Il whistleblowing all'italiana
Il contributo ha ad oggetto la disciplina di tutela di chi segnala all’Autorità nazionale anticorruzione, all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, fatti di reati o irregolarità di cui sia venuto a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato e che, a causa della denuncia presentata, rischia di trovarsi esposto ad atti di ritorsione del datore di lavoro. In particolare viene posto in rilievo il diritto all’anonimato e la deroga all’obbligo del segreto professionale e di lavoro. Altresì è evidenziato il regime delle sanzioni amministrative a presidio di questa speciale tutela del cd. whistleblowing, ossia della protezione del pubblico dipendente o lavoratore subordinato privato, che, avendo segnalato una condotta penalmente rilevante o illecita del proprio datore di lavoro, della quale sia venuto a conoscenza nell’ambito del rapporto di lavoro, si trovi esposto a ritorsioni a causa di tale denuncia.
La l. 30.11.2017, n. 179, ha riformulato la disciplina del cd. whistleblowing1, ossia della protezione del pubblico dipendente o lavoratore subordinato privato, che, avendo segnalato una condotta penalmente rilevante o illecita del proprio datore di lavoro, della quale sia venuto a conoscenza nell’ambito del rapporto di lavoro, si trovi esposto a ritorsioni a causa di tale denuncia. Si tratta di un istituto tipico soprattutto di ordinamenti giuridici di stampo anglosassone che, ispirato a valori di trasparenza e legalità, tende a responsabilizzare il lavoratore affinché emergano possibili fatti di corruzione nell’amministrazione di appartenenza o di riferimento, dando a ciascun ente pubblico la possibilità di evitare il pregiudizio che dall’attività illecita, oggetto della segnalazione, le deriverebbe. La novella del 2017 fa seguito alla ratifica di due convenzioni del Consiglio d’Europa dedicate alla lotta alla corruzione. Con la l. 28.6.2012, n. 110, il Parlamento ha ratificato la Convenzione penale di Strasburgo del 27.1.1999 sulla corruzione che impegna, in particolare, gli Stati a prevedere l’incriminazione sia di fatti di corruzione attiva e passiva, tanto nel settore pubblico che in quello privato, sia del cd. traffico di influenze, nonché dell’autoriciclaggio. Con la l. 28.6.2012, n. 112, il Parlamento ha ratificato la Convenzione civile sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 4.11.1999 e diretta, in particolare, ad assicurare che negli Stati aderenti siano garantiti rimedi giudiziali efficaci in favore delle persone che hanno subito un danno risultante da un atto di corruzione. Le due convenzioni del Consiglio d’Europa dedicate alla lotta alla corruzione si sono affiancate alla ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite del 31.10.2003 contro la corruzione (cd. Convenzione di Merida) con la l. 3.8.2009, n. 116, e all’approvazione della l. 6.11.2012, n. 190, recante misure anticorruzione nella pubblica amministrazione2.
In particolare la citata novella del 2017 (l. n. 179/20173) ha previsto, all’art. 1, che il pubblico dipendente che, nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, segnala al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di cui all’art. 1, co. 7, l. n. 190/2012, all’Autorità nazionale anticorruzione (ANAC), o denuncia all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile, condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in occasione della propria attività lavorativa, non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione. Il successivo art. 2 ha introdotto una parallela disciplina di tutela del dipendente o collaboratore che segnala illeciti nel settore privato; il testuale riferimento all’art. 6 d.lgs. 8.6.2001, n. 231, recante la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, comporta che i soggetti protetti sono quelli contemplati dall’art. 5, lett. a) e b), ossia le persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente e quelle sottoposte alla loro direzione o vigilanza. La tutela è analoga e prevede il divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi collegati alla segnalazione. Inoltre l’art. 2 cit. stabilisce che il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto segnalante è nullo e sono altresì nulli il mutamento di mansioni ai sensi dell’art. 2103 c.c., nonché qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del segnalante.
