Cesare, il vincitore degli altri
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
È uno dei più grandi, e dei più spietati, conquistatori romani: l’invasione della Gallia costa un milione di morti, cui vanno aggiunte le vittime della lunga guerra civile che lo porta al potere. Ma Cesare è anche lo straordinario autore dei due resoconti attraverso cui vuole consegnare a contemporanei e posteri la sua visione di quegli eventi cruciali della storia romana tardo-repubblicana: una scrittura perfetta, una prosa nitida che rispecchia il dominio razionale sulle situazioni e sulle persone alla base delle sue vittorie e del suo personale carisma.
Gaio Giulio Cesare nasce a Roma nel 100, o forse nel 102 a.C., da una famiglia di antica nobiltà. Negli anni Sessanta avvia la carriera politica: nel 69 a.C. è questore, nel 65 a.C. edile, due anni dopo pontefice massimo, nel 62 a.C. pretore. Intanto matura le sue convinzioni politiche: il sistema romano necessita di correzioni profonde, cui si oppone l’ottusa resistenza dell’aristocrazia; per realizzare le riforme è dunque necessario imporle attraverso un potere forte. A partire dalla fine degli anni Sessanta tutta l’attività di Cesare è tesa a costruire, tassello dopo tassello, questo potere. Nel 60 a.C. Cesare promuove un accordo con i due uomini più importanti del momento, il grande generale Pompeo e il ricchissimo Crasso; l’intesa, nota come “primo triumvirato”, impegna i contraenti a favorire i reciproci interessi. Cesare ottiene così nel 59 a.C. il consolato e l’anno successivo il governo della Gallia Narbonense, corrispondente alla costa mediterranea della Francia attuale. Nello stesso 58 a.C., col pretesto di difendere la provincia, Cesare lancia una campagna di conquista in grande stile che lo porta nel giro di appena due anni a toccare le sponde della Manica: l’occupazione dell’intera Gallia sembra cosa fatta e nel 56 a.C. Cesare si sente abbastanza sicuro da spostarsi a Lucca per incontrare i suoi due partner. In realtà la sottomissione della Gallia è meno solida del previsto e nel 52 a.C. una vasta ribellione guidata dall’abile Vercingetorige rischia di mandare in frantumi l’intero progetto di conquista. La battaglia decisiva si svolge intorno al centro fortificato di Alesia: è la più difficile, ma anche la più risolutiva fra le vittorie di Cesare. Il resto è un’operazione di polizia: gli anni 51-50 a.C. sono dedicati a spegnere gli ultimi focolai di rivolta.
Nel frattempo a Roma molte cose sono mutate nel panorama politico. Crasso muore nel 53 a.C., mentre Pompeo, preoccupato dalla crescente potenza di Cesare, si sgancia progressivamente dall’alleanza; alla fine degli anni Cinquanta le posizioni si divaricano ulteriormente e la situazione scivola pericolosamente verso una resa dei conti armata fra i due condottieri.
Nel gennaio del 49 a.C. Cesare varca il Rubicone, nei pressi di Rimini, confine settentrionale dell’Italia; Pompeo e una parte del senato abbandonano Roma per l’Oriente, dove l’ex alleato di Cesare conta di allestire un esercito in grado di contrastare il suo avversario. Il contatto fra le rispettive truppe avviene a Farsalo, in Tessaglia, nell’estate del 48 a.C. e si risolve in una vittoria dei cesariani; Pompeo muore di lì a poco per mano dal re d’Egitto Tolomeo XIII, deciso a ingraziarsi il nuovo signore di Roma.
Tra il 48 a.C e il 44 a.C. Cesare alterna brevi soggiorni a Roma con gli impegni bellici volti a soffocare le forze tuttora fedeli a Pompeo. Intanto cerca di dare una forma alla sua leadership, facendosi assegnare prima il consolato, quindi la dittatura decennale, tramutata poi in dittatura a vita. Il 15 marzo del 44 a.C. i pugnali dei congiurati intervengono a stroncare il progetto politico più ambizioso (e sanguinoso) dell’intera storia di Roma.
