Ilaro
Il nome di I. è legato a una delle questioni più spinose della biografia dantesca. Nello Zibaldone Laurenziano XXIX 8, autografo (per la parte che qui interessa) del Boccaccio, a c. 67 r è trascritta un'epistola inviata a Uguccione della Faggiuola da un monaco I. del convento di Santa Croce del Corvo.
Il monastero era posto sulla costa sopra la foce del fiume Magra, ai confini della Toscana con la Liguria, e apparteneva alla congregazione benedettina degli eremiti pulsanesi; fu abbandonato per dissesto economico tra il 1350 e il 1360. Nessun documento del monastero relativo ai primi decenni del sec. XIV o alla fine del sec. XIII essendo pervenuto, nulla sappiamo di I. e dei suoi confratelli. In tempi moderni sulle rovine del convento fu posta una lapide celebrativa del soggiorno dantesco (cfr. L. Podestà, Del monastero di Santa Croce del Corvo, in " Atti e Mem. R. Deputazione St. Patria Prov. Modenesi e Parmensi " s. 4, VI [1894] 117-131; U. Mazzini, Il monastero di Santa Croce del Corvo, in D. e la Lunigiana, Milano 1909, 211-231; P. Lugano, D., il monastero del Corvo e l'Epistola di frate I., in " Rivista Stor. Benedettina " IV [1909] 209-230; L. Mattei Cerasoli, La congregazione benedettina degli eremiti pulsanesi, Badia di Cava 1938).
Dopo un farraginoso esordio d'intonazione chiesastica (vi si sviluppa il concetto scritturale - prescritto da Bono da Lucca tra le " generales sententiae ad usum bene exordientium " - che l'uomo si conosce dai frutti che dà) denunciante la mediocre statura culturale dell'autore, tuttavia non privo di ambizioni e di una qualche capacità dettatoria (I. doveva essere l '‛ intellettuale ', probabilmente il bibliotecario, del convento), l'epistola racconta come un tale, il quale contava di recarsi " ad partes ultramontanas " attraverso la diocesi di Luni, fosse salito al convento e avesse avuto un colloquio con I., curioso di conoscere il forestiero (questo è indicato sempre genericamente come " iste homo ", " ille ", ecc.: ma non v'è dubbio che si tratti dell'Alighieri). Avvedutosi dell'ammirata benevolenza del monaco che già aveva sentito parlare di lui (inutile ricordare il soggiorno di D. in Lunigiana e i suoi rapporti con i Malaspina), il poeta gli aveva offerto un libro contenente una parte della sua opera; e a I. stupito che argomenti tanto importanti fossero trattati in volgare aveva spiegato come in un primo momento avesse per l'appunto pensato di usare il latino (e sono citati i primi due versi e mezzo: " Ultima regna canam fluvido contermina mundo, / spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt, / pro meritis cuicunque suis "), ma poi, vedendo in quale scarsa considerazione fossero allora tenute dai signori le opere in lingua latina, aveva optato per il volgare. Egli aveva quindi chiesto a I. di far avere quella prima parte dell'opera, accompagnata da alcune chiose, a Uguccione: ed è questo il motivo dell'epistola del monaco al signore. Se Uguccione, cui quella parte era dedicata, avesse avuto desiderio di avere in seguito anche la seconda e la terza, avrebbe dovuto rivolgersi rispettivamente al marchese Moroello Malaspina e all'aragonese Federico, re di Sicilia, ai quali sarebbero state dedicate.
