immagine dell’italiano
Con la metafora dell’immagine di una lingua ci si riferisce ai giudizi e alle opinioni che su questa lingua sono prodotti da parlanti di altre lingue. Si tratta di giudizi intuitivi, non fondati su fatti scientifici: ad es., «la lingua L suona musicale» è un giudizio intuitivo, non verificabile rigorosamente, mentre «la lingua L appartiene al tipo di lingue con articoli» è una constatazione scientifica, verificabile da chi si occupa di tipologia linguistica. Più sono i contatti con una lingua e più saranno i giudizi su di essa, e siccome la lingua italiana è sin dal Rinascimento lingua di cultura europea (➔ italiano in Europa; ➔ mondo, italiano nel), i giudizi su di essa sono innumerevoli (cfr. Stammerjohann 1990-1997; Serianni 1999); le sole relazioni di viaggio in Italia, molte delle quali contengono giudizi sulla lingua, si contano a migliaia.
In termini cronologici, il primo giudizio sulla lingua italiana pervenutoci è inglese e si trova citato nel prologo alla seconda edizione della Bibbia di Wycliffe, del 1388 circa, attribuita al suo allievo John Purvey, il quale scrive che ai viaggiatori stranieri in Italia la lingua era apparsa come «latino corrotto» (Latyn corrupt). Questo giudizio rimase isolato fino al Cinquecento. Risale all’inizio del Cinquecento l’affermazione dello storico e teologo luterano Franz Friedlieb (Franciscus Irenicus), secondo la quale l’italiano è corrotto dalla mescolanza con altre lingue. Che l’italiano sia «troppo degenerato dall’accento forte e pieno della madre [il latino] nel molle e voluttuoso (ins Weiche und Wollüstige)» sarà ancora il giudizio del poeta tedesco Friedrich Gottlieb Klopstock nel 1756.
In Francia, l’idea della corruzione dell’italiano è assunta dall’umanista Estienne Pasquier, che, nelle sue Recherches de la France (1560), vedeva l’italiano come una mescolanza del latino con il gotico, il lombardo, il francese e, più tardi, con lo spagnolo, trovando che gli italiani si erano volti più «alla delicatezza che alla virtù, trasformando così a poco a poco quella maschia lingua dei romani in un volgare tutto effeminato e molle (tout effeminé et molasse)».
Gli stessi termini sono ripresi dal gesuita Dominique Bouhours, autore di Les Entretiens d’Ariste et d’Eugène, del 1671: il francese è come sua madre, il latino, con il quale l’italiano non ha più molto in comune, essendo una lingua «molle ed effeminata (molle et effeminée) secondo il temperamento e i costumi del paese». Invece Voltaire, che aveva un rapporto particolarmente stretto con la lingua italiana e la giudicava in generale più benevolmente, scrive nel 1761 a Deodati de’ Tovazzi, scrittore e traduttore: «[la] bella lingua italiana è la figlia primogenita del latino». Presso il grammatico Nicolas Beauzée, autore dell’articolo Langue della Encyclopédie, uscito nel 1765, torna il rimprovero di corruzione, sebbene in forma mitigata:
La lingua italiana, in cui la maggioranza delle parole viene per corruzione dal latino, invecchiando ne ha reso molle (amolli) la pronuncia, nella stessa proporzione in cui il popolo che la parla ha perduto il vigore degli antichi romani: ma siccome era vicino alla fonte da cui è uscita, è ancora, fra le lingue moderne che ne sono nate assieme a essa, quella che conserva maggiore affinità con l’antica lingua.
Secondo l’inglese G. Delamothe, in The French alphabet (1595), la lingua latina aveva tre figlie di cui l’italiana era la prima, la spagnola la seconda e la francese la terza. Pur riconoscendo all’italiano primogenito la maggior vicinanza fonetica al latino, esso gli sembra «nient’altro che latino corrotto (broken) e francese mescolati insieme». Nei preliminari al Lexicon Tetraglotton (1660) di un altro inglese, James Howell, viaggiatore per tutta l’Europa occidentale e meridionale, l’italiano è definito «il ramo principale (topbranch) o la figlia maggiore del latino» che «rassomiglia alla madre più delle altre due [francese e spagnolo]». Howell si richiama al re Giacomo I, il quale avrebbe detto che l’italiano non era «altro che i casi dativo e ablativo del latino». Nel 1685 l’autore e critico John Dryden dice dell’italiano:
Ha derivato dal greco e dal latino tanta copiosità ed eloquenza (copiousness and eloquence) nella composizione e formazione delle parole, che (se dopo tutto vogliamo chiamarlo ‘barbaro’) si tratta del più bello e colto (most beautiful and most learned) di tutti i ‘barbarismi’ nelle lingue moderne.
Per il diplomatico inglese Sir William Temple (1689), «le tre lingue moderne più apprezzate (most esteemed) sono l’italiano, lo spagnolo e il francese; tutte dialetti imperfetti della nobile lingua di Roma»; e ciò è il risultato del soggiogamento degli italiani da parte dei Goti e dei Longobardi, e quindi della mescolanza e corruzione del latino. Il filologo e critico William Wotton, nelle sue Reflections upon ancient and modern learning del 1694, obietta però, al riguardo dell’italiano, che esso «possiede una dolcezza e un’armonia (a sweetness and tunableness) nella composizione che non possono essere derivate dal suo genitore»; il che mostrerebbe anche che un popolo barbaro come gli italiani dopo la mescolanza con i Goti e i Longobardi è riuscito a sviluppare una lingua «tanto musicale che nessuna arte può migliorarla ancora».
La lode di musicalità dell’italiano tornerà spesso e risulta una costante della sua immagine. Infatti, per il già citato Howell, l’italiano risulta «la lingua meglio atteggiata in termini di fluenza e morbidezza (the fittest language, in regard of the fluency, and softness of it)», e ciò a causa delle finali vocaliche. Anche per Dryden sono proprio le vocali a rendere la lingua italiana
la più morbida, dolce e armoniosa […], come se fosse stata davvero inventata per la poesia e la musica; le vocali sono così abbondanti in tutte le parole […], che eccetto alcuni monosillabi tutta la lingua finisce in vocale, per cui la pronuncia è così virile (so manly), e così risonante (so sonorous), che il semplice parlare ha più musica in sé di quanta ne abbiano la poesia e il canto olandese.
In Germania, Johann Heinrich Bartels, sindaco di Amburgo sposato con una veneziana, nella prefazione a un volume delle sue Briefe über Kalabrien und Sizilien (1792) trova che non c’è niente che contribuisca tanto all’armonia di una lingua quanto «una giusta proporzione fra vocali e consonanti […]. In nessuna lingua questo si osserva più che nella lingua italiana, perciò nessuna è più sonora».
Ma non tutti vedevano nella vocalità della lingua italiana un pregio. Per il già ricordato Pasquier l’italiano è appunto un volgare femmineo e molle perché «quasi tutte le parole terminano in cinque vocali»: il rimprovero di monotonia delle finali è un’altra costante dell’immagine della lingua italiana. L’umanista Henri Estienne rivendicava la superiorità del francese, particolarmente sull’italiano, nei due dialoghi Du nouveau langage françois, italianizé (1578) e Project du livre intitulé De la precellence du langage François (1579); e credette di doversi occupare solo dell’italiano, poiché superiorità sull’italiano significava superiorità sullo spagnolo – inferiore all’italiano e solo altro concorrente – e con ciò superiorità su tutte le altre lingue. Estienne non concede all’italiano nemmeno «la gentilezza e la buona grazia» per il fatto che tutte le parole finiscono per vocale: «Pregherei [gli italiani] di dirmi se cinque terminazioni (giacché non ci sono che cinque vocali) che ritornano tutt’a un tratto invece di dar piacere non debbano annoiare».
L’argomento ricorre ancora due secoli più tardi presso Voltaire, che nella già citata lettera scrive anche:
Voi non avete le melodiose e nobili terminazioni (ces mélodieuses et nobles terminaisons) delle parole spagnole, che un felice concorso di vocali e consonanti rende così sonore […]. Vi mancano anche quei dittonghi che, nella nostra lingua [il francese], fanno un effetto così armonioso.
Voltaire ripete anche il rimprovero di monotonia:
La prodigiosa varietà di tutte queste desinenze [del francese] può avere qualche vantaggio sulle cinque terminazioni di tutte le parole della vostra lingua [l’italiano]. Ancora, a queste cinque terminazioni bisogna sottrarre l’ultima, giacché non avete che sette o otto parole che terminano in -u.
Per Antoine de Rivarol, vincitore del concorso dell’Accademia di Berlino sulle ragioni dell’universalità della lingua francese col Discours sur l’universalité de la langue française (1784), era insita nella stessa lingua italiana la ragione per cui le era stata negata l’universalità del francese. Pur riconoscendo l’italiano come «la più dolce […], la più melodiosa delle lingue […] unita alla musica degli angeli», la prosa italiana è «composta di parole di cui si pronunciano tutte le lettere, e scorrendo sempre su suoni pieni si trascina con troppa lentezza e il suo clamore è monotono (son éclat est monotone), l’orecchio si stanca della sua dolcezza, e la lingua della sua mollezza», talché annacqua i pensieri più forti, è ridicola, non virile, artificiosa.
All’uomo di stato e poeta inglese Sir Philip Sidney la lingua italiana sembrava inferiore alla sua lingua materna, almeno rispetto all’idoneità per la poesia. In An apologie for poetrie (1595), trova che «l’italiano è così pieno di vocali, che deve sempre essere intralciato (cumbered) con elisioni» – un giudizio che forse esprime anche l’invidia di chi parla una lingua molto meno vocalica. Per lo storiografo reale Thomas Rymer di Cambridge, «la continua terminazione in vocale è puerile (childish)», come scrive nel 1674.
Solo i francesi sollevavano l’argomento delle inversioni, sia come critica dell’italiano, sia come sua lode. Bouhours è il primo a rimproverare alla lingua italiana, come alla spagnola, un ordine delle parole innaturale; lo descrive come una «disposizione bizzarra», un «disordine» e una «trasposizione strana di parole». Infatti, per i francesi del Sei e Settecento, il francese era la lingua della ragione perché era ritenuta l’unica lingua che non conoscesse più inversioni dell’ordine delle