La disciplina di tutela del segnalante era stata inizialmente introdotta dall’art. 1, co. 51, l. n. 190/20124, che ha attribuito alla Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (CiVIT) la funzione di ANAC; la quale nel 2014 ha incorporato l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (AVCP), pertanto soppressa, e ne ha ereditato le funzioni ed il personale. Il citato co. 51 ha aggiunto – dopo l’art. 54 d.lgs. 30.3.2001, n. 165 – l’art. 54 bis, recante la tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti. Era quindi presa in considerazione solo la posizione del dipendente pubblico e la tutela consisteva essenzialmente nella prescrizione per cui il pubblico dipendente, che denunciava all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti (successivamente anche alla stessa ANAC: ex art. 31 d.l. 24.6.2014 n. 90, conv. dalla l. dall’art. 1, co. 1, l. 11.8.2014, n. 114), ovvero riferiva al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui fosse venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non poteva essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati alla denuncia. La riforma del 2017 ha arricchito questa tutela perché ha previsto l’ipotesi del dipendente di un ente, persona giuridica, o società, assoggettato alla disciplina della responsabilità amministrativa di cui al d.lgs. n. 231/2001. La tutela si riferisce alla fattispecie del dipendente che, essendo venuto a conoscenza per ragioni di ufficio della commissione di illeciti da parte di altri dipendenti, pur essendo esposto al rischio di possibili ritorsioni, decida di segnalare tali illeciti nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione denunciandoli al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza, o all’ANAC, o all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile. In tale caso il dipendente, sia pubblico che privato, è tutelato da possibili ritorsioni del datore di lavoro che ridondano in vizio di nullità dell’atto discriminatorio da quest’ultimo posto in essere. Però questa tutela non opera ove il dipendente abbia agito non già nell’interesse all’integrità della pubblica amministrazione o del datore di lavoro in genere, ma in ragione di propri diritti nascenti dal proprio rapporto di lavoro, ossia nel contesto di problematiche di carattere personale. La l. n. 179/2017, considerando rilevanti le sole segnalazioni fatte «nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione», ha corretto una distorsione applicativa dell’istituto al quale inizialmente avevano fatto ricorso i dipendenti pubblici per problematiche di ordine personale (denunce di misure discriminatorie nelle nomine o negli incarichi) piuttosto che nell’interesse della pubblica amministrazione.
Alla disciplina di tutela del segnalante di cui alla cit. novella del 2017 si affiancano altre normative, primarie e di carattere regolamentare, parimenti orientate alla tutela del personale di soggetti vigilati nel settore del credito e della finanza. L’art. 52 bis del d.lgs. 1.9.1993, n. 385 (t.u.b.) – inserito dall’art. 1, co. 18, d.lgs. 12.5.2015, n. 72, cui successivamente è stata data attuazione nella circ. Banca d’Italia, 17.12.2013, n. 285 (Disposizioni di vigilanza per le banche) – richiede alle banche la definizione di procedure specifiche per le segnalazioni al proprio interno, da parte del personale, di atti o fatti che possano costituire una violazione delle norme disciplinanti l’attività bancaria, idonee ad assicurare per la segnalazione «un canale specifico, indipendente e autonomo».
L’art. 4 undecies del d.lgs. 24.2.1998, n. 58 (t.u.f.) – inserito dall’art. 1 d.lgs. 3.8.2017, n. 129, ha previsto che i “soggetti abilitati” (banche, SGR, SIM, ecc.), nonché le imprese di assicurazione, sono tenute all’adozione di procedure specifiche per la segnalazione al proprio interno, da parte del personale, di atti o fatti che possano costituire violazione delle norme inerenti alla disciplina del Regolamento n. 596/2014 (Market Abuse Regulation). L’art. 7 del Codice di Autodisciplina di Borsa italiana richiede alle società emittenti appartenenti all’indice FTSEMIB la predisposizione di un sistema interno di segnalazione, da parte dei dipendenti, di eventuali irregolarità o violazioni della normativa applicabile e delle procedure interne, in grado di garantire «un canale informativo specifico e riservato nonché l’anonimato del segnalante». L’art. 48 del d.lgs. 21.11.2007, n. 231 come novellato dal d.lgs. 25.5.2017, n. 90 ha prescritto ai soggetti destinatari della normativa Antiriciclaggio la definizione di procedure per la segnalazione al proprio interno, da parte di dipendenti o di persone in posizione comparabile, di violazioni – potenziali o effettive – delle disposizioni in tema di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, parimenti attraverso «lo sviluppo di uno specifico canale di segnalazione, anonimo e indipendente, proporzionato alla natura e alle dimensioni del soggetto obbligato».