Oggi all'epistola ilariana si guarda con aperta e totale sfiducia, poiché le eccezionali ed esplosive notizie che contiene sembrano smentire dati che alla ‛ communis opinio ' dei dantisti appaiono ormai assodati in modo incontrovertibile. Ma è pur vero che rileggendo attentamente il dossier della ‛ vexata quaestio ' dell'autenticità di quest'epistola ci si avvede come il problema sia stato malamente impostato fin dall'inizio, negli ultimi decenni del secolo scorso, quando vi fu un po' la mania di scoprire ovunque falsificazioni e falsificatori di cose dantesche. Le contestazioni, sorte in massiccia e in parte salutare reazione all'atteggiamento agiografico e acritico (con punte di sorprendente ingenuità) con cui si guardava a questo racconto (stampato per la prima volta nel 1759 dal Mehus, nella Vita Ambrosii camaldulensis), finirono col seppellire l'epistola sotto una valanga di accuse di manifesta apocrifia, espresse in giudizi di pesante ironia (indicative al proposito sono le pagine che lo Zingarelli vi dedica ancora nel suo Dante vallardiano), e da quell'atmosfera invelenita l'epistola di I. non si è più riscattata; né è valso, all'inizio del secolo, il generoso tentativo di Vincenzo Biagi, convinto assertore dell'autenticità, che pure per un momento sembrò intaccare la ferrea convinzione dei più, proprio allora rinsaldata dall'autorevole intervento del Rajna. Benché il Parodi non nascondesse che non si sarebbe affatto stupito se l'epistola fosse risultata un giorno autentica e che anzi egli era incline a ritenerla tale (cfr. " Marzocco " XIII [1908] n. 52; XV [1910] n. 15; ma vedi poi " Nouvelle Revue d'Italie " XVIII [1921]), e il Sapegno, recensendo la ristampa dello studio del Biagi, avvertisse che " a giustificare l'atteggiamento negativo del Rajna e di altri stavano .... non tanto certi atteggiamenti logici, più o meno discutibili, quanto un sentimento immediato di sospetto e di sfiducia anteriore a tutti i ragionamenti critici " (cfr. " Giorn. stor. " CVII [1936] 262-265), prevalse la conclusione del Rajna, accolta tanto più favorevolmente in quanto veniva a risolvere la questione nel senso tradizionale e comunemente accetto (mentre la tesi dell'autenticità poneva inquietanti interrogativi su dati considerati ormai acquisiti): sì che anche lo stesso Parodi e il Sapegno finirono con l'adeguarsi all'opinione generale. Il Biagi rimase isolato (cfr. tuttavia U. Cosmo, Vita di D., Bari 1930, 147); e M. Barbi nella sua pur magistrale biografia dantesca (in Enc. Ital. XII) neppure accennò all'epistola di I. o comunque alla questione (e vedi le secche righe del Vandelli in " Studi d. " XX [1937] 106). Più recentemente ha rincalzato il giudizio negativo del Rajna G. Billanovich: il quale, sviluppando e argomentando brillantemente un'ipotesi già affacciata, soprattutto dal Macrì-Leone, ha inteso dimostrare che l'epistola non è propriamente frutto di falsificazione, bensì un esercizio retorico del Boccaccio (e perciò conservataci solo in quel suo Zibaldone), il quale l'avrebbe costruita giovandosi di stilemi tratti da opere dantesche (Monarchia, De vulg. Eloq., Epistola ai cardinali, Egloghe). La tesi sostenuta dal Billanovich è oggi accettata pressoché da tutti e considerata definitiva.
