Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’Illuminismo tedesco presenta come tratto caratteristico nel confronto con gli altri illuminismi europei, un allontanamento dalla filosofia scolastica in favore di una rivalutazione della dimensione pratica del sapere, l’esigenza di fondare la conoscenza su un metodo che le conferisca una natura sistematica, nonché la ripresa di un interesse più spiccatamente antropologico che metterà capo alla nascita della filosofia popolare.
Peculiarità dell’Illuminismo tedesco
Secondo la definizione che ne dà Immanuel Kant ormai sul volgere dell’età illuministica, l’Aufklärung (letteralmente “rischiaramento”) rappresenta l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità determinato dall’incapacità di servirsi autonomamente della propria ragione. Lo spirito dell’Illuminismo si incarna nel motto sapere aude!, nell’invito a esercitare con coraggio una ragione ormai matura. Il giudizio kantiano, ancorché pensato in riferimento all’Illuminismo inteso come tappa di uno sviluppo ideale dell’umanità, rappresenta in realtà il frutto più genuino dell’Aufklärung, vale a dire del fenomeno storico che si realizza in Germania all’incirca tra la fine del Seicento e gli ultimi decenni del Settecento. Il concetto di autonomia, che costituisce il nerbo della definizione kantiana, rappresenta infatti il fil rouge che accompagna la riflessione tedesca di quegli anni e che, se per un verso lo accomuna agli altri illuminismi europei, per l’altro ne rappresenta, nelle sue svariate declinazioni, il tratto peculiare. Anche l’Aufklärung si delinea infatti, al pari dell’Illuminismo francese e britannico, come un tentativo di affermazione della ragione – seppur nella consapevolezza dei suoi limiti di validità – di fronte a ogni manifestazione di dogmatismo, tanto in campo teologico quanto più, in generale, in ambito filosofico e scientifico. E, come questi altri illuminismi, anche l’Aufklärung guarda all’uomo e alla sua storia con un profondo ottimismo animato da una fiducia più o meno manifesta nel progresso dell’umanità. A differenza degli altri grandi illuminismi europei, però, l’Aufklärung si caratterizza per un atteggiamento generalmente più moderato nei confronti della discussione politica e religiosa, il quale va ricondotto alle condizioni peculiari in cui versava la Germania del tempo. All’indomani della guerra dei Trent’anni (1618-1648) il Paese si trovava infatti frammentato in una miriade di staterelli direttamente governati, in mancanza di un potere centrale forte, da esponenti della classe nobiliare, la quale, saldamente attaccata al potere politico ed economico, costituiva un grande ostacolo alla formazione di una borghesia in grado di portare avanti le istanze di un rinnovamento politico e culturale. Non di rado, inoltre, all’asservimento politico si accompagnava una forma di asservimento ai precetti di una religione ormai costretta in un vincolo di prescrizioni esteriori, cui i prìncipi non lesinavano di richiamarsi per assicurarsi l’obbedienza dei sudditi. Accanto a questa forte instabilità politica, la situazione della cultura tedesca del tempo è profondamente segnata dalla progressiva affermazione del pietismo. Si tratta di un movimento religioso che nasce nella Germania degli ultimi decenni del Seicento attraverso l’opera del teologo luterano Philipp Jakob Spener e del teologo evangelico August Hermann Francke e rappresenta il principale movimento di rinnovamento all’interno del protestantesimo europeo. Esso propugnava il ritorno a una forma di luteranesimo originario che, come affermava Spener nei Pia Desideria (1675), restituisse centralità al libero esame del testo sacro, riconoscesse la libertà dei cristiani di fronte all’autorità ecclesiastica e, in ultima analisi, rivendicasse il primato della fede viva delle coscienze di fronte al culto esteriore irretito nelle maglie di una sterile dogmatica. Il rinnovamento interiore promosso dal pietismo si accompagnava alla fondazione di istituti educativi destinati a diventare centri di diffusione della cultura primoilluministica tedesca: all’inizio degli anni Settanta, Spener fondava a Francoforte i primi Collegia pietatis, conventicole religiose destinate alla lettura collettiva della Bibbia e in specie del Nuovo Testamento, che si diffusero presto nei territori della Germania protestante. Nel 1695 Francke fondava a Halle un centro di educazione e formazione pietistica ancor oggi attivo, le Franckesche Stiftungen, grazie a cui la città divenne uno dei massimi centri dell’Illuminismo tedesco.
