imaging cerebrale, diagnosi e ricerca
Varie metodiche possono caratterizzare in vivo il cervello umano, però solo la risonanza magnetica è in grado di definirlo anatomicamente fornendo anche dettagli metabolici e funzionali. È una tecnica non invasiva, ampiamente utilizzata, che consente nella stessa seduta di visualizzare il cervello con una definizione anatomica dell’ordine di decimi di millimetro, rilevandone anche aspetti biochimici, microstrutturali e funzionali. Le applicazioni più frequentemente utilizzate in ambito clinico e di ricerca sono la diffusion tensor imaging e la risonanza magnetica funzionale. La prima si basa sul movimento delle molecole di acqua libera, per rappresentare in vivo nell’uomo connessioni fisiologiche tra varie aree cerebrali delineando circuiti funzionali cerebrali. La risonanza magnetica funzionale consente invece di identificare le principali aree cerebrali deputate al controllo di funzioni di varia complessità, per esempio quelle sensitivo-motorie e altre di ordine superiore (linguaggio ed elaborazione di contenuti mentali).n [➔ diagnostica strumentale neurofisiologica; imaging cerebrale funzionale; PET; riabilitazione neurologica; segnali cerebrali, analisi dei] La diagnostica neuroradiologica non invasiva della patologia cerebrale ha fatto immensi progressi dagli anni Settanta del secolo scorso, dapprima con l’avvento della tomografia assiale computerizzata (TC) e successivamente, dagli anni Ottanta, con la risonanza magnetica (RM). Prima di esse, l’iter diagnostico dei pazienti con malattie cerebrali prevedeva indagini estremamente complesse e invasive, rischiose e poco informative: l’angiografia cerebrale, con puntura diretta delle arterie al collo o a livello suboccipitale; la pneumoencefalografia, che consisteva nell’iniettare gas direttamente nelle cavità cerebrali mediante un ago inserito attraverso un foro nella scatola cranica; la ventricolografia, che prevedeva l’immissione di grandi quantità di mezzo di contrasto iperosmolare nello spazio liquorale del canale rachideo mediante puntura a livello della colonna vertebrale lombare o cervicale. Tali procedure diagnostiche provocavano molto facilmente alterazioni della dinamica liquorale e dell’equilibrio pressorio endocranico, causando violento malessere e vomito o anche complicanze molto più gravi, come il coma o addirittura la morte. La diagnosi peraltro era formulata solo sulla base di segni indiretti, ricercati a volte ossessivamente e che talvolta risultavano estremamente sfumati.
Le indagini cliniche neuroradiologiche con RM e TC si basano su una continua combinazione di segni, che consentono di identificare, caratterizzare e localizzare una lesione cerebrale e con cui è possibile formulare un’ipotesi diagnostica, stabilendo poi una strategia terapeutica medica, chirurgica o radioterapica. L’inquadramento clinico è talvolta molto complesso, per una variabilità molto elevata con cui lo stesso quadro patologico può apparire in diversi individui. Da qui la constatazione che i numerosi protocolli di studio (sequenze) a disposizione in RM e le varie combinazioni di visualizzazione ed elaborazione dei dati TC rappresentano talvolta un’affascinante avventura diagnostica.
