Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’Illuminismo italiano condivide con l’Illuminismo europeo la nozione chiave di autonomia della ragione, considerata quale strumento di progresso e mezzo per “rischiarare” l’uomo dall’ignoranza e per liberarlo dai pregiudizi. Esso mira quindi a un mutamento generale della mentalità e della concezione del mondo e investe la filosofia e le scienze, ma anche la politica, l’economia e la società, come segnalano i tentativi riformatori ispirati dagli intellettuali più rappresentativi del loro tempo.
Illuministi italiani ed europei
Centrale nell’Illuminismo italiano come in quello europeo è il concetto di progresso, che accomuna la filosofia alla politica e caratterizza tutta una visione settecentesca della storia e della società. Sebbene elaborazione filosofica e movimento riformatore non vadano sempre in parallelo e anzi siano in diversi casi contrassegnati da discrasie e conflitti, è indubbio però che in tutta Europa l’Illuminismo provi a farsi ispiratore di una stagione di riforme.
Lo spirito riformatore e la tensione volontaristica al mutamento dei rapporti sociali vanno di pari passo con l’incidenza crescente della tecnica e della scienza nella vita associata. Tali fattori, che coincidono con l’affermazione della borghesia come nuovo attore storico, diventano elementi fondamentali nelle dinamiche di emancipazione dalla società feudale tanto nel Settecento quanto nell’Ottocento.
In Italia una generazione di pensatori sin dagli anni Venti del Settecento si mostra culturalmente vivace e attenta al dibattito europeo, tanto che, grazie a numerose traduzioni, la letteratura straniera circola tra le élite culturali italiane. Nei decenni successivi a essa si affianca un’elaborazione originale di idee, in particolare in prossimità di quei centri di potere che, nella seconda metà del Settecento, promuovono un’opera riformatrice. Pietro Leopoldo in Toscana e Carlo III a Napoli danno vita a una sorta di assolutismo illuminato simile a quello di Federico II in Prussia, di Caterina II in Russia, di Maria Teresa e poi di Giuseppe II in Austria. Tuttavia nell’età dei Lumi è ben avvertibile il difficile rapporto fra la teoria e la realtà, fra la prima che cerca di interpretare e orientare la seconda e quest’ultima che non sempre si lascia plasmare ma anzi spesso oppone resistenza. Gli illuministi italiani sono in molti casi intellettuali vigili rispetto all’operato del potere politico, si fanno editori di periodici con funzione di stimolo sulla politica e provano a farsi ispiratori di riforme economiche e sociali.
Partecipi della realtà sociale che li circonda, recepiscono gli insegnamenti dell’empirismo di Locke e di Newton da una parte e quelli degli enciclopedisti francesi dall’altra, rifiutando invece la metafisica e i dettami delle due scuole di pensiero sino ad allora egemoni, il cartesianesimo e il neoplatonismo.
Diverse sono le scuole all’interno dell’Illuminismo italiano, legate alla specifica realtà storica e sociale del territorio in cui sorgono, ma con alcuni tratti comuni, su tutti una diffusa inclinazione a privilegiare gli esiti pratici della riflessione rispetto alla pura teoria. Fra queste spiccano la scuola lombarda e quella napoletana, ma diverse sono le figure che si distinguono in buona parte della penisola: in Piemonte Dalmazzo Francesco Vasco (1732-1794) e Giambattista Vasco, in Toscana Pompeo Neri e Francesco Maria Gianni (1728-1821), a Trento Carlo Antonio Pilati (1733-1802), a Venezia Francesco Griselini (1717-1787) e Andrea Memmo (1729-1793).