Non è però del medesimo avviso l'estensore di queste righe. Pur consapevole che la sua è voce destinata a rimanere isolata (ogni problema, per giungere a giusta maturazione, vuole il suo tempo), egli non può tacere le sue forti perplessità. La trascrizione dell'epistola di I. a opera del Boccaccio nello Zibaldone Laurenziano si colloca a fianco di altri testi danteschi o d'interesse dantesco - alcuni dei quali conservatici da questa sola testimonianza (proprio come l'epistola di I.) e tuttavia sicuramente autentici e discende da quelle ricerche intorno alla biografia dell'Alighieri che il certaldese condusse con tanta passione e che approdarono al Trattatello in laude di D. e alle Esposizioni sopra la Comedìa (v. BOCCACCIO, Giovanni). Il Boccaccio non aveva animo di falsificatore: e tuttavia da falsificatore si sarebbe comportato, dal momento che ha versato alcune notizie dell'epistola (che pure sarebbero state da lui inventate per esercizio retorico) nel Trattatello e persino nelle Esposizioni (dove i dati biografici danteschi sono ripassati al vaglio con occhio più criticamente inteso, per quanto possibile, alla verità). Né si capisce un'esercitazione retorica che rinunci a parti ritenute indispensabili dall'epistolografia del tempo: infatti la trascrizione boccacciana riporta solo la prima parte dell'epistola di I., poiché alla salutatio, all'exordium e alla narratio non fanno seguito la petitio (in cui verosimilmente il monaco avrà preso spunto dall'omaggio inviato per richiedere, secondo l'uso, qualche grazia per il convento) e la conclusio; tale assenza ben si spiega invece se chi trascrisse quel testo era interessato esclusivamente alla parte riguardante l'Alighieri, e perciò lasciò perdere il resto (qualcosa di analogo avvenne anche per la tradizione manoscritta dell'epistola a Cangrande, per cui la parte esegetica circolò autonomamente). Inoltre lo stile non è quello consueto alle epistole dettatorie del Boccaccio, il quale oltretutto ama sfoggiare ben altre citazioni, assai più colte; e la trascrizione contiene vari errori, alcuni dei quali sicuramente imputabili a fraintendimenti di lettura (" obiectos ", anziché " abiectos "; " postulatum " anziché " postillatum "), e persino una variante inserita nel testo (" peteret al quaereret " dove " al " è da sciogliere in " aliter " o " alias "). Che perciò il copista Boccaccio potesse essere egli l'autore dell'epistola avevano già dovuto escludere il Rajna (Testo della lettera..., p. 249) e il Vandelli (" Bull. " IX [1901-1902] 91); sicché gli stilemi danteschi notati dal Billanovich andranno spiegati in parte come moduli di uso comune, in parte come frutto dei colloqui di I. con l'Alighieri. Del resto nessuna delle obiezioni che furono avanzate contro la verisimiglianza del racconto di I. è insormontabile: 1) nel 1308 l'Inferno non sarebbe ancora stato composto. Ma nessuna espressione dell'epistola suggerisce tale data; semmai, la dedica a Uguccione, Moroello, Federico ci riporta al momento immediatamente successivo alla morte di Enrico VII, quando essi sembrarono raccogliere l'eredità dell'impresa imperiale, cioè nel 1314-1315; e la pubblicazione della prima cantica avvenne proprio in quel torno di tempo. 2) D. non avrebbe potuto dedicare il Paradiso a Federico d'Aragona, che è giudicato con asprezza nel Convivio (IV VI 20), nel De vulg. Eloq. (I XII 5), nel Purgatorio (VII 119-120) e nello stesso Paradiso (XIX 130-138, XX 63). Invece proprio questa pare la prova più forte a favore dell'autenticità: perché un falsificatore ricerca la verisimiglianza, e sarebbe sciocco inventare una notizia tanto contrastante con giudizi danteschi, specie a fronte della diffusa diceria che voleva il Paradiso dedicato a Cangrande. Non è inverosimile che alla morte di Enrico anche D., come molti altri, si fosse illuso che re Federico continuasse l'impresa, subendo quindi cocente delusione: la mancanza d'invettive contro l'Aragonese proprio e solo nell'Inferno è perciò singolarmente eloquente (non è il solo caso di rapidi mutamenti di giudizio dell'Alighieri). 