La filosofia fuori dalla scuola
Pietismo e Aufklärung condividono sul volgere del XVII secolo l’esigenza di un rinnovamento profondo, morale, religioso e culturale, della vita spirituale tedesca. Questa loro comunione di intenti anima la fase incipiente dell’Illuminismo, la cosiddetta Frühaufklärung (1680-1720), che si fa convenzionalmente iniziare con le prime lezioni di Christian Thomasius all’università di Lipsia. La riforma della filosofia auspicata da Thomasius muove dalla medesima avversione nei confronti dell’atteggiamento dogmatico e delle astrattezze del sapere di scuola che aveva suscitato la reazione dei pietisti di fronte alla teologia del tempo. Alla pari dell’esigenza pietistica di rivendicare la libertà del singolo di fronte al testo sacro e all’autorità ecclesiastica, Thomasius reclama attraverso il carattere eclettico della propria filosofia l’autonomia della ragione rispetto ai pregiudizi della tradizione, tanto filosofica quanto religiosa. La nuova filosofia raccoglie in sé lo spirito della prima riflessione illuministica nella misura in cui afferma il proprio carattere laico, l’orientamento pragmatico e l’esigenza di rendersi accessibile a un pubblico più ampio rispetto a quello cui era comunemente destinata, in ultima analisi la nobiltà e il clero. A questo scopo Thomasius sostituisce l’uso del tedesco a quello del latino tanto nelle lezioni universitarie quanto nei suoi scritti, e affronta temi di interesse non strettamente accademico, facilmente fruibili dalla giovane borghesia che incomincia a prendere parte alla vita intellettuale della nazione. Tanto la logica esposta nella Introduzione alla dottrina della ragione (1691), quanto l’etica consegnata alla Introduzione alla dottrina dei costumi (1692) sono animate da un profondo spirito anti intellettualistico. Riconoscendo nell’esperienza un limite invalicabile della conoscenza umana, Thomasius prende le distanze dalle astrattezze metafisiche, dal sapere arido e polveroso della filosofia di scuola e dalla logica sillogistica: la nuova logica va concepita come una dottrina della ragione che fornisce chiari precetti con cui il sano intelletto si rende capace di smascherare i pregiudizi, le superstizioni e gli errori del passato. L’orientamento pratico si manifesta anche in ambito etico, in cui Thomasius avversa l’ideale contemplativo della tradizione razionalistica – in specie spinoziana, riproposta nella Germania di quegli anni da Ehrenfried Walther von Tschirnhaus (1651-1708) – cui contrappone il primato della ragione pratica sulla ragione speculativa. L’uomo di Thomasius non è innanzitutto un essere razionale, ma un essere capace di aprirsi al prossimo con amore e di rendersi parte attiva di una comunità entro cui gli è consentito realizzare appieno la sua umanità e realizzare la sua destinazione. La filosofia, lungi dall’essere un mero esercizio di pensiero ad uso esclusivo del mondo dotto delle università, deve pertanto venir concepita come una saggezza mondana (Weltweisheit), la quale, prima di guardare alla verità, deve innanzitutto presentarsi come lo strumento razionale che guida l’uomo comune nella condotta della sua esistenza concreta. Il carattere eminentemente pragmatico e sociale della filosofia, il primato della volontà sull’intelletto, la propensione verso una forma di empirismo – attraverso cui passerà peraltro la prima ricezione tedesca di Locke – e il profondo orientamento pietistico rappresentano i tratti comuni a quel gruppo di pensatori che, sul volgere del XVII secolo, si pongono nella sfera di influenza diretta di Thomasius. Tra questi occupano una posizione di preminenza i teologi hallensi Johann Franz Budde (1667-1729), Joachim Lange (1670-1744) e il medico Andreas Rüdiger (1673-1731), anch’egli attivo a Halle in quegli anni. Costoro operano nel senso di una sistematizzazione dello spirito eclettico di Thomasius, combinando nelle loro filosofie istanze pietiste con temi della tradizione aristotelica, cartesiana e, da ultimo, lockiana. Ciò ha come naturale conseguenza una nuova forma di scolasticizzazione della filosofia, non da ultimo segnata dal ritorno al latino come alla lingua dotta del sapere, che si pone in radicale contrasto con lo spirito della riflessione thomasiana.
Christian Wolff
Prolegomeni all’ontologia
Philosophia prima, sive ontologia
1. Definizione della filosofia prima. L’ontologia o filosofia prima è la scienza dell’ente in generale, o dell’ente come tale.
