IMAGINES MAIORUM
− Erano le immagini degli antenati ricavate in cera sul volto del defunto e conservate in un armadio di legno (armaria, ξυᾒλινα ναιἶδια) nell'atrio delle dimore dei patrizi romani. Avevano parte preponderante nel culto domestico e durante i funerali dei consanguinei erano recate in processione dai discendenti che per statura più somigliavano ai defunti e che se le applicavano sul volto indossando le vesti proprie di quelli (vedi rilievi della Tomba degli Haterii al Laterano). Tali costumanze menzionate da Polibio (Hist., vi, 53) Plinio (Nat. hist., xxxv, 2, 6), Cicerone, ecc. e sancite giuridicamente da un ius imaginum, privilegio nobiliare, ricevono dal testo di Polibio un sicuro terminus ante quem di datazione compreso fra il 167 e il 150 a. C. (epoca cioè in cui fu scritto il libro vi delle Historiae), ma si può, presumibilmente, risalire per il loro costituirsi fino al IV sec. a. C. In correlazione con queste i. m. si sviluppa anche l'uso di alberi genealogici dipinti (stemmata) i cui ritratti erano collegati fra loro a seconda delle parentele da linee con varie ramificazioni (Plin., Nat. hist., xxxv, 6: apud maiores in atriis... expressi cera vultus singulis disponebantur armariis, ut essent imagines quae comitarentur gentilicia funera, semperque defuncto aliquo totus aderat familiae eius qui numquam fuerat populus. Stemmata vero lineis discurrebant ad imagines pictas). L'imago era ornata di firme e di iscrizioni e la maschera di cera completata da elementi cromatici e naturalistici così da rendere maggiormente la suggestione del vero. Nei giorni festivi i battenti dello scrigno si aprivano e le immagini venivano incoronate di lauro; (uno di questi armadi è stato ritrovato a Pompei nella Casa del Menandro). Oltre ai busti in cera le famiglie patrizie conservavano altre maschere, tratte anch'esse a mezzo di calco, ma eseguite in materiale meno perituro (legno, terracotta, ferro, oro, argento, ecc.) tale da tollerare l'esposizione durante talune cerimonie funebri che duravano anche giornate intere, e permetterne l'uso da parte dei congiunti che accompagnavano il corteo funebre indossando le maschere e gli abiti ufficiali degli antenati (Polibio).
Per la loro qualità di maschera del volto del defunto le i. m. dovrebbero rimanere al di fuori della storia dell'arte, circoscritte nei limiti della storia del costume e di quella del diritto. Tuttavia in tale culto prettamente indigeno è evidente l'esigenza di una caratterizzazione fisionomica propria a tutta l'area italica, che si è riconosciuta come una delle componenti del ritratto romano. In realtà accanto all'effigie plastica in cera o altro materiale, riservata al rito funebre ed a quello domestico, si pone fin dall'età repubblicana per le manifestazioni civiche l'uso del monumento sepolcrale che si inserisce in un filone artistico di derivazione greca e segue un suo sviluppo autonomo. È però da presumere che la presenza delle maschere funebri abbia contribuito a far assumere al ritratto romano a partire dall'età di Silla, fortemente permeata da una ripresa di coscienza del patriziato, quella vivacità e quella precisazione fisionomica, che ne costituiscono una delle caratteristiche più salienti (v. ritratto).
Un tipo particolare di i. m. con derivazione da un concetto ellenistico è probabilmente la imago clipeata (v. clipeate, immagini).
Bibl.: K. Schneider-H. Meyer, in Pauly-Wissowa, XVI, 1914, cc. 1097-1104, s. v.; A. N. Zadoks-Jitta, Ancestral Portraiture in Rome, Amsterdam 1932; R. West, Römische Porträt-Plastik, Monaco 1933, p. 32 ss.; O. Vessberg, Studien zur Kunstgesch. d. röm. Republ., Lund 1941, pp. 42-43 e 194-5; B. Schweitzer, Die Bildniskunst d. röm. Republ., Lipsia 1948, p. 19-33.