Sebbene la RM sia sicuramente la metodica più informativa per una diagnosi accurata e anatomicamente precisa, la TC è comunque ancora di largo uso, anzi considerata ancora adesso esame di prima istanza in alcuni quadri patologici, come nella patologia cerebrale traumatica o ictale acuta. L’avvento in anni più recenti della MDCT (MultiDetector Computed Tomography) ha consentito di ridurre il gap di applicazione delle metodiche tomografiche rispetto alla RM, che era diventato enorme negli ultimi anni Novanta quando sembrava che la TC fosse relegata al ruolo di semplice metodica di emergenza. Una corretta diagnosi della patologia cerebrale richiede sempre la capacità di identificare e localizzare la lesione, caratterizzarla strutturalmente, definirne gli effetti sulle strutture cerebrali contigue e interpretarne la natura. Questi elementi sono in gran parte forniti dalla RM, la quale però a volte necessita del supporto della TC, per es. per identificare eventuali componenti lesionali calcifiche o per meglio descrivere i rapporti con le strutture ossee craniche. Inoltre, lo sviluppo delle metodiche angiografiche connesse alla TC (come la CTA, Computed Tomography Angiogram), caratterizzate da tempi di acquisizione delle immagini estremamente ridotti, contribuisce a far sì che essa permanga una metodica diagnostica estremamente diffusa e importante nelle patologie cerebrali. A questi aspetti vanno aggiunti anche l’elevata risoluzione spaziale (RS), ancora oggi (2010) spesso superiore rispetto alla RM, ma anche la capacità di disporre di dati densitometrici sia qualitativi sia quantitativi. Quest’ultimo aspetto consente, per es., di identificare e discriminare con facilità e assoluta certezza particolari componenti come calcio, grasso e aria che con la RM sarebbero solo ipotizzabili sulla base di segni semiologici spesso complessi.
La RM, sia con sequenze (protocolli di acquisizione delle immagini) diventate di uso comune fin dalla sua introduzione, sia con quelle di più recente introduzione (prime fra tutte le sequenze eco-planari), ha notevolmente elevato le capacità d’indagine in vivo dell’encefalo umano in ambito patologico. Essa è stata a lungo una metodica di ricerca e ha consentito di acquisire dati morfologici e funzionali in vivo estredel cervello umano di enorme valore scientifico. La RM è dotata di un’elevata risoluzione anatomica e, essendo assolutamente innocua e ripetibile, permette di eseguire studi ripetibili su soggetti normali volontari. Le metodiche RM attualmente di più largo utilizzo in ambito di ricerca sono sequenze ed elaborazioni di dati genericamente dette funzionali: la spettroscopia di RM (MRS, Magnetic Resonance Spectroscopy), la diffusione (DWI, Diffusion-Weighted Imaging; DTI, Diffusion Tensor Imaging), la perfusione (PWI, Perfusion-Weighted Imaging) e la RM funzionale (fMRI, Functional Magnetic Resonance Imaging) propriamente detta. Queste metodiche sono state sviluppate a partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso e vengono utilizzate per tentare di comprendere il funzionamento del cervello umano. All’inizio, come sempre avviene con l’introduzione di nuove metodiche, il loro uso era appannaggio esclusivo di pochi centri di ricerca al mondo. Successivamente esse si sono diffuse, diventando metodiche di routine clinica in numerosi centri specialistici, oltre che ancora correntemente utilizzate in ambito di ricerca. Queste tecniche si basano su potenze di campo magnetico sempre più elevate: ciò è estremamente importante poiché vi è un rapporto pressoché lineare tra intensità del campo magnetico e rapporto segnale-rumore (SNR, Signal-to-Noise Ratio), ossia capacità discriminatoria tra il rumore di fondo e il segnale utilizzato per elaborare le immagini. Ognuna delle metodiche funzionali ha proprie prerogative. MRS. La spettroscopia di RM, conosciuta già dagli anni Trenta del secolo scorso come sistema non invasivo per l’analisi di strutture molecolari, è in grado di rappresentare in grafico e numericamente la