Il valore del lavoro e la disciplina del licenziamento illegittimo
Il saggio ripercorre le vicende che hanno interessato la nuova disciplina del licenziamento illegittimo introdotta con il Jobs Act (d.lgs. 4.3.2015, n. 23) con il contratto a tutele crescenti, dalle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1 sollevate dal tribunale di Roma alla recente sentenza della Consulta, 8.11.2018, n. 194. L’autore colloca la questione entro l’orizzonte assiologico del diritto del lavoro ed evidenzia come la Corte costituzionale abbia ripercorso in modo esemplare i valori di tutela del lavoratore giungendo a ritenere illegittima la norma in questione nella parte in cui identifica l’indennità nella misura pari a due mensilità dell’ultima retribuzione per ogni anno di servizio.
In un saggio del 1960, Carl Schmitt concludeva le sue «riflessioni di un giurista sulla filosofia dei valori» invocando l’idea necessaria della «mediazione» tramite regole legislative «minime e applicabili» per impedire «il terrore dell’attuazione immediata e automatica dei valori» nel sistema giuridico: era il suo modo di reagire all’attitudine della Corte Costituzionale tedesca impegnata, dopo la catastrofe del nazionalsocialismo, a difendere norme e diritti fondamentali attraverso il riferimento ad un ordine ideale di valori. Quel “criptogiusnaturalismo”, come lo definì Stefano Rodotà, appariva insopportabile a chi, come a Schmitt e al suo allievo Ernst Forsthoff, guardava con preoccupazione al termine “sociale” presente negli artt. 20 e 28 della Costituzione di Bonn, pretendendo di confinare la logica del valore in quella che si assumeva essere la sua sfera originaria, vale a dire nel campo dell’economia. È qui, scrive Schmitt, che una logica del valore trova la sua collocazione, attuandosi in un ambito razionale di giustizia commutativa, mentre la logica extraeconomica del valore degenera non appena abbandona l’ambito a lei pertinente dell’economico per valorizzare e convertire in valori beni, interessi, scopi e idee differenti da quelli economici1. La critica dei valori è uscita perdente nell’interpretazione delle Carte costituzionali di matrice sociale, le quali rappresentano la formalizzazione normativa di valori culturali, etici, morali, ordinati in un sistema per poi tradursi in concetti giuridici strumentali alla loro concretizzazione. Tuttavia, negli ultimi lustri, un processo che è stato definito di “de-costituzionalizzazione”2 ad opera di una potente razionalità economica ha oscurato l’autorità assiologica del punto di vista giuridico, imponendo una riduzione dei diritti sociali in tutti i sistemi giuridici europei. Questa temibile decostituzionalizzazione suggerisce le preoccupazioni di una nuova “tirannia dei valori”, questa volta economici, di cui è emblematica la revisione della disciplina dei licenziamenti illegittimi introdotta dall’art. 3, co. 1, del d.lgs. 4.3.2015, n. 23. L’effetto della riforma è stato quello di un vero e proprio «mutamento di paradigma»3. Nel nuovo sistema rimediale del contratto a tutele crescenti la tutela ripristinatoria è sostanzialmente azzerata, fatti salvi i casi del licenziamento discriminatorio o nullo per espressa previsione legislativa, a favore di una tutela indennitaria predeterminata e “crescente” in ragione del solo criterio dell’anzianità, di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità4. Inoltre, grazie al nuovo istituto dell’offerta di conciliazione, il datore di lavoro è legittimato a proporre al lavoratore un importo di ammontare pari ad una mensilità di retribuzione per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità, mediante consegna di un assegno circolare. Il Jobs Act attua quindi un vero e proprio rovesciamento dello schema rimediale offerto dalla tutela in forma specifica (art. 18 st. lav. nella sua originaria versione), di cui la Cassazione a sezioni unite aveva più volte sottolineato la coerenza sistematica sia con i principi generali dell’ordinamento, sia con il diritto del prestatore al posto di lavoro, tutelato dagli artt. 1, 4 e 35 Cost; diritto che, venendo in rilievo situazioni soggettive a contenuto personale e non soltanto patrimoniale5, «subirebbe una sostanziale espropriazione se ridotto in via di regola al diritto ad una somma»6. Al di là delle molteplici questioni tecnico-giuridiche che la riforma propone all’interprete, non v’è dubbio che il nuovo assetto regolativo sollevi in apicibus un generale interrogativo sul rapporto tra valori e sistema del diritto del lavoro, di cui si sottolinea, non a caso, la “relatività storica”7: sistema il cui fondamento assiologico è parso vacillare sotto i colpi di una razionalità economica refrattaria ai vincoli dell’art. 18 st. lav. (pur nella versione attenuata dalla l. Fornero) e, soprattutto, al ruolo del giudice come protagonista delle vicende rimediali, in una logica che, se non attua una vera e propria “de-costituzionalizzazione” dei principi lavoristici di tutela del lavoro, di sicuro tende a riequilibrare i rapporti di forza a favore dell’impresa e del suo corredo valoriale. Il “cambiamento di paradigma” attuato con il Jobs Act presuppone infatti un diverso equilibrio tra i valori che animano il diritto del lavoro. Da un ragionevole bilanciamento tra il rispetto del lavoratore e della sua dignità da un lato, e l’iniziativa economica privata dall’altro, il sistema slitta verso una concezione puramente economicistica del lavoro, il quale assume una forma “reificata”8, depositaria non solo di un valore di scambio (oltre che di uso) ma anche di un valore monetario, calcolabile ex ante e associabile all’atto di “separazione” costituito dal licenziamento illegittimo. Il principio di tutela del lavoro come bene primario della persona e della sua dignità si offusca, e la disciplina del licenziamento ingiustificato diventa icona della pura e semplice trasposizione monetaria di un bene (il lavoro) di per sé irriducibile ad una valorizzazione economica “standard” in quanto diretta espressione della persona umana e delle sue prerogative di rango costituzionale. È come se in questa materia – così centrale nella regolazione sociale e giuridica del lavoro – si stesse perdendo quel nesso fondativo tra valore e dignità proprio dell’homo noumenon kantiano, e il lavoro, colto nell’atto della sua disponibilità a basso costo nel paradigma economicistico dell’impresa e del mercato, avesse smarrito il proprio suum di “bene finale”, che chiede di realizzarsi attraverso un’azione non già strumentale alla sua valorizzazione economica ma “razionale rispetto al valore”. Eppure, in questo problematico scenario, su cui si innestano prospettive nuove e rinnovate strategie di politica del diritto per lo sviluppo della «buona occupazione»9, la Costituzione continua a rappresentare, in uno con le disposizioni sovranazionali ed internazionali (Carta dei diritti fondamentali UE, Carta sociale europea10) l’estrema funzione di un «Terzo»11 capace di garantire i valori che la reciprocità del consenso contrattuale assume nel diritto del lavoro, in una temperie in cui quella reciprocità di affidamento sempre più facilmente può essere violata dalla parte forte del rapporto. Questi principi irriducibili di giustizia sostanziale il Jobs Act ha vulnerato, non solo introducendo una logica di pura valorizzazione economica del bene-lavoro, ma riconoscendo al lavoratore licenziato il diritto ad un ristoro assai modesto, predeterminato nei minimi e nei massimi, non modulabile in ragione delle circostanze del caso da parte di una funzione giudiziaria mutilata tanto nella scelta dei rimedi applicabili quanto nella quantificazione del danno. È evidente come un siffatto congegno rimediale non sia riconducibile alla categoria civilistica della tutela per equivalente monetario, ed appare addirittura recessivo rispetto a quanto predicato dalla Law&Economics sulla cd. “rottura efficiente del contratto”, posto che la dottrina gius-economica postula pur sempre un assetto risarcitorio tale da soddisfare pienamente la parte che subisce la violazione12. In termini civilistici la preferenza generalmente accordata al risarcimento per equivalente rispetto alla tutela in forma specifica si fonda invero sulla maggiore idoneità di tale tipologia di ristoro a riparare integralmente il danno, atteso che laddove il responsabile venga condannato al ripristino della situazione quo ante, non si elimina l’intera perdita di utilità subita dalla vittima nel lasso temporale fra l’evento di danno e la riparazione, onde tale perdita non può essere ristorata se non per equivalente, attraverso una monetizzazione del pregiudizio subito sotto forma di danno emergente e del lucro cessante. In tal prospettiva «il risarcimento per equivalente, anziché presentarsi come un minus, come un sostitutivo legale, come rimedio sussidiario della reintegrazione in forma specifica, è in realtà il modello funzionalmente più adatto ad eliminare gli effetti dell’evento dannoso»13. Ne consegue che non può qualificarsi come tutela per equivalente (ove l’equivalenza deve riguardare una somma congruente a risarcire l’ingiusta perdita del bene-posto di lavoro) l’indennità “crescente” ma rigidamente predeterminata prevista dall’art. 3, co.1, la cui misura è parsa inadeguata allo stesso Parlamento, il quale, nel parere approvato dalla Commissione Lavoro, chiedeva al Governo di provvedere a «incrementare la misura minima e massima delle indennità dovute in caso di licenziamento per giustificato motivo o giusta causa»14. La tesi qui sostenuta trova conforto anche nell’orientamento del Comitato europeo dei diritti sociali. La limitazione legale massima della misura dell’indennità risarcitoria nell’ordine di 24 mesi di retribuzione prevista da una legge finlandese è stata giudicata una compensation insufficiente dal Comitato, che ne ha sancito la contrarietà all’art. 24 della Carta sociale europea in quanto inadeguato «to make good the loss and damage suffered»15. In sostanza, ogni limite massimo che precluda il risarcimento del danno commisurato alla perdita subita, facendo perdere alla misura rimediale anche il necessario carattere sufficientemente dissuasivo, viola la Carta sociale europea. Il lavoratore subordinato assunto con contratto a tutele crescenti che perde ingiustamente il posto di lavoro non ottiene quindi né un risarcimento in forma specifica né un vero e proprio risarcimento per equivalente, bensì un tertium genus di ristoro, deteriore rispetto ai principi civilistici generali.