La peculiarità della disciplina di tutela del whistleblowing sta nella sovrapposizione della disciplina del 2012, dettata per il pubblico dipendente, a quella del 2017 che ha ampliato quest’ultima e vi ha affiancato la tutela del dipendente privato. Manca però una disciplina unitaria applicabile indistintamente al settore pubblico ed a quello privato, anche se l’esigenza di tutela è la stessa. Come anche manca una tutela del segnalante per tutti quei rapporti di collaborazione autonoma non riconducibili al lavoro subordinato, pubblico o privato.
Il presupposto di fatto della disciplina in esame è che il dipendente pubblico sia venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro di “condotte illecite” che risultino essere lesive dell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione. Non è necessario che tali “condotte illecite” costituiscano reato; potrebbero consistere anche in illeciti amministrativi o di natura fiscale. Ciò che rileva al fine dell’integrazione della fattispecie è che l’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione possa essere leso. La denuncia mira a mettere in allarme la pubblica amministrazione perché possa contrastare queste condotte illecite e quindi evitare il danno temuto. La denuncia è quella diretta alternativamente al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di cui all’art. 1, co. 7, l. n. 190/2012, cit., ovvero all’ANAC, o all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile.
Il segnalante destinatario di tale tutela speciale è un pubblico dipendente in senso ampio. Tali sono i lavoratori del pubblico impiego contrattualizzato, ma anche il personale in regime di diritto pubblico e finanche i dipendenti degli enti pubblici economici e quelli di enti di diritto privato sottoposto a controllo pubblico ai sensi dell’art. 2359 c.c., quali, ad es., le società in house. In tal caso il rapporto di lavoro è privatistico, come anche quello dei dipendenti e dei collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi, che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica.
È la novella del 2017 che ha opportunamente operato questo ampliamento dell’area di applicabilità dell’istituto fino a comprendere anche le società collegate.
In generale prescrive il co. 3 dell’art. 54 bis che l’identità del segnalante non può essere rivelata. In realtà però occorre distinguere. Nell’ambito del procedimento penale l’identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall’art. 329 c.p.p.; segreto che quindi è conservato fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari. Inoltre la disposizione va coordinata anche con gli artt. 361 e 362 c.p. che prevedono l’obbligatorietà della denuncia di reato da parte rispettivamente del pubblico ufficiale e dell’incaricato di pubblico servizio. Anche in tale evenienza sorge la tutela speciale del whistleblowing, ma la denuncia non sarà anonima né potrà rimanere coperta l’identità del denunciante che assumerà la figura di teste nel processo penale. Anche nell’ambito del procedimento per responsabilità contabile dinanzi alla Corte dei conti l’identità del segnalante rimane coperta solo inizialmente perché non può essere rivelata fino alla chiusura della fase istruttoria. Solo nell’ambito del procedimento disciplinare la copertura dell’identità del segnalante è maggiormente tutelata perché è previsto che non possa essere rivelata ove la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione, anche se conseguenti alla stessa. Qualora invece la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione e la conoscenza dell’identità del segnalante sia indispensabile per la difesa dell’incolpato, la segnalazione sarà utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità. Sempre per tutelare l’anonimato del denunciante è previsto che l’ANAC, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, adotta apposite linee guida relative alle procedure per la presentazione e la gestione delle segnalazioni. Le linee guida prevedono l’utilizzo di modalità anche informatiche e promuovono il ricorso a strumenti di crittografia per garantire la riservatezza dell’identità del segnalante e per il contenuto delle segnalazioni e della relativa documentazione.