2. Se gli asserti dell’ontologia debbano essere dimostrati. Poiché la scienza è l’abito di dimostrare gli asserti (...), ciò che viene asserito nell’ontologia va dimostrato.
3. Obbiezione e risposta. Se neghi che l’ontologia possa essere definita correttamente come una scienza e di qui inferisci che erroneamente si argomenta che perciò i suoi asserti debbano essere dimostrati, ribatterò facendo vedere che nell’ontologia bisogna usare il metodo dimostrativo, e di qui concluderò che è una scienza.
4. Motivi particolari della convenienza del metodo dimostrativo all’ontologia. Nella filosofia prima bisogna usare il metodo dimostrativo. Se in logica, in filosofia pratica, in fisica, nella teologia naturale, nella cosmologia generale e in psicologia tutto va rigorosamente dimostrato, ancor più necessario è l’uso di princípi nell’ontologia (...), e per conseguenza in ontologia non si può ammettere se non ciò che è sufficientemente spiegato e si fonda sull’esperienza indubitata e sulla dimostrazione (...). Bisogna dunque in essa usare il metodo dimostrativo o scientifico (...).
5. La filosofia prima è una scienza. Ciò che neghiamo o affermiamo in filosofia prima dobbiamo infatti dimostrarlo (...). Essa è dunque una scienza (...).
6. Perché la filosofia senza l’ontologia non può essere trattata con metodo dimostrativo. Poiché la filosofia prima va trattata con metodo dimostrativo, affinché tutte le altre discipline filosofiche siano trattate con lo stesso metodo, come appare dalla dimostrazione precedente (...), è dunque ora evidente quanto abbiamo affermato nel Discorso preliminare (...), che cioè senza la filosofia prima la filosofia nel suo insieme non può essere trattata con metodo dimostrativo.
8. Qual è l’oggetto dell’ontologia. Poiché l’ontologia tratta dell’ente in generale (...), deve dimostrare ciò che conviene ad ogni ente, sia in senso assoluto che sotto certe condizioni.
in Grande antologia filosofica, a cura di B. Bianco, Milano, Marzorati, 1968
Filosofia e sistema
Nel corso dei primi due decenni del nuovo secolo la filosofia di Thomasius conosce un progressivo declino dovuto in prima istanza all’esigenza ormai diffusa di integrare il rinnovamento culturale e sociale cui era stata destinata la filosofia con una riforma altrettanto radicale della conoscenza. La fondazione del sapere su solide basi attraverso l’individuazione di un metodo che garantisca la validità della conoscenza e insieme la scoperta di nuove verità è l’intento che anima la filosofia di Christian Wolff, la quale occuperà, seppur in maniera non incontrastata, la scena filosofica tedesca durante gli anni centrali dell’Illuminismo, la cosiddetta Hochaufklärung (1720-1750). La riflessione di Wolff si ispira a un ideale di scientificità tratto dalle discipline naturali; in particolare, egli pensa che l’applicazione del metodo della matematica alla filosofia garantisca di conseguire anche in questo campo il medesimo grado di certezza che si incontra nelle altre scienze. Wolff individua le regole di questo metodo: definire i termini con precisione, dimostrare sufficientemente i principi, dedurre correttamente le proposizioni da principi dimostrati, ordinare le dimostrazioni in maniera tale che quel che segue sia fondato in ciò che precede. Il nesso necessario tra le premesse e conclusioni, nerbo del metodo wolffiano, rappresenta altresì il modo naturale in cui opera l’intelletto. La logica – di fatto ridotta al solo principio di non-contraddizione, cui Wolff riporta anche il principio leibniziano di ragion sufficiente – sta pertanto a fondamento della validità di tutta la conoscenza. Tuttavia, come già avevano ritenuto Aristotele e Leibniz, la logica non è una disciplina a sé: essa è strettamente connessa all’ontologia, in quanto i suoi principi non costituiscono soltanto le regole formali del pensiero, ma anche le proprietà fondamentali degli enti. Di qui la definizione della metafisica come scienza del possibile: ciò che è logicamente possibile è, in quanto tale, anche certo e, dunque, reale. Secondo Wolff, la logica si pone a fondamento della classificazione sistematica delle scienze – che egli affronta dapprima in una serie di opere redatte in tedesco, e poi riformula in una serie di scritti in lingua latina –, in un ordine che si imporrà presto come canonico. La filosofia si divide in una parte teoretica (o metafisica) e in una parte pratica. La prima comprende la metafisica generale, o ontologia, e le tre metafisiche speciali che hanno per oggetto il mondo, l’anima e Dio (cosmologia, psicologia e teologia). La seconda parte