Mentre tutto questo accade, Cesare allestisce la personale ricostruzione dei due eventi chiave della sua vita: la conquista della Gallia e la guerra contro Pompeo, oggetto rispettivamente del De bello Gallico e del De bello civili. Allo staff cesariano sono invece attribuibili gli scritti relativi alle campagne condotte all’indomani della morte di Pompeo: il Bellum Alexandrinum, il Bellum Africum e il Bellum Hispaniense.
Il De bello Gallico racconta in otto libri altrettanti anni di campagna: il primo riferisce la sconfitta di Elvezi e Svevi, una popolazione germanica al comando di Ariovisto; il secondo il confronto con le tribù della Gallia belgica; il terzo gli scontri nella Gallia del Nord e in Aquitania; il quarto il massacro di due tribù germaniche sconfinate in Gallia, la costruzione del ponte sul Reno e il primo sbarco in Britannia; il quinto comprende la seconda spedizione in Britannia e il resoconto di una serie di insurrezioni; ancora di insurrezioni e repressioni tratta il sesto libro, mentre il settimo è consacrato allo scontro finale con Vercingetorige. L’ottavo libro, in tutto o in parte attribuibile ad altra mano, racconta le operazioni del 51-50 a.C.
Il De bello Gallico non è la prima opera storica dell’antichità scritta da un protagonista degli eventi narrati: la storiografia latina attinge, anzi, largamente all’esperienza e ai ricordi personali dei suoi autori; certo però raramente lo storico occupa una posizione così centrale da un capo all’altro dell’opera da lui composta; è vero peraltro che, secondo le classificazioni degli antichi, quelli di Cesare non sono testi storiografici in senso stretto, ma piuttosto commentarii, materiali preparatori privi di quell’ornamentazione letteraria ritenuta indispensabile per un’opera storica.
Cesare pone grande cura nel garantire al suo resoconto un’aria di assoluta imparzialità: si esprime in terza persona, evita perlopiù di formulare giudizi espliciti, chiarisce in modo cristallino premesse, svolgimento e conseguenze di ogni episodio, illustra attraverso discorsi, quasi sempre indiretti, le posizioni dei protagonisti. Questa strategia dell’obiettività non significa però che il De bello Gallico non persegua un intento di giustificazione e di apologia dell’operato di Cesare; ma questo intento è ricercato con grande abilità, a volte con sottigliezza, e richiede un’accurata opera di decostruzione per portare alla luce i meccanismi di manipolazione sepolti sotto la superficie del testo.
Raramente Cesare ricorre alla semplice censura di un dato “sgradito”, come quando omette di menzionare lo scandalo suscitato in senato dal massacro a freddo di circa mezzo milione di Germani e le relative proposte di destituzione avanzate contro di lui in quella sede da alcuni avversari politici; di norma, gli aspetti meno presentabili della campagna vanno incontro a un processo di attenuazione che ne minimizza l’impatto sul lettore. Cesare si descrive come mosso esclusivamente dall’intento di difendere gli alleati di Roma e i confini dei domini romani; la responsabilità dei conflitti ricade sulla slealtà o sull’ambizione degli avversari. Le sconfitte trovano sempre giustificazione nell’oggettiva condizione di vantaggio dei nemici; talora sono provocate da iniziative sconsiderate di soldati e centurioni, che vengono per questo duramente rimproverati dal loro generale e ne riconoscono invariabilmente le ragioni. Tuttavia, l’atteggiamento verso i soldati è perlopiù di grande apprezzamento: Cesare ne mette in luce l’eroismo, la capacità di affrontare privazioni e difficoltà, la dedizione assoluta al comandante.
Se i soldati talora sbagliano, Cesare mantiene sempre un sovrano controllo della situazione, un pieno dominio razionale degli eventi e la capacità di decidere per il meglio alla luce di una valutazione spassionata delle circostanze. Cesare è ovunque: alla testa delle sue truppe o fra i ranghi condivide gli stessi rischi dei suoi uomini, accorre dove li vede in difficoltà, a volte li riprende quando vacillano o stanno per cedere, sempre li rincuora con la sua personale presenza.
Il fascino del De bello Gallico è legato anche alle tre sezioni che descrivono la società e la cultura dei popoli con cui Cesare è venuto a contatto: Germani, Britanni e naturalmente Galli.