Lo sfondo culturale
I prodromi dell’Illuminismo sono da ricercarsi in Inghilterra, dove nel primo Settecento gli esponenti più rappresentativi del deismo contrappongono il concetto di “religione naturale” alla rivelazione cristiana. Sottoponendo a revisione critica i fondamenti dell’autorità ecclesiastica e facendosi difensori dei principi di tolleranza religiosa e di libertà di coscienza, si definiscono liberi pensatori, in opposizione ai dogmi e alle istituzioni delle religioni positive. A riguardo è celebre un distico eroico del poeta inglese Alexander Pope, traduttore tra l’altro dell’Odissea e dell’Iliade, secondo cui: “La natura e le sue leggi erano immerse nella notte; Dio disse: ‘sia Newton’ e tutto fu luce”.
Tuttavia gli illuministi italiani sono fortemente debitori, ancor prima che nei confronti dei deisti, in quelli di John Locke, riconosciuto come prezioso strumento di battaglia contro i sistemi metafisici. Locke nel suo Saggio sull’intelligenza umana ammette che gli uomini si possano essere formati l’idea di Dio o di infinito, idee che non sono quindi innate, come sostiene Cartesio. Allo stesso modo non sono innati i principi logici, né i principi morali: essi derivano tutti dall’esperienza.
Ugualmente l’Illuminismo italiano non può prescindere dalla scienza sperimentale inaugurata da Francesco Bacone, il cui metodo anticipa quello galileiano; le sue acquisizioni, a loro volta, convergono nella sintesi operata da Isaac Newton. Il grande matematico e filosofo inglese pone le fondamenta della meccanica classica e dimostra che sono le leggi della natura a governare il movimento della Terra e degli altri corpi celesti. La fisica newtoniana è recepita in Italia nell’ambito della tradizione tecnico-matematica della scuola galileiana e in contrapposizione alla fisica cartesiana, in particolare grazie all’opera divulgativa di Francesco Algarotti che nel 1737 dà alle stampe il suo Newtonianesimo per le dame.
Ancor più dell’empirismo di Locke e Newton è centrale nella formazione degli illuministi italiani l’influenza dei pensatori francesi e in particolare degli enciclopedisti. Da metà del Settecento in avanti nei maggiori centri della penisola circolano le opere di Montesquieu e di Voltaire, di Helvétius, di d’Alembert e di Rousseau, mentre prima a Lucca e poi a Livorno vengono date alle stampe due edizioni italiane de l’Encyclopédie. Seppur assai attenuato rispetto a quanto avviene in Francia, il rinnovamento ispirato dall’Illuminismo investe campi diversi e in particolare quello pedagogico: tanto le scuole quanto le università vivono diversi esperimenti di riforma, che, se in alcuni casi solo abbozzati, sono pur sempre testimonianza di una volontà di riorganizzazione tesa a superare la tradizione gesuitica.
Anche l’Illuminismo tedesco, sebbene in misura assai minore rispetto a quello francese e inglese, esercita influenza sui pensatori italiani del Settecento, in particolare grazie alle figure prima di Christian Wolff – con la sua completa fiducia nella capacità dell’intelletto umano di chiarire qualsiasi questione e la convinzione che proprio in ciò stia la dignità dell’uomo – e poi di Gotthold Ephraim Lessing, grande ammiratore di Diderot. Le concezioni politiche, così come quelle religiose, di Lessing si fondano sull’idea del perfezionamento progressivo dell’uomo, primo protagonista dell’evoluzione storica.
Tali influenze sono possibili grazie al carattere cosmopolita delle accademie, come quelle di Berlino, Pietroburgo e l’Istituto delle scienze di Bologna, fondato nel 1711 da Luigi Ferdinando Marsili; ciò favorisce la circolazione in ambito europeo di uomini e idee e stimola i rapporti e gli scambi fra l’attività scientifica periferica e quella dei grandi centri come Parigi e Londra.
La ricezione in Italia delle idee illuministe avviene però in ritardo rispetto ad altri Paesi, non prima della metà del Settecento. Inoltre la formazione di un movimento illuministico degno di questo nome è un processo che procede lentamente e con molteplici difficoltà, dovute principalmente alle resistenze che le istituzioni d’ancien régime continuano ad esercitare sulla società.