Questione di legittimità costituzionale In questo problematico scenario evolutivo, la possibilità di riaffermare il principio costituzionale di tutela del lavoro non poteva che affidarsi alla questione di legittimità della norma del Jobs Act che aveva sancito, nei termini sopra riassunti, il cambiamento di disciplina del licenziamento illegittimo. La questione è stata sollevata dall’Ordinanza del Tribunale di Roma del 26.7.2017, non sotto il profilo della idoneità della tutela indennitaria a fungere da rimedio costituzionalmente coerente con i principi di garanzia del diritto al lavoro previsto dagli artt. 4 e 35 Cost16, bensì sotto quello della consistenza e adeguatezza della posta economica destinata a surrogare il risarcimento del danno in forma specifica, divenuto tutela residuale da applicare in rari casi di eccezionale gravità; posta economica che, a parere del Tribunale capitolino, «avrebbe dovuto essere ben più consistente ed adeguata», come richiesto dalla Consulta (C. cost., 26.5.2005, n. 199 e C. cost., 22.11.1991, n. 420), richiamata dall’Ordinanza. La linearità del discorso condotto nell’Ordinanza ha quindi il pregio di semplificare la ridda di questioni, pur sollevate nella motivazione a supporto dell’argomento principale, in merito al sospetto di incostituzionalità delle norme, riducendo ad una questione meramente “quantitativa” il vincolo costituzionale di tutela del lavoro cui lo stesso legislatore ordinario è astretto per vincere la propria «miopia o la propria akrasia»17. Il sospetto di incostituzionalità ruotava attorno a tre parametri di giudizio: l’art. 3 Cost., con riferimento all’importo dell’indennità risarcitoria, che non riveste carattere compensativo né dissuasivo e oblitera la discrezionalità valutativa del giudice finendo per disciplinare in modo uniforme casi molto dissimili fra loro; l’art. 4 e l’art. 35 Cost., in quanto al diritto del lavoro viene attribuito un controvalore monetario irrisorio e fisso; l’art. 117 Cost. e l’art. 76 Cost., perché la sanzione appare inadeguata rispetto a quanto previsto dalle fonti sovranazionali ed internazionali quali la Carta di Nizza e la Carta sociale europea, con violazione dei criteri di delega che predicavano il rispetto della regolamentazione comunitaria e delle convenzioni internazionali. Secondo il giudice rimettente la previsione di un’indennità modesta, fissa e crescente solo in ragione dell’indennità di servizio non solo non ha carattere realmente compensativo, ma viola il principio di eguaglianza fra vecchi e nuovi assunti, obliterando il necessario bilanciamento di interessi imposto dal giudizio di ragionevolezza. La previsione indennitaria, inoltre, in quanto misura anche sanzionatoria (oltre che compensativo-riparatoria) non avrebbe una consistenza tale da renderla dissuasiva, anzi solleciterebbe un comportamento opportunistico del datore di lavoro free rider che, come attore “razionale”, massimizza, cumulandoli indebitamente, i vantaggi economici derivanti dagli incentivi pubblici alle assunzioni (lo sgravio decontributivo per 36 mesi previsto dalla l. 23.12.2014, n. 190) e quelli derivanti dalla “licenza” legislativa di recedere a costi assai modesti. Secondo il Tribunale la previsione dell’indennità in esame «non costituisce adeguato ristoro per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 e ingiustamente licenziati e viola il principio di uguaglianza». A supporto di un tale assunto il Giudicante invoca il test di bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco imposto dal principio di ragionevolezza. La motivazione si arricchisce di una pluralità di argomenti, al centro dei quali campeggia la suggestiva immagine di un legislatore il quale, invece di costringere l’impresa ad un comportamento virtuoso e socialmente responsabile, incoraggia prassi sleali di dumping sociale e di free-riding, offrendo al datore di lavoro una disciplina del licenziamento illegittimo che si traduce in un “affare” piuttosto che uno schema normativo connotato dai necessari elementi di dissuasione. Il paradosso delle tutele crescenti sta infatti in ciò, che il licenziamento, a prescindere dalla perdurante valutazione alla luce dei criteri di giustificazione imposti dall’art. 3 l. 15.7.1966, n. 604, si risolve comunque in un eccessivo vantaggio per l’impresa e in un altrettanto eccessivo svantaggio per il prestatore, laddove, al contrario, una disciplina realmente frutto di un equo contemperamento degli interessi e rispettosa del principio di proporzionalità dovrebbe indurre il datore ad un comportamento di apprezzamento della sussistenza di effettive ragioni, in assenza delle quali il recesso ingiustificato, lungi dal rappresentare un “affare”, espone l’impresa ad una sanzione il cui peso soddisfa quel test di ragionevolezza giustamente invocato dal Tribunale. Utilizzando la teoria dei giochi si potrebbe dire che il meccanismo rimediale in esame non solo non vincola l’imprenditore a compiere una scelta dettata da preferenze “morali”, ma al contrario suggerisce una strategia razionale di “abuso di autorità” (guidato dal comportamento opportunistico dell’homo oeconomicus) che si realizzerà tutte le volte in cui il valore atteso dell’investimento in capitale umano del lavoratore sarà superiore al risarcimento massimo18. E il giudizio finale non può che essere negativo, come argomenta il Tribunale richiamando la lettura in termini di contenuto “assicurativo” del rapporto di lavoro cui corrisponde la “soglia” al di sotto della quale la perdita attesa dalla prosecuzione del rapporto «rientra nel rischio posto a carico dell’impresa». Rischio che viene talmente ridotto, a vantaggio dell’impresa, al punto da mettere in questione l’effettiva utilità euristica non solo dello schema assicurativo per spiegare la natura del rapporto di lavoro, ma dello stesso contratto di lavoro come dispositivo capace di realizzare in termini ragionevoli e socialmente adeguati lo scambio tra sicurezza e subordinazione che ha caratterizzato la storia del diritto del lavoro19: crisi, o addirittura “collasso del contratto” aggredito da “forze di mercato anomiche e non normative” che ne hanno depredato in radice la natura assicurativa20, e di cui, bon gré, mal gré il Jobs Act si è fatto interprete. Le conseguenze del nuovo assetto normativo, sulla cui eventuale giustificazione finalistica (in termini di crescita occupazionale) l’Ordinanza del Tribunale di Roma spende qualche sferzante riga che introduce nel discorso giudiziario elementi di valutazione statistica sulle dinamiche del mercato del lavoro da tempo riecheggianti nello stesso dibattito scientifico21, non possono che essere – seguendo il filo logico del Giudicante – «discriminatorie in pregiudizio dei neossunti», per i quali il risarcimento minimo si riduce a un terzo di quello vigente per i lavoratori assunti prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo22. Neppure l’argomento teleologico invocato da una parte della dottrina per giustificare la razionalità/costituzionalità della riforma supera, agli occhi del Tribunale un test di ragionevolezza23; e su ciò non si poteva che convenire, non solo in base alla succitata critica, condotta sul filo di pur incerte e discutibili fonti statistiche, circa l’effettività di una normativa che, lungi dal produrre incrementi occupazionali stabili, sembra piuttosto ripercorrere i più retrivi percorsi di una flessibilità numerica incondizionata; non solo per l’insostenibile riproposizione di una frusta equazione, smentita dai fatti e dalla stessa analisi “scientifica” che ne aveva sventolato impropriamente le presunte virtù, tra riduzione della job employment protection e l’incremento dell’occupazione; ma anche, e soprattutto, perché un simile argomento era stato già impiegato e speso dal legislatore della riforma Fornero, il quale, all’art. 1, indicava le medesime finalità di «creazione di occupazione, in quantità e qualità» e di «riduzione permanente del tasso di disoccupazione» che il Jobs Act ha fedelmente riproposto. Orbene, se già il legislatore del 2012 aveva giustificato un intervento parzialmente demolitorio dell’art. 18 st. lav. invocando motivazioni di ordine sociale legate alla crescita dell’occupazione, realizzando in materia di licenziamento illegittimo un punto di equilibrio tra le ragioni dell’impresa e la tutela del lavoro assai più avanzato rispetto a quello decretato dal Jobs Act, quale ragionevole giustificazione occupazionale può accampare il legislatore del 2015 per modificare quell’assetto, derogandolo vistosamente in peius a detrimento dei lavoratori? È ragionevole sostenere che una nuova “riforma” si giustifichi in virtù degli stessi argomenti palesemente spuntati ed inefficaci che la precedente riforma ha già brandito senza successo?24 Non si apre in questo modo la strada verso una inevitabile race to the bottom (de)regolativa che in nome di un illusorio “diritto al lavoro” produce di fatto lo smantellamento progressivo e sistematico delle tutele in materia di licenziamenti? Se questa è la “cultura” che informa il legislatore sempre più disponibile a porre condizioni normative per «un futuro iniquo ed inefficiente» del sistema imprenditoriale italiano25, è bene ricordare, con le parole di un costituzionalista americano, che «la funzione delle norme costituzionali dovrebbe essere quella di contrastare gli aspetti della cultura e della tradizione che hanno più probabilità di produrre conseguenze dannose attraverso il processo politico ordinario di quello stesso paese»26.