della filosofia comprende invece l’etica, l’economia, la politica e il diritto naturale, su cui si fondano in ultima analisi tutte le discipline pratiche, dal momento che in ogni uomo è iscritta la legge naturale che regola ogni azione. Ribaltando il modello proposto da Thomasius, Wolff recupera anche in ambito etico il modello intellettualistico che prevede la preminenza dell’intelletto nella determinazione della volontà verso il raggiungimento del bene. La filosofia wolffiana si presenta nel suo complesso come un importante tentativo di sistematizzare il sapere alla luce di un ideale di scientificità. Ma tanto il suo sistema metafisico fortemente caratterizzato in senso deterministico – in cui elementi leibniziani si innestavano su un dualismo delle sostanze di derivazione cartesiana – quanto l’affermazione dell’autonomia della morale dalla religione suscitarono la ferma opposizione del fronte pietista. I teologi di Halle accusano Wolff di professare una forma perniciosa di fatalismo prossimo all’ateismo e riescono, con l’appoggio di Federico Guglielmo I, ad allontanarlo da Halle e a proibire l’insegnamento della sua filosofia in tutto il regno prussiano per oltre un decennio. Nonostante il divieto, la filosofia del praeceptor Germaniae si diffonde rapidamente: grazie soprattutto a una vastissima produzione di manualistica essa arriva a dominare in maniera pressoché egemonica le università e la cultura del tempo, anche al di fuori dei confini tedeschi. Gli stessi enciclopedisti francesi trovarono nel wolffismo un’importante fonte di ispirazione. In Germania accanto ai seguaci più ortodossi – come Christian Gabriel Fischer (1686-1751) e Ludwig Philipp Thümmig (1697-1728), anch’essi al pari di Wolff allontanati dalle rispettive università, oppure Georg Bernhard Bilfinger (1693-1750) e Friedrich Christian Baumeister (1709-1785), estensori dei più celebri manuali di scolastica wolffiana – nel seno della filosofia di Wolff videro la luce anche espressioni altamente originali della filosofia del tempo. Martin Knutzen, il celebre maestro di Kant, elabora la propria filosofia a partire da un confronto serrato con il wolffismo, e lo stesso battesimo dell’estetica moderna per opera di Alexander Gottlieb Baumgarten e Georg Friedrich Meier (1718-1777) avviene in un ambiente profondamente permeato dalla riflessione wolffiana. Intorno alla metà del secolo, tuttavia, la filosofia di Wolff comincia a perdere consensi: lo scontento si concentra ora innanzitutto intorno alla pretesa di estendere il metodo matematico alla filosofia. Questo tipo di polemica viene inaugurato da esponenti della scuola thomasiana, allievi del già menzionato Rüdiger: Adolf Friedrich Hoffmann (1703-1741) e soprattutto Christian August Crusius. La critica che quest’ultimo muoverà all’intellettualismo etico e, soprattutto, alla validità dei principi logici wolffiani – imputando al principio di ragion sufficiente la conseguenza del determinismo metafisico e a quello di non contraddizione l’incapacità di raggiungere l’ambito delle realtà esterne al pensiero (Schema delle verità di ragione necessarie, 1745; Via per conseguire la certezza e l’affidabilità nella conoscenza umana, 1747) – eserciterà un’influenza profonda sul giovane Kant. Nel clima filosofico caratterizzato dal wolffismo si muovono anche Johann Heinrich Lambert e Johann Nicolaus Tetens, entrambe personalità filosofiche assai peculiari, le quali rappresentano una vera e propria avanguardia della filosofia wolffiana nella misura in cui ne tentano un rinnovamento attraverso l’integrazione di elementi della tradizione empiristica lockiana. La riforma della logica e della metafisica che Lambert affida al Nuovo organo (1764) e all’Architettonica (1771) trova nell’esperienza un termine di confronto fondamentale: essa offre alle regole necessarie e formali dell’intelletto il materiale su cui operare e, al contempo, la garanzia del carattere reale e non solo possibile delle conoscenze. Ricorrendo a presupposti analoghi, Tetens (Saggi filosofici sulla natura umana e il suo sviluppo, 1777) analizza l’intelletto umano cercando di discriminare – soprattutto richiamandosi ai contributi dell’empirismo britannico di Locke e Hume e del sensismo di Bonnet e Condillac – tra gli elementi del molteplice empirico e le leggi formali pure che presiedono alla formazione della conoscenza. Seppur circoscritti entro i confini dell’analisi empirica, i problemi qui affrontati sono i medesimi da cui prenderà l’avvio la riflessione kantiana, la quale si dimostra pertanto la figlia naturale dell’Aufklärung.
