Illuministi Italiani: Introduzione
L'Italia più arcaica, il Settecento delle antiche repubbliche, dei vecchi ducati, dello Stato pontificio e delle isole mediterranee: questa è la realtà che il lettore è invitato a esplorare e a conoscere nei testi raccolti nel presente, terzo tomo dei riformatori illuministi del XVIII secolo. Nei primi due tomi si eran potuti vedere gli scrittori, gli economisti, i giuristi, gli amministratori degli stati italiani più importanti, più sensibili e pronti ad un rinnovamento interno e più aperti ai suggerimenti e modelli che giungevano d'oltre alpe e d'oltre mare. Milano, Torino, Firenze, Napoli: centri di compagini statali che le vicende del primo Settecento avevano posto di fronte li problemi nuovi, all'impellente necessità di rinnovarsi, nel turbine delle guerre di successione, nel mutare dei governanti e delle dinastie. Il Piemonte, chiuso e conservatore, stentava non poco, è vero, a tenere il passo di questa evoluzione. Il regno meridionale rivelava, sotto la luce cruda delle inchieste e delle indagini dei suoi riformatori, quanto profonde fossero le sue piaghe e ferite secolari. Soltanto a Milano e a Firenze il movimento riformatore riusciva ad intaccare in modo effettivo la vecchia struttura statale, economica, intellettuale. Eppure non soltanto Milano e Firenze, ma Napoli e Torino erano e restavano le capitali delle riforme in Italia, i centri da cui partivano le idee più ardite e lucide, le proposte più concrete ed efficaci, le città italiane in cui il movimento dei lumi faceva con maggiore impegno le sue difficili prove. L'Italia degli assolutismi riformatori e degli intellettuali illuministi, malgrado tutti i suoi limiti e tutte le sue pesanti remore, era pur sempre l'Italia più moderna, la terra di Beccaria, di Verri, dei Vasco, di Gianni, di Genovesi e di Filangieri.
L'Italia più arcaica ad essa si affiancava, a lei inestricabilmente unita- in parte addirittura, come per la Sardegna e la Sicilia, a lei legata e sottomessa da vincoli dinastici e statali -, ma pur sempre divisa e distinta, a causa di tradizioni, di strutture politiche ed economiche che rimontavano ad un più lontano passato, che si radicavano in un medioevo più antico. Repubbliche, ducati, strani stati - e più strano tra tutti quello pontificio - i quali rappresentavano una più vetusta tradizione, e che, proprio, per questo erano meno efficienti, meno razionali e meno razionalizzabili. Antiche classi dirigenti, ben coscienti e fiere del loro lungo passato, e anche perciò più difficilmente riformabili. Dappertutto, è vero, eran presenti, nell'Italia del Settecento, le fondamenta e magari le macerie del medioevo. La Lombardia, la Toscana derivavano, ancora a metà del secolo, da compagini comunali e signorili, il Piemonte risentiva ancora della sua matrice feudale, la monarchia meridionale poteva facilmente risalire, per ogni sua istituzione e per ogni sua magagna, lungo il cammino dei secoli, al mondo bizantino, normanno, svevo, angioino, ecc. Eppure, a ben guardare, a Milano, a Torino, a Firenze, a Napoli, era venuto formandosi, in età ben più recenti e vicine, magari nello stesso XVIII secolo, quel nucleo di stato burocratico e accentrato, s'erano affermati quei gruppi di amministratori, di tecnici, di uomini colti, su cui soltanto poteva e doveva poggiare una politica di riforma. Le origini dello stato piemontese del Settecento stavano in realtà nell'età di Emanuele Filiberto e, soprattutto, di Vittorio Amedeo II. Il Milanese, all'epoca di Maria Teresa e di Kaunitz, era governato da Vienna e se guardava all'età comunale lo faceva con l'orgoglio del mercante e dell'imprenditore, non con quello del politico. La Toscana e il napoletano datavano l'inizio della loro ripresa dall'instaurazione delle nuove dinastie lorenesi e borboniche e da Carlo e Pietro Leopoldo facevano iniziare il loro moto riformatore. Pur così diverse tra loro, erano queste le terre in cui la discussione, la polemica, la collaborazione tra lo stato e i philosophes era diventata, passata ormai la metà del secolo, possibile e fruttifera.
A Venezia, a Genova, a Modena, a Parma, a Roma, a Cagliari, a Palermo c nei tanti altri centri, piccoli e grandi, dell'Italia più antica ritroviamo pure gli elementi, i fermenti del secolo dei lumi. I problemi economici, giuridici, politici fondamentali si pongono in modo non dissimile da quanto abbiamo visto negli stati maggiori. Uomini della più diversa origine e formazione, animati, trasformati dalle idee dei lumi, scrivono libri e giornali, organizzano società agrarie, spronano i governanti e sperano di indurii a quell'opera di trasformazione che è diventata la ragione stessa della loro vita. Non di rado riescono ad individuare con mirabile lucidità quelli che erano i nodi essenziali della situazione da loro affrontata: rapporti tra città dominante e provincie, necessità di partire da una trasformazione della agricoltura, libertà del commercio dei grani ecc. Spesso sentono con intensità e sincerità le implicazioni morali della loro posizione e cercano, con tutte le loro forze, di intaccare e di smantellare le eredità più tristi della morale cattolica dell'età controriformista, così come si sforzano di creare nella classe dirigente una coscienza tutta nuova dei propri doveri e della propria responsabilità di fronte ai governati, di fronte ai contadini. Il moto riformatore è presente ovunque in Italia, anche negli stati più arretrati e vetusti, anche ai margini stessi del mondo italiano, in Dalmazia, in Corsica.
Eppure i loro risultati furono minori, le loro possibilità di trasformare le cose finì coll'essere più ristretta. Più gravi, insormontabili talvolta, si rivelarono gli ostacoli contro i quali essi urtarono. Più difficile e spesso impossibile creare quella concordia discors tra stato e intellettuali senza cui la lenta macchina delle riforme settecentesche neppur poteva mettersi in moto. Più faticoso divenne per loro creare quegli strumenti senza i quali le idee dei lumi non potevano riuscire a penetrare nella classe dirigente, più o meno profondamente trasformandola: le nuove università e le società agrarie, le riviste e le case editrici, le commissioni fiscali, giurisdizionali, economiche che altrove affiancarono allora e vennero sostituendo i vecchi organi dell'amministrazione. Così i riformatori rimasero spesso degli isolati o finirono per accettare e farsi apologeti delle lente e parziali riforme degli stati in cui vivevano. Il loro peso politico fu minore, meno ampio il raggio della loro azione.
Seguire questi riformatori dell'Italia più antica nei loro sforzi e nelle loro delusioni, nelle loro vicende e nelle loro incertezze è compito appassionante per lo storico, e, indubbiamente, stimolante per chiunque intenda conoscere l'Italia reale alla soglia della nostra età. Per capire il nostro Settecento è altrettanto importante conoscere Beccaria e Filangieri quanto scorgere i riflessi dei lumi sulla repubblica di San Marco, seguire il. penetrare lento e difficile delle idee mercantilistiche, liberistiche, fisiocratiche nello Stato pontificio, ritrovare nella Sardegna di Bogino, nella Corsica di Pasquale Paoli e nella Sicilia del viceré Domenico Caracciolo gli elementi essenziali del dibattito riformatore del XVIII secolo, stranamente distorti talvolta, profondamente trasformati sempre, ma vivi e presenti.
Alla luce della nuova visione economica e della nuova volontà di riforma, che van rifrangendosi su queste antiche realtà, scopriamo un paesaggio straordinariamente vario e complicato. Proprio perché i criteri sono fondamentalmente simili, proprio perché il riformismo illuminista è essenzialmente lo stesso a Milano e a Cagliari, a Macerata e a Modena, a Livorno e a Genova, proprio per questa volontà di coordinazione, di uniformità nei suoi programmi - che appare astratta soltanto agli occhi dei conservatori e dei reazionari -, proprio per questo suo carattere razionale, il moto illuminista fa risaltare in tutta Italia, per contrasto e per opposizione, quale fosse l'impressionante varietà di situazioni, di problemi, di aspirazioni nei vari centri, nei diversi paesi della penisola. Frantumata appare la superficie dell'Italia a chi la guarda con occhio educato dagli enciclopedisti e dagli economisti francesi, spagnoli ed inglesi. Spezzata in mille frammenti che non potevano essere ricomposti se non in una visione generale, in una volontà di pubblica felicità, sola capace di accomunare, in uno sforzo generale, le popolazioni e le situazioni più diverse. L'Italia più arcaica è anche l'Italia più diversa e divisa.
È anche, almeno in due suoi centri fondamentali, Venezia e Roma, un'Italia più colta e raffinata, più ricca d'arte, di bellezza, di lusso. Lo splendido tramonto della pittura veneziana, la ricca vita letteraria, l'eleganza dell'esistenza quotidiana rischiano continuamente di nascondere o almeno di coprire di tinte dorate nella serenissima repubblica di San Marco i ben più freddi e limitati raggi della ragione settecentesca che pur vi penetrano. Così, e in proporzione ben maggiore, la tradizione umanistica e classica della Roma settecentesca, coltivata ed esaltata in tutta l'Europa d'allora, rischia di soffocare, persino nel ricordo dei posteri e degli storici, quei piccoli e limitati germi di rinnovamento illuminista che pur non mancano neppure nello stato di Pio VI. La Roma cosmopolita e neoclassica sembra sovrapporsi e far dimenticare la Roma di coloro che poco si interessavano delle ultime scoperte archeologiche e molto della coltivazione dell'Agro romano, che più importante stimavano un nuovo equilibrio tra la capitale e le provincie dell'ultima riviviscenza poetica o pittorica. A Venezia come a Roma gli ultimi, straordinari bagliori della tradizionale civiltà italiana si mescolano e si confondono con i nuovi riflessi illuministi. È compito dello storico tuttavia tenerli accuratamente separati e distinguer nettamente un tramonto, per quanto dorato, dall'alba d'un giorno nuovo, per quanto fredda e nuvolosa.