La tutela del segnalante, pubblico dipendente, è ampia perché abbraccia il mutamento in peius delle mansioni (demansionamento), il trasferimento, il licenziamento e ogni altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro. Occorre però che si tratti di un atto ritorsivo, ossia determinato dalla segnalazione fatta dal pubblico dipendente. La misura ritorsiva costituisce non solo un atto invalido perché affetto da nullità, ma anche un atto illecito, come tale fonte di una pretesa risarcitoria. In particolare è nullo il licenziamento del segnalante che sia ascrivibile, come motivo determinante, alla segnalazione fatta dal dipendente. Il quale, accertato il motivo ritorsivo del recesso, deve essere reintegrato nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 4.3.2015, n. 23. Tale disposizione, che disciplina il licenziamento discriminatorio (oltre che nullo e intimato in forma orale) nel contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, prescrive che il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio, ordina al datore di lavoro la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si ricostituisce salvo che il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro e sempre che non abbia richiesto l’indennità sostitutiva della reintegrazione. Si tratta del regime reintegratorio “forte”, di maggior tutela sia rispetto a quelli ordinari del successivo art. 3, rispettivamente nell’ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa (co. 1) ovvero quando sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (co. 2).È poi previsto uno speciale regime dell’onere probatorio. È a carico dell’amministrazione pubblica o dell’ente suddetto dimostrare che le misure discriminatorie o ritorsive, adottate nei confronti del segnalante, sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa. Inoltre, una volta che la misura ritorsiva (demansionamento, trasferimento, licenziamento) sia stata comunicata all’ANAC dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale la stessa è stata poste in essere, l’ANAC informa il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri o gli altri organismi di garanzia o di disciplina per le attività e gli eventuali provvedimenti di competenza. Le condotte illecite devono riguardare situazioni di cui il soggetto sia venuto direttamente a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro e, quindi, ricomprendono non solo quanto appreso in virtù dell’ufficio rivestito, ma anche quelle notizie che acquisite in occasione e/o a causa dello svolgimento delle mansioni lavorative, seppure in modo casuale. La stessa ANAC con determinazione 28.4.2015, n. 6 ha adottato apposite «Linee guida in materia di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti (cd. whistleblower)» con l’obiettivo di dettare una disciplina volta a incoraggiare i dipendenti pubblici a denunciare gli illeciti di cui vengano a conoscenza nell’ambito del rapporto di lavoro e, al contempo, a garantirne un’efficace tutela in termini di riservatezza. E con una recente delibera del 18.7.2017 n. 657 l’ANAC ha adottato il Regolamento sull’esercizio del potere dell’Autorità di richiedere il riesame dei provvedimenti di revoca o di misure discriminatorie adottati nei confronti del responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (RPCT) per attività svolte in materia di prevenzione della corruzione.
La tutela del segnalante è rinforzata anche dalla previsione di un articolato e speciale regime sanzionatorio amministrativo. È infatti prescritto che, qualora venga accertata, nell’ambito dell’istruttoria condotta dall’ANAC, l’adozione di misure discriminatorie da parte di una delle amministrazioni pubbliche o di uno degli enti suddetti, l’ANAC applica al responsabile che ha adottato tale misura una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 a 30.000 euro. Ove poi venga accertata l’assenza di procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni ovvero l’adozione di procedure non conformi a quelle delle menzionate linee guida, l’ANAC applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro. Altresì qualora venga accertato il mancato svolgimento da parte del responsabile di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute, si applica al responsabile la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro.
L’ANAC determina l’entità della sanzione tenuto conto delle dimensioni dell’amministrazione o dell’ente cui si riferisce la segnalazione.
L’art. 2 della l. n. 179/2017 prevede – in simmetria con l’art. 1 che riguarda il lavoratore pubblico (in senso ampio, come rilevato) – la tutela del dipendente o collaboratore che segnala illeciti nel settore privato. Questa disciplina di tutela è innestata nell’art. 6 del cit. d.lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti in caso di commissione di reati ed è pertanto di applicazione più limitata rispetto alla fattispecie della segnalazione del pubblico dipendente.
