illustre
. Esclusivo del Paradiso, vale fondamentalmente " insigne ", " eccellente ": XVI 90 illustri cittadini; in XXII 20 assai illustri spiriti, si può scorgere, oltre all'idea di ‛ eccellenza morale ', quella di ‛ splendore ', attributo proprio di tutti i beati; per cui le due interpretazioni generalmente date, " luminosi, splendenti " (Mattalia) e " anime di personaggi illustri per santità di vita " (Casini-Barbi), insufficienti se singolarmente prese, colgono, insieme, il pieno valore semantico dell'attributo.
Il concetto di volgare Illustre. - I. è aggettivo-chiave con cui D. definisce nel De vulg. Eloq. la sua nozione di volgare sommo d'Italia. Già nella retorica classica i. è tipico attributo dell'oratio e simili (v. in particolare Cicerone), qualificandone il livello più alto. Ma in D. si ha un'esplicitazione e tecnificazione personale del significato del termine, che viene applicato, prima che a un grado dello stile, al volgare italiano nella sua piena manifestazione in quanto tale. Come per gli altri aggettivi che definiscono il volgare sommo: aulicus, cardinalis, curialis (v.), il punto di partenza della definizione di ‛ volgare illustre ' sta in un'analisi etimologico-semantica del termine secondo il gusto, che in D. deriva soprattutto dalla frequentazione di lessici mediolatini, della spiegazione etimologica della parola come accesso al concetto che essa designa (e cfr. quindi Uguccione da Pisa: " Illustris, ab illustro, stras... idest praeclarus, nobilis, quia valde illustratur "). D'altra parte sono stati messi in luce i rapporti tra la nozione dantesca in questione e l'estetica medievale della luce, riflessa ancora nella concezione tomistica del pulchrum. Spiegando dunque l'attributo di i., D. precisa (VE I XVII 2): Per hoc quidem quod illustre dicimus, intelligimus quid illuminans et illuminatum praefulgens: et hoc modo viros appellamus illustres, vel quia, potestate illuminati, alios et iustitia et caritate illuminant; vel quia, excellenter magistrati, excellenter magistrent, ut Seneca et Numa Pompilius. Et vulgare de quo loquimur, et sublimatum est magistratu et potestate, et suos honore sublimat et gloria (per una delle connessioni qui stabilite cfr. una glossa citata dal Thesaurus: " illustrat illuminat, visitat, vel honore sublimat "). Nei paragrafi successivi D. spiega perché al sommo volgare appartengano le qualità che lo fanno illustre. Esso è magistratu sublimatum in quanto, come mostrano le canzoni di Cino da Pistoia e dell'amicus eius, lo si vede emergere così nobile, limpido (extricatum), perfetto e urbano de tot rudibus Latinorum vocabulis, de tot perplexis constructionibus, de tot defectivis prolationibus, de tot rusticanis accentibus (s'intende, dei dialetti municipali italiani; notare le antitesi termine a termine degli aggettivi). È exaltatum potestate per la sua capacità di commuovere e persuadere a piacimento l'animo umano. Infine honore ‛ sublimat ', poiché i suoi intrinseci superano in fama tutti i potenti, e D. stesso può testimoniare della gloria acquisita con l'esercizio di tale volgare, per la cui dolcezza si getta alle spalle l'amarezza dell'esilio (§§ 3-5).
Le frequenti occorrenze dell'aggettivo nel De vulg. Eloq. sono quasi tutte relative a questo ambito concettuale, e in particolare dopo il capitolo citato i. tende ad assorbire compendiariamente anche le nozioni suggerite dagli altri attributi, aulicus, cardinalis, curialis. Quindi o si riferisce senz'altro al volgare (VE I XI 1 - ma qui è ancora evidente l'approssimazione concettuale: decentiorem atque illustrem Ytaliae... loquelam -; XIII 1, XIV 8; XV 6, in coppia con aulicum; XV 8 latium i.; ecc.); o agli scrittori che usano il volgare sommo (VE I XV 6; XIX 2 doctores i.; II II 9 i. viros; III 9 illustrium capitum poetantium, e cfr. Eg. II 86 hoc i. caput; VI 5 dictatorum i.), e l'uso si prolunga nella Monarchia (I XVI 2 poetae i.; II IV 5 i. auctorum; IV 7 scriptores i. - si parla sempre di scrittori latini); o infine ai prodotti del sommo poetare (II V 4 e VI 6 cantiones i.). Sta a sé l'i. heroes detto di Federico II e Manfredi in VE I XII 4, di cui tuttavia il passo citato di I XVII 2 rivela la pregnanza, da confrontare con i. cittadini e i. spiriti di Pd XVI 90 e XXII 20 (da notare che l'aggettivo non ricorre altrimenti nel volgare dantesco, il che ne sottolinea il carattere di voce rara e dotta).