L'esempio primo e più importante d'un simile sovrapporsi d'un mondo tradizionale ad un mondo nuovo, della tenacia e immobilità di quello e dell'impossibilità di questo di vincerlo e trasformarlo completamente ci è fornito, evidentemente, dalla repubblica di Venezia. Anche là, passata l'età dei grandi intellettuali isolati, dei Maffei, dei Conti, degli Zeno, chiuso il primo Settecento, era cominciata l'opera di critica, di incitamento, di diffusione dei nuovi ideali economici e politici. Malgrado gli ostacoli della censura, degli inquisitori di stato, del chiuso orgoglio della classe dirigente, certo la più esclusiva tra tutte quelle degli antichi stati italiani, malgrado quell'immagine fissa ed immobile d'una Venezia sempre uguale nei secoli, eterna anch'essa nella sua costituzione, così come Roma lo era nella sua funzione di metropoli e di capitale, malgrado tutto, le idee dell'illuminismo penetrarono sulla laguna e nelle provincie sottomesse a Venezia. Ben più grande e profonda fu la loro efficacia di quanto non si creda e generalmente non si dica. Gli storici si sono troppo spesso compiaciuti, quando hanno volto lo sguardo alla repubblica di San Marco nell'ultimo secolo della sua esistenza, a variare in mille modi il tema della decadenza, e magari della corruttela. La storia delle idee e degli intellettuali ci dà un altro quadro, ci rivela una diversa e contrastante situazione. Le pagine che Gianfranco Torcellan ha scelto e presentato nella prima parte di questo volume suppongono certo, nello sfondo, la Venezia di Goldoni e di Guardi, di Gozzi e di Tiepolo, ma si muovono su un piano diverso, mettono in luce una diversa realtà. Tanto importante era sottolineare questo contrasto, affermare e provare la presenza dei lumi e dello spirito riformatore nel Settecento veneto che abbiam preferito non suddividere in troppi personaggi la vicenda delle nuove idee e dei loro riflessi sulla laguna, cercando invece di concentrare in pochi uomini, particolarmente caratteristici, e in un numero più largo ed. abbondante di loro pagine e lettere, la contrastata storia dello spirito nuovo anche nello stato di San Marco. Certo sarebbe stato pur possibile dar la parola a uomini come Antonio Zanon, Giuseppe Scola o Francesco Scottoni, o ai rappresentanti della nuova cultura dalmata, così come a tanti altri minori e minimi, pur curiosi e significativi. Ma il contrasto tra decadenza e lumi, tra nuove concezioni economiche e la ristrettezza della classe dirigente veneta ci è parso poter più chiaramente risaltare invitando ad una più larga ed approfondita conoscenza di un numero limitato di scrittori fondamentali quali Giammaria Ortes, Francesco Griselini, Andrea Memmo, Alberto Fortis.
Ortes è qui finalmente privato della sua aureola di scrittore sempre incompreso e perpetuamente troppo antico o troppo nuovo per il proprio tempo, sempre ritardatario o precursore, ed è calato di nuovo nella sua età, al passaggio tra il primo e il secondo Settecento e nella sua società, in un mondo cioè in cui la critica illuminista, la volontà razionale, lo spirito matematico- che l'abate veneziano sente profondamente penetrare nell'animo suo, nelle midolla delle sue ossa, a Pisa, a Bologna, negli anni trenta e quaranta- non riescono, malgrado tutto, a svellere e spezzare le tanto pesanti cornici entro le quali egli era vissuto fin da bambino, dove era cresciuto e dove era destinato a restar chiuso, malgrado ogni segreta critica e ogni intimo dubbio. Innanzitutto, la religione, una solida religione tutta sociale e corposamente utilitaria, eppure non meno sentita per questo. E poi, soprattutto, una visione statica e perenne delle umane vicende, che forniva ad Ortes i postulati basilari della sua teoria economica, vera teoria - particolarmente acuta e lucida - d'un equilibrio immobile in una società patrizia e contadina, in un mondo dove è negata a priori ogni possibilità di sviluppo economico e in cui perciò ogni cambiamento non può portare che ad una nuova forma d'ingiustizia nei rapporti tra le classi. L'apprendistato dei lumi non aveva fatto che rivelare ad Ortes, con particolare durezza e nettezza, i mali e le contraddizioni della società in cui viveva. Né era piccolo merito, ché egli non era uomo da palliare o nascondere le ombre del quadro. Gettava così l'acuto suo sguardo su fenomeni demografici, sociali, economici che altri suoi contemporanei non erano capaci di guardare con sufficiente fermezza. Uno dei maggiori economisti italiani del Settecento nasceva da una delusione senza ironia, da una disperazione senza rimpianti. Le sue idee economiche sono state spesso interpretate e discusse da Pecchio a Carlo Marx, da Lampertico a Bousquet. Era tempo di conoscere finalmente l'uomo Ortes e di seguirlo nella sua chiusa e schiva attività. Tra lettere e testi, le pagine che seguono renderanno meno misterioso e storicamente più probante il più originale dei pensatori veneti del secondo Settecento.
In ben altra atmosfera ci troviamo già con Francesco Griselini. L'ingenua sua fede nei lumi par rovesciare senza difficoltà, quasi naturalmente, quelle pesanti mura ideologiche, morali e politiche entro le quali Ortes era rimasto arroccato. Quasi spontaneamente passiamo con lui dalla tradizione giurisdizionalista, dalla sapiente ed appassionata rievocazione delle lotte di Paolo Sarpi alla massoneria, dalla tradizione geografica ed artistica veneta alla propaganda delle nuove tecniche, alla diffusione capillare, tra nobili di terra ferma e persino tra i contadini, delle nuove arti agricole ed artigiane, così come della nuova mentalità liberistica. Griselini è il miglior esempio e il più significativo della larghezza, della relativa facilità con cui le idee del secolo si diffondono a Venezia e nelle terre della repubblica. La cronaca della sua attività ci conferma che il ritmo del movimento dei lumi è sempre lo stesso, a Venezia come a Milano, che gli anni sessanta sono al di qua e al di là del confine il fiore del nostro illuminismo: il «Giornale d'Italia" ed il «Corrier letterario» di Griselini nascono negli stessi anni (1764 e 1765) del «Caffè» e della diffusione dell'opera di Beccaria. Dieci anni poi di intenso lavoro, in Lombardia così come nella Venezia, ed ecco apparire i limiti, le difficoltà, diverse da paese a paese, di quest'opera di sapiente divulgazione tecnica e politica. Beccaria, Verri, Carli si trovarono ai posti di comando. Griselini rimase un povero giornalista. La riprova di quanto fossero diverse le due situazioni venne, decisiva, quando Griselini si trasferì a Milano e tentò, senza riuscirvi, malgrado tutti gli appoggi viennesi, di inserirsi in un mondo tanto distante da quello in cui egli aveva operato tutta la sua lunga esistenza. Restavano il «Giornale d'Italia» e le altre sue imprese editoriali, che costituirono il maggior centro animatore delle società agrarie, non soltanto nel Veneto, ma largamente in tutt'Italia. Eppure la realtà politica della repubblica veneta non era stata scossa in profondità da questa tanto abile e appassionata diffusione della nuova mentalità tecnica ed economica. La figura di Andrea Memmo ci spiega forse meglio di ogni altra il perché di questo fallimento. Con lui siamo al cuore della classe dirigente veneziana. Non assistiamo più agli sforzi dei poveri, generosi ed attivi pubblicisti quali il nostro Griselini. Vediamo quel che accadeva all'interno della classe dirigente, siamo al centro della fortezza assediata. Memmo apparteneva, non soltanto per sangue, ma soprattutto per educazione e formazione al più antico e glorioso patriziato di Venezia. La sua carriera politica ricalcò le orme dei suoi antenati e, se si fermò sulla soglia del dogato, lo vide nei più gelosi recessi del governo della repubblica, così come nei più splendidi incarichi di rappresentanza, a Costantinopoli e a Roma. Un nobile di stampo antico, che par sostenere, con garbo e con intelligenza, una parte che tanti altri hanno recitato prima di lui. Eppure - e proprio questo è importante - un tormento nuovo rode dall'interno quest'uomo e lo porta a tentare di riformare le forme e la sostanza della vita politica alla quale egli partecipa, lo spinge ad abbattere l'intera struttura corporativa della metropoli, e, alla fine della sua vita, lo conduce a lottare contro la spaventosa miseria in cui versa l'ultimo lembo dell'impero veneziano, la Dalmazia. Le idee nuove gli erano state suggerite da quello strano e socratico personaggio del Lodoli, che dell'architettura si era servito come d'un modello per sottoporre al criterio della ragione e dell'utilità non soltanto i palazzi, le strade, le città, ma l'intera struttura dell'umana convivenza. Le idee di Lodoli avevano continuato a fermentare nell'animo di Memmo anche in mezzo alle distrazioni e alle pompe della vita pubblica, dando ad essa un senso nuovo ed ispirando programmi e piani che hanno strappato l'ammirazione di Luigi Einaudi. Eppure, anche qui, come per Ortes, come per Griselini, anche se per ognuno su di un piano diverso e distinto, la tradizione non era vinta e continuava ad imporre, attraverso lo scetticismo, attraverso la sorridente o scorata sfiducia, la sua immutabile presenza. La vita di Andrea Memmo dimostra fino a che punto una parte almeno della nobiltà veneta fosse persuasa e penetrata dalle idee del riformismo illuminista, così come ci indica quali fossero le strettoie e le difficoltà che essa non era in grado di superare e di vincere. Mano mano che studieremo più da vicino le crisi interne della classe dirigente veneta del secondo Settecento vedremo che non eran soltanto piccoli interessi di gruppo, di famiglia ad animar questi uomini: l'idea di riforma era anche in loro più attiva di quanto non si sia detto e creduto. Quel che mancava loro era uno strumento politico e sociale capace di inserirla nei fatti.