Infatti occorre che si tratti di condotte illecite, rilevanti ai sensi del d.lgs. n. 231/2001, le quali fanno riferimento alla commissione di reati. In applicazione di tale innovativa disciplina l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio ed è nel contesto di questa responsabilità che si inserisce la segnalazione del dipendente, peraltro tenendo conto dei modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati di cui all’art. 6, co. 1, lett. a).
Sono questi modelli organizzativi che devono prevedere uno o più canali che consentano – ai soggetti indicati nell’art. 5, co. 1, lett. a) e b), ossia i dipendenti dell’ente dei cui comportamenti penalmente rilevanti risponde l’ente stesso – di presentare, a tutela dell’integrità dell’ente, segnalazioni circostanziate di condotte illecite, rilevanti ai sensi del medesimo decreto e fondate su elementi di fatto precisi e concordanti, o di violazioni del modello di organizzazione e gestione dell’ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte.
Tali canali devono garantire la riservatezza dell’identità del segnalante nelle attività di gestione della segnalazione. I modelli ex d.lgs. n. 231/2001 possono anche prevedere la possibilità di indagare a seguito di segnalazioni effettuate in forma anonima, purché le stesse siano «circostanziate» e «fondate su elementi di fatto precisi e concordanti» (art. 6, co. 2-bis, punto a).
In questo ambito più limitato opera il divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante per motivi collegati, direttamente o indirettamente, alla segnalazione. In particolare il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto segnalante è nullo. Sono altresì nulli il mutamento di mansioni ai sensi dell’art. 2103 c.c. nonché qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del segnalante.
È altresì prevista la medesima inversione dell’onere probatorio di cui si giova il pubblico dipendente. Infatti è onere del datore di lavoro – in caso di controversie legate all’irrogazione di sanzioni disciplinari, o a demansionamenti, licenziamenti, trasferimenti, o sottoposizione del segnalante ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro, successivi alla presentazione della segnalazione – dimostrare che tali misure sono fondate su ragioni estranee alla segnalazione stessa. I suddetti modelli organizzativi devono poi prevedere un sistema disciplinare che sanzioni nei confronti di chi viola le misure di tutela del segnalante, nonché di chi effettua con dolo o colpa grave segnalazioni che si rivelano infondate. Altresì l’adozione di misure discriminatorie nei confronti dei soggetti che effettuano le segnalazioni può essere denunciata all’Ispettorato nazionale del lavoro, per i provvedimenti di propria competenza, oltre che dal segnalante, anche dall’organizzazione sindacale indicata dal medesimo.
Nelle ipotesi di segnalazione o denuncia effettuate dal dipendente pubblico o privato il perseguimento dell’interesse all’integrità delle amministrazioni, pubbliche e private, nonché alla prevenzione e alla repressione delle malversazioni, costituisce giusta causa di rivelazione di notizie coperte dall’obbligo di segreto prescritte sia in materia penale che civile. Il riferimento è all’art. 326 c.p. (che sanziona il pubblico ufficiale e l’incaricato di un pubblico servizio, i quali, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della loro qualità, rivelano notizie d’ufficio, destinate a rimanere segrete, o ne agevolano in qualsiasi modo la conoscenza), all’art. 622 c.p. (che punisce chi, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto) e all’art. 623 c.p. (che sanziona la rivelazione di segreti scientifici o commerciali). Quanto agli obblighi civilistici, viene in rilievo quello di fedeltà ex art. 2015 c.c. che prescrive che il prestatore di lavoro non deve divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio. La specifica tutela del segnalante, di cui alla l. n. 179/2017, esclude che la violazione del segreto abbia rilievo penale o costituisca inadempienza agli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro. Permane invece l’obbligo di segreto professionale gravante su chi sia venuto a conoscenza della notizia in ragione di un rapporto di consulenza professionale o di assistenza con l’ente, l’impresa o la persona fisica interessata.
Occorre però che sia rispettato un criterio di proporzionalità. Infatti, quando notizie e documenti che sono comunicati all’organo deputato a riceverli siano oggetto di segreto aziendale, professionale o d’ufficio, costituisce violazione del relativo obbligo di segreto la rivelazione con modalità eccedenti rispetto alle finalità dell’eliminazione dell’illecito e, in particolare, la rivelazione al di fuori del canale di comunicazione specificamente predisposto a tal fine.
