illusione
In psicoanalisi, soprattutto nel suo significato iniziale che non si discosta dal senso corrente, rappresentazione errata o vagheggiante di una situazione, di un oggetto fisico (per es., le i. ottiche) o di un fatto. In senso proprio l’i. equivale non a un errore bensì a un inganno, a una situazione in cui un soggetto simula (o dissimula) qualche cosa. Vi è anche un aspetto del significato relativamente svincolato dal tema dell’aderenza a una realtà o verità: l’i. come ludus, vale a dire gioco, fictio ma anche produzione fantastica, fantasia, sogno.
Il termine i. è stato usato da Sigmund Freud in un saggio del 1927, L’avvenire di un’illusione. Qui egli si è cimentato con la genesi psichica delle rappresentazioni religiose, assumendo nei confronti della religione una posizione netta di stampo illuminista: la religione è un’i. e chi si affida ai principi della ragione deve sbarazzarsene, avvalendosi piuttosto dell’investigazione razionale come unica via per il progresso della civiltà. Anzi, per Freud la religione − come approfondirà in uno dei suoi ultimi scritti, L’uomo Mosé e la religione monoteistica: tre saggi (1934-1938) – è, insieme con il pensiero magico, una delle molte i. consolatorie che offendono la dignità degli uomini e che, alla stregua di altri miti irrazionali, ne mortificano l’intelligenza. Freud, inoltre, mette in luce tanti altri illusori surrogati irrazionali, non ultimi gli stessi sogni notturni, quelli a occhi aperti, il momento dell’innamoramento; e ancora le favole, le leggende e in fondo l’arte tutta, intesa quale gratificazione sostitutiva, narcisistica (➔ narcisismo) o sublimata (➔ sublimazione). Nella sua corrispondenza con il pastore svizzero Oskar Pfister, Freud affronta inoltre la questione delle i. in ambito pedagogico, attribuendo all’educazione lo scopo dell’abbandono di ogni i. e l’accettazione, ma non l’adattamento, dell’inevitabile «disagio della civiltà».
Eugenio Gaddini, uno dei più noti psicoanalisti italiani, ha reso merito a Donald W. Winnicott, pediatra e psicoanalista britannico, di essere stato il primo a parlare dell’importanza dell’i. in un senso diverso rispetto a Freud (in Lo sviluppo emozionale primario, 1945) per la prima formazione mentale del Sé, quando il bambino non è ancora un individuo psichicamente separato e dipende in modo assoluto dall’ambiente che ha cura di lui. Winnicott postula che esista una comunicazione profonda tra la madre ‘normalmente devota’ (che si trova in uno stato di cosiddetta preoccupazione materna primaria) e il suo inesperto bambino. Una madre accessibile, ‘sufficientemente buona’ (una donna vale a dire in carne e ossa), che possiede un adattamento empatico ai bisogni del suo piccolo, non crea, però, i bisogni del lattante, specificherà Winnicott, «bensì risponde a questi bisogni al momento giusto». Ed è appunto quando il seno, o il biberon, arriva al momento giusto – quando il bambino inizia ad avere fame – che lo stesso bambino potrà vivere l’i. di aver creato lui quell’oggetto che in realtà ha trovato nel mondo esterno. In tali circostanze, il bambino si sentirà come un dio onnipotente. Sostenendone, così, l’onnipotenza, la madre dà al figlio l’i. che esista una realtà esterna che risponde magicamente ai suoi bisogni e corrisponde esattamente alla sua capacità di creare. In altre parole, c’è una sorta di sovrapposizione tra ciò che la madre dà e ciò che il bambino concepisce: «L’oggetto era lì - afferma Winnicott - in attesa di essere creato ». Inoltre, con l’i., la madre protegge il bambino dalla consapevolezza prematura di sé e dell’altro mentre lo avvia verso l’esperienza dialettica di coesistenza fra unità e separatezza, nell’ambito del cosiddetto spazio potenziale dell’area transizionale (➔ oggetto transizionale). Una madre in grado di fare illudere, sostiene implicitamente lo psicoanalista britannico, arricchisce la personalità del bambino, purché sia anche in grado di introdurre gradualmente quelle dosi di realtà esterna che il piccolo è capace di assimilare nel suo Io in formazione. Winnicott, infatti, fa spesso riferimento all’importanza per il bambino di essere disilluso (e non deluso) e di provare i sentimenti conseguenti. La madre piano piano si ‘de-adatta’, ‘fallisce’, ripara i ‘fallimenti’. Tutto questo è parte integrante della disillusione, che si deve verificare perché abbia luogo uno sviluppo sano, affinché il bambino, emancipandosi dallo stato di fusione, tollerando qualche frustrazione, possa transitare dalla dipendenza assoluta alla dipendenza relativa e acquisisca il senso dell’esistenza del non-me. Se tutto procede bene, il bambino attraverso la disillusione graduale conoscerà il mondo reale e saprà di non essere Dio. L’i., contrariamente a come veniva presentata nella tradizione psicoanalitica, diventa da un lato mezzo per andare oltre quella dualità che abbiamo visto essere funzionale alla crescita, dall’altro mezzo per vivere la realtà e non già per negarla o per tollerarla (come proponeva Freud ne L’avvenire di un’illusione, 1927).
Alla luce di queste osservazioni, molti psicoanalisti contemporanei hanno opportunamente differenziato l’i. negativa (arbitraria, narcisistica, onnipotente, capricciosa, che pretende di piegare la realtà a proprio piacimento, destinandosi allo scacco) da un significato positivo dell’i., legato alla capacità, alla fiducia, allo slancio e all’impegno dell’individuo nella realizzazione dei propri sogni e fantasie. Interessanti a questo proposito sono i lavori di Marion Milner che vede appunto nella capacità di illudersi una fase necessaria per l’estrinsecarsi di tutti i processi creativi, per arrivare poi alla concettualizzazione di i. condivisa proposta da Andreas Giannakoulas, lungo il percorso teorico e clinico della terapia di coppia, che conduce, attraverso la costruzione di una reciprocità reale tra i due partner, dall’innamoramento all’amore.