Non restava dunque altro che rifugiarsi nell'arte, nella natura o nell'ansiosa scoperta di mondi diversi e nuovi, o ancora nella ricerca d'una indipendenza tutta individuale e personale, al di là di ogni vincolo locale e politico? Lo spirito d'avventura non mancò davvero nella Venezia settecentesca e Casanova è il troppo noto esempio d'una simile evasione. Ma esistette- e merita, ben più di Casanova, d'esser sempre meglio conosciuta- anche un'altra faccia di questa avventura, quella che ricongiungeva l'insofferenza di questi veneti coll'ironia illuminista di Voltaire e di Sterne, che univa la volontà d'esplorazione alla scoperta dell'Europa balcanica- tanto vicina e tanto lontana insieme dalla repubblica di Venezia-, che saldava insieme la passione per la cosmopolitica scienza naturale e la sistematica ricerca, praticamente indirizzata ed economicamente ispirata, delle miniere, delle terre, dei fiumi dell'Italia. Alberto Fortis è la più ricca incarnazione di questi diversi elementi ed è, proprio per questo, forse la più vivida delle figure del secolo dei lumi a Venezia. Sfugge talvolta ai più gravi contrasti della sua età, non ha davvero la logica di Ortes, l'artigianale ingenuità di Griselini, l'intimo pathos di Memmo. La sua libertà egli la conquista, spesso, rifiutandosi di risolvere i problemi più complicati della sua personalità e della sua epoca. Eppure la sua è libertà preziosa e fruttifera, che lo porta a scoprire il mondo storico e naturale della Dalmazia, a conoscere il mezzogiorno d'Italia meglio d'ogni altro connazionale veneto, a creare alcune tra le migliori riviste di quegli anni, l'«Europa letteraria», «Il Genio d'Europa», ad amare con eleganza e a pensare con lucidità e, finalmente, proprio alla fine del suo secolo e della sua esistenza, ad abbandonare Venezia in un'ultima curiosa avventura al di là delle Alpi, verso la Francia rivoluzionaria. Alberto Fortis è il Paolo Frisi, il Giovanni Fabbroni, il Domenico Cirillo della Venezia settecentesca. Ma la sua vita, in ogni sua fase, ci permette di misurare con precisione tutta la distanza che separava, anche nel più libero mondo degli intellettuali illuministi, la Lombardia, la Toscana, il Napoletano dalla repubblica di San Marco.
Mondo ben altrimenti chiuso e compatto quello dell'altra maggiore antica repubblica italiana, della Genova settecentesca, anch'essa nell'ultimo cinquantennio della propria esistenza. Anche qui, è vero, le ricerche più recenti, quelle soprattutto di Salvatore Rotta, ci hanno dimostrato che il piccolo mondo patrizio genovese, così come i mercanti, gli amministratori degli attivi centri delle due Riviere non erano altrettanto impermeabili quanto si è troppo spesso detto e ripetuto alle nuove idee politiche ed economiche, ai suggerimenti ideali e tecnici del riformismo illuminista. Le due crisi politiche della repubblica di Genova, l'insurrezione del 1746 contro gli Austriaci e la cessione della Corsica alla Francia nel 1768, la tensione stessa, permanente, tra l'aristocrazia ed i sudditi, tanto forte che aveva fatto dire a Gibbon nel 1764 che non conosceva nessun altro paese in cui i governanti «ayent reduit les peuples plus souvent au désespoir et à la révolte», tutta questa situazione della Genova settecentesca, soltanto apparentemente immobile, porta i contemporanei alla riflessione, alla lettura dei gran testi illuministi. Trovano a Genova un'eco particolarmente penetrante Montesquieu e Locke ed essi fanno nascere progetti di trasformazione del vetusto apparato statale, inducono a riproporre il problema del rapporto tra la città dominante e le terre a lei sottomesse. Sul piano economico la crisi che minaccia Genova non meno di Venezia porta a riconsiderare le possibilità stesse di uno stato, nato dal commercio e dalla banca, in un' Europa ormai dominata dalle teorie fisiocratiche, porta alla convinzione dell'assoluta necessità di un rinnovamento delle manifatture, e persino dell'agricoltura, fa sorgere la «Società patriottica per le arti e le manifatture» (1786) e crea numerosi nuovi centri di iniziativa e di organizzazione. Sul piano ideale, l'enciclopedismo francese conquista alcuni degli uomini più colti ed aperti del patriziato. La versione italiana del Discorso preliminare del gran Dizionario, il manifesto cioè che d'Alembert aveva premesso all'Enciclopedia, trova il suo traduttore italiano nella persona del doge di Genova, Agostino Lomellini, dottissimo matematico, pronto a proteggere le idee di Beccaria, a carteggiare animatamente con Paolo Frisi, a riecheggiare in ogni aspetto della sua ricca e colta vita l'ideale del «vrai philosophe», come lo definì nel 1761 il console francese Regny. Elementi diversi di queste preoccupazioni e di queste curiosità ritroviamo parimenti in altri tra i più rappresentativi aristocratici della repubblica, come Girolamo Durazzo, al quale nel 1773 venne dedicata una traduzione, l'unica dell'Italia settecentesca, del Governo civile di Locke, o Giobatta Grimaldi che nel 1783, in un Ragionamento teorico-pratico sopra le cagioni, gli abusi e i rimedi della mendicità, aveva proposto una profonda trasformazione del pesante apparato assistenziale della repubblica. Accanto a loro venne formandosi, sia pur lentamente, un ambiente politico e intellettuale che cominciava a confrontare la reatà genovese con le idee degli economisti d'oltre alpe: Paolo Celesia, Giobatta Pini, e poi, finalmente, i giovani che diventeranno giacobini alla fine del secolo.
Ma questi fermenti politici, queste iniziative economiche, questi echi filosofici non si concretarono tuttavia, sulla costa ligure, in una rivista, in un libro, magari in una pagina, di per se stesa di racchiudere l'atmosfera della Genova settecentesca. Lomellini va ricercato nelle sue rare lettere. In qualche dispaccio o ancora nella sua corrispondenza con Ferdinando Galiani o nei suoi rapporti con Mazzei dobbiamo cogliere il pensiero di Paolo Celesia. Piene d'interesse, ma spesso tecnicamente aride sono le pagine d'uno dei maggiori esponenti del pensiero delle società economiche liguri, Giobatta Pini. Tutti testi più adatti ad una storia che a un'antologia. Né leggendoli bisognerà dimenticare la giusta osservazione di Salvatore Rotta: «l'azione politica governativa risentì assai poco dell'influenza degli illuministi e continuò ad ispirarsi grettamente alle massime tradizionali: lasciò intatti abusi e privilegi e fece sì di conseguenza che il solco tra governanti e governati si scavasse sempre più profondo».
Abbiam dunque preferito guardar Genova, per così dire, dai margini, vedendola attraverso il prisma del conflitto con i Còrsi ribelli o attraverso gli occhi d'uno dei personaggi più vivi del moto riformatore nel golfo di Genova, di quel Ruffino Massa che, nato a Mentone, nel Principato di Monaco, a Genova fece la sua più importante esperienza giudiziaria e qui vi pubblicò l'opera sua principale, Dell'abuso de' litiggi. Dopo un'altra esperienza nella repubblica di Lucca, Massa doveva esser portato dalla rivoluzione francese al centro della vita politica della nuova e ben diversa repubblica dei giacobini e dei girondini, del Direttorio e di Napoleone. La sua lunga vita lo condusse in vecchiaia, nel I824, a collaborare ancora nell'«Antologia» di Vieusseux. Ma le radici del suo pensiero politico-utopistico e giuridico insieme stavano nella sua reazione di fronte ai mali, alle piaghe, all'inefficienza e alla disuguaglianza dei vetusti stati e staterelli che si affacciavano sul Tirreno, dal principato monegasco alla sabauda contea di Nizza, alla repubblica di Genova. In questo giovane avvocato sembra rivivere un abate Mably - che non ha da combattere e da condannare l'ineguaglianza e l'immoralità della g rande metropoli parigina, della Francia alla vigilia della rivoluzione, ma che ha di fronte a sé le anchilosate forme politiche e sociali dei patriziati e delle plebi mediterranee. Di fronte a queste troppo timido gli era parso il pensiero di Beccaria, e troppo moderato un riformatore che non si rifacesse alle democrazie antiche, alla rousseauiana eguaglianza e condanna delle scienze e delle arti. Il «gran Licurgo» continuò ad illuminare, da lontano e dall'alto, tutto il lungo cammino politico di Massa. Ma si trattava di applicar questo a Genova dove egli era giudice rotaie. Così il suo libro Dell'abuso de' litiggi, apparso nel 1785, e uno degli esempi più interessanti ai quali ci sia dato assistere del passaggio dall'utopia egualitaria ad una autentica e difficile volontà di riforma democratica. Il seguito della sua vita ci permette di intravvedere lo sviluppo della sua azione a Lucca, in Francia, dove fu deputato della Convenzione, e di nuovo in direzione dell'Italia, all'epoca del Direttorio, e ancora nelle tarde discussioni dell'epoca della Restaurazione. Un lungo arco, che nel mondo ligure del Settecento trova il suo punto di partenza.