La filosofia popolare
Il declino della filosofia wolffiana – che si compie intorno agli anni Cinquanta, quando essa è ormai ridotta a contorno sfumato di una riflessione filosofica autonoma e aperta alle influenze della filosofia europea – si accompagna al rinnovamento progressivo dell’interesse già manifestato da Thomasius per le questioni antropologiche. Nasce così il movimento della filosofia popolare: essa caratterizza la riflessione della cosiddetta Spätaufklärung, il tardo Illuminismo tedesco, la cui fine è convenzionalmente fissata all’inizio degli anni Ottanta, quando vede la luce la Critica della ragion pura di Kant (1781). Questo indirizzo filosofico è caratterizzato da una forte impronta eclettica: in esso si ravvisa un ritorno di temi leibniziani spesso coniugati con elementi della filosofia francese e britannica. Ciò è reso possibile, per un verso, dalla pubblicazione, alla fine degli anni Sessanta, di alcuni inediti leibniziani per opera di Louis Dutens e, soprattutto, dall’orientamento dichiaratamente filofrancese dell’Accademia delle Scienze di Berlino, che dal 1745 è presieduta – per volere di Federico II – dallo scienziato francese Pierre-Louis Moreau de Maupertuis. La fase tarda dell’Aufklärung presenta quindi il medesimo interesse per le tematiche etiche, politiche, sociali e religiose che caratterizzavano gli altri illuminismi europei, e manifesta l’aperta convinzione che le riflessioni generalmente antropologiche avessero una netta priorità su quelle teoretiche e speculative. Esponenti di spicco di quest’ultima fase sono Moses Mendelssohn (1729-1786) e Gotthold Ephraim Lessing (1729-1781). La stretta connessione tra la filosofia e la vita, l’attenzione per la dimensione pratica e sociale della conoscenza, la rivalutazione della componente sensibile dell’uomo animano la loro produzione filosofica. Accanto agli interessi estetologici, che pur occupano i due autori mettendo capo all’elaborazione di teorie originali incentrate sull’indipendenza della sfera estetica dall’ambito conoscitivo e morale, la loro riflessione porta un importante contributo al dibattito relativo ai rapporti tra ragione e religione. Mendelssohn affida al Fedone (1767) una rielaborazione della teoria platonica dell’immortalità dell’anima, adattata alle esigenze della nuova filosofia; ad essa si accompagna la convinzione della dimostrabilità dell’esistenza di Dio per via razionale, che pur si concilia con le posizioni teistiche della Gerusalemme o sul potere religioso e sul giudaismo (1783), esempio eccellente di affermazione del principio della tolleranza e della libertà di coscienza dei fedeli. Il rapporto tra la ragione e la religione che nel Settecento britannico aveva messo capo a forme estreme di deismo diventa oggetto di discussione, seppur più moderata, anche nella Germania di questi anni: il movimento dei neologi (o “nuovi teologi”) si propone di spogliare la religione positiva dell’apparato dogmatico per ridurla al nucleo razionale originario; Hermann Samuel Reimarus, autore di un’Apologia o scritto in difesa degli adoratori razionali di Dio, pubblicata da Lessing solo nel 1774, concentra la critica alle religioni rivelate sul cristianesimo, riconducendo il messaggio del Cristo a una mera religione morale, cui gli apostoli avevano solo successivamente sovrapposto un sistema dottrinale a detrimento della purezza originaria della fede. Nel dare alle stampe questo scritto Lessing sa di destare grande scompiglio nel mondo filosofico; la sua critica della religione positiva, tuttavia, va oltre la denuncia del carattere irrazionale che ne aveva fatto Reimarus. Lessing ammette la rivelazione seppur contestandone il carattere sovrannaturale: entro la prospettiva di una filosofia della storia, la rivelazione è concepita come una tappa dell’educazione progressiva del genere umano verso il proprio perfezionamento. Una volta completato il processo educativo, nell’“età del Nuovo Vangelo Eterno” la stessa rivelazione diverrà superflua, in quanto la ragione saprà accedere da sola alla verità (L’educazione del genere umano, 1780). La confessione della propria inclinazione verso il panteismo spinozistico, di cui Lessing a ridosso della propria morte metterà a parte l’amico Friedrich Heinrich Jacobi, segnerà l’inizio di una disputa filosofica che occuperà gli ultimi anni della vita di Mendelssohn. Ma ormai l’epoca del rischiaramento è compiuta: la filosofia tedesca apre le porte all’età della critica.