L’Illuminismo lombardo
Ludovico Antonio Muratori appartiene alla generazione precedente a quella degli illuministi, quando ancora embrionali sono i rapporti tra la cultura italiana e quella europea. Archivista e bibliotecario estense, storico del Medioevo noto per i suoi Annali d’Italia, nonostante una mentalità ancora controriformistica, nel suo pensiero non mancano elementi di impegno etico e civile volti a una moderata riforma dell’imperante ortodossia cattolica. Autore prolifico, ne La Filosofia morale esposta e proposta ai giovani del 1735 sostiene che Dio ha affidato ai governanti la missione di fare la felicità dei loro sudditi, i quali possiedono una tendenza naturale alla uguaglianza e alla libertà.
Lo sforzo di intellettuali come Muratori prepara, in qualche misura, il movimento illuministico che si sviluppa da metà Settecento in coincidenza con i relativi progressi sociali che vive il Paese, in particolare in Lombardia dove Maria Teresa e Giuseppe II danno il via a una serie di riforme amministrative, alleggeriscono il carico fiscale, eliminano la tortura e l’inquisizione.
Tra il 1761 e il 1762 nasce la Società dei Pugni su impulso di Pietro Verri e animata tra gli altri da Alessandro Verri, Cesare Beccaria, Paolo Frisi e Alfonso Longo (1738-1804). La Società non ha un programma preciso ma è caratterizzata dall’entusiasmo per la nuova cultura e per il rifiuto del vecchio mondo, secondo un atteggiamento antiaccademico e antiretorico: si discute, si legge in comune e si compilano estratti di opere di letteratura inglese e francese. Gli aderenti alla Società danno vita a un periodico ove, sul modello dell’inglese “Spectator”, si trovano discussi temi di respiro europeo, “Il Caffè”. Esso viene pubblicato circa ogni 10 giorni dal giugno 1764 al maggio 1766 e il suo scopo principale è di rafforzare un’opinione pubblica consapevole. Viva è l’influenza della cultura francese, in particolare delle idee di Montesquieu, Voltaire e Rousseau, e di quella inglese.
I contributi più consistenti a “Il Caffè”, almeno per numero di articoli, sono quello di Pietro Verri (1728-1797) e del fratello Alessandro (1741-1816).
Di famiglia nobile, in gioventù Pietro Verri entra in contatto con i maggiori esponenti della società letteraria milanese, prima di partire per Vienna come volontario nell’esercito austriaco. Ben presto insofferente nei confronti della vita militare, torna a Milano dove si distingue come animatore dei circoli intellettuali, aprendoli alle influenze degli illuministi francesi, tra i quali Helvétius, Rousseau e Maupertuis. Scrive un Saggio sulla grandezza e decadenza del commercio di Milano sino al 1750 e le Meditazioni sulla felicità. In quest’ultima opera giudica la monarchia assoluta uno strumento per passare a un nuovo ordine e propone di abolire le “ferme”, ovvero le società di speculatori che ricevono da Maria Teresa l’appalto delle imposte indirette e che per Verri costituiscono una forza di corruzione del governo, causando il malcontento del popolo e un danno per l’erario. Egli ottiene che la riscossione delle imposte sia gestita direttamente dal governo, che gliene affida l’incarico. Negli anni successivi ricopre alti incarichi nell’amministrazione lombarda, fino a diventare Consigliere intimo di Stato (1783-1786).
Si può dire che Pietro Verri sia generalmente più interessato alla libertà civile che a quella politica, cioè al problema dello Stato. Nella Società dei Pugni si fa chiamare con lo pseudonimo di Silla, è un apologeta dell’assolutismo illuminato e un difensore del governo di uno solo, in opposizione al governo dei molti. La sua fiducia nella monarchia viene meno solo quando, nel 1786, è abolito il Magistrato Camerale ed egli viene così messo in pensione. Quando nel 1790 Leopoldo II succede a Giuseppe II e apre a un regime più liberale, Verri però ritorna nuovamente all’attività politica e viene eletto nella ricostituita Assemblea dei Decurioni, o Municipalità.