concentrazione locale di metaboliti in un range tipico del distretto anatomico in esame. Essa fornisce dati metabolici in distretti encefalici specifici sia in condizioni fisiologiche che patologiche (per es., tumore aggressivo). DWI-DTI. Questa tecnica RM è di più recente introduzione: si basa sulla rilevazione del movimento delle molecole d’acqua nei tessuti organici (➔ imaging cerebrale funzionale, aspetti tecnici) e permette di definire l’architettura (decorso) delle fibre di sostanza bianca e pertanto le connessioni tra distretti encefalici anche lontani, coinvolti in uno specifico processo mentale: per es., è possibile identificare le fibre di sostanza bianca che connettono le principali aree cerebrali del linguaggio (fascio uncinato e aree di Broca e Wernicke). PWI. Questa tecnica, eseguibile sia con RM che con TC, permette di misurare la perfusione ematica locale in particolari condizioni patologiche. Essa è di supporto nella caratterizzazione dei tumori o nella identificazione di tentativi di riparazione nelle ischemie cerebrali. VBM. La Volume Brain Morphometry permette di misurare con RM il volume dell’intero cervello umano o di distretti anatomici particolari, registrando variazioni volumetriche anche minime in corso di patologie specifiche, come nella malattia di Alzheimer, caratterizzata da atrofia di particolari distretti cerebrali. Similmente, la tecnica consente di registrare incrementi volumetrici cerebrali: per es., permette di dimostrare un incremento del volume dell’ippocampo in animali di laboratorio sottoposti a esercizi mirati a ritardare l’invecchiamento cerebrale. È ipotizzabile un’analoga osservazione nell’uomo in vivo sottoponendo a training psico-fisico costante soggetti umani di particolare età: questo è oggetto di studio in un recente (2010) programma di ricerca, messo in atto presso il CNR di Pisa. fMRI. Tra le tecniche d’imaging più utilizzate nella ricerca, la fMRI ha rappresentato un’evoluzione estremamente affascinante: la possibilità di localizzare in vivo con estrema accuratezza anatomica le risposte del soggetto sottoposto a stimoli sensoriali, oppure durante l’esecuzione di compiti motori o mentali anche estremamente complessi, non trova eguali in altre metodiche. Se, per es., un soggetto viene sottoposto a stimoli visivi di varia complessità, le aree cerebrali coinvolte nei meccanismi di ricezione ed elaborazione sensoriale vengono rilevate e ricostruite su appositi monitor. Nel corso di poco più di un decennio, alla fine del 20° sec., è stato possibile ridisegnare una vera e mappa funzionale del cervello umano. L’utilizzo di un accurato disegno sperimentale in uno studio fMRI è fondamentale: poiché il segnale RM che viene registrato è frutto della variazione quantitativa dell’ossigenazione ematica locale nei distretti cerebrali coinvolti (segnale BOLD, ➔ imaging cerebrale funzionale, aspetti tecnici), in uno studio fMRI efficace bisogna creare una condizione sperimentale chiara e precisa che sia in grado di provocare variazioni misurabili dei livelli di ossigenazione rispetto a quella di controllo in stato di riposo. Se per es. un soggetto normale viene sottoposto a uno stimolo visivo con pallini che si muovono sullo schermo di un computer, a seconda che il loro moto sia casuale o coerente sarà possibile vedere l’attivazione di aree cerebrali diverse nel contesto della stessa corteccia visiva. Anche nello studio del linguaggio è necessario mantenere lo stesso rigore metodologico: se si chiede al soggetto di ascoltare e comprendere una storia le aree cerebrali coinvolte possono essere del tutto diverse se si fa eseguire un compito di produzione di parole e, non raramente, l’attivazione combinata di più aree indica che i compiti sperimentali sollecitano il cervello sia in comprensione che in produzione. Ciò è alla base di quel che è definibile come parcellizzazione delle singole funzioni, cioè a singola macrofunzione cerebrale possono corrispondere sottosistemi, ben noti ai fisiologi, neuropsicologi e psicofisici.
