di Rosa Balfour
Con la fine della Guerra fredda e la creazione della Politica estera e di sicurezza comune (CESP) nel 1992, l’EU ha iniziato a sviluppare politiche più complesse nei confronti dei paesi che la circondavano. La politica di allargamento è stata la strategia di politica estera di maggior successo: l’Unione è riuscita a sostenere la transizione verso la democrazia e il mercato europeo dell’Europa centrale grazie all’ancoraggio della transizione alla prospettiva di adesione alle istituzioni comunitarie. Tra il 2004 e il 2007, dieci paesi che fino a quindici anni prima si trovavano oltre la Cortina di ferro sono entrati a far parte dell’Unione insieme a Malta e Cipro. Questa prospettiva è stata offerta anche ai paesi balcanici - dopo il decennio di guerre di dissoluzione della ex Iugoslavia - e alla Turchia.
Tuttavia, soprattutto dopo la bocciatura del Trattato costituzionale del 2005, lo spazio del vicinato europeo che poteva essere gradualmente integrato nell’EU si è chiuso. Attualmente, per i paesi che nei primi anni Novanta si erano staccati dall’Unione Sovietica (eccezion fatta per quelli baltici), la possibilità di entrare a far parte dell’EU non è politicamente realistica. Bruxelles ha quindi iniziato a sviluppare politiche di graduale integrazione, parzialmente modellate sull’allargamento, senza però offrire la possibilità di adesione.
L’EU ha iniziato tardi a includere l’Europa orientale nella sua ‘mappa’ di vicinato; lo ha infine fatto in conseguenza dell’allargamento e per controbilanciare le crescenti pressioni di alcuni paesi membri affinché l’Unione rafforzasse la propria politica mediterranea. Il vicinato a est e quello mediterraneo devono infatti essere visti in relazione tra loro. A est, nei primi anni Novanta, l’EU ha iniziato a sviluppare relazioni con singoli paesi, parzialmente sul modello dei rapporti con la Russia. Tuttavia, a differenza della Russia, che diventerà con la presidenza di Vladimir Putin un ‘partner strategico’ dell’EU, le relazioni con Ucraina, Moldavia, Bielorussia, Georgia, Armenia e Azerbaigian resteranno a lungo subordinate al vincolo di ‘non invadere’ quello che Mosca vedeva come il proprio vicinato occidentale, e di non impegnarsi ad accogliere nuovi membri nell’EU. A sud, terreno di ex colonie e rapporti bilaterali privilegiati di alcuni paesi europei, veniva creato solo nel 1995 il Partenariato euromediterraneo per sostituire i blandi accordi commerciali degli anni Settanta, in un contesto di crescente ottimismo per la sorte del processo di pace mediorientale e riflettendo le priorità geopolitiche dei paesi europei mediterranei, preoccupati dei costi e degli impegni presi da Bruxelles verso i vicini orientali.
Nel 2004 queste politiche venivano rafforzate da una nuova strategia che abbracciava tutte le regioni, seppur assai diverse tra loro: la Politica di vicinato. Questa rifletteva una nuova assertività dell’EU nei confronti del proprio vicinato: un’area verso la quale l’Unione accettava di assumersi la responsabilità di mantenerne la stabilità, ma anche di promuovere processi di riforma che portassero questi paesi a integrarsi economicamente e politicamente al modello europeo. Ulteriori strati a questa politica sono stati aggiunti con la creazione dell’Unione per il Mediterraneo (UfM) nel 2008 - che ha sostanzialmente indebolito le innovazioni contenute nel Partenariato euromediterraneo - e del Partenariato orientale nel 2009 - che invece ha innalzato il profilo dell’Europa orientale, pur senza risolvere i nodi di fondo che continuano a limitare l’influenza dell’EU in quella regione. Le debolezze di questi approcci non hanno tardato a manifestarsi. Le speranze delle ‘rivoluzioni colorate’ in Georgia (2003) e in Ucraina (2004) sono state disilluse dalla mancata offerta di un’eventuale adesione all’EU: la Georgia è stata poi terreno di guerra con la Russia nel 2008 a causa dei conflitti tuttora congelati sul suo territorio; in Ucraina l’ambivalenza tra l’avvicinamento alla Russia o all’Europa permane; conflitti territoriali irrisolti continuano a dividere il Caucaso e la Moldavia; e la Bielorussia non ha mai visto un barlume di democrazia.
Verso sud, i paesi europei hanno adottato un approccio ancora meno volto a sostenere una transizione democratica. Al contrario, le politiche europee erano impostate al sostegno dei regimi in cambio della loro collaborazione nel contenimento dei flussi migratori, nella lotta al terrorismo, nell’esclusione dell’emergere di forze islamiste nel contesto politico mediterraneo. Ancor più che in Europa orientale, l’Unione si è trovata impreparata ai movimenti di cambiamento che si sono manifestati all’inizio del 2011 in una parte importante del mondo arabo.
Dopo due decenni di engagement nel proprio vicinato - unica zona oltre a quella di allargamento indicata nel Trattato di Lisbona come prioritaria - l’EU emerge come attore che solo parzialmente è riuscito a capitalizzare sulle interdipendenze economiche, culturali e umane che esistono in questo spazio geografico. Confidando nella capacità attrattiva del modello europeo l’Unione e i suoi paesi membri non hanno saputo raccogliere i segnali dei cambiamenti interni a queste regioni e, come si è visto in Tunisia e in Egitto all’inizio del 2011, non si è saputa affermare come un attore politico capace di influenzare la trasformazione dei paesi vicini all’Europa.
Le rivoluzioni hanno costretto le istituzioni a ripensare questo approccio basato sulla ricerca della stabilità invece che della democrazia. I primi segnali emergono dal documento di revisione della Politica di vicinato approvato nel maggio 2011, che identifica la società civile come nuovo interlocutore, dà un ruolo più importante al sostegno della trasformazione politica, propone una serie di innovazioni che potrebbero contribuire a cambiare il ruolo europeo nella regione, ma non costituisce ancora un vero ripensamento strategico.