I vari profili censurati dall’Ordinanza di rimessione sono stati vagliati dalla Corte costituzionale con la sent. 8.11.2018, n. 194. La Corte ha affrontato anzitutto la prima delle questioni sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., secondo cui l’art. 3, co. 1, violerebbe il principio di eguaglianza tutelando i lavoratori assunti a decorrere dal 7.3.2015 in modo ingiustificatamente deteriore rispetto a quelli assunti, anche nella stessa azienda, prima di tale data, dichiarando la questione non fondata. Il ragionamento della Corte si basa su due postulati, strettamente correlati dal punto di vista logico-sistematico: il primo riguarda l’affermazione, più volte espressa dalla Consulta, secondo cui il «fluire del tempo» può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche, spettando alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme; il secondo postulato attiene alla giustificazione teleologica della norma, vale a dire lo «scopo» perseguito dal legislatore di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (alinea dell’art. 1, co. 7 l. 10.12.2014, n. 183). In sostanza, la disparità di trattamento in ragione del fluire del tempo, che non rappresenta in sé e per sé un valido criterio di differenziazione dei trattamenti essendo il legislatore comunque vincolato al rispetto del principio di ragionevolezza, nel caso di specie appare alla Corte giustificata nella misura in cui la modulazione temporale introdotta appare coerente con lo scopo divisato dalla legge, e quindi rispettosa del canone della ragionevolezza. Eppure è proprio il canone della ragionevolezza che richiede, a sua volta, un controllo di congruità finalistica della legge, ossia una verifica dell’adeguatezza dei mezzi allo scopo perseguito dal legislatore. Questo tipo di controllo, tuttavia, non viene affatto contemplato nel ragionamento della Corte, la quale, sul punto, afferma che non spetta alla Corte stessa «addentrarsi in valutazioni sui risultati che la politica occupazionale perseguita dal legislatore può aver conseguito». La questione, posta in questi termini, è assai delicata, poiché coinvolge sia la appropriatezza del richiamo ai precedenti sul «fluire del tempo», sia al rispetto del canone di ragionevolezza intesa come congruenza tra i mezzi adottati (la riduzione delle tutele) e i fini divisati (l’aumento dell’occupazione). Sotto il primo profilo vale rilevare che la differenziazione realizzata dalla norma non attiene alla stessa fattispecie riguardata in momenti diversi del tempo, ma alla medesima fattispecie che nello stesso momento del tempo viene trattata diversamente in ragione della data di assunzione, ossia – come si è espresso il giudice rimettente –, sulla base di un «dato accidentale ed estrinseco a ciascun rapporto che in nulla è idoneo a differenziare un rapporto da un altro a parità di ogni profilo sostanziale». Siamo quindi «al di fuori di una normale successione nel tempo di leggi che regolano la medesima fattispecie, dove la posteriore abroga quella precedente, ma si è in presenza della contemporanea esistenza di norme relative a casi uguali»27. Ma non basta, perché la differenza di disciplina in tempi diversi presuppone comunque una diversità sostanziale nelle situazioni di fatto concretamente regolate, tali da fondare ragioni di differenziazione dei trattamenti basate su elementi apprezzabili sotto il profilo oggettivo, quali ad esempio la dimensione dell’impresa, o la peculiarità della qualifica rivestita dal prestatore, come nel caso dei dirigenti, ragioni certamente non ravvisabili nella data di costituzione del rapporto28. Tale assunto deriva de plano dall’analisi della stessa giurisprudenza costituzionale in materia di disciplina del recesso, laddove la Corte ha avuto modo di affermare a più riprese che «ove siano previsti i casi, tempi e modi dei licenziamenti, la disciplina per essere conforme a Costituzione deve rispecchiare l’esigenza di un trattamento eguale per situazioni eguali ed in relazione ad esse può essere diversificato solo per giustificate ragioni» (C. cost., 7.7.1986, n. 176); onde la minor protezione di alcuni lavoratori non trova alcuna giustificata ragione considerata l’identica situazione di fatto dei prestatori assunti prima o dopo il 7.3.2015 alle dipendenze del medesimo datore di lavoro29. Ancor più problematica appare la questione relativa al rispetto del canone di ragionevolezza con riferimento alla ragione giustificatrice della norma, vale a dire lo “scopo occupazionale”. Secondo la Corte il regime temporale di applicazione del d.lgs. n. 23/2015 si rivela “coerente” con tale scopo: poiché l’introduzione di tutele certe e più attenuate in caso di licenziamento illegittimo è diretta ad incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, appare “coerente” limitare l’applicazione delle stesse tutele ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore, quelli cioè la cui assunzione avrebbe potuto essere favorita. La Corte si è limitata evidentemente ad un controllo di ragionevolezza assai modesto, relativo al primo gradino del test di proporzionalità consistente nella mera “coerenza”, intesa come assenza di contraddizione nel discorso legislativo: la coerenza riguarda infatti i rapporti tra le parti del discorso, e ha di mira le connessione logiche (non quelle causali) tra gli enunciati di un atto legislativo, risolvendosi in una forma di controllo «per linee interne»30, che non mette in discussione le scelte legislative e, soprattutto, non coinvolge i successivi passaggi argomentativi con cui si valuta la congruenza, l’adeguatezza e la proporzione della disciplina impugnata rispetto alla sua ratio, accertando cioè se le scelte compiute dal legislatore si collochino entro un quadro di armonica compatibilità con le opzioni di valore costituzionalmente rilevanti. La scelta della Corte di non addentrarsi su questi sentieri del controllo di ragionevolezza potrebbe essere giustificata in ragione del fatto che l’Ordinanza di rimessione non solleva la questione relativa alla congruenza causale della norma rispetto allo scopo di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione»: questione sollevata dalla lavoratrice licenziata nel proprio atto di costituzione in giudizio, ma non sollevata dal giudice rimettente, e perciò giudicata dalla Corte inammissibile (p. 4). Sennonché è la Corte stessa ad evocare il canone della ragionevolezza come strumento idoneo a giustificare la discrezionalità del legislatore nella scelta di modulare temporalmente l’applicazione del d.lgs. n. 23/2015, onde si può sostenere che con quel richiamo la Corte si sia autovincolata a percorrere fino in fondo il relativo controllo di razionalità/ragionevolezza. Nella fattispecie in esame – in cui, lo ripetiamo, la questione della costituzionalità della norma si gioca interamente sul profilo del rispetto della ragionevolezza e non solo su quello dell’idoneità differenziante del «fluire del tempo», che altrimenti sarebbe stato giudicato dalla Corte come un criterio sufficiente ed assorbente per escludere il contrasto con l’art. 3 Cost. – il considerare automaticamente scevra da profili di incostituzionalità una norma, teleologicamente orientata all’incremento dell’occupazione, che incide significativamente sulle tutele in materia di licenziamento, senza completare il controllo di ragionevolezza nei suoi gradi successivi, sembra trascurare proprio quella esigenza di verifica della razionalità strumentale e di giustizia-equità che la Corte stessa, richiamando il canone della ragionevolezza, implicitamente evoca. La Corte tuttavia evita di attuare quel controllo per verificare l’adeguatezza strumentale del mezzo legislativamente prescelto