La necessità di conoscere e localizzare le diverse sfaccettature delle funzioni mentali dell’uomo è di enorme interesse scientifico per due ragioni: da un lato, con la fMRI è possibile localizzare le singole principali funzioni mentali dell’uomo; dall’altro si può analizzare l’intreccio e le connessioni reciproche tra aree cerebrali anche distanti e il coinvolgimento delle stesse aree cerebrali in compiti apparentemente differenti. Ciò suggerisce l’esistenza di un substrato funzionale comune su cui ne vengono modulati altri via via più specifici. Inoltre, in ambito patologico la conoscenza fisiologica e anatomica di tali funzioni è basilare, per es., per evitare di danneggiarli nel corso di interventi chirurgici cerebrali; oppure per valutare l’efficacia di trattamenti medici o radioterapici di tumori cerebrali o di patologie croniche, come l’epilessia e le malattie neurodegenerative (malattia di Alzheimer, malattia di Parkinson, SLA, ecc.) e vascolari aterosclerotiche cerebrali. In questo contesto, di estremo interesse sono interventi neurochirurgici su pazienti affetti da sindromi epilettiche (➔ epilessia) croniche. L’asportazione del focolaio epilettogeno anche in bambini molto piccoli, non raramente consente la risoluzione del quadro clinico. L’ablazione completa chirurgica dell’area selezionata può riguardare anche interi lobi cerebrali e può portare a un drastico miglioramento, sino anche alla completa risoluzione del quadro clinico. Ciò a patto che vengano preservate dall’ablazione le cosiddette aree eloquenti: l’intervento chirurgico viene per questo preceduto da uno studio funzionale con fMRI. In Italia esistono alcuni centri ospedalieri specializzati nel trattamento dell’epilessia (per es., l’Ospedale Meyer di Firenze, dove vengono seguiti bambini anche molto piccoli).
La potenza del campo magnetico stazionario utilizzato nei singoli apparecchi RM è un elemento di fondamentale importanza non solo perché, come detto, influenza direttamente il rapporto segnale/ rumore, ma anche perché esperienze su animali di laboratorio hanno dimostrato la grande efficacia di campi magnetici estremamente elevati nell’esaminare le strutture cerebrali, permettendo una risoluzione spaziale anche dell’ordine dei micron. Per tale motivo, oltre alle apparecchiature RM per le usuali applicazioni cliniche con intensità massima di 3,0 T (tesla), nel corso del primo decennio del secolo sono stati introdotti nuovi apparecchi a più elevato campo magnetico: 4,7 o 7,0 o anche 9,4 T. La limitazione dell’uso di questi ultimi nell’uomo è dovuta al fatto che non si possono a oggi escludere effetti collaterali. Il numero ancora scarso di tali apparecchiature non consente, infatti, di stabilire se il loro campo magnetico statico e l’intensità degli impulsi di radiofrequenza necessaria per l’acquisi zione delle immagini siano effettivamente biologicamente innocui. Sono però indubbie le loro enormi potenzialità in ambito di ricerca e clinico, poiché permetterebbero una capacità d’indagine del cervello umano in vivo a livello quasi istologico. Straordinarie sono le attese anche a proposito della fMRI: sarebbe possibile distinguere in dettaglio non solo le singole circonvoluzioni cerebrali coinvolte nei processi funzionali, ma anche il ruolo dei singoli strati neuronali della corteccia cerebrale. Utilizzando campi magnetici elevati e la risonanza magnetica di atomi differenti dall’idrogeno (per es., fosforo o carbonio), sin qui descritto e che normalmente viene sfruttato a fini clinici di routine, possono essere effettuate indagini su specifici processi metabolici e strutturali: è possibile infatti marcare selettivamente con l’isomero 13 del carbonio, sottoposto a un processo definito di iperpolarizzazione magnetica, alcune molecole come il piruvato. Quest’ultimo, se somministrato per via arteriosa in un animale da laboratorio, può essere rilevato in organi specifici come il cuore o il cervello, utilizzando apparecchiature RM a elevato campo magnetico e con particolari antenne riceventi. Possono essere così definiti caratteri biochimico-molecolari che, se applicati nell’uomo, permetterebbero un livello di indagine in vivo che va ben oltre la definizione anatomica. Sarebbe, infatti, potenzialmente possibile marcare selettivamente molecole che si vanno a legare a specifici recettori tumorali cerebrali, localizzare minute metastasi non visibili con altre metodiche, veicolare farmaci esclusivamente sulla lesione evitando dannosi effetti collaterali su altri tessuti o organi invece sani. Domenico Montanaro