Parallelamente alla politica si dedica all’elaborazione intellettuale. In particolare il suo nome è legato alla redazione de Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria – è proprio Verri a spingere Beccaria a scrivere l’opera oltre che ad aiutarlo nella stesura – e ancor più a “Il Caffè” dalle cui pagine si occupa di letteratura, di economia e di temi concernenti l’amministrazione. Centrale nel suo pensiero è la questione della pubblica felicità, che deve essere il fine di ogni legislazione. Tra le sue opere vanno ricordate anche: Elementi di commercio, Riflessioni sulle leggi vincolanti principalmente nel commercio dei grani, Meditazioni sulla Economia politica, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, Osservazioni sulla tortura, Storia di Milano, Decadenza del papato, Idea del governo di Venezia e degli Italiani in generale.
Ancor più che alle idee di Pietro Verri l’Illuminismo lombardo è legato a doppio filo a quelle di Cesare Beccaria, pensatore di grande fama, acquisita grazie soprattutto al celeberrimo libello Dei delitti e delle pene, pubblicato anonimo a Livorno nel 1764 e tradotto l’anno seguente in francese da André Morellet (1727-1819). Studioso di Montesquieu, Rousseau ed Helvétius, di Bacone e di Hume, nelle sue opere egli si fa difensore dell’alleanza fra i Lumi e la corona, con il filosofo che guida la mano del principe, il cui compito è quello di garantire ai sudditi quanta più libertà possibile. In Dei delitti chiede l’abolizione della tortura e della pena di morte e sottolinea il ruolo della prevenzione sociale nell’evitare che vengano commessi reati. Non è solo compito della giustizia ma spetta anche all’amministrazione e all’economia modificare le condizioni materiali che inducono a delinquere. Perché vi sia felicità deve esserci eguaglianza, sottolinea Beccaria rivelando un’evidente influenza del pensiero di Rousseau. La sua ricerca sulle condizioni della ricchezza da una parte e della miseria dall’altra lo porta a schierarsi contro i privilegi nobiliari e le “società particolari” e a sostenere che il diritto di proprietà sia uno strumento, ma non un diritto assoluto. Per questo viene accusato dal monaco vallombrosano Ferdinando Facchinei (1725-post 1814) di essere un “socialista” e il “Rousseau degli italiani”.
Il diritto, che va separato dalla religione, è strumento fondamentale sia per la tutela dei diritti individuali, e cioè per fare diventare i sudditi cittadini, sia per l’edificazione di una società costruita al fine del bene comune. In tal senso obiettivi dichiarati dell’opera sono l’uguaglianza di fronte alla legge e la promozione della codificazione, che è fondamentale affinché il potere non rimanga senza controllo, diventando arbitrio. La pubblicità delle leggi e la necessità di un codice scritto sono così due fattori fondanti per l’ammodernamento della società. Pubblici devono essere i i giudizi e pubbliche le prove del reato.
Altrettanto importante è la proporzione fra i delitti e le pene. I delitti sono di tipo diverso, si dividono in attentati contro le persone e contro le sostanze, e non possono quindi essere puniti in modo uguale. Se i primi meritano pene corporali, i furti devono essere puniti con pene pecuniarie; i massimi delitti sono quelli di lesa maestà, seguono i delitti contrari alla sicurezza di ciascun singolo.
In ogni caso per far diminuire i delitti non è necessario stabilire pene dure, quanto stabilire pene certe. Per evitare i delitti di ogni tipo bisogna insistere sulla prevenzione, senza ricorrere alle accuse segrete, perfezionando l’educazione, ricompensando la virtù.