Se dalle antiche repubbliche passiamo ai ducati del Po e dell'Appennino, a Parma e a Piacenza, a Modena e a Reggio, ritroviamo anche là, sia pure in forme differenti e con diversa intensità, il rapporto e contrasto tra la circolazione, la diffusione delle idee illuministiche, che· là fu larghissima, e la loro effettiva capacità di penetrare nell'intimo delle cose e degli uomini. L'esempio di Parma è anzi particolarmente caratteristico. Punto di innesto diretto delle idee francesi quando, negli anni sessanta, vi soggiornavano ed operavano Du Tillot, Condillac, Millot, Deleyre, Keralio, capitale dello spirito illuminista quando il conflitto con la Curia romana, i progetti di una nuova università e di un mutato sistema finanziario sembravano farne un lucido ed elegante modellino di piccolo stato riformatore, il ducato di Parma non vede sorgere un gruppo locale di uomini capace di riprendere questa esperienza e di continuarla anche al di là delle vicende dinastiche ed internazionali che, fin dal 1771, avevano disperso e allontanato, o chiuso nel silenzio, il brillante gruppo di immigrati dalla Francia e dalle altre regioni italiane che vi si erano trovati un momento riuniti. Né i neoclassici caratteri di Bodoni potevano davvero sostituire ormai un ideale che si era tanto rapidamente svaporato. Né i versi di Mazza e di Frugoni riuscirono a nascondere il vuoto che le dissipate idee illuministiche avevano creato. Non ci siam sentiti invero, a sostituire queste lacune, d'introdurre qualche pagina dell'amico di Rousseau e di Diderot, d'Alexandre Deleyre, che, nelle sue corrispondenze alla «Gazette littéraire de l'Europe», può essere considerato l'espressione più vivace di questo piccolo mondo cosmopolita, come è provato anche dalla querelle italo-francese che andò in tal modo suscitando. Vicino certo all'Italia e legato profondamente ad essa, Deleyre non può tuttavia essere incluso in una raccolta di scritti degli illuministi italiani. Nella vicina Modena ben diversa fu l'opera dei lumi. Ben altrimenti solide erano le radici del pensiero riformatore nel ducato estense, dove la lotta contro la Curia romana non produsse una fiammata brillante, breve tuttavia e destinata rapidamente ad estinguersi come nel ducato di Parma. A Modena erano ben solide le basi ghibelline. L'immensa erudizione, la sapiente tenacia di Lodovico Antonio Muratori eran servite a consolidarle. Egli stesso, negli ultimi anni della sua esistenza, aveva contribuito a convogliare la rinascente sensibilità storica e la rinnovata coscienza morale e religiosa verso riforme concrete e precise, del codice civile, del regime feudale, dei costumi e delle idee. Muratori resterà il nume tutelare dello spirito riformatore a Modena.
Ma anche a Modena quel che più conta, nel secondo Settecento, furono i passi compiuti al di là dei limiti ideali e politici che Muratori si era imposto. La situazione mutava: lo stato estense era portato da ragioni dinastiche e, soprattutto, dalla lunga pace che si era instaurata in Italia tra il 1748 e la rivoluzione francese, a metter sempre più in sordina la sua ambizione di stato a cavallo degli Appennini, dominatore dei passi che univano la pianura padana al Tirreno, a rinunciare insomma, se così vogliamo esprimerci, ad essere per gli Appennini quello che era stato il ducato di Savoia per le Alpi. Il ducato estense conservava la Garfagnana, acquisiva Massa, ma ormai la sua politica dinastica e giurisdizionale portava il suo centro di gravità, sempre più, verso la Lombardia, fino ad integrarsi ad essa. Attrazione nell'orbita imperiale e diffusione dei lumi procedettero insieme. Né, questa volta, le nuove idee economiche e politiche rimasero sterili. Proprio perché legate strettamente alle trasformazioni che andavano operandosi nel vicino Milanese, le idee dei lumi affondarono più profonde radici, portarono alla creazione d'una rinnovata Università, di cui Agostino Paradisi fu membro attivo ed influente, condussero ad un rinnovamento sostanziale della legislazione, aprirono la strada ad una serie di esperimenti economici influenzati dal programma fisiocratico, gettarono le premesse per la propaganda, anche più ardita e libera, d'un Giovanni Ristori, il quale a Modena stamperà alcuni dei suoi più audaci periodici negli anni che videro l'alba della rivoluzione francese. A Modena la logica che portava dalle riforme più moderate e modeste a quelle più ardite e profonde, e da queste ai fermenti rivoluzionari si manifestò, in forme in uguali e non senza incertezze e reazioni, ma pur sempre con un ritmo che è quello delle terre più progredite e moderne dell'Italia settecentesca.
La figura di Agostino Paradisi ci dice in tono sincero e delicato che cosa significasse vivere personalmente all'epoca di queste trasformazioni, di queste vicende politiche ed intellettuali. La figura di Lodovico Ricci ci fornisce già la traduzione tecnica e pratica della nuova situazione. La sua analisi della mendicità nella città di Modena (e le sue parole potevano valere per tante e tante altre antiche città italiane), la chiarezza delle riforme da lui proposte ed attuate, l'acutezza delle sue osservazioni sulla storia dei prezzi e sull'evolversi dell'economia padana fanno di lui una delle più perfette incarnazioni del grande amministratore illuminato. La maturità della situazione in mezzo alla quale egli visse è dimostrata dalla naturalezza con cui questo ministro di Ercole III si tramutò nel ministro delle finanze di Napoleone e della Cisalpina.
Da Parma a Modena, scendendo lungo la pianura padana, avremmo potuto, a metà del XVIII secolo, cogliere rapidamente, nel paesaggio e negli uomini, quanto profonda fosse la differenza che separava gli stati e i regimi che si eran contesi nel passato e che ora tranquillamente si dividevano quelle terre. Le legazioni di Bologna e di Ferrara ci avrebbero messi a diretto contatto con lo Stato pontificio, e proprio nella sua più visibile e tipica manifestazione, d'esser cioè un manto pesante ed antiquato sovrapposto a non meno vetuste strutture comunali e signorili. Gli studi recenti di Luigi Dal Pane, di Renato Zangheri, di Carlo Poni ci hanno fatto conoscere i problemi economici e politici delle legazioni in modo particolarmente approfondito. Anche in quelle terre la vicenda delle riforme è viva, malgrado la soffocante e scettica oppressione del mondo papalino. La storia di quelle regioni, pur così differenziate e individuali, ci guadagnerebbe ad esser sempre più osservata nel quadro generale dello Stato pontificio, all'epoca di Benedetto XIV, Clemente XII, Clemente XIV e, soprattutto, di Pio VI, i papi cioè dell'età delle riforme, dal 1740 alla fine del secolo.
Contrariamente a quello che generalmente si crede l'idea che lo Stato pontificio fosse peggio governato degli stati barbareschi e che il pontefice fosse più negligente amministratore delle proprie terre del bey di Tunisi e di Algeri non nacque all'epoca del Risorgimento, ma si trova già espressa nel 1793 in un libro di Giuseppe Gorani. Certo lo Stato pontificio era il peggio governato tra quanti si eran venuti formando nella penisola italiana. Non si era atteso il Settecento per accorgersene, ché era cosa sospettata o risaputa da molto tempo. Ciò che fece il secolo dei lumi fu mutare radicalmente la diagnosi. I protestanti avevano indicato ragioni religiose e morali. La ragion di stato aveva sottolineato le debolezze d'una monarchia elettiva, d'un sovrano perpetuamente vecchio e continuamente distratto dagli affari di questo mondo. Gli illuministi lasciarono che i giansenisti continuassero a combattere contro la corruttela e la decadenza religiosa e morale, che gli anticurialisti togliessero a poco a poco il terreno sotto i piedi del papato, impedendo che il denaro continuasse a giungere copioso a Roma, e cominciarono ad esaminare con gli occhi degli economisti la penosa realtà della città e delle campagne pontificie. Una vera inchiesta andò svolgendosi, né preordinata, né organizzata, ma non meno vivace per questo. Le opere loro finiscono, nell'assieme, col darci un quadro realistico della situazione. Roma col suo lusso e la sua miseria, coi suoi privilegi e con la sua vita parassitaria, urbanisticamente inadeguata agli ideali del secolo, Roma fu elemento primo ed essenziale di questo viaggio eli scoperta in casa propria. Intorno, l'Agro romano, il più penoso ed immediato dei problemi economici dello Stato pontificio, regno com'era delle febbri, teatro della lotta tra popolazioni di montagna ed abitanti delle pianure, della pastorizia e della agricoltura, del latifondo e delle aspirazioni ad una ridistribuzione della terra. Tutt'intorno, le province, tanto diverse tra loro, costituivano un disordinato campionario dell'Italia meridionale, centrale e padana, a malapena tenuto insieme da strade pessime e spesso intransitabili. Province continuamente gravitanti verso gli stati limitrofi, il Napoletano, la Lombardia, il Veneto. Mosaico di amministrazioni privilegiate, l'una diversa dall'altra, e l'una più povera ed indebitata dell'altra. Ai confini, fino al 1786, non un sistema doganale coerente. Al centro, un bilancio miserevole, specchio d'una evidente incapacità e debolezza dello stato. Sulle coste, un porto in sviluppo, Ancona, ed un porto in crisi, Civitavecchia. La riscoperta dello Stato pontificio era ricca di sorprese e di dolorose constatazioni.
L'inchiesta non venne generalmente compiuta, contrariamente a quanto avveniva negli altri stati italiani, da elementi nati e cresciuti sul posto. Furono, con qualche eccezione, «stranieri» gli uomini che, partendo dai più diversi punti di vista, dall'architettura e dall'archeologia, dal diritto e dall'economia, giunsero a toccare il nocciolo della realtà politica e sociale dello Stato pontificio.
Carlantonio Pilati era trentina, Ridolfino Venuti era toscano, Ange Goudar era francese, Francesco Cacherano di Bricherasio era piemontese, Paolo Vergani lombardo, Nicola Corona napoletano, e si potrebbe facilmente allungare questa lista. Certo è possibile contrapporre Lione Pascoli , Luigi Riccomanni, il cardinal Buoncompagni. Ma la visione d'assieme non cambia: la scoperta settecentesca dello Stato pontificio è dominata dall'apporto di uomini che giungono a Roma con la mentalità che si erano formati nei grandi centri del pensiero riformatore, presso la cattedra di Genovesi, all'Università di Pisa, nell'amministrazione di Bogino, nella Milano di Beccaria e di Verri, o, magari, in Francia. Non abbiamo esitato dunque a dar la parola a uomini di terre lontane da quelle romane. Ciò che conta non è evidentemente la loro origine, ma quello che essi hanno da dirci sulla società pontificia.