Come accade spesso per la terminologia tecnica di D., il vocabolo è stabilmente penetrato nel linguaggio critico moderno, a indicare l'elaborazione colta e letteraria del volgare locale da parte degli scrittori (in questo senso si parla, ad es., di ‛ siciliano illustre ', di volgare ‛ illustre ' nell'Italia settentrionale del Duecento, ecc.). Ciò comporta però un sensibile scarto rispetto alla nozione dantesca, così come si basava su un fraintendimento del pensiero di D., dovuto in primo luogo alla falsa interpretazione del valore di ‛ curiale ', la concezione di volgare illustre come media e conguaglio dell'uso più elevato di varie regioni e centri culturali, elaborato nel '500 dal Trissino e dai seguaci della teoria ‛ cortigiana ' e ripreso ancora nell"800 (Perticari).
In realtà, se si toglie il cenno citato di VE I XVII 3 (dove in ogni caso non andrà forzato, come tende a fare il Marigo, il valore di electum), D. non si preoccupa affatto di chiarire, come noi ci aspetteremmo, il rapporto genetico che necessariamente lega un volgare letterariamente elaborato alla sua base municipale, e il concetto del primo come raffinamento e sublimazione della seconda gli è, contrariamente a quanto hanno pensato alcuni interpreti, del tutto estraneo. Il volgare illustre non è infatti per D. qualcosa che ‛ diviene ', che nasce e si crea in un processo concreto, ma qualcosa che ‛ è ', metafisicamente. Il ragionamento di VE I XVI non lascia dubbi in proposito. L'inseguimento della pantera, come D. chiama metaforicamente il volgare i., attraverso le lingue municipali d'Italia si è risolto in un nulla di fatto: nessuna di esse s'identifica col volgare illustre. Perciò, per afferrarlo concettualmente, occorre procedere rationabilius, come D. dice esplicitamente, sottolineando il passaggio da un procedere empirico a uno astratto e deduttivo, e la propria convinzione che solo quest'ultimo è risolutivo. Per tutte le cose che appartengono a un dato genere - ragiona D. - esiste una unità di misura a cui esse vanno tutte rapportate, come l'uno nel campo dei numeri e così via. Così nelle nostre azioni, in quanto si dividono in specie, si trovano le relative unità di misura: la virtù, che ci dichiara buoni o cattivi, in quanto agiamo simpliciter ut homines; la legge, che commisura il buono o il malvagio cittadino, in quanto agiamo ut homines cives; in quanto infine siamo homines latini (cioè italiani) abbiamo certi simplicissima signa di costumi, abiti e linguaggio che misurano l'italianità del nostro agire. Questi non sono propri di nessuna città particolare d'Italia, ma comuni a tutte, e tra essi sta il volgare in questione, quod in qualibet redolet civitate, nec cubat in ulla; può bensì redolere nell'una piuttosto che nell'altra, così come la simplicissima substantiarum, Dio (e il paragone è estremamente significativo), dà sentore di sé più in certi aspetti del creato che in altri. Perciò, e questa è la conclusione del capitolo, esiste in Italia un volgare illustre, cardinale, aulico e curiale, che è di tutte e di nessuna città italiana, e in base al quale vengono misurati, pesati e comparati i singoli volgari (municipali) d'Italia. Simile tipo di ragionamento deduttivo prosegue nei capitoli seguenti, e in particolare a proposito delle nozioni di aulico e curiale, caratteri attribuiti al volgare illustre nonostante che l'Italia non abbia né reggia né curia poiché, se le avesse, vi apparterrebbe di diritto, anzi, con la sua esistenza, già le prefigura idealmente (come si dice in VE I XVIII 5 ‛ esiste ' una curia italiana, anche se materialmente dispersa).
Come si vede, il volgare illustre è un dato, non il risultato di un processo. Se esistono l'Italia e gl'Italiani, e su questo non vi è dubbio, anche se pochi sanno essere veramente Italiani, esiste anche un volgare unitario che rappresenta il necessario aspetto linguistico di questa italianità. Pertanto, come poi si sottolinea a più riprese nel trattato (v. in particolare II I-II), l'uso del volgare illustre è necessariamente legato a un alto grado di dignità intellettuale e morale, quale appartiene appunto ai doctores illustres, e di quella dignità è l'espressione naturale, necessaria. È da sottolineare a questo proposito che, contrariamente al parere del Vinay, non c'è nel De vulg. Eloq. nessun accenno positivo al fatto che l'uso del volgare illustre sia appannaggio di altri all'infuori dei doctores; qualunque cosa D. pensasse del futuro, e del passato, è chiaro che nel presente essi, ed essi soli, ne sono i familiares et domestici (cfr. XVII 3 e 5, e specialmente XIX 2, dove si dice che il latium vulgare è stato usato dai doctores illustres qui lingua volgari poetati sunt in Ytalia, e solo essi sono nominati).