La giurisprudenza formatasi sulla prima formulazione della tutela del segnalante ha già esaminato alcuni aspetti problematici.
La tutela del dipendente pubblico segnalante non ha operato in un caso in cui il dipendente di un ente locale aveva inviato ad alcuni soggetti istituzionali (Prefettura, Procura della Repubblica e Corte dei conti) una memoria contenente la denuncia di condotte illecite da parte dell’amministrazione di appartenenza, denuncia ritenuta palesemente priva di fondamento. In tal caso invero il denunciante pone in essere una condotta illecita, univocamente diretta a gettare discredito sull’amministrazione medesima, per cui è legittimo il licenziamento disciplinare (Cass., 24.1.2017, n. 17525). Tale pronuncia però, richiamando l’art. 54 bis cit. e quindi la tutela del whistleblower, non manca di rilevare che «è doverosa la cooperazione del pubblico dipendente per l’emersione di fatti illeciti o comunque illegittimi, di interesse collettivo, posti in essere dalla pubblica amministrazione». Ma la circostanza che i «fatti denunciati» fossero stati ritenuti dal giudice di merito, a seguito di accertamento incensurabile in sede di legittimità, palesemente infondati ha escluso che questa normativa fosse applicabile al caso di specie. Con riferimento a tale fattispecie – segnalazione di un illecito ritenuta priva di fondamento – rileva proprio la novella del 2017 che al co. 9 dell’art. 54 bis (riformulato) prevede che la tutela del dipendente pubblico autore della segnalazione/denuncia non opera nel caso in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per reati commessi con la denuncia ovvero la sua responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave. Quindi non basta la mera non fondatezza della segnalazione/denuncia a far cadere lo scudo protettivo nei confronti di atti ritorsivi (o di reazione) dell’amministrazione pubblica datrice di lavoro. Occorre qualcosa di più che va dalla colpa grave, rilevante sul piano della responsabilità civile per violazione dell’obbligo di fedeltà del dipendente (art. 2105 c.c.), alla responsabilità penale per calunnia o diffamazione. In precedenza la giurisprudenza (Cass., 23.3.2012, n. 4707)6 ha affermato che l’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, solo se presenta modalità tali che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traducono in una condotta lesiva del decoro dell’impresa datoriale e costituisce comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere di fedeltà ex art. 2105 c.c. e può integrare la giusta causa di licenziamento. In linea di continuità è anche la più recente giurisprudenza (Cass., 17.1.2017, n. 996)7 che ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato nei confronti di una lavoratrice che aveva segnalato all’autorità pubblica un ricorso irregolare ad ammortizzatori sociali da parte del proprio datore di lavoro; tale comportamento, rispettoso dei principi di continenza formale e sostanziale, costituiva un corretto esercizio del diritto di critica. Si tratta però di una tutela riferibile ad un diritto di libertà del lavoratore, quello di manifestare liberamente in proprio pensiero (art. 1 l. 20.5.1970, n. 300), che comprende anche quello di criticare – ed eventualmente denunciare – comportamenti illegittimi o illeciti del datore di lavoro. L’esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, sebbene sia garantito anche dall’art. 21 Cost., incontra però i limiti della correttezza formale imposti dall’esigenza, anch’essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della dignità del datore di lavoro; ne consegue che, ove tali limiti siano superati con l’attribuzione al datore di lavoro o a suoi dirigenti di comportamenti apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, la denuncia del lavoratore può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare. La tutela del whistleblowing va al di là del tradizionale riconoscimento di questo diritto di libertà del lavoratore perché viene in gioco il preminente interesse di evitare il pregiudizio per la pubblica amministrazione che deriverebbe da comportamenti illeciti denunciati dal lavoratore. Lo scudo protettivo è quindi più ampio e consiste nella presunzione, seppur iuris tantum, del motivo ritorsivo – e quindi illecito – dell’atto posto in essere dal datore di lavoro in ragione e a causa della segnalazione/denuncia del dipendente.