Ciò non deve tuttavia portare alla conclusione che non esistettero almeno gli elementi d'un moto riformatore anche nelle terre papaline. Fin dagli anni venti Lione Pascoli aveva formulato un programma, un piano che riecheggiò poi per tutto il secolo: mercantilismo, protezionismo, dogane ai confini, alleggerimento o distruzione dei pedaggi interni, libertà d'esportazione, intervento statale per creare finalmente a Roma e nelle provincie a lei sottomesse una nuova mentalità economica all'altezza dei grandi paesi del primo Settecento, Inghilterra e Olanda, e, più concretamente, Francia e Spagna. Piano che aveva se non altro il merito di partire da zero, di riconoscere apertamente che tutto era da fare nei domini del papa. «Lo stato della Chiesa ... è forse, e senza forse, il più mise rabile di tutti gli altri». Nelle campagne lo spettacolo più comune erano «case disabitate e mal ridotte». Nelle città l'attività preferita era il gravoso sfruttamento del contado, soprattutto in forma di usura.
Né la coscienza dell'ampiezza del compito, né un mercantilistico appello all'intervento statale era dunque ciò che mancava a Roma. Quel che faceva difetto erano i capitali, erano gli strumenti degli interventi, era la volontà stessa d'agire. Immane era il compito dei riformatori ed esso venne rimandato di decennio in decennio. Venne portato avanti con ritmo secolare, mentre gli altri stati italiani, o almeno alcuni di essi, marciavano al ritmo degli anni. Non bastò la buona volontà di Benedetto XIV, non furono sufficienti gli spaventi della carestia del 1764, non servirono le intenzioni di Pio VI di occuparsi di dogane e di porti, di campi e di bonifiche, lasciando ai suoi predecessori la gran disputa tra Gesuiti e giansenisti. Quando finalmente lo Stato pontificio si decise ad una politica mercantilistica, con Fabrizio Ruffo, esso era mezzo secolo in ritardo. In piena atmosfera liberistica e fisiocratica Roma dimostrava la sua insanabile arretratezza quando applicava, e ancora parzialmente, il piano che risaliva a Lione Pascoli e che invano due generazioni avevano tentato di imporre alle autorità ecclesiastiche.
Come diceva Francesco Milizia, il più acuto, intelligente ed appassionato uomo dei lumi nella Roma di Pio VI, il Vaticano era specializzato in «progetti lunghi e dispendiosi», che «gli facevano rabbia», che lo rendevano furioso contro ogni manifestazione della pigra, snervante passività del mondo pontificio. Quando era di buon umore si dava alle profezie: «Felice la nostra vicina posterità che non sarà infastidita né da frati né da monache, e quella un poco più in là non lo sarà neppure da preti». Quando era nostalgico scriveva: «Oh Voltaire perché sei morto?». E spesso finiva col disperare d'ogni futuro della «città presbiteriale», di quella Roma che egli avrebbe voluto mutare profondamente nelle sue case e nell'animo dei suoi abitanti. La traiettoria di Francesco Milizia, dall'architettura all'economia politica meglio non potrebbe indicare la via d'uscita che i contemporanei si sforzarono di trovare in mezzo a tante difficoltà.
L'esperienza di Francesco Cacherano di Bricherasio potrà dirci quel che incontrò, su questa strada, un uomo esperto e pratico, con gli occhi aperti su tutte le brutture del mondo che era chiamato ad amministrare, pronto a proporre piani di riforma anche quando ben sapeva che non sarebbero stati accettati e che magari, come poi effettivamente avvenne, avrebbero portato alla propria disgrazia e miseria. Ma quel che aveva visto girando per le Marche e la Ciociaria non era sopportabile. Quel che osservò nell'Agro romano lo indusse a scrivere uno dei libri più interessanti del nostro Settecento, in equilibrio com'è tra una lucida utopia ed un gusto tutto piemontese per il dettaglio della quotidiana amministrazione.
Paolo Vergani è tutt'altro carattere, ma proprio per il suo eclettismo ed opportunismo, uniti a non poca intelligenza, ci rivela tutte le interne contraddizioni d'un programma mercantilistico in ritardo, conscio delle proprie ragioni storiche e destinato, ancora al passaggio tra i due secoli, a servire di copertura alle tendenze reazionarie, sia nella sua apologia del lusso che nella sua polemica antiliberista e antiliberale.
Nicola Corona ci dice invece donde vengono alcune delle forze che sboccarono finalmente nella giacobina repubblica romana. Il libro che questi pubblicò nel 1795, con lo pseudonimo di Stefano Laonice, è uno dei documenti più importanti d'una ritardata polemica antimercantilistica ed un'importante testimonianza dei fermenti riformatori più vivaci negli ultimi anni della Roma settecentesca. Tutto era da rifare nello Stato pontificio, dove «tutte le classi pugnano colla miseria», dove «i capitali non corrispondono ai mestieri», dove le terre erano iniquamente divise, dove il privilegio era la regola di vita. L'avventurosa esistenza di Nicola Corona fu un tentativo di risposta a questi soverchianti problemi.
Certo avremmo potuto allargare il cerchio di questi riformatori pontifici ed altri avremmo potuto seguire nel loro ineguale duello con la «grande decadenza», la «depressione» dello Stato pontificio, per usare le parole di Ange Goudar, contro le «les chaines forgées parla tyrannie dans l'antre de l'imposture», come diceva Voltaire, contro quell'«abominable institution» che era l'annona romana, per dirla con Thomas Denham. Uno scrittore soprattutto ci spiace di non aver potuto includere, Luigi Riccomanni, il creatore di quel «Diario economico di agricultura, manifatture e commercio», uscito nel 1776 e 1777- indubbiamente il miglior periodico della Roma settecentesca. Riccomanni è al centro di tutto il movimento delle società agrarie nello Stato pontificio ed è il maggior conoscitore romano degli economisti inglesi e francesi: la prima discussione italiana dell'opera di Adamo Smith sarà opera sua. Ma, come per tanti altri, anche per Luigi Riccomanni, all'intensità dell'opera pubblicistica non corrisponde quel frutto maturo che permette di staccare qualche pagina dal contesto della sua azione- segno anche questo delle angustie e difficoltà in cui si mossero i riformatori papalini.
Un vero salto che dimostra, se pur fosse necessario, quanto contrastata e varia fosse la realtà italiana del Settecento, dobbiamo fare per passare dai domini del pontefice alla Corsica di Pasquale Paoli. Eppure, senza ricordare la ribellione còrsa contro Genova, senza rievocare la lunga rivolta isolana che sempre più assunse il significato di una lotta tra poveri e ricchi, tra puri e corrotti, tra valorosi ed astuti, senza ritrovare l'eco delle parole di Paoli nell'Europa e nell'Italia degli anni sessanta, il quadro nel nostro Settecento non potrebbe davvero dirsi completo. Non soltanto perché all'appello della Corsica risposero le voci di Rousseau e di Boswell, di Genovesi e di Parini, di Raimondo Cocchi e di Luca Magnanima, di Alberto Fortis e di Francesco Dalmazzo Vasco. Ma, soprattutto, perché la Corsica rivelò a molte e molte coscienze quell'elemento ribelle e libertario che era insito in tutto il moto illuminista, ma che veniva generalmente chiuso ed incanalato nell'alveo di un più o meno avanzato riformismo. Pasquale Paoli disse qualcosa che molti non osavano esprimere. Fu perciò temuto, ammirato e, finalmente, lasciato solo al suo destino. La ribellione fuori tempo suscitò entusiasmi, ma finì per portare la Corsica fuori dell'orbita stessa del mondo italiano, attraverso le complesse vicende d'un embrionale e abortivo spirito «nazionale» còrso, in lotta contro Genova e contro l'intero equilibrio internazionale del Mediterraneo durante il periodo che seguì la guerra dei Sette anni. Perciò l'isola fu ammirata un po' ovunque in Europa, fu sentita come un incitamento anche al di là dell'oceano nelle colonie americane, e fu abbandonata a se stessa, quando il paradosso della sua rivolta non fu più in grado di reggere e di svilupparsi.