Beccaria vi sostiene che la tortura sia una crudeltà utilizzata nei confronti di uomini non ancora dichiarati rei e quindi potenzialmente innocenti e tali posizioni trovano riscontro in un’effettiva diminuzione della pratica della tortura in Europa. Beccaria rifiuta anche la pena di morte – ritenendo che essa non possa essere un diritto di alcuno, e che non sia né utile né necessaria poiché non funziona da deterrente – se non in due casi eccezionali: per motivi di sicurezza nazionale (se l’esistenza del soggetto interessato può produrre una pericolosa rivoluzione) e quando la morte del reo sia l’unico freno per distogliere altri dal delinquere. Anche in questo caso la posizione di Beccaria porta a risultati concreti. Dei delitti è, come si capisce, un testo fondamentale che ha grande influenza sulla società civile di allora.
Alcuni pensatori si riterranno eredi delle concezioni di Beccaria e di Verri, a cui affiancheranno una propria visione nazionale e repubblicana. Melchiorre Gioia (1767-1829), studioso di etica, di economia e soprattutto di statistica, è autore di una Dissertazione in risposta al concorso bandito dall’Amministrazione generale della Lombardia su Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia (1798), in cui confronta la condizione di corruzione dei costumi provocata dai regimi monarchico e aristocratico e la “virtù” coltivata nelle antichissime repubbliche italiche. Così come Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari, Gioia è allievo di Giandomenico Romagnosi (1761-1835), esponente dell’Illuminismo giuridico e autore della Genesi del diritto penale (1791). Tutti intellettuali, questi, che si possono considerare gli eredi dell’Illuminismo lombardo.
L’Illuminismo napoletano
Nel regno di Napoli la persistente tradizione giurisdizionalista giannoniana favorisce la fioritura autonoma di un complesso moto intellettuale, con protagonisti Ferdinando Galiani, Antonio Genovesi, Francesco Mario Pagano, Gaetano Filangieri. Costoro non soltanto recepiscono gli esiti più alti della cultura europea ma sanno rielaborarli e da un lato rilanciarli verso l’Europa, dall’altro farne base teorica per concrete proposte di riforme economiche e civili.
Giurista e allievo di Genovesi, Filangieri è il primo pensatore italiano che si pone il problema di stabilire una scienza del diritto e di conseguenza di dotare la dottrina giuridica di una forma sistematica. Sull’esempio vichiano anche la Scienza della legislazione (la sua opera maggiore, apparsa a Napoli in cinque libri a partire dal 1780 fino al 1791) è concepita da Filangieri come una “nuova” scienza, fondata, proprio perché scienza, su “principi”. Grazie all’opera di codificazione che l’epoca storica ormai esige, essa è deputata a riformare l’attuale società in maniera non solo radicale, ma strutturale, investendo cioè con trasformazioni profonde tutti i suoi comparti e rendendo reciprocamente coerente l’azione di rinnovamento intrapresa in ciascuno di essi.
Il quadro di riferimento è ancora quello del dispotismo illuminato – con la pubblica felicità come finalità prima del progetto riformatore – anche se alcune proposte di riforma sembrano travalicarlo e in certo modo presagire gli sviluppi ulteriori; non a caso diversi fra i suoi discepoli (Pagano per primo) animeranno le fila rivoluzionarie durante il “Triennio giacobino”. Pubblica felicità significa in primo luogo benessere, materiale e spirituale, garantito dallo Stato attraverso buone leggi, finalizzate in primo luogo ad abbattere il sistema feudale fondato sui privilegi e insieme garante di essi. Il primo terreno di intervento è perciò quello della organizzazione economica della società e il secondo quello delle istituzioni politiche, con la preferenza accordata alla forma monarchica. L’abbattimento delle barriere cetuali consente di liberare spazio per l’ascesa della borghesia; il superamento delle antiche “libertà” tuttora rivendicate dalla nobiltà, compresa quella ecclesiastica, agevola una centralizzazione del potere che, per non essere dispotico, dovrà a sua volta saper separare tra loro funzione legislativa ed esecutiva e soprattutto rendersi soggetto alla sovranità della legge. Oltre all’eliminazione dei latifondi e delle leggi sulla primogenitura, alla redistribuzione della proprietà terriera e alla radicale revisione del metodo di tassazione, sono da menzionare le proposte riguardanti l’intero sistema della fiscalità, nelle quali Filangeri riversa l’esperienza precedentemente fatta come membro del Supremo Consiglio delle finanze, sotto il ministro John Acton (1736-1811). Strumenti decisivi di innovazione sono infine la riforma del sistema penale, ispirata da Beccaria, e quella non meno importante delle istituzioni educative.