Nel regime precedente alla novella del 2017, la sentenza del Tribunale di Milano, 31.5.20168 ha ritenuto che la disciplina antidiscriminatoria a tutela del dipendente che denuncia condotte illecite all’autorità giudiziaria, ex art. 54 bis d.lgs. n. 165/2001, non può trovare applicazione al di fuori delle pubbliche amministrazioni, non estendendosi alle società private partecipate da enti pubblici; le condotte ritorsive nei confronti del cd. whistleblower potrebbero essere riconducibili al divieto di discriminazione per convinzioni personali, ma a tal fine è necessario che il dipendente abbia agito in forza di un sistema di principi e di valori distinti e differenziati da quelli della generalità dei cittadini e che tali convinzioni abbiano carattere di notorietà nel contesto aziendale, tale da poter ritenere che il soggetto discriminante ne fosse a conoscenza. Il co. 2 dell’art. 54 bis (riformulato) ha espressamente esteso la tutela del dipendente pubblico, autore della segnalazione o denuncia, anche al personale degli enti pubblici economici e degli enti di diritto privato sottoposte a controllo pubblico ex art. 2359 c.c. (sul rapporti di lavoro dei dipendenti delle società a controllo pubblico v. ora l’art. 19 d.lgs. 19.8.2016, n. 175, recante il testo unico in materia di società a partecipazione pubblica).
Il diritto all’anonimato era sancito dal co. 4 dell’art. 54 bis, nella sua originaria formulazione, che prevedeva che la denuncia del dipendente era sottratta all’accesso previsto dagli artt. 22 ss. della l. 7.8.1990, n. 241. Tale disposizione è ripetuta, pressoché identica, nel co. 4 del vigente art. 54 bis, solo che il riferimento non è più alla denuncia del dipendente, ma alla sua segnalazione. Però le condotte illecite di cui è venuto a conoscenza il dipendente e che sono oggetto della sua denuncia/segnalazione possono attivare un procedimento penale, disciplinare, di responsabilità amministrativa o contabile, a carico del suo autore; il quale può avere interesse ad accedere a tutta la documentazione in possesso della pubblica amministrazione e posta a fondamento del procedimento a suo carico, non esclusa la segnalazione/denuncia del dipendente. La giurisprudenza ha già dato una lettura restrittiva del divieto di accesso sancito dal’art. 54, bis, co. 4. Secondo il Tar Campania (sez. VI, 8.6.2018, n. 3880), l’istituto del whistleblowing non è utilizzabile per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori; pertanto non può essere coperta da queste garanzie la dipendente pubblica che segnala gli atti persecutori subiti da una sua dirigente. Secondo il Tar – che richiama anche la circolare 28.7.2015, n. 64, dell’Inail e la circolare 26.3.2018, n. 54, dell’Inps – le segnalazioni non possono riguardare lamentele di carattere personale del segnalante o richieste che attengono alla disciplina del rapporto di lavoro o ai rapporti con superiori gerarchici o colleghi, disciplinate da altre procedure. Le garanzie di anonimato di cui alla disciplina del whistleblowing non possono comportare un’irragionevole compressione del diritto di accesso ai documenti che costituisce «principio generale dell’attività amministrativa». L’esercizio del diritto di accesso agli atti della pubblica amministrazione è posto a presidio del diritto di difesa (Cons. Stato, sez. VI, 30.3.2017, n. 1453). Esso pertanto non può risultare recessivo a fronte del diritto all’anonimato del lavoratore che abbia inoltrato la segnalazione o la denuncia.