Le lettere e i decreti di Pasquale Paoli diranno, nelle pagine che seguono, quale fu l'animo e il pathos di questa ribellione. Tra i numerosi echi di essa sul continente italiano abbiamo scelto il meno noto e non certo il meno curioso, quello che ritroviamo nelle Lettere italiane del solitario abate toscano Luca Magnanima, erede dell'intensa vita intellettuale svoltasi attorno alla cattedra pisana di Gualberto de Soria, critico della mentalità classicistica ed umanistica dei suoi contemporanei, appassionato indagatore delle virtualità costituzionali della esperienza còrsa ed infine, alla chiusa della sua vita, entusiastico profeta ed interprete di quella rivoluzione d'oltre oceano che pareva finalmente esser giunta a concretare quelle utopiche speranze che tanto in Italia che nel resto d'Europa erano state un momento riposte nella Corsica di Pasquale Paoli. Il breve spazio dello stretto di Bonifacio, portandoci in Sardegna, ci trasferisce in un mondo diverso, e pur familiare a chi conosca il movimento riformatore dell'Italia settecentesca. Con gli anni sessanta la Sardegna diventa il terreno preferito delle esperienze di Bogino. Da lontano, senza neppur progettare o vagheggiare mai di vedere l'isola con i propri occhi e di constatarne personalmente i mali, il ministro torinese interviene, con metodo, con pazienza, con energia per mettere ordine nel riottoso mondo dei frati, per creare basi del tutto nuove alle due Università di Cagliari e di Sassari, per conoscere dettagliatamente e per cominciare a trasformare la vita economica della Sardegna. I suoi metodi son quelli burocratici e segreti, autoritari e tenaci del piccolo gruppo di uomini che tiene in mano il regno sardo negli ultimi anni di Carlo Emanuele III. Il suo modello è il Piemonte: a questo dovevano adeguarsi le strutture amministrative, i metodi agricoli, i rapporti sociali della Sardegna. Gli ostacoli sono immensi. Vanno dall'obbligo di rispettar le consuetudini e leggi locali, che il Piemonte si era impegnato a non toccare quando l'isola gli era stata affidata, allo stato di penosa desolazione di tanta parte di quella terra. Vanno dalla mancanza persino d'una lingua comune tra Torino e Cagliari l'italiano venne soltanto allora introdotto negli atti della vita ufficiale- all'arcaica struttura sociale dell'isola, dove, sotto il feudalesimo d'origine aragonese, spagnola, stava un antico equilihrio tra pastorizia e agricultura, basato su un complesso sistema di usi civici e di terre comuni, periodicamente ridistribuite. Se si aggiunge la mancanza di capitali da investire, o, piuttosto, la volontà di investirne il meno possibile, la diffidenza per gli elementi locali, le distanze, la mancanza di vie di comunicazione all'interno, l'eco della vicina rivolta còrsa e delle complicazioni internazionali che questa portava con sé, si avrà un primo e ancor non completo quadro delle difficoltà che si frappongono ai rapporti tra il Piemonte e la Sardegna. Eppure, malgrado tutto, in una decina o quindicina d'anni un risultato almeno si ottenne : i problemi della Sardegna emersero con chiarezza, in tutta la loro penosa gravità. Contemporaneamente vennero se non altro indicate le vie che bisognava scegliere per tentare di risolverli. Istintivamente Bogino propendeva per una soluzione tecnica, amministrativa: pascoli e prati, appoderamento e diffusione delle culture arboree, miglioramenti nella cultura del grano, aumento delle esportazioni cerealicole- che erano l'introito fondamentale del fisco in Sardegna. Non esitò a servirsi di tutti i mezzi che aveva a disposizione - che eran pochi e non molto adatti- per ottenere questi scopi. Persino i Gesuiti avrebbero dovuto occuparsi di tecnica agraria e spiegare ai Sardi come si costruivano le stalle, invece di lasciare brado il loro bestiame. Sperimenti agricoli dovevano essere compiuti, olivastri dovevano essere innestati ed olivi piantati, giovani sardi avrebbero dovuto venire in Piemonte per diventare buoni contadini. Si ha qualche volta l'impressione che Bogino amministri la Sardegna quasi fosse una delle sue cascine subalpine. Ma più il ministro insisteva su questa via e più grave appariva la distanza che separava la Sardegna dalle terre settentrionali e continentali. Nelle sue pianure, nelle sue vallate l'isola faceva parte dell'Italia malarica, di quelle terre della Maremma, dell'Agro romano, delle Paludi pontine, che i riformatori settecenteschi cominciarono a considerare nella loro specifica natura e unità. Sulle montagne della Sardegna l'allevamento era ben diverso che sulle Alpi. La siccità, il clima, la natura resistevano ai programmi di Bogino.
Il ministro si rese così sempre meglio conto che, al di là del problema dei pascoli e degli alberi, del grano e del bestiame stava la realtà politica e sociale della Sardegna. Glielo dissero, ognuno a modo loro, gli uomini che Bogino aveva trovato come suoi collaboratori, i Cossu, i Gemelli, i Cetti, i Capriata, un gruppo piccolo ma attivo di riformatori e di amministratori. Se la produzione granaria aumentava lentamente, spiegò Cossu in una serie di memoriali che, nel loro assieme, costituiscono una approfondita indagine sulla situazione sarda, bisognava cercarne le ragioni nella mancanza di credito, che gettava i contadini nelle mani degli usurai, nell'impossibilità in cui si trovavano i coltivatori di adottare rotazioni razionali, sospinti come erano dall'assillo immediato di dover pagare tasse e diritti feudali, nei controlli e vincoli annonari che rovinavano i rapporti tra città e campagna, tenendo bassi i prezzi del grano, riducendo alla miseria i contadini senza giovare ai cittadini. Giuseppe Cossu finì col dedicare la sua vita a mettere in pratica quello che gli apparve il migliore e più effettivo rimedio contro questo stato di cose, la capillare organizzazione cioè di monti frumentari, di banchi di prestito delle sementi nei villaggi della Sardegna.
Francesco Gemelli invece, nel più bel libro sulla Sardegna scritto nel Settecento, al di là dei miglioramenti tecnici e dei monti frumentari, additava la radice di tutti i mali nella struttura stessa della «villa» sarda, nella comunità delle terre, nell'assenza d'uno spirito e d'una realtà individualistica e proprietaria. Indicava cioè la via che fu poi seguita, nel 1820, con l'editto delle chiudende, la via che, in tutta l'Italia meridionale, portò alla liquidazione dei demani e dei terreni comuni. Con quanta acutezza e passione egli vedesse questi problemi il lettore potrà constatare nelle pagine racchiuse nel presente volume: raramente è dato trovare rappresentato con tanta vivezza il contrasto tra l'arcaica tradizione pastorale e contadina col nuovo individualismo agrario, tra Sardegna e Piemonte, tra un mondo ancor chiuso e remoto e la cultura riformatrice delle Società economiche europee e della fisiocrazia. Tanto maggiori le distanze, tanto più interessante il contrasto. Ma proprio l'acutezza di questa contraddizione rese difficile, impossibile l'adozione pratica del programma di Gemelli in Sardegna. Cinquant'anni passarono senza che si gettassero le basi di quello che egli aveva sperato fosse il «rifiorimento della Sardegna». E quando venne la legge delle chiudende i risultati - come di tutta la liquidazione dei demani meridionali - furono ben diversi da quelli che aveva voluto e sperato lo scrittore piemontese.
Che fare dunque se le trasformazioni tecniche erano difficili, insufficienti e se era troppo presto per intaccare alla radice la struttura del villaggio sardo? Bogino, ed i suoi consiglieri e collaboratori non ignoravano davvero che esisteva una terza via, attaccare cioè e smantellare il feudalesimo isolano. I continui atti di indisciplina, la spagnolesca indifferenza per ogni attività economica, la sorda opposizione di tanta parte dei feudatari non erano affatto ignoti a Bogino, che ben sapeva quale fosse lo stato di tensione, esistente soprattutto nel nord della Sardegna, tra signori e contadini. Giambattista Vasco ripeterà, prima che finisse il secolo, che il feudalesimo era l'ostacolo principale ad un miglioramento della situazione dell'isola. Né Bogino ignorava come si poteva procedere per abolire addirittura ogni rapporto feudale: nel 1770 la Savoia fu la prima terra europea in cui venisse compiuta una simile operazione. Ma in Sardegna il problema era ben diverso. Una settantina d'anni si sarebbe dovuto attendere per vedere la fine del feudalesimo in Sardegna, che sarà così l'ultima terra dell'Europa occidentale ad operare una simile trasformazione. Né la volontà riformatrice di Bogino, né la rivolta e la guerra dei Sardi all'epoca di Giammaria Angioy riuscirono, nel Settecento, a scuotere il feudalesimo sardo.
Il periplo dell'Italia settecentesca si compie, in queste pagine, con la Sicilia che Giuseppe Giarrizzo ci ha presentato in alcuni dei suoi più importanti scrittori, economisti e riformatori. Tommaso Natale, con le sue dense ed amare considerazioni sulla politica e il diritto penale e al passaggio tra primo e secondo Settecento siciliano, tra la filosofia leibniziana e wolfiana e l'empirismo che rappresenterà la gran vittoria del moderno spirito europeo sulla chiusa, astratta tradizione scolastica e metafisica isolana. Giovanni Agostino De Cosmi è il grande educatore illuminista della Sicilia. I suoi scritti ci rivelano chiaramente perché egli riuscisse a conquistare nella sua terra un'ascendente che e paragonabile a quello di Genovesi nel Napoletano. De Cosmi era un educatore che diceva pane al pane e con pacata fermezza indicava i mali, le durezze, le ingiustizie della società siciliana. Scuole, chiese, terre baronali, nobiltà, il «feudale sistema», il popolo, i contadini dell'isola cominciarono dalle sue pagine ad essere quello che realmente erano, al di là d'ogni retorica, d'ogni pregiudizio ed inganno.
La preparazione venne così compiuta da uomini come Natale e De Cosmi. L'azione venne dal di fuori, per mano del viceré Caracciolo, dal 1781 al 1786, e fu la più drammatica ed intensa battaglia sferrata al sistema feudale durante l'antico regime in una terra italiana. Altrove i risultati furono più positivi, duraturi e profondi. In Sicilia il conflitto tra l'assolutismo illuminato e i baroni assunse il valore d'una sfida e d'una prova. Domenico Caracciolo, con le sue lettere, intarsiate di formule incisive, taglienti, sulla situazione sociale della Sicilia, con le sue pagine ispirate ad un intelligente senso umanitario entra di diritto in questa raccolta. Il suo programma politico ed economico, che egli stesso formulò nelle sue Riflessioni su l'economia e l'estrazione de' frumenti della Sicilia, ci trasporta al centro dei problemi dell'età che seguì il primo fiorire delle speranze fisiocratiche, chiusa l'esperienza di Turgot, all'epoca ormai di Necker, con il tentativo di trovare la giusta misura di intervento statale per ristabilire l'equilibrio e per stimolare lo sviluppo economico. Caracciolo non si nascose mai le difficoltà che si frapponevano all'applicazione di un simile programma. L'interesse delle sue pagine nasce proprio dal vederlo tentare e ritentare, nelle diverse fasi della lotta contro il feudalesimo.
L'ultimo scrittore qui presentato ci dice qual fosse l'eredità dell'opera sua, e, in qualche modo, del suo successore, il viceré Caramanico. Rosario Gregorio è un vero storico e riflette lucidamente i problemi più veri e profondi dell'isola. Come vediamo anche attraverso di lui il passato, le tradizioni e consuetudini legali, i privilegi dei nobili e del parlamento siciliano non agirono, alla fine del Settecento, soltanto in forma di pura e semplice reazione contro l'accentramento, l'assolutismo, i tentativi di equiparazione fiscale e giuridica. Come a Napoli- non certo a caso Rosario Gregorio è stato spesso ravvicinato a Giannone -,con maggior intensità anzi che nella Napoli della fine del secolo, in Sicilia il gran conflitto tra lo stato e i baroni portò a riprendere, a rivalutare il significato stesso dei secoli trascorsi, a riconsiderare un passato siciliano che non si disperdeva ormai più nei miti dell'età classica, ma che guardava soprattutto all'apporto degli Arabi, dei Normanni, degli Spagnoli alla vita dell'isola. Rosario Gregorio fu il maggior artefice di questa visione storica e giuridica del passato siciliano. Basterebbe mettere accanto la sua prima opera veramente originale, l'Introdu zione al dritto pubblico di Sicilia, pubblicata nel 1794, e l'opera di Melchiorre Delfico, di soltanto tre anni anteriore, le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, per cogliere tutta la differenza che passa tra Palermo e Napoli. La carica illuministica, sovvertitrice è forte in Delfico. Rosario Gregorio tien fermo ai suoi princìpi empiristici in filosofia e riformistici in politica. Ma, quasi suo malgrado, passa a capire e poi a difendere la tradizione giuridica locale, a cercarvi quell'ispirazione di ragione e di libertà che Delfico aveva trovata invece soltanto nella lotta integrale col passato.
