo in termini prorompenti coinvolgendo un numero crescente di strutture ricettive. Si sono inoltre moltiplicati i ritrovi per le ore notturne destinati alla clientela più giovane, ma non solo.
All’interno delle diverse destinazioni della montagna alpina italiana il turismo, dalla fine del 20° sec. si è venuto caratterizzando per l’emergere di nuove tendenze che in generale hanno visto l’affermarsi, accanto alla classica pratica dello sci, di molte altre attività non solo di natura sportiva. Se in estate si è registrata una ripresa della tradizionale esperienza dell’arrampicata, si è parallelamente visto il fiorire di nuove pratiche sportive, dal free climbing al rafting, ma anche il rivivacizzarsi di iniziative più tranquille come quelle legate all’escursionismo nei boschi e sui sentieri in quota. Il turista non si accontenta tuttavia di vivere la montagna valorizzando tutte le potenzialità che essa offre in ogni stagione, ma è sempre più alla ricerca di relax, trattamenti di bellezza e benessere in generale (Alpi e turismo, 2006), così come di eventi di grande richiamo nei centri urbani vicini alle località montane.
Da questo punto di vista le destinazioni alpine italiane hanno probabilmente un vantaggio competitivo in quanto sono in grado di abbinare al soggiorno sulla neve, o nei boschi e sulle vette, una serie di altre attività e di interessi sempre più ricercati: le risorse culturali e artistiche, le tradizioni folkloriche, l’arte culinaria, lo shopping di moda (Bätzing, Perlik 1995). Tutti questi elementi, tra l’altro, non sono fruibili esclusivamente d’inverno o solo d’estate, ma sono disponibili in ogni stagione al pari dei centri benessere.
La presenza di turisti sempre più esperti ed esigenti ha portato ad arricchire l’offerta tradizionale della montagna. Se d’inverno ad attrarre i turisti non sono più semplicemente impianti tecnologicamente avanzati e di grande portata che rendono possibile l’accesso ad aree sciabili estremamente vaste e variegate, ma anche l’opportunità di fruire di attività e servizi sia sportivi sia ricreativi che si pongano come complementari o alternativi alla pratica dello sci, diventa indispensabile disporre in ogni stagione di elementi attrattivi particolarmente diversificati. Tutti coloro che intendono godere della montagna cercano accanto alle bellezze ambientali nuove esperienze e nuovi stimoli che possono concretizzarsi in proposte di vacanza alternative rispetto ai canoni tradizionali di un soggiorno in montagna, comprendenti attività sportive, itinerari enogastronomici, eventi culturali (Alpi e turismo, 2006).
Ecco dunque la nuova frontiera del turismo nelle regioni alpine: quella della multistagionalità legata, oltre che alla sempre più diffusa percezione di una particolare godibilità della montagna nella stagione autunnale, anche all’organizzazione di eventi congressuali concentrati nella stagione primaverile in termini tali da poter rendere fruibili le infrastrutture ricettive e di compendio in tutte le stagioni con evidenti ritorni di natura economica. Tutto ciò comporta tuttavia la presa di coscienza dei possibili rischi connessi con un’eccessiva antropizzazione della montagna capace di produrre evidenti squilibri dal punto di vista ecologico e un incremento dell’entropia.
Ciò è particolarmente evidente nei periodi di massima presenza turistica (Bätzing 2005, pp. 219-231; Bartaletti 2006). Pertanto, i responsabili delle politiche turistiche, unitamente agli operatori economici del settore, devono sapersi muovere con consapevolezza e cautela, perché il compito di chi opera in un’area così fragile come la montagna è quello di coniugare uno sviluppo controllato del turismo, divenuto ormai elemento portante dell’economia di numerose aree alpine, con le esigenze di salvaguardia del territorio. La risorsa più importante delle destinazioni turistiche alpine è costituita dall’ambiente ed è principalmente per godere di esso che i turisti le raggiungono. È convinzione di molti analisti che, di fronte alla sfida dei cambiamenti climatici – che potrebbero generare mutamenti anche sensibili nell’alternarsi delle stagioni – riusciranno a sopravvivere solo quelle località turistiche che sapranno considerare la natura e il paesaggio il loro principale ‘capitale’.
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