La tutela del whistleblowing, ove ne ricorrano i presupposti, accorda l’anonimato del segnalante sul piano disciplinare, non sul piano penale9. Infatti, resta comunque la necessità di rivelare le generalità del denunciante laddove la segnalazione assurga a vera e propria dichiarazione accusatoria in ambito penale e l’individuazione del whistleblower sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato (Cass. pen., sez. VI, 31.1.2018, n. 9047). La sentenza afferma che la disciplina di cui all’art. 54 bis cit. è sì tesa a tutelare il dipendente pubblico che nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, segnala o denuncia condotte illecite di cui è venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro, garantendogli canali riservati di comunicazione, riserbo sulle generalità, che non possono essere diffuse senza il consenso dell’interessato, e tutela “forte” rispetto a condotte di rappresaglia nell’ambito del rapporto lavorativo; ma non introduce alcuno spazio per l’anonimato nel processo penale. La stessa pronuncia ha anche ritenuto che ai fini della valutazione dei gravi indizi di reato in sede di autorizzazione delle intercettazioni, è utilizzabile la segnalazione proveniente dal whistleblower, in quanto l’identità del denunciante è nota, pur essendo coperta da riserbo al fine di tutelare il pubblico dipendente che segnali condotte illecite, sicché non si incorre nel divieto di utilizzazione delle fonti anonime previsto dall’art. 333, co. 3, c.p.p. La Corte ha anche precisato che, in base all’art. 54 bis cit., l’identità del segnalante è coperta dal segreto nell’ambito del processo penale ai sensi dell’art. 329 c.p.p.
Agli aspetti problematici della disciplina del “whistleblowing” ha fatto riferimento la relazione annuale del 14.6.2018 dell’ANAC10. Si legge nella Relazione che l’istituto del whistleblowing «sta dimostrando grande vitalità con l’incremento, anche nel 2017, delle segnalazioni», ma vi è ancora, pur dopo la novella del 2017, una «scarsa tutela della riservatezza del segnalante che denuncia fatti di rilievo penale»11. Il Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza in materia di prevenzione della corruzione del 29.3.2017 della stessa ANAC ha posto particolare attenzione alle segnalazioni anonime – pervenute in gran numero (si legge nella cit. Relazione) – specificando che di esse, qualora aventi ad oggetto fatti di particolare rilievo o gravità o debitamente circostanziate, l’Autorità può tener conto quali elementi ad adiuvandum delle informazioni già in possesso dell’Ufficio. Presso l’ANAC è stato anche istituito un Ufficio per la Vigilanza sulle segnalazioni dei whistleblowers. Si segnala, infine, che anche l’Inps ha adottato la circ., 26.3.2018, n. 54, recante le disposizioni per la tutela del dipendente o del collaboratore che segnala illeciti in danno della pubblica amministrazione.
1 Si ritiene che il termine si riferisca alla pratica dei poliziotti inglesi di soffiare il fischietto (whistleblow) al momento di notare la commissione di un crimine. In generale, sull’istituto di nuovo conio, v. Silvestro, C., L’istituto del whistleblower a tre anni dalla legge anticorruzione, in Nuovo dir. amm., 2016, n. 3, 97.
2 Garofoli, R., Il contrasto alla corruzione La l. 6 novembre 2012 n. 190, il decreto trasparenza e le politiche necessarie, in www.penalecontemporaneo.it.
3 Tea, A., Le novità del whistleblowing: la tutela per chi segnala illeciti e irregolarità nel rapporto di lavoro, in Dir. prat. lav., 2017, 2805.
4 Cfr. Riccio, A., La tutela del whistleblower in Italia, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2017, 139.
5 In Lav. giur., 2017, 579, con nt. di Salazar, P., La segnalazione di illeciti integra comportamento sanzionabile?
6 In Riv. it. dir. lav., 2012, II, 831, con nt. di Peruzzi, M., Diritto di critica, whistleblowing e obbligo di fedeltà del dirigente.
7 In Riv. giur. lav., 2017, II, 410, con nt. di Giaconi, M., Un caso di whistleblowing davanti alla cassazione.
8 In Riv. giur. lav., 2017, II, 135, con nt. di Tarquini, E., Whistlebowing e principio paritario: alcune riflessioni su tipicità e oggettività dei divieti di discriminazione.
9 Amato, G., Profili penalistici del whistleblowing: una lettura comparatistica dei possibili strumenti di prevenzione della corruzione, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2014, 549.
10 Disponibile sul sito istituzionale dell’Anac all’indirizzo www.anticorruzione.it.
11 Cfr. anche Cantone, R.Parisi, N.Valli, L.Corrado, A.Greco, M.G. Segnalazioni di illeciti e tutela del dipendente pubblico: l’Italia investe nel WhistleBlowing, importante strumento di prevenzione della corruzione, 2016.