È un processo, quello siciliano, che ben capiranno coloro che rivolgeranno lo sguardo alla Spagna settecentesca, dove tanti uomini dall'animo e dal pensiero illuministico e liberale finirono con lo schierarsi contro le riforme e le trasformazioni che scendevano dall'alto, senza tener conto abbastanza del passato del paese. In Sicilia il parlamento stesso, roccaforte del privilegio aristocratico, andò prendendo coloritura liberale e anglicizzante. La Sicilia sarà, con la Sardegna, l'unica terra italiana ad opporsi alla rivoluzione francese contrapponendo le proprie forme di rappresentanza politica, la propria tra dizione giuridica e storica. In tutta la sua ricchezza il pensiero di Rosario Gregorio ci fa assistere a questa svolta, la illumina con una eccezionale coscienza storica.
Anche la tappa siciliana di questo periplo nel nostro secolo dei lumi si chiude così, come le altre fin qui compiute nelle terre del Nord e del Mezzogiorno, nella visione dell'inesauribile varietà e complessità dell'Italia settecentesca più arcaica.
BIBLIOGRAFIA
Per quel che riguarda la bibliografia generale sull'Italia del Settecento rimandiamo ad Illuministi italiani, volume I, pp. XIX sgg., e volume II, p. XVIII, aggiungendo l'indicazione delle vivaci pagine che JOHN ROBERTS ha scritto in proposito per The New Cambridge Modern History, VIII, The American and French Revolution. 1763-93, Cambridge, University Press, 1965, pp. 378-96.
Su Venezia rinviamo innanzi tutto ai classici e ai manuali: GIANNANTONIO MOSCHINI, Della letteratura veneziana del secolo XVIII fino a' nostri giorni, Venezia, Palese, 1806-1808, in quattro volumi; SAMUELE ROMANIN, Storia documentata di Venezia, Venezia, Naratovich, 1853-1861, in dieci volumi; MAXIM KOVALEVSKI, La fin d'une aristocratie, Turin, Bocca, 1901; POMPEO MOLMENTI, La storia di Venezia nella vita privata dalle origini alla caduta della repubblica, Bergamo, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, 19125, in tre volumi; HEINRICH KRETSCHMAYR, Geschichte von Venedig, Gotha, Perthes, I905-1934, in tre volumi; ROBERTO CESSI, Storia della repubblica di Venezia, Milano-Messina, Principato, 1944-1946, in due volumi.
Risente ancor molto della tradizionale impostazione storiografica sulla decadenza veneziana MASSIMO PETROCCHI, Il tramonto della repubblica di Venezia e l'assolutismo illuminato, Venezia, Dep. di Storia Patria, I 950; ha rinnovato il problema MARINO BERENGO, La società veneta alla fine del '700, Firenze, Sansoni, 1956, di cui sono pure importanti: Problemi economico-sociali della Dalmazia veneta alla fine del XV III secolo, in «Rivista storica italiana», LXXVI (1954), fase. IV, pp. 469-510; La crisi dell'arte della stampa veneziana alla fine del secolo XVIII, in Studi in onore di Armando Sapori, Milano, Istituto Editoriale Cisalpino, 1957, II, pp. 1319-38; «La via dei Grigioni» e la politica riformatrice austriaca, in «Archivio storico lombardo», serie VIII, VIII (1958), pp. 5-111; Il problema politico-sociale di Venezia e della sua terraferma, in La civiltà veneziana del Settecento, Firenze, Fondazione Giorgio Cini, Sansoni, 1960, pp. 69-95; e l'edizione curata dal Berengo dei Giornali veneti del Settecento, Milano, Feltrinelli, 1962 (sulla quale vedi la recensione di GIANFRANCO TORCELLAN, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXL, 1963, fase. 430, pp. 234-53).
Lo studio delle singole personalità della classe dirigente veneta è stato compiuto da GIOVANNI TABACCO, Andrea Tron (1712-1785) e la crisi dell'aristocrazia senatoria a Venezia, Trieste, Università degli Studi, Facoltà di Lettere, I 957; TERESA MARIA MARCELLINO, Una forte personalità del patriziato veneziano del Settecento: Paolo Renier, Trieste, Università degli Studi, Facoltà di Lettere, 1959; GIANFRANCO TORCELLAN, Una figura della Venezia settecentesca. Andrea Memmo, Venezia-Roma, Istituto per l a Collaborazione Culturale, 1963. Sulla principale crisi interna dell'aristocrazia porta interessanti notizie ANNIBALE BOZZOLA, Inquietudini e velleità di riforma a Venezia nel 1761-62, in «Bollettino storico-bibliografico subalpino», XLVI (1948), pp. 93-116. Su alcuni aspetti importanti della situazione economico-sociale DANIELE BELTRAMI, Forze di lavoro e proprietà fondiaria nelle campagne venete dei secoli XVII e XVIII, Venezia-Roma, Istituto per la Collaborazione Culturale, 1961.
Numerosi contributi si trovano nella già citata opera collettiva La civiltà veneziana del Settecento. Sulla civiltà veneta, non soltanto artistica, rimandiamo al ricchissimo volume di FRANCIS HASKELL, Patrons and Painters. A Study in the Relations between Italian Art and Society in the Age of Baroque, London, Chatto and Windus, 1963.
Per quel che riguarda Genova rinviamo a VITO VITALE, Breviario di storia di Genova. Lineamenti storici ed orientamenti bibliografici, Genova, Società ligure di storia patria, 1955, ricco di molteplici indicazioni, ma che dimostra quanto ci sia ancora da studiare nel Settecento genovese. Importante l'opera di GIULIO G!ACCHERO, Storia economica del Settecento genovese, Genova, Apuania, 1951. Non priva d'interesse la storia locale di NILO CALVINI, La rivoluzione del 1753 a Sanremo, Bordighera, Istituto Internazionale di studi liguri, Museo Bicknell, 1953. Per i rapporti con la Curia romana FAUSTO FONZI, Le relazioni fra Genova e Roma al tempo di Clemente XIII, in «Annuario dell'Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea» VIII (1956), Roma 1957, pp. 81-272. Lacunoso e spesso insoddisfacente, ma pur sempre ricco di dati RENÉ BOUDAR, Génes et la France dans la deuxième moitié du XVIIIe siècle (1748-1797), Paris-La Haye, Mouton, 1962. Particolarmente importanti e densi gli studi di SALVATORE ROTTA, Documenti per la storia dell'illuminismo a Genova. Lettere di Agostino Lomellini a Paolo Frisi, in «Miscellanea di storia ligure», Genova, Università degli Studi, Istituto di storia medioevale e moderna, 1958, pp. I89-329, e Idee di riforma nella Genova settecentesca e la diffusione del pensiero di Montesquieu, in «Il movimento operaio e socialista in Liguria», VII, n. 3-4, luglio-dicembre 1961, pp. 205-84.
Sul ducato di Parma, rinviando a quella miniera di notizie che ANGELO PEZZANA aggiunse, nel volume VI, a IRENEO AFFÒ, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, Parma 1825, citeremo soprattutto UMBERTO BENASSI, Guglielmo Du Tillot. Un ministro riformatore del secolo XVIII, in «Archivio storico per le province parmensi» , n. s., vol. xv (1915), pp. 1-121, vol. XVI (1916), pp. 193-368, vol. XIX (1919), pp. 1 -250, vol. xx (1920), pp. 47-153, vol. XXI (1921), pp. 1-75, vol. XXII (1922), pp. 191-272, vol. XXIII (1923), pp. 1-113, vol. XXIV (1924), pp. 15-220, vol. XXV (1925), pp. 1 -230; HENRI BEDARIDA, Parme et la France de I7 48 à I789, Paris, Champion, 1928, e GIUSEPPE BERTI, Atteggiamenti del pensiero italiano nei ducati di Parma e Piacenza dal IJSO al I1850, Padova, C.E.D.A.M., 1958.
Per le premesse del moto riformatore a Modena si veda SERGIO BERTELLI, Erudizione e storia in Ludovico Antonio Muratori, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, I96o, e, nella presente collana, le Opere di Lodovico Antonio Muratori, a cura di GIORGIO FALCO e FIORENZO FORTI, Milano Napoli, Ricciardi, 1964, in due volumi. Utili indicazioni generali in LUIGI AMORTH, Modena capitale. Storia di Modena e dei suoi duchi dal 1598 al 1860, Modena, Biblioteca della Deputazione di storia patria, 1961. Sulle riforme si veda GIUSEPPE SALVIOLI, La legislazione di Francesco IlI duca di Modena, in «Atti e Memorie della Deputazione di storia patria per le province modenesi», s. IV, vol. IX (1899), pp. 1-42; LUIGI SIMEONI, L' assorbimento austriaco del Ducato estense e la politica dei duchi Rinaldo e Francesco III, Modena, Biondi e Parmeggiani, 1919; ODOARDO ROMBALDI, Contributo alla conoscenza della storia economica dei Ducati estensi dal 1771 all'età napoleonica, Parma, La Nazionale, 1964, estratto da Il Risorgimento a Reggio. Atti del convegno di studi 28-29 dicembre 1961. Si veda pure LUIGI Pucci, Ricerche sulla vita e sull'opera economica di Lodovico Ricci, in «Bollettino del Museo del Risorgimento», Bologna, VII (1962), uscito in realtà nel 1965, quando già era stampata la parte modenese del presente volume. Particolarmente importanti e suggestivi gli studi di CARLO PONI, Aspetti e problemi dell'agricoltura modenese dall'età delle riforme alla fine della Restaurazione, in Aspetti e problemi del Risorgimento a Modena, in «Collezione storica del Risorgimento e dell'unità d'Italia» , vol. LX, s. IV, Modena, S.T.E.M.- Mucchi, 1963, pp. 123 sgg., e Gli aratri e l'economia agraria nel Bolognese dal XVII al XIX secolo, Bologna, Zanichelli, 1963.