3) D. sarebbe diretto " ad partes ultramontanas ": mentre un suo viaggio a Parigi non è accertato e risulta quanto mai improbabile. Ma l'espressione, detta da chi abita presso la foce della Magra, indica più semplicemente la regione al di là dell'Appennino, cioè l'Emilia-Romagna, per pervenire alla quale occorre appunto attraversare la Lunigiana (" per Lunensem dyocesim "), a D. ben nota e amica, fino al valico del Cerreto. E che il poeta in quel torno di tempo andasse (o ritornasse: nulla vieta di pensare a un'ambasceria, o qualcosa di simile) nell'Italia veneto-padana è tutt'altro che improbabile. 4) D. non avrebbe potuto consegnare la prima copia dell'Inferno a un monaco qualunque incontrato per caso. Ma non è necessario pensare che si trattasse proprio della prima copia, tanto più che almeno un gruppo di canti doveva circolare già (dice l'epistola: " una pars operis mei, quod forte nunquam vidisti "; e cfr. la preziosa notizia tramandata da Filippo Villani: " A Moruello deinde honesta necessitate decedens, Casentinum applicuit, ubi, aliquandiu manens, multum operis edidit "). Un'attenta lettura dell'epistola fa poi pensare che al monaco D. abbia non donato il " libellum ", bensì concesso di trascrivere la prima cantica per la biblioteca del convento (" talia vobis monumenta relinquo ") e di trarne poi una copia da inviare in dono a Uguccione (allora signore di Pisa e di Lucca, e forse patrono del convento; un suo fratello, Federico, apparteneva a quella medesima congregazione dei pulsanesi); in tal modo il poeta ricambiava la calda ospitalità ivi goduta. Il viaggio (o - insisto - il ritorno) nell'Italia veneto-padana viene poi a coincidere con quanto sappiamo circa la prima diffusione settentrionale dell'Inferno. 5) Infine l'unica obiezione consistente: l'esaltatore del volgare nel Convivio e nel De vulg. Eloq. non avrebbe potuto pensare di scrivere il suo poema in latino, e tanto meno avrebbe difesa la scelta del volgare in modo tanto scialbo. E però non sono queste dell'epistola parole scritte personalmente da D.: bensì il monaco riferisce quel che egli ha voluto e potuto capire delle parole dantesche, che potevano anche essere in parte dettate da ragioni di cortesia verso l'interlocutore. Che poi D. non potesse pensare a comporre la Commedia in latino, all'altezza del Convivio pare certo; ma la prima idea di un grande poema gli balenò alla mente assai prima, già alla fine della Vita Nuova, quando ancora riteneva che il volgare potesse adattarsi solo a poesie d'amore (Vn XXV 6). Giunge a proposito la notizia - indipendente e diversa da quella di I. - trasmessa da Filippo Villani: " Audivi, patruo meo Iohanne Villani hystorico referente, qui Danti fuit amicus et sotius, poetam aliquando dixisse quod, collatis versibus suis cum metris Maronis, Statii, Oratii, Ovidii et Lucani, visum ei fore iuxta purpuram cilicium collocare. Cumque se potentissimum in rithmis vulgaribus intellexisset, ipsis suum accomodavit ingenium ". G. Villani poté sentirlo dall'Alighieri, suo vicino di casa, in Firenze: dunque prima dell'esilio.
Bibl.-Il testo critico dell'epistola può oggi leggersi in appendice allo studio, citato oltre, del Billanovich.
Si vedano inoltre: C. Troya, Del Veltro allegorico dei Ghibellini, Napoli 1856, 225-250, 357-368; P. Fraticelli, Storia della vita di D.A., Firenze 1861, 341-350; K. Witte, Dante Forschungen, I, Halle 1869, 21-65, 418-433; G.A. Scartazzini, La lettera di frate I., in " Giorn. stor. " I (1883) 276-281; ID., L'impostura ilariana, in D. e la Germania, II, Milano 1883, 308-316; A. Bartoli, Storia della letteratura italiana, V, Firenze 1884, 189-209; F. Macrìleone, in G. Boccaccio, Vita di D., ibid. 1888, CIX-CXIII; H. Grauert, D., Bruder Ilarius und das Sehnen nach Frieden, Colonia 1899; P. Rajna, Qual fede meriti la lettera di frate I., in Dai tempi antichi ai tempi moderni (per nozze Scherillo-Negri), Milano 1904, 195-208; ID., Testo della lettera di frate I. e osservazioni sul suo valore storico, in D., e la Lunigiana, ibid. 1909, 233-283; V. Biagi, Un episodio celebre della vita di Dante. L'autenticità dell'epistola ilariana su documenti inediti, Modena 1910 (con bibl. della questione), poi rist. col titolo L'epistola ilariana e la sua autenticità, Pisa 1934; G. Billanovich, La leggenda dantesca del Boccaccio. Dalla lettera di I. al Trattatello in laude di D., in Prime ricerche dantesche, Roma 1947, 21-86 (poi, ampliato, in " Studi d. " XXVIII [1949] 45-144).