rispetto al fine da realizzare, e tale scelta, peraltro, non appare motivata. E allora sorge la domanda: se per la Corte la norma, per essere giudicata costituzionalmente legittima, deve rispettare il «canone della ragionevolezza», perché il controllo circa il rispetto di tale canone dovrebbe limitarsi alla sua dimensione meramente “logicodiscorsiva”, e non interessare invece anche i profili causali del rapporto strumentale mezzi/fini e finanche quelli di proporzionalità e del bilanciamento di interessi? Il giudizio di efficienza strumentale della norma non è certo assente nella sistematica del sindacato di ragionevolezza della legge: è sufficiente ricordare che la Corte costituzionale ha espressamente statuito che il riscontro di congruità dei mezzi rispetto ai fini rappresenta una possibile esplicazione delle verifiche di ragionevolezza della legge (C. cost., 18.7.1998, n. 239/1998) e che può rilevare anche sotto il profilo dell’eccesso di potere legislativo (C. cost., 7.5.1996, n. 146). In tal prospettiva l’asse del giudizio di ragionevolezza coinvolge l’impiego di dati extranormativi, quali le conoscenze tecnicoscientifiche, i modelli statistici e i riscontri di tipo fattuale, utilizzabili per valutare la “pertinenza” intesa quale giudizio di idoneità sul piano tecnico della strumentazione apprestata per il conseguimento del fine, e la “congruenza” intesa quale valutazione della norma alla luce dei principi sistematici per verificare se la legge sia in rapporto logico con il telos che la giustificherebbe come ragionevole31. Nel caso in esame, che riguardava in fondo la razionalità di una norma che “scommette” sulla crescita dell’occupazione attraverso un profondo mutamento in peius delle tutele in una materia così sensibile com’è quella del licenziamento illegittimo, entrambi questi elementi di giudizio (pertinenza e congruenza) avrebbero potuto essere mobilitati dalla Corte. Se infatti si può ammettere sul piano meramente logico che la finalità occupazionale giustifichi un deterioramento delle tutele per i lavoratori in cerca di impiego, non si può invece ammettere a priori, sul piano causale, che quelle misure, incidenti in maniera rilevante su diritti collegati a valori fondamentali della Costituzione, realizzino il fine sperato. Quantomeno, quelle norme, per rispettare il canone della ragionevolezza, dovrebbero poter essere valutate nella loro effettività.
Ma non basta, perché secondo un ancor più esigente svolgimento del controllo di ragionevolezza, la norma in oggetto dovrebbe essere sottoposta ad un più articolato test di proporzionalità, per apprezzarne tutte le sfaccettature, compresa la necessità e la proporzionalità in senso stretto, e verificare se la misura legislativa, tra i vari possibili strumenti impiegabili per raggiungere l’obiettivo di crescita occupazionale, sia quella meno restrittiva dei diritti posti a confronto, o che stabilisca oneri proporzionati rispetto al perseguimento dei suoi obiettivi32. Un esempio di questo modo di applicare il principio di ragionevolezza-proporzionalità può essere offerto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Nel caso Mangold, affrontando la questione di legittimità, rispetto all’ordinamento europeo, della disciplina tedesca avente lo scopo di favorire l’inserimento professionale dei lavoratori anziani disoccupati, la Corte di giustizia ha proceduto a verificare «se gli strumenti attuati per realizzare tale legittimo obiettivo siano ‘appropriati e necessari’ a tal fine». Secondo la Corte, nonostante gli Stati membri dispongano di un ampio margine di valutazione discrezionale nella scelta delle misure atte a realizzare i loro obiettivi in materia di politica sociale e di occupazione, «una siffatta normativa, nella misura in cui considera l’età del lavoratore di cui trattasi come unico criterio di applicazione di un contratto di lavoro a tempo determinato, senza che sia stato dimostrato che la fissazione di un limite di età, in quanto tale, indipendentemente da ogni altra considerazione legata alla struttura del mercato del lavoro di cui trattasi e dalla situazione personale dell’interessato, sia obiettivamente necessaria per la realizzazione dell’obiettivo dell’inserimento professionale dei lavoratori anziani in disoccupazione, deve considerarsi eccedente quanto è appropriato e necessario per raggiungere la finalità perseguita». Secondo la Corte «il rispetto del principio di proporzionalità richiede infatti che qualsiasi deroga ad un diritto individuale prescriva di conciliare, per quanto possibile, il principio di parità di trattamento con l’esigenza del fine perseguito (v., in questo senso, sentenza 19 marzo 2002, causa C 476/99, Lommers, Racc. pag. I 2891, punto 39)». Di conseguenza, «una siffatta normativa nazionale non può giustificarsi ai sensi dell’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78»33. Non v’è dubbio quindi che, nel caso di specie, la Corte avrebbe potuto essere più esigente nel suo controllo di ragionevolezza, e – specie considerando i valori in gioco – spingere più a fondo il vaglio di ragionevolezza alla luce di tutti parametri della proporzionalità. Del resto, laddove le norme di legge si pongono fini di crescita occupazionale, vale a dire un risultato pratico coerente con la direttiva dell’art. 4 Cost., la rispondenza della legge con il fine costituzionalmente prescritto può rendere necessaria la comparazione tra i risultati effettivi della legge e quelli che essa avrebbe dovuto in astratto realizzare. Un giudizio più approfondito del mezzo si impone, inoltre, quando si tratta di definire i livelli minimi di garanzia di diritti inviolabili garantiti dalla Costituzione, in tal caso la Corte dovrebbe verificare non solo la palese uniformità del mezzo, ma anche «accertare la concreta, effettiva efficienza strumentale, ad esito anche di indagini penetranti»34. In questi casi, in sede di controllo di ragionevolezza può venire in rilievo anche il contrasto della legge con regole di esperienza o con la realtà naturale empiricamente considerata, con dati statistici che consentono di portare alla luce la norma nella sua concreta applicazione e i suoi effetti pratici nei contesti reali di implementazione. Se l’art. 3, co. 1, fosse stato vagliato alla luce di questi canoni di razionalità strumentale, sarebbe emersa l’irragionevolezza di un disposto che non trova alcuna razionale giustificazione nel registro del discorso scientifico ed empirico, posto che nessuna correlazione positiva tra riduzione delle tutele e incremento dell’occupazione è mai stata validata nella letteratura giuridica ed economica35. Al contrario, esaminando i dati Istat sull’andamento dell’occupazione, si evincerebbe chiaramente che il contratto a tutele crescenti non ha affatto prodotto gli effetti occupazionali sperati: esaurito il fuoco di paglia acceso dagli sgravi contributivi che hanno incrementato artificialmente le assunzioni a tempo indeterminato, si è infatti assistito ad un continuo, preponderante impiego dei contratti a tempo determinato, ciò che «mette in discussione la stessa finalità della legge e la razionalità della riforma peggiorativa introdotta»36. Non convincente appare quindi l’affermazione della Corte, che suona come una excusatio non petita, secondo la quale non spetta ad essa di addentrarsi in valutazioni sui risultati conseguiti dalla politica occupazione perseguita dal legislatore, in quanto, al contrario, se la Corte non si fosse limitata ad un giudizio di mera coerenza, il test di ragionevolezza avrebbe probabilmente fornito un risultato negativo sia sotto profilo della congruenza e adeguatezza causale37, sia sotto quello della proporzionalità. Resta insomma il motivato dubbio che la norma, nella sua struttura teleologica, non realizzi un equo contemperamento tra il diritto al lavoro e l’interesse dell’impresa, o – meglio – tra la tutela del posto di lavoro e l’interesse all’occupazione quale obiettivo di interesse generale che giustifica la riduzione delle tutele e la disparità di trattamento tra vecchi e nuovi assunti. Su questo crinale spinoso la Corte costituzionale non ha comunque inteso seguire il Consiglio costituzionale francese che ha invece, non senza sconcerto da parte della dottrina38, affermato con riguardo al sistema di predeterminazione dell’indennizzo ad opera della cd. legge Macron, che «garantire una maggiore certezza del diritto e favorire l’occupazione, eliminando gli ostacoli alle assunzioni» costituisce uno «tra gli obiettivi di interesse generale» che giustificano la riduzione delle tutele in materia di licenziamento illegittimo39.