L'impostazione dantesca comporta subito due conseguenze. Anzitutto che il rapporto tra volgare illustre e volgari municipali si svolge a senso unico: non il primo dipende dai secondi, poiché il raggiungimento del volgare illustre da parte dei maggiori poeti è sempre visto come processo di radicale allontanamento dalla base linguistica locale, ma, come si dice a più riprese (VE I XVI 4-6, cit.; XVII 3, cit.; XVIII 1: v. CARDINALE), il volgare illustre funge da polo di attrazione e di orientamento dei volgari municipali. In secondo luogo che quel volgare sommo si presenta come assolutamente unitario: benché D. abbia cura, strategicamente, di reperire poeti illustri nelle più diverse regioni d'Italia, e sottolinei puntigliosamente le particolarità divergenti dei rispettivi dialetti, il volgare dei doctores, a qualsiasi regione appartengano, è visto come uniforme, tanto che di quello dei primores siciliani si dice (I XII 6) che nichil differt ab illo quod laudabilissimum est. Alla base di questa concezione sta certo anche un dato di fatto culturale, cioè l'effettiva uniformità idiomatica con cui la lirica illustre duecentesca si presentava agli occhi di D.: determinata o dalla patinatura toscana che i testi avevano subito nel processo di trasmissione manoscritta, come nel caso famoso dei siciliani (i cui residui idiomatismi erano stati d'altronde promossi a elementi aulici, ampiamente ereditati dai toscani), o appunto dalla precoce diffusione di modelli toscani, come nel caso della lirica settentrionale, da Guinizzelli in poi, fortemente debitrice dei precedenti guittoniani e quindi anche stilnovistici. Ma resta sempre fondamentale l'esigenza logico-metafisica della reductio ad unum.
In questa esigenza di unitarietà agisce evidentemente anche la prospettiva politica inerente alla concezione dantesca, come rivelano soprattutto le nozioni di volgare ‛ aulico ' e ‛ curiale ' (v.): secondo un'impostazione che caratterizza tipicamente, ben oltre D., la storia della cultura italiana, l'esistenza di un'unità linguistico-letteraria è vista come anticipo e anzi realizzazione in nuce di un'effettiva unità politica ancora assente: di essa fornisce del resto una nostalgica immagine la curia siciliana di Federico II e Manfredi, esaltata in VE I XII 4. La conclusione del I libro del De vulg. Eloq. accentua fortemente il carattere d'italianità attribuito al volgare illustre. Il vulgare... illustre, cardinale, aulicum et curiale è senz'altro identificato col vulgare latium (cioè italiano), sulla base di un ragionamento ancora di tipo astratto e deduttivo, per cui, com'è vero che esiste un volgare di Cremona, così, via via, ne esiste anche uno proprio della Lombardia e poi di tutta la ‛ parte sinistra ' dell'Italia (semilatium) e infine dell'Italia intera: quello appunto che hanno usato i doctores illustres di tutte le regioni della penisola.
Questa impostazione fa sorgere una certa contraddizione con la teoria del volgare illustre sviluppata nel II libro dell'opera, dove, coerentemente a un punto di vista che ora diviene in sostanza stilistico, D. stabilisce il rapporto tra il volgare illustre e un determinato livello di stile, nel solco della tradizione retorica classica e medievale. Anzitutto in VE II I 1, forse per correggere anche l'impressione che poteva lasciare il libro I, D. precisa che il volgare illustre può essere usato sia in poesia che in prosa, anche se i prosatori si rifanno ai modelli linguistici elaborati dai poeti, e non viceversa: D. non ha di fatto steso la trattazione sulla prosa illustre (probabilmente destinata al libro III), ma da questo cenno (confitemur latium vulgare illustre tam prosayce quam metrice decere prof erri) e dall'assenza di esempi di prosatori nel I libro par di capire che pensava piuttosto alla possibilità di una prosa illustre italiana (magari legata all'esperimento in corso del Convivio) che non a una sua già avvenuta realizzazione in esemplari concreti. In seguito, per tutto il secondo libro, D. fissa le condizioni d'impiego del volgare illustre, legate da un lato a un particolare grado di dignità intellettuale dello scrivente (non basta l'ingenium, occorrono anche doctrina e scientia), dall'altro alla scelta dei contenuti più alti, i magnalia (v.), e al conseguente uso dello stile supremo, che comporta una determinata forma metrica (la canzone) e un determinato livello di sintassi e di vocabolario (cfr. II VI e VII). E v. CONVENIENZA.