Gotthold Ephraim Lessing
Pensieri sul mistero e la religione
L’educazione del genere umano
76. (...) La parola mistero, nei primi tempi del Cristianesimo, significava qualcosa del tutto diverso da ciò che noi ora intendiamo con essa; e lo sviluppo delle verità rivelate in verità di ragione è assolutamente necessario, se si deve così recar aiuto al genere umano. Quando esse furono rivelate non erano certamente ancor affatto delle verità di ragione; esse però furono rivelate per diventarlo. Erano per così dire il risultato che il maestro di calcolo anticipa ai suoi scolari perché in un certo modo vi si possa regolare sopra nel calcolo. Se gli scolari volessero fermarsi al risultato anticipato, non imparerebbero mai a far calcoli e corrisponderebbero male all’intenzione secondo cui il saggio maestro aveva dato loro una guida per il lavoro.
77. E perché, attraverso una religione la cui verità storica, se si vuole, è in così cattiva luce, non dovremmo tuttavia poter essere condotti a concetti più esatti e migliori sulla natura di Dio, sulla nostra, sui nostri rapporti con Dio, concetti a cui la ragione umana da sola mai e poi mai sarebbe arrivata?
78. Non è vero che speculazioni sopra queste cose abbiano mai fatto del male e siano divenute svantaggiose per la società civile. - Non alla speculazione: alla follia e alla tirannia di opporsi ad essa, di non concedere le proprie idee ad uomini che di proprie ne avevano, è da rivolgere questa accusa.
79. All’opposto simili speculazioni - in qualsiasi modo riescano poi nel singolo caso - sono incontestabilmente i più convenienti esercizi per la mente umana in generale, finché il cuore umano in genere sarà tutt’al più capace di amare la virtù per le sue conseguenze di eterna beatitudine.
80. Infatti, in questo egoismo del cuore umano, voler esercitare pure la mente soltanto su ciò che riguarda i nostri bisogni corporali significherebbe renderla ottusa, piuttosto che aguzzarla. Essa vuole assolutamente essere esercitata sopra oggetti spirituali, se deve giungere al suo completo rischiaramento e produrre quella purezza di cuore che ci rende capaci di amare la virtù per se stessa.
81. Oppure il genere umano non dovrà mai giungere a questi gradi supremi del rischiaramento e della purezza? Mai?
82. Mai? – Non lasciarmi pensare questa infamia, o Infinitamente Buono! – L’educazione ha un suo fine: presso le specie non meno che presso il singolo. Ciò che vien generato, vien generato per uno scopo.
83. Gli orizzonti lusinghieri che vengono dischiusi al giovane; la gloria e il benessere che gli si fa balenare davanti; che sono di più, se non mezzi per educarlo ad essere un uomo il quale poi, anche se questi orizzonti di gloria e di benessere vengano meno, è in grado di compiere il suo dovere?
84. L’educazione umana ha di mira questo scopo: e quella divina non vi arriva? Ciò che all’arte riesce col singolo non dovrebbe riuscire pure alla natura col tutto? Bestemmia! Bestemmia!
85. No; giungerà, giungerà certamente il tempo della pienezza, quando l’uomo, quanto più il suo intelletto si sentirà persuaso di un sempre migliore futuro, non riterrà più necessario ugualmente di dover accattare in prestito da questo futuro moventi per le sue azioni; quando egli farà il bene perché è bene, non perché per esso siano poste da una volontà delle ricompense che dovranno fermare e rafforzare un tempo semplicemente il suo sguardo incostante, per riconoscere le interiori più nobili ricompense.
86. Giungerà certamente il tempo di un nuovo ed eterno Vangelo, che ci è già promesso nei libri elementari della Nuova Alleanza.
87. Forse certi visionari del tredicesimo e del quattordicesimo secolo avevano già colto un raggio di questo nuovo eterno Vangelo: e forse si sbagliavano solo in questo, che annunciavano così prossimo il suo avvento.
in Grande antologia filosofica, trad. it. di B. Bianco, Milano, Marzorati, 1968