Nella filiazione intellettuale da Genovesi a Filangieri, lo scarto più significativo esperito a livello sia teorico che politico-pratico da Pagano riguarda l’accettazione del modello repubblicano, abbracciato, insieme ad altri letterati, artisti e scienziati già seguaci del pensiero dei Lumi e per lo più di provenienza nobiliare, nell’ultimo scorcio della sua vita, immolata sull’altare della rivoluzione napoletana stroncata dall’esercito sanfedista. Giovane avvocato, votato alla difesa delle figure più umili, mette a punto una “teoria delle prove” che, pur elaborata secondo il magistero di Filangieri, fa compiere alla procedura processuale un grande passo in avanti. Nel 1785 ottiene la cattedra di Diritto criminale all’università di Napoli; le sue Considerazioni sul processo criminale (1787) avranno immediata eco europea. Autore di drammi e prima ancora filosofo (da allievo di Genovesi era stato lettore presso la cattedra di Etica), affida ai Saggi politici. De’ principii, progressi e decadenza della società (1783-1785) la propria filosofia civile. Partendo dal presupposto di un sostanziale parallelismo fra storia dell’umanità e sviluppo della vita del singolo, l’opera ripercorre per grandi quadri una storia universale ad andamento ciclico, che ha pur tuttavia per protagonisti il progresso e la civilizzazione cui esso, giunto al suo acme, inevitabilmente conduce. Le rilevanti modifiche apportate all’opera in seconda edizione (1791-1792) esaltano il tema del perfezionamento perseguito sul piano sociale e politico, oltre che individuale, e dedicano forte attenzione al tema dei “diritti”, cui sempre più Pagano si va dedicando.
Il 1795 è l’anno della messa all’Indice per empietà dell’opera e della denuncia di Pagano per idee rivoluzionarie. Arrestato l’anno successivo e mandato in esilio dopo due anni di carcere, rientra a Napoli allo scoppio dell’insurrezione del 1799, diventa membro del governo provvisorio della Repubblica Napoletana e presidente del comitato di legislazione. Il suo compito è ora quello di formulare innovative proposte di legge e prima ancora di stendere il progetto di costituzione, accogliendo il modello della costituzione francese del 1795 imposto da Napoleone a tutte le repubbliche sorte in Italia a partire dal 1796. Vi inserisce tuttavia alcune correzioni di ragguardevole significato, volte tutte a contrastare l’indirizzo bonapartistico ormai impresso dalla nuova politica francese.
Antonio Genovesi
Empietà della seconda età delle parole e la virtù del vero sapere
Il vero fine delle lettere e delle scienze
I poeti della seconda età, sacerdoti, profeti e saggi delle nazioni gentili, riempirono tutto delle loro sconcissime fantasie. Le scuole, nelle quali dovevano insegnarsi i precetti della vita e le regole delle arti, e formarvisi e perfezionarvisi la ragione inventrice e governatrice de’ comodi umani, divennero le botteghe di un’empia poesia, di una seduttrice eloquenza e di una profana teologia. E come gli uomini nemici della fatiga, i fuchi del genere umano, i quali amano vivere imposturando altrui in un ozio che possa a’ più semplici parer mestiere, sono delle erbe che nascono in tutte le regioni della terra, non durò guari che le scuole della ragione, che dovevano intendere a’ vantaggi umani, furono piene di cotali scioperati alunni e gli agricoltori, i pastori, i fabbri ed altrettali artefici, i quali dovevano esserne i legittimi possessori, ne furono, come volgo profano, esiliati. Né qui la incominciata corruzione s’arrestò. Conciossiaché: poiché gli uomini quanto son più semplici, tanto sogliono più stimare quel che meno intendono, i dialettici ed i metafisici, i D. Chisciotti della repubblica delle lettere, combattenti cogli indestruttibili giganti delle chimere, per la gloria vanissima di sottilissimo ingegno, loro Dulcinea del Toboso, salirono in alta stima, ed usurparono il premio dovuto al vero sapere; ciò che fu l’esca fatale che riempì ne’ vecchi tempi d’indiscreti sofisti la Grecia, e ne’ secoli a noi più vicini buona parte dell’Europa. La prima e la più antica filosofia delle nazioni non fu che etica, economica, politica. I primi filosofi furono in un tempo istesso i legislatori, i padri, i catechisti, i sacerdoti delle nazioni. La loro filosofia era tutta cose, e la vita era vita di cittadini persuasi che come participavano a’ comodi della società, così dovevano aver parte alle cure ed alle fatiche, o per lo ben pubblico, o per lo ben domestico. No ci era ancora chi avesse la massima de’ tempi, che poi sopravvennero, che l’ozio fusse un nobile ed onorato mestiere.