Di qui appunto una certa contraddizione. Da un lato il volgare illustre è la lingua degl'Italiani; dall'altro è la lingua di un determinato stile, quello superior. Da un lato appare la forma espressiva necessaria e connaturata di chi attinga il grado più alto di ingegno e di dottrina, sicché non può essere usato da qualsiasi verseggiatore, ma solo da chi sia capace di optimae conceptiones (VE II I-II); dall'altro è condizionato oggettivamente dalla materia poetica, e quest'ultima è aperta alla libera scelta del poeta, che può quindi rivolgersi a qualsiasi contenuto, purché beninteso si attenga al livello stilistico ad esso adeguato. Contenuti e stili inferiori sono, nel loro ambito, perfettamente giustificati. Ma riesce difficile comprendere come il doctor illustre possa discendere al di sotto di quelle optimae conceptiones e di quella forma espressiva che in lui sono una seconda natura, per il gusto di sperimentare modi tematici e stilistici inferiori. È probabile che questa aporia, intrinseca a tutta l'impostazione del De vulg. Eloq., non risalga semplicemente a una certa opposizione tra la prospettiva ‛ linguistica ' del primo libro e quella ‛ stilistica ' del secondo, condizionata dagli schemi della retorica tradizionale, ma abbia origine più a monte, nelle stesse contraddizioni della poetica dantesca all'epoca della stesura del trattato, e più indietro nella stessa esperienza letteraria su cui quella poetica si fonda. Infatti, se la poetica del De vulg. Eloq. è soprattutto la giustificazione teorica di una determinata fase della produzione lirica di D., quella dell'amore stilnovistico e ancor più della ‛ rettitudine ', assolutizzata e vista come esempio dell'unica poesia veramente degna degli uomini più degni, l'impostazione più che l'effettivo contenuto attuale dell'opera mostrano che essa mirava anche a strutturarsi come comprensiva enciclopedia stilistica: proiezione evidente di un'attività poetica tutt'altro che uniforme e compatta, anzi contrassegnata da continue e divergenti sperimentazioni, fino a ben dentro la tematica e le forme linguistiche del ‛ comico '. E v. DE VULGARI ELOQUENTIA: Composizione; Titolo; ecc.
Bibl.-La teoria del volgare illustre è oggetto di esame in quasi tutti i lavori di un certo respiro sul De vulg. Eloquentia. Ci si limita perciò a indicare alcuni titoli più interessanti: F. D'ovidio, D. e la filosofia del linguaggio (1892), poi in Studii sulla Divina Commedia, parte II, Napoli 1931, 304-305 (Opere di F. D'O.., Il); P. Rajna, Il trattato De vulgari Eloquentia, in Lectura D. - Le opere minori di D.A., Firenze 1906, 209-212; ID., in Dante. La vita - le opere - le grandi città dantesche. D. e l'Europa, Milano 1921, 84; B. Nardi, Il linguaggio (1921), poi in D. e la cultura medievale, Bari 1949², 237-240; S. Santangelo, Il volgare illustre (1924), poi in Saggi danteschi, Padova 1959, 131-142; M. Casella, Il volgare illustre di D., in " Giornale della Cultura Italiana " I (1925) 34-40; A. Marigo, ediz. del De vulg. Eloq., LXVIII-XC, 133 ss. e passim; F. Di Capua, Insegnamenti retorici medievali e dottrine estetiche moderne nel De vulgari Eloquentia di D. (1945), poi in Scritti minori, Roma 1959, II 279-288; A. Pagliaro, I " primissima signa " nella dottrina linguistica di D. (1947), poi in Nuovi saggi di critica semantica, Messina-Firenze 1956, 229 ss.; G. Vinay, Ricerche sul De vulgari Eloquentia, in " Giorn. stor. " CXXXVI (1959) 258-274; ID., La teoria linguistica del De vulgari Eloquentia, in " Cultura e Scuola " n. 5 (settembre-novembre 1962) 36-42; R. Dragonetti, Aux frontières du langage poétique (Etudes sur D., Mallarmé, Valéry), Gand 1961 (" Romanica Gandensia " IX) 45-52; A. Schiaffini, Interpretazione del De vulgari Eloquentia di D., Roma 1963, 137-148; C. Grayson, D. e la prosa volgare, in " Il Verri " n. 9 (ottobre 1963) 6-8 e passim; G. Favati, Osservazioni sul De vulgari Eloquentia, in " Annali della Facoltà di Lettere Filosofia e Magistero dell'Università di Cagliari " XXIX (1961-65) passim; D.A., De vulgari Eloquentia, a c. di P.V. Mengaldo, I, Introduzione e testo, Padova 1968, LXIV-LXXVII.