Se il Consiglio costituzionale francese non ha esitato a ritenere che la “securizzazione” del recesso grazie alla previsione di un indennizzo plafonato che, in nome della certezza del diritto, sottrae il costo del licenziamento ad un controllo giurisdizionale troppo invasivo, la Corte costituzionale italiana ha assunto una diversa postura, che batte in breccia alcuni assiomi della Law&Economics così come penetrati nella disposizione dell’art. 3, co. 1, nella parte in cui prevede una tutela contro i licenziamenti ingiustificati rigida e predeterminata. Questa soluzione legislativa appare censurabile sotto molteplici profili, cui la Corte, nella parte in cui accoglie la questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, 4, co. 2, 35, co. 1, e 76 e 117, co. 1, Cost. – questi ultimi due articoli in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea – dedica alcune pagine di densa connotazione assiologica. Innanzitutto il meccanismo di quantificazione, non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio rende l’indennità una forma di «liquidazione legale forfetizzata e standardizzata», non incrementabile, essendo palese la volontà del legislatore di «predeterminare compiutamente le conseguenze del licenziamento illegittimo», in conformità al criterio direttivo della legge di delegazione consistente nel prevedere un indennizzo economico «certo». A giudizio della Corte, tale modello di tutela contrasta anzitutto «con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse (terzo dei profili di violazione dell’art. 3 Cost. prospettati dal rimettente)» (p. 11 della sentenza). Infatti, prosegue la Corte, è un dato di comune esperienza che il pregiudizio prodotto dal licenziamento ingiustificato dipende da una serie di fattori, di cui l’anzianità nel lavoro è solo uno dei tanti. Il richiamo all’art. 8 della l. n. 604/1966, che sembra fungere da tertium comparationis, è sufficiente alla Corte per giustificare l’assunto: quella norma consente infatti al giudice di determinare l’obbligazione indennitaria «avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’impresa, all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti». Del pari l’art. 18, co. 5, st. lav. prevede che l’indennità risarcitoria sia determinata dal giudice tra un minimo e un massimo di mensilità seguendo criteri analoghi, avuto riguardo anche alla «dimensione dell’attività economica». È chiaro quindi che il tertium offre un principio riconducibile ad una ratio unitaria, coerente ed espansibile ad altre fattispecie aventi la medesima ratio, onde «all’interno di un sistema equilibrato di tutele, bilanciato con i valori dell’impresa», la discrezionalità del giudice risponde «all’esigenza di personalizzazione del danno subita dal lavoratore, pure essa imposta dal principio di eguaglianza», mentre la previsione di una misura risarcitoria uniforme, «indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in un’indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono –, nell’esperienza concreta – diverse». È importante sottolineare che il principio di eguaglianza viene qui in rilievo in un duplice senso: sia in quanto situazioni accomunate da un’identica ratio (il “sistema” equilibrato di tutele richiamato dalla Corte) sono diversamente disciplinate, sia perché la norma in esame, realizzando un’indebita omologazione, si pone in contrasto con l’art. 3 Cost. nella misura in cui le diverse fattispecie concrete di licenziamento illegittimo vengono ingiustificatamente assimilate. Sotto il primo profilo l’art. 3, co. 1, viola il principio di eguaglianza perché dispone un trattamento differenziato rispetto a quanto il legislatore appresta in fattispecie che presentano i caratteri dell’analogia di condizione tra le categorie normative a raffronto (gli artt. 8 l. n. 604/1966 e 18, co. 5, st. lav.). Sotto il secondo profilo ciò che contrasta con il principio di eguaglianza è l’incapacità della norma di trattare in termini differenziati situazioni che richiedono una “personalizzazione” del danno. La norma sembra quindi qualificarsi nei termini dell’«irragionevolezza intrinseca», che può esimere la Corte dal riscontro di omogeneità preordinato all’impostazione di un giudizio comparativo. Il secondo profilo di illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, riguarda invece il contrasto della norma «con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell’idoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente» (quarto profilo di violazione dell’art. 3 Cost. prospettati dal rimettente). Diversamente dal punto precedente, in cui la lesione del principio di eguaglianza emerge dalla semplice applicazione dello schema logico delle omogeneità/eterogeneità delle situazioni poste a raffronto, la Corte procede ad un giudizio di ragionevolezza più complesso e compromesso con la logica assiologica, che si snoda attorno ai cardini tipici della proporzionalità sub specie di congruenza, pertinenza, adeguatezza, con cui il giudice delle leggi accerta se la misura del mezzo sia correttamente calibrata rispetto al fine, duplice, di una disciplina del licenziamento illegittimo: da un lato la capacità di ristorare adeguatamente il danno subito (funzione riparatorio-compensativa del danno sofferto), dall’altro la capacità dissuasiva nei confronti del datore di lavoro. Ma non basta, perché la Corte mobilita anche la tecnica del bilanciamento, giungendo ad affermare che il denunciato art. 3 co. 1 «non realizza un adeguato componimento degli interessi in gioco: la libertà dell’organizzazione dell’impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall’altro». Il bilanciamento è operato, come si vede, lungo i due assi valoriali su cui si fonda la materia del diritto del lavoro. La libertà di organizzazione dell’impresa, espressione della libertà di iniziativa economica privata (benché la Corte non richiami espressamente l’art. 41, co. 1, Cost.) non viene esercitata in modo proporzionale, nella misura in cui il diritto del lavoratore ad una tutela efficace viene eccessivamente compressa, al punto da risultare «incompatibile con il principio di ragionevolezza». Ciò che, come si è visto, la Corte non ha inteso fare nel vaglio della legittimità costituzionale della legge sotto il profilo della disparità di trattamento in ragione del «fluire del tempo», accontentandosi di applicare il più semplice criterio della coerenza rispetto allo scopo, viene invece apertamente dispiegato, in tutte le possibili direzioni della ragionevolezza, con riferimento al profilo della tutela rigida e inadeguata. E questa irragionevolezza, che è insieme incongruità e sbilanciamento, conduce la Corte, a sviluppare, nel punto successivo una serie di considerazioni relative al vulnus apportato dall’art. 3, co. 1, agli artt. 4, co.1 e 35, co. 1, Cost., che il giudice rimettente aveva in effetti prospettato come espressione del vizio, denunciato come principale, di violazione dell’art. 3 Cost. Qui la Corte sviluppa un ragionamento esemplare che, dal controllo di ragionevolezza attraverso la tecnica del bilanciamento si snoda lungo una linea argomentativa tesa ad abbracciare la razionalità praxeologica che guarda ai valori di giustizia sociale incardinati nelle norme che tutelano il lavoro come mezzo per realizzare un pieno sviluppo della personalità umana. Dopo molti anni, si respira in questi passaggi ermeneutici quel senso di ricchezza assiologica che solo l’orizzonte dei valori sociali, nel senso forte del termine, riesce ad evocare, e che il nichilismo giuridico della Law&Economics era riuscito ad inquinare. Il diritto al lavoro (art. 4 Cost.) e la tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (art. 35 Cost.) non sono solo espressioni della libertà individuale e dell’autodeterminazione del soggetto, ma fondano quella “libertà sociale” di cui oggi, a fronte di una economicizzazione crescente della società, si sente un pregnante bisogno40. Con un passaggio argomentativo di natura non interpretativa, ma fondata su giudizi di valore da cui trarre la regola di decisione in base alla ponderazione di principi costituzionali concorrenti, la Corte ci consegna, nella parte più importante della sentenza, l’esito pratico del suo giudizio, consistente – come meglio vedremo – nel ristabilire un meccanismo di quantificazione dell’indennità