in Illuministi italiani, tomo V: “Riformatori napoletani”, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1958-1965
Melchiorre Cesarotti
Sulle lingue moderne e la loro mutabilità
Saggio sulla filosofia delle lingue
È noto che i Greci e i Romani riguardavano tutti i popoli come barbari, destinati al dispregio e alla servitù: i loro costumi, le loro opinioni ed usanze non erano per essi, non dirò oggetti di stima, ma nemmeno di curiosità e di ricerche. Inoltre gl’idiomi di quelle nazioni, prive di scrittori illustri, digiune delle discipline e dell’arti, non aveano di che adescar le lingue dominanti a far alleanza con loro. Or se ad onta di ciò la favella de’ Greci e de’ Romani si modificò da se stessa seguendo l’impulso progressivo dello spirito e le vicende dello stato sociale, il carattere affatto diverso del nostro secolo rende l’inalterabilità delle lingue moderne pressoché fisicamente impossibile. La scoperta d’un mondo incognito, il commercio e la comunicazione universale da un polo all’altro, la propagazione dei lumi per mezzo della stampa, le conoscenze enciclopediche diffuse nella massa delle nazioni, che trapelano insensibilmente fino nel popolo, i tanti capi d’opera di cui abbondano tutte le lingue più celebri, e attraggono da ogni parte gli sguardi, i pregiudizi d’una tolleranza filosofica sostituiti in ogni genere a quelli del patriottismo, non solo hanno prodotta una rivoluzione generale in tutti gli spiriti, ma insieme atterrarono tutte le barriere che separavano anticamente una nazione dall’altra, e confusero in ciascheduna le tracce del loro carattere originario. Le antipatie religiose e politiche non si conoscono più: le usanze e le opinioni sono in una circolazione perpetua: l’Europa tutta nella sua parte intellettuale è ormai divenuta una gran famiglia, i di cui membri distinti hanno un patrimonio comune di ragionamento, e fanno tra loro un commercio d’idee di cui niuno ha la proprietà, tutti l’uso. In tal rigenerazione di cose non è assurdo l’immaginare che il genio delle lingue possa conservarsi immutabile? e non dee piuttosto scorgersi in ciascheduna di esse, come Ovidio, “facies, non omnibus una, / nec diversa tamen, qualem decet esse sororum”? Tal è in fatti la loro tendenza insensibile a ravvicinarsi e a profittar delle altrui ricchezze, che senza il genio grammaticale, da cui solo si forma la linea di divisione insormontabile fra l’una a l’altra, diverrebbero a poco a poco una sola, e molte opere d’una lingua non parrebbero che traduzioni dall’altra. Io non intendo né di approvare questa tendenza: dico solo ch’ella regna nelle lingua moderne, e nell’italiana sopra d’ogni altra.
in Critici e storici della poesia e delle arti nel secondo Settecento, a cura di E. Bigi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1960