Sulla struttura amministrativa, economica e sociale dello Stato pontificio nel XVIII secolo si vedano le notizie raccolte da JOHANN FRIEDRICH LE BRET, Vorlesungen iiber die Statistik. Italiiinische Staaten, Zweiter Theil, Rom, Stuttgart, Mezler, 1785; THOMAS DENHAM, The Temporal Governament of the Pope's State, London, Johnson, 1788; HEINRICH: VlORITZ GOTTLIEB GRELLMANN, Gegenwiirtiger Zustand des Piipstlichen Staats vornehmlich in Hinsicht seinn Justizpfiege wzd politischen Oekonomie, Helmsted, Fleckeisen, 1792. Utilizzabili pure sono GABRIELE CALINDRI, Saggio geografico, statistico, storico dello Stato pontificio, Perugia, Garbinesi e Santucci, 1829-1833, e PHILIPPE-CAMILLE –CASIMIR-MARCELLIN DE TOURNON, Études statistiques sur Rome et la partie occidentale des états romains, Paris, Firmin Didot, 1831.
Nella polemica contemporanea di particolare interesse sono FERDINANDO Nuzzi, Discorso intorno alla coltivazione e popolazione della Campagna romana, Roma, Stamperia della reverenda camera apostolica, 1702; LIONE PASCOLI, Testamento politico di un accademico fiorentino in cui con nuovi e fondati princìpi si fanno vari e diversi progetti per stabilire un ben regolato commercio nello Stato della Chiesa e per aumentare notabilmente le rendite della Camera, Colonia, d'Egmont, s. d.; GIROLAMO BELLONI, Del commercio. Dissertazione, Roma, Pagliarini, 1750; RIDOLFINO VENUTI, Osservazioni sopra l'Agro romano e sopra le coltivazioni del medesimo, in appendice a FRANCESCO ESCHINARDI, Descrizione di Roma e dell'Agro romano, Roma, Salomoni, 1750; CARLANTONIO PILATI, Umilissima supplica del popolo romano al Sommo Pontefice per lo ristabilimento dell'agricoltura, delle arti e del commercio, in Di una riforma d'Italia, Villafranca (cioè Coira) 1767, cap. XIII; CLAUDIO TODESCHI, Saggi di agricoltura, manifatture e commercio coll'applicazione di essi al vantaggio del Dominio pontificio, dedicati alla Santità di Clemente XIV, Roma, Casaletti, 1770; ANGE GOUDAR, Saggio sopra i mezzi di ristabilire lo stato temporale della Chiesa in cui l'autore dà un piano di agricoltura, di commercio, d'industria e di finanze, Livorno, Falorni, 1776; CRISTOFORO MOLTÒ, Osservazioni economiche a vantaggio dello Stato pontificio, Venezia (in realtà Napoli) 1781; ai quali vanno aggiunte naturalmente le opere degli autori appresso studiati.
Fondamentale la consultazione dei periodici romani del Settecento, tra i quali ricorderemo il «Giornale de' letterati» (1742-1758), le «Efemeridi letterarie di Roma» (1772-1794), l'«Antologia romana» ( 1774-1795), il «Diario economico di agricoltura, manifatture e commercio» (1776-1777), l'«Agricoltore», (1784-1785) e la «Bibliografia generale corrente d'Europa» (1780-1781).
Per la memorialistica contemporanea si veda soprattutto JOSEPH GORANI, Mémoires secrets et critiques des cours, des gouvernements et des moeurs des principaux états de I'Italie, Paris, Buisson, 1793, in tre volumi, e FRANÇOis DE BouRGOIN, Mémoires historiques et philosophiques sur Pie VI, Paris, Buisson, 18002.
Particolarmente frammentarie e spesso pettegole sono le opere sulla storia culturale, di cui ricorderemo soltanto DAVID SILVAGNI, La corte e la società romana nei secoli XVIII e XIX, Firenze, Tip. «Gazzetta d'Italia», e Roma, Forzani, 1882-1855 in tre volumi; LEONE VICCHI, Vincenzo Monti. Le lettere e la politica in Italia dal 1750 al 1830 Faenza e Fusignano, Conti e Morandi, 1879-1887; e GAETA o GASPERONI, Settecento italiano. (Contributo alla storia della cultura), I, L'Ab. Giovanni Cristoforo Amaduzzi, Padova, C.E.D.A.M., 1941.
Sulla storia sociale ed economica: FRANCESCO CORRIDORE, La popolazione dello Stato Romano (1656-1901), Roma, Loescher, 1906; ALBERTO CANALETTI GAUDENTI, La politica agraria e annonaria dello Stato pontificio da Benedetto XIV a Pio VII, Roma, Istituto di Studi romani, 1947; GIUSEPPE MIRA Contributo alla storia dell'economia agricola nella Campagna romana: i rendimenti dei terreni nell'Agro romano e nei distretti di Roma nel '700, Bari 1948 e Commercio e consumo del frumento in Roma nel XVIII secolo, Como, S.A.G.S.A., 1948; VITTORIO FRANCHINI, Gli indirizzi e la realtà del Settecento economico romano, Milano, Giuffré, 1950.
Di particolare importanza i recenti studi di ENZO PISCITELLI, Le riforme di Pio VI e gli scrittori economici romani, Milano, Feltrinelli, 1958; LUIGI DAL PANE, Lo Stato Pontificio e il movimento riformatore del Settecento, Milano, Giuffré, 1959; RENATO ZANGHERI, La proprietà terriera e le origini del Risorgimento nel Bolognese, 1, 1789-1804, Bologna, Zanichelli, 1961; ALBERTO CARACCIOLO, Ricerche sul mercante del Settecento, I, Fortunato Cervelli, ferrarese «neofita» e la politica commerciale dell'Impero, e Il, Francesco Trionfi, capitalista e magnate d'Ancona, Milano, Giuffré, 1962; RENZO PACI, Agricoltura e vita urbana nelle Marche: Senigallia fra Settecento e Ottocento, Milano, Giuffré, 1962; PASQUALE VILLANI, Ricerche sulla proprietà e sul regime fondiario nel Lazio, in Studi sulla proprietà fondiaria nei secoli XVIII e XIX, estratto dall'«Annuario dell'Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea», XII (1960), Roma 1962, e GIROLAMO BELLONI, Scritture inedite e dissertazione «Del commercio» , a cura di Alberto Caracciolo, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1965. Cfr. pure FRANCO VENTURI, Elementi e tentativi di riforme nello Stato pontificio del Settecento, in «Rivista storica italiana», LXXV (I963), fase. IV, pp. 778-817.
Per la rivolta còrsa contro Genova, rimandiamo alla bibliografia in calce alla Nota introduttiva agli scritti di Pasquale Paoli, in questo volume, pp. 741-3.
Per la Sardegna si ricorrerà all'opera ancor per tanti aspetti importante di DOMINIQ UE-ALDERT AZUNI, Histoire géographique, politique et naturelle de la Sardaigne, Paris, Levrault, an x (1802), in due volumi, e allibro, particolarmente aulico di forma e di contenuto e molto invecchiato, di GIUSEPPE MANNO, Storia moderna della Sardegna dall'anno 1773 al 1779, Torino, Favale, 1842, in due volumi. Più vivace, ma molto disordinato, GIOVANNI SIOTTO-PINTOR, Storia letteraria di Sardegna, Cagliari, Timon, 1843. Sempre fondamentale ALBERT DE LA MARMORA, Voyage en Sardaigne, Paris, Bertrand, et Turin, Bocca, 1839.
Tra gli studi recenti notiamo ALBERTO PINO BRANCA, Vita economica della Sardegna sabauda (1720-1773), Messina, Principato, 1926, e Politica economica del governo sabaudo in Sardegna (1773-1848), Padova, C.E.D.A.M., 1928; FRANCESCO LODDO CANEPA, Il riformismo settecentesco nel Regnum Sardiniae, in «Il Ponte» , VII (1951), n. 9-10; articoli vari in Studi storici in onore di Francesco Loddo Canepa, Firenze, Sansoni, 1959; e ALBERTO BOSCOLO, LUIGI BULFERETTI, LORENZO DEL PIA NO, Profilo storico economico della Sardegna dal riformismo settecentesco al «Piano di rinascita», Padova, C.E.D.A.M., 1962.
Per la Sicilia fondamentale resta DOMENICO SCINÀ, Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo decimottavo, Palermo, Dato, 1824, in quattro volumi.
Per un inquadramento ed una interpretazione della larghissima bibliografia posteriore rimandiamo all'opera di ROSARIO ROMEO, Il Risorgimento in Sicilia, Dari, Laterza 1950, che ha, nella prima parte del suo lavoro, compiutamente riesaminato il problema del moto riformatore e illuminista nell'isola . Tra le opere posteriori si vedano FRANCESCO SALVATORE ROMANO, Riformatori e popolo nella rivolta palermitana del 1773, estratto dagli «Atti del Comitato trapanese dell'Istituto per la storia del Risorgimento italiano a cura di Gianni Di Stefano», Trapani 1957; ANTONIO PETINO, Saggi sulle origini del pensiero meridionalistico. Da Serra a Galanti. Balsamo. Scrofani. Symonds, Catania, Istituto di storia economica dell'Università, I958, e ROBERTO ZAPPERI, La «fortuna» di un avventuriero: Saverio Scrofani e i suoi biografi, in «Rassegna storica del Risorgimento», anno XLIX, fase. III, luglio-settembre 1962, pp. 447 sgg.