che attribuisce al giudice una discrezionalità valutativa mobilitante molteplici criteri per «garantire una calibrata modulazione del risarcimento dovuto, entro una soglia minima e massima». Cade quindi la pretesa del legislatore del Jobs Act di azzerare le prerogative della magistratura attraverso un mero filtro monetario pre-calcolabile, in nome di una logica di efficienza puramente economica che ambiva a far rivivere l’illusione settecentesca di «eliminare i difetti della giurisprudenza e di ridurre il compito del giudice ad un puro calcolo»41. Ma ciò che più importa sottolineare è la densità assiologica che viene dalla Corte espressa, descritta e valorizzata, con un modus procedendi che rilancia il pensare per valori come la vera frontiera – mobile, ma imprescindibile – del diritto del lavoro. I principi della Costituzione non consentono al giudice delle leggi di applicare regole di decisione secondo gli schemi del sillogismo giudiziario42. Il discorso si sviluppa quindi sull’asse dei valori sostanziali attraverso un operazione di bilanciamento, che muovendo dall’identificazione dei beni e valori costituzionali compromessi (il diritto al lavoro ex art. 4 Cost., la tutela del lavoro ex art. 35 Cost.) giunge ad una sistemazione equa e ragionevole degli interessi coinvolti nel giudizio. Del resto, la questione di legittimità costituzione era stata posta dal Tribunale rimettente proprio richiamando le norme costituzionali di tutela in cui il lavoro viene “valutato” quale strumento di realizzazione della persona e di emancipazione sociale ed economica, mentre il Jobs Act riduceva il valore del lavoro ad un montante economico predeterminato e di modesta entità, tale da produrre l’effetto di un «quasi ripristino di fatto della libertà assoluta di licenziamento». Fra le righe della motivazione del giudice romano emergeva una visione schiettamente antropologica del diritto del lavoro, che senza dubbio è matrice del “discorso” costituzionale sul lavoro43. È seppur sia vero che quei valori, e quegli stessi diritti, sono oggi sottoposti ad processo di rivisitazione critica, mobilitata dalle frange più potenti di quel motore del cambiamento anche valoriale che prende il nome di globalizzazione economica, e dal conseguente predominio di una logica di “mercato globale”44, l’architrave costituzionale che quei valori sottende, e sostiene, non è mutato. E a conferma del substrato assiologico in cui il diritto del lavoro è cresciuto e con cui tuttora convive, alle Costituzioni degli stati nazionali si sono aggiunte le Carte sovranazionali ed internazionali sui diritti fondamentali, le quali ripropongono, su scala meta-costituzionale, lo schema di una società che «si ‘fa legare’ nei momenti di assennatezza per evitare di morire di mano propria nei momenti di follia»45. In questo legarsi della società ad un diritto in cui le modalità giustificative istituzionalizzate nelle procedure giuridiche rimangono “aperte” nei confronti dei discorsi morali, trovano fondamento le argomentazioni della Corte sia con riferimento agli artt. 4 e 35 Cost., sia in relazione ai rilevanti principi metodologici (in primis quello di proporzionalità) che impongono, nello scontro tra scelte di valore, un bilanciamento tale per cui il diritto/interesse più sopraffattorio non finisca per sopprimere il diritto/interesse recessivo. È ciò che si traduce nel principio secondo il quale la compressione di un diritto o interesse costituzionalmente garantito non sia eccessiva rispetto alla misura del sacrificio costituzionalmente ammissibile, e comunque tale da annullarne il contenuto essenziale. Come dire che l’esiguità della indennità standardizzata e inadeguata prevista dall’art. 3, co. 1, è il frutto di una scelta legislativa manifestamente inidonea alla tutela del licenziamento illegittimo mediante un corretto bilanciamento tra gli interessi contrapposti dell’impresa e del lavoro, realizzando di fatto una compressione irragionevole di quest’ultimo termine a favore del primo. La Corte sposa questa prospettiva affermando che il principio costituzionale della tutela del lavoro, non può essere vulnerato da una previsione normativa che, riducendo a tal punto le tutele del licenziamento illegittimo nel punto focale della disciplina del rapporto, produce inevitabilmente a cascata, sul piano sistematico, l’indebolimento complessivo della posizione giuridica soggettiva del lavoratore, a partire dai principi fondamentali di libertà sindacale, politica e religiosa, sino alla rinuncia a una parte dei propri diritti in ragione del timore di subire il licenziamento. Come dire che l’irragionevolezza del legislatore, sub specie di mancata adozione delle precauzioni regolative imposte dalla caratura costituzionale del bene-lavoro in questione e dal mancato rispetto del principio di proporzionalità, non affligge solo la materia del licenziamento in sé, ma si rifrange, come in un gioco di specchi, lungo tutta la disciplina del rapporto, vulnerando il “principio lavoristico”46 e la concreta effettività dei diritti del lavoro sanciti dal legislatore costituzionale ed ordinario. In questo alto percorso valoriale, condotto dalla Corte con una sobrietà espositiva che fa aggio alla profondità assiologica in cui si muove il discorso, non poteva mancare il richiamo all’integrazione tra le fonti che, partendo dai principi costituzionali di tutela del lavoro, conduce all’art. 24 della Carta sociale europea, in una prospettiva “multilivello” delle tutele lavoristiche resa possibile grazie al “ponte” rappresentato degli artt. 76 Cost., in base al quale l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegata al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi per tempo limitato e per oggetti definiti47, e 117, co. 1, Cost., che vincola il legislatore al rispetto dell’ordinamento comunitario e dei trattati internazionali. La Carta, così come revisionata nel 1998, è stata ratificata dall’Italia il 5.7.1999 ed è entrata in vigore il 1.9.1999, con il valore di norma pattizia48. Alla luce delle modifiche introdotte dall’art. 117 Cost. le norme internazionali assumono la qualifica di norme interposte in un giudizio di legittimità costituzionale della norma interna antinomica, ponendosi in una posizione intermedia fra la norma costituzionale e la legge ordinaria di recepimento/ratifica. In tale prospettiva l’art. 3, co. 1, è stato giudicato come una norma antinomica rispetto all’art. 24 della Carta sociale e, di conseguenza, illegittima ai sensi degli artt. 11 e 117, co. 1, Cost., nella misura in cui viola il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo a ricevere «un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione». Sotteso a tale previsione è il principio di effettività della tutela, secondo il quale la sanzione per l’ingiusta perdita del diritto al posto di lavoro dev’essere adeguata, dispiegare efficacia dissuasiva, ed offrire altresì un ristoro integrale per il lavoratore. Lo stesso Comitato dell’ILO, nel «Protection against unjustified dismissal», interpretando l’art. 10 della Convenzione n. 158/1982 – norma cui l’art. 24 si ispira – ha avuto modo di affermare che laddove il preferibile rimedio della reintegrazione sia sostituito da forme di compensation, queste devono essere “adeguate”. Dal suo canto il Comitato europeo dei diritti sociali – di cui la Corte riconosce l’autorevolezza ancorché produca decisioni non vincolanti per i giudici nazionali49 – ha dichiarato che l’indennizzo è congruo se assicura un valido ristoro per il concreto pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente licenziato e se è tale da dissuadere il datore ad esercitare il recesso ingiustificatamente. Nel già menzionato caso Finnish Society, espressamente richiamato dalla Corte, l’apposizione ex lege di un tetto massimo analogo a quello dell’art. 3, co. 1 (24 mensilità), è stato giudicato dal Comitato in violazione dell’art. 24 della Carta sociale europea nella misura in cui il lavoratore ingiustamente licenziato può non ricevere una compensazione sufficiente a ristorare la perdita e il danno subiti, mentre altri rimedi aggiuntivi, come quello previsto in caso di divieto di discriminazione, non costituiscono una alternativa legale fruibile per le vittime di un licenziamento ingiustificato non collegato a fattori discriminatori50.
Restano aperte alcune questioni, che il giudice delle leggi intende evidentemente rimettere alla prudente valutazione del giudice ordinario in sede applicativa. Anzitutto le modalità con cui i parametri di valutazione dell’indennità devono essere confrontati. Non pare che la Corte, statuendo che il giudice terrà conto «innanzi tutto» dell’anzianità di servizio, abbia inteso collocare tale parametro di valutazione in una posizione sovraordinata rispetto agli altri menzionati criteri. Anzi, il richiamo ai diversi parametri desumibili in via sistematica dalla normativa vigente porta a ritenere che tali criteri non siano affatto gerarchicamente ordinati. L’esercizio del potere discrezionale da parte del giudice dovrà quindi essere effettuato in base ai criteri delineati dalla Corte (anzianità di servizio, numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti), consentendo di graduare il sistema sanzionatorio, tra il limite minimo e massimo, in modo tale da adeguarlo alla realtà nel caso concreto, senza obliterare i principi di adeguatezza e dissuasione richiamati più volte dalla Corte. Varrà anche in questo caso, ed a fortiori, il principio, precisato dalla giurisprudenza, secondo il quale la determinazione tra il minimo e il massimo della misura dell’indennità risarcitoria spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria51. Tali conclusioni interpretative hanno trovato già una prima applicazione da parte del Tribunale di Bari, il quale, in una fattispecie di licenziamento illegittimo per violazione degli artt. 4, co. 3, e 9, l. 23.7.1991, n. 223, ha determinato l’ammontare dell’indennità in ragione della «considerevole gravità della violazione procedurale», facendo concorrere tale criterio (concernente il comportamento tenuto dalle parti), con quelli della dimensione dell’attività economica, il numero dei lavoratori occupati, unitamente alla (scarsa) anzianità aziendale, al fine di giungere ad un equo contemperamento del criterio del comportamento con gli atri parametri di giudizio52. Un secondo aspetto riguarda la misura del risarcimento del danno, che, per rivestire le caratteristiche di adeguatezza, deve essere equilibrata e realizzare un equo contemperamento degli interessi in conflitto. La Corte ritiene che tale adeguatezza sia sicuramente riscontrabile nel limite di 24 mesi o di 36, mentre tace sul limite minimo di 4 o 6 mesi, che sono tuttavia ritenuti pienamente costituzionali posto che il carattere ablativo della sentenza si riferisce soltanto all’incremento annuale del risarcimento nella misura pari a due mensilità dell’ultima retribuzione per il trattamento di fine rapporto. Secondo una condivisibile opinione, questo silenzio sull’adeguatezza del valore minimo non potrà non essere tenuto in considerazione dal giudice nell’opera di concreta definizione dell’entità del risarcimento da riconoscere al lavoratore53. Infatti, la teorica possibilità di applicare sei mesi di indennizzo minimo dovrà essere coordinata con il più volte riaffermato principio di adeguatezza, anche in relazione alla valutazione complessiva del comportamento delle parti e delle ragioni economiche organizzative a fondamento del recesso. Inoltre, l’indennità deve rivestire e garantire un carattere dissuasivo. Tale profilo si collega in misura strutturale con l’adeguatezza dell’indennità forfettizzata, la quale deve essere tale da escludere l’azzardo morale del datore di lavoro, tentato di licenziare senza valida giustificazione compromettendo di tal guisa l’equilibrio degli interessi composti dal contratto.
1 Schmitt, C., La tirannia dei valori, Milano, 2008, passim.
2 Cfr. Ferrajoli, L., La democrazia attraverso i diritti. Il costituzionalismo garantista come modello teorico e come progetto politico, Roma-Bari, 2013, 145.
3 Cfr. Perulli, A., Il contratto a tutele crescenti e la Naspi: un mutamento di “paradigma” per il diritto del lavoro?, in Fiorillo, L.Perulli, A., Contratto a tutele crescenti e Naspi, Torino, 2015, 3 ss.
4 Questi tetti minimo e massimo sono stati innalzati a 6 e 36 dall’art. 3 del d.l. 12.7.2018, n. 87, conv. con mod. dalla l. 9.8.2018, n. 96.
5 Cfr. Barbieri, M., Il licenziamento ingiustificato irrogato per motivi economici e il licenziamento collettivo, in Carinci, M.T.Tursi, A., a cura di, Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Torino, 2015, 110, con riferimento alla lezione di A. Proto Pisani.
6 Cass., S.U., 10.1.2006, n. 141.
7 Cfr. De Luca Tamajo, R., Jobs Act e cultura giuslavoristica, in Dir. lav. merc., 2016, I, 7.
8 Parla decisamente di rimercificazione del lavoro Romagnoli, U., Controcorrente, in Lav. dir., 2015, 5.
9 Cfr. Treu, T., Flexicurity e oltre, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.INT – 135/2017.
10 In generale, su questi testi, v. Corti, M., a cura di, Il lavoro nelle Carte Internazionali, Vita e Pensiero, 2016; sulla specifica rilevanza delle norme europee in materia di licenziamento v. Orlandini, G., La tutela contro il licenziamento ingiustificato nell’ordinamento dell’Unione Europea, in Dir. lav. rel. ind., 2012, 619 ss.
11 Kojève, A., Linee di una fenomenologia del diritto, Milano, 1999.
12 Cfr. Shavell, S., Foundations of Economic Analysis of Law, 2004, 312, trad. it. Fondamenti dell’analisi economica del diritto, Torino, 2005, 292. Si vedano, sul punto, ma con riferimento alla l. Fornero, le considerazioni di Malzani, F., Ambiente di lavoro e tutela della persona, Milano, 2014, 287, secondo la quale il diritto a non essere licenziato senza giustificazione non trova sufficiente contrappeso nell’indennizzo compreso fra le 12 e le 24 mensilità.
13 Franzoni, M., Dei fatti illeciti, Commentario del codice civile, Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1993, sub art. 2058, 1118 e s.; De Cupis, A., Il danno, Volume II, Milano, 1979, 328 ss.; Bonilini, G., Il danno non patrimoniale, Milano, 1983, secondo cui il risarcimento per equivalente costituisce la regola in materia di riparazione del danno.
14 Rinvio a Perulli, A., Una questione di “valore”: il Jobs Act alla prova di costituzionalità, in Dir. rel. ind., 2017, 4.
15 European Committee of Social Rights, Finnish Society of Social Rights v. Finland, Complaint No. 106/2014, Publication 31.1.2017, p. 49.
16 C. cost., 7.2.2000, n. 46 aveva già affrontato e superato la questione.
17 Sui vincoli costituzionali come strategie dell’obbligarsi preventivamente per vincere la propria miopia o la debolezza della volontà, cfr. Elster, J., Ulisse liberato. Razionalità e vincoli, Bologna, 2004, 129 ss.
18 Cfr. Sacconi, L., Il Jobs Act: (non)equità e (in)efficienza dell’impresa, in Carinci, M.T.Tursi, A., a cura di, Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, cit., 321.
19 Perulli, A., Il diritto del lavoro tra libertà e sicurezza, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, 247 ss.
20 Perulli, P., Postafazione, in De Angelis, G.Marrone, M., a cura di, Voucherizzati! Il lavoro al di là del contratto, Editrice Socialmente, 2017.
21 Il Tribunale parla di un esaurimento della «spinta occupazionale che si intendeva incentivare con dette norme e che oggi è nuovamente affidata, di fatto, alle fattispecie che la delega legislativa intendeva rendere meno convenienti per le imprese, vale a dire ai rapporti a termine ed in regime di somministrazione (cfr. rapporto Istat sul I trimestre 2017, in atti)». Sull’uso della statistica nel diritto del lavoro, e sui suoi limiti, cfr. LyonCaen, A.Perulli, A. a cura di, Valutare il diritto del lavoro, Padova, 2010.
22 Barbieri, M., Il licenziamento ingiustificato per motivi economici, cit., 115.
23 Si esprimono in tal senso Proia, G., Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, in Pessi, R.Pisani, C.Proia, G.Vallebona, A., Jobs Act e licenziamento, Torino, 71, e Pisani, C., Il nuovo regime delle tutele per il licenziamento ingiustificato, ivi, 21 ss.
24 Cade in questo errore di prospettiva Leonardi, M., Linee generali e problemi aperti del Jobs Act, in Carinci, M.T.Tursi, A., a cura di, Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, cit., 271, che si appella ai dati statistici sull’occupazione post riforma Fornero per “giustificare” il Jobs Act: «infatti a seguito della riforma (Fornero) i dati statistici confermano che non sono aumentate né le assunzioni a tempo indeterminato né le trasformazioni dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato». Considerato che, secondo i dati Istat, nel corso del 2017 su 10 contratti di lavoro stipulati 8 sono a termine, seguendo questa logica il decisore politico dovrebbe mettere mano al Jobs Act, per introdurre una disciplina in materia di licenziamenti ancor più liberistica, continuando a seguire il miraggio che una riduzione dell’employment protection legislation produca effetti benefici sull’occupazione. Diversa la spiegazione che, partendo dal medesimo problema, fornisce Tursi, A., Dalla riforma dell’art. 18 al Jobs Act. Riproposizione o ricomposizione della frattura tra il legislatore e i suoi interpreti?, in Jobs Act, cit., XXVI, secondo il quale il Jobs Act è stato prodotto da un disallineamento tra il legislatore (Fornero) e i suoi interpreti, che avrebbero posto tali e tanti limiti all’operatività della riforma del 2012 da indurre il legislatore del 2015 ad «una reazione forte, a tratti scomposta».
25 È il lapidario giudizio di un economista non standard come Sacconi, L., op.cit., 280.
26 Sunstein, C., Consitutionalism, Prosperity, Democracy, in Consititutional Political Economy, 1991, 2, 385.
27 Speziale, V., La questione di legittimità costituzionale del contratto a tutele crescenti, in Riv. giur. lav., 2017, e già Id. Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti tra law and economics e vincoli costituzionali, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT – 259/2015.
28 Cfr. Speziale, V., Il problema della legittimità costituzionale del contratto a tutele crescenti, in Forum di Quaderni Costituzionali, in Atti del Convegno su “La normativa italiana sui licenziamenti: quale compatibilità con la Costituzione e la Carta sociale europea?”, Ferrara, 28.6.2018.
29 Fontana, G., op. cit., 114; Cfr. Giubboni, S., Profili costituzionali del contratto di lavoro a tutele crescenti, 21; Cfr. Ballestrero, M.V., Problemi di compatibilità costituzionale del Jobs Act, in Atti del Convegno su “Il Jobs Act: quale progetto per il diritto del lavoro?”, pubblicazione a cura della Camera dei deputati, Roma, 2015.
30 Cfr. Scaccia, G., Gli “strumenti” della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2000, 4 ss. e 189 ss., 220 ss., opera di fondamentale importanza per il tema qui trattato.
31 Si rinvia, anche per i riferimenti alle sentenze della Corte costituzionale in argomento, all’ampio e approfondito studio di Scaccia, G., op. cit., passim.
32 Cfr. Fontana, G., La riforma del lavoro, i licenziamenti e la Costituzione. Riflessioni critiche, in Costituzionalismo.it, 2016, 2, 110.
33 C. giust., 22.11.2005, C144/04, W. Mangold c. R. Helm, p. 65.
34 Scaccia, G., op. cit., 227.
35 Cfr. i contributi di Martelloni F.Sachs, T., Le droit du travail a l’epreuve de l’evaluation, di Lassandari, A., Re-evaluating Labour Law e di De Villanova, C., A note on the measurement of the Employment Protection Legislation: the Case of Italy, in Lyon-Caen, A.Perulli, A., Valutare il diritto del lavoro, Padova, 2010.
36 Speziale, V., op. cit., 32.
37 Fontana, G., op. cit., 108.
38 Cfr. Sachs, T., Quando la certezza del diritto sfuma nell’analisi economica, in Perulli, A., a cura di, L’idea di diritto del lavoro, oggi, Milano, 2016, 615 ss.
39 Cons. Const., 5.8.2015, n. 2015715 DC, consid. 151. Per un commento a tale decisione cfr. Baugard, D., Le plafonnement de l’indemnistation des licenciements injustifiés ne peut pas varier selon les effectifs des entreprises, in DS, 2015, 803 ss.
40 Cfr. Honnet, A., La libertà negli altri. Saggi di filosofia sociale, Bologna, 2018.
41 Cfr. Ghezzi, G., Osservazioni di metodo dell’indagine giuridica nel diritto sindacale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1970, 407.
42 Cfr. Mengoni, L., Il diritto costituzionale come diritto per principi, in Studi in onore di Feliciano Benvenuti, III, Modena, 1996, 1146.
43 Costa, P., Lo Stato di diritto: un’introduzione storica, in Costa, P.Zolo, D., Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Milano, 2002, 152 s.
44 Cfr. Supiot, A., La gouvernance par les nombres, Paris, 2015.
45 La citazione, di John Potter Stockton, è in Elster, J., op. cit., 130.
46 Cfr. di recente Speziale, V., op. cit., che aderisce al pensiero di Costantino Mortati; per una lettura in parte diversa cfr. Di Gaspare, G., Il principio lavoristico nella Costituzione della Repubblica, in www.astrid-online.it, che mette in evidenza l’impostazione “classista” di Mortati e ne deduce la visione condizionata ideologicamente dell’esegesi tradizionale.
47 Il riferimento è all’art. 1, co. 7, l. n. 183/2014 che indica quale criterio generale la «coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali».
48 In tema, cfr. Guazzarotti, A., La Corte EDU come contrappeso: alla ricerca di sinergie tra convenzione, carta sociale europea e OIL, in Borrelli, S.Guazzarotti, A.Lorenzon, S., I diritti dei lavoratori nelle Carte Europee dei diritti fondamentali, Napoli, 2012, 127 ss.; più di recente, con spunti di interesse nella materia in esame Fontana, G., La Carta Sociale Europea e il diritto del lavoro oggi, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.INT – 132/2016.
49 Sull’importanza dell’interpretazione fornita dal Comitato, vera e propria “bussola” indispensabile per orientarsi nelle evoluzioni dello statuto protettivo del lavoratore subordinato cfr. De Schutter, O., La Carta sociale europea in tempi di crisi, reperibile in https://rm.coe.int
50 European Committee of Social Rights, Finnish Society of Social Rights v. Finland, cit., p. 52.
51 Cass., 8.6.2006, n. 13380; Cass., 5.1.2001, n. 107.
52 Trib. Bari, 11.11.2018, inedità.
53 Speziale, V., Relazione al Convegno Frecciarossa, Roma, novembre 2018.