La cultura romana aveva elaborato da tempo l’immagine-tipo del guerriero gallico: un gigante sciocco, fisicamente imponente ma intellettualmente fragile, privo di disciplina, incline all’exploit individuale invece che al gioco di squadra. Cesare fa piazza pulita di questa visione stereotipata; ciò che gli interessa è capire come funziona la società dei Galli, la cultura, le istituzioni pubbliche e private, la famiglia, l’esercito, la religione. E lo fa osservando i Galli nel loro ambiente: Cesare è in un certo senso il primo antropologo della cultura occidentale (insieme al grande storico greco Erodoto), che descrive una civiltà diversa dalla propria venendo a contatto diretto con essa, in pagine piene di acume e curiosità intellettuale.
È chiaro che la curiosità del conquistatore non è disinteressata: i popoli che suscitano la sua attenzione sono quelli contro i quali combatte, perciò conoscerli meglio gli può servire a individuare le loro debolezze e sconfiggerli più facilmente. Tuttavia, Cesare si preoccupa di capire chi ha davanti, di scrutare nell’“altro”, sapere com’è fatto; non emette giudizi sommari, non pronuncia condanne, ma descrive ciò che vede e ciò che sa: nessuno dei suoi predecessori aveva mai avuto una preoccupazione del genere. La spietatezza del conquistatore e l’interesse dell’intellettuale convivono fianco a fianco, in un paradosso singolare quanto affascinante.
Il secondo commentario cesariano è articolato in tre libri e racconta le vicende comprese fra il drammatico passaggio del Rubicone, nel gennaio del 49 a.C., e la battaglia di Farsalo contro Pompeo, nell’estate del 48 a.C., con la fuga di questi in Egitto e la sua liquidazione da parte del monarca di quel paese.
Il diverso contenuto dell’opera determina alcune differenze rispetto al commentario sulla guerra gallica. Lo stile in terza persona e lo sforzo per assicurare un’impressione di oggettività sono gli stessi, ma ora Cesare è assai più esplicito nel difendere la propria immagine e nel tratteggiare un ritratto negativo di Pompeo e del suo entourage politico-militare. Soprattutto, a emergere in primo piano non sono tanto le virtù militari di Cesare – com’è ovvio, trattandosi del racconto di una guerra in cui gli avversari sono dei concittadini – quanto le sue capacità politiche: Cesare cerca di accreditarsi come leader moderato, rispettoso delle prerogative delle istituzioni, incline al perdono dei propri avversari; i suoi soldati rispettano i valori romani della frugalità e della parsimonia, affrontando condizioni al limite della sopravvivenza, mentre nella tenda di Pompeo vengono trovate suppellettili di lusso e le sue truppe vivono nell’abbondanza. Inoltre, Cesare si presenta come colui che ha cercato costantemente una composizione pacifica delle controversie: solo l’ostinazione di Pompeo, pessimamente consigliato dal suo staff, determina il precipitare della situazione.
Di Cesare sono note anche altre opere, che però non sono giunte sino a noi. A parte i discorsi – Cesare è anche un provetto oratore – e qualche isolata esperienza poetica, sappiamo di un trattato grammaticale in due libri, il De analogia, in cui Cesare prende posizione nel dibattito tra i sostenitori del primato dell’uso sulla regola e i difensori della tesi opposta. Del De analogia è sopravvissuta una sola massima, nella quale Cesare invita a evitare “come uno scoglio” qualsiasi termine desueto o inconsueto: un precetto cui egli si attiene scrupolosamente come scrittore.
All’ambito politico va riportato invece l’Anti-Catone, con il quale Cesare replica all’elogio di Catone composto da Cicerone per l’uomo politico che ha sino all’ultimo avversato il conquistatore della Gallia, scegliendo di suicidarsi pur di non cadere nelle mani dell’odiato nemico. Dell’Anti-Catone non conosciamo nulla, ma è significativo il giudizio che uno storico del primo impero, Cremuzio Cordo, dava dell’atteggiamento di Cesare: nonostante il suo enorme potere, questi non condanna al rogo l’opera di Cicerone né persegue il suo autore, ma si pone con quest’ultimo su un piano di parità, rispondendo ad uno scritto con un altro scritto, “come se replicasse in tribunale”. In questa superiore signorilità Cremuzio coglie, non a torto, una cifra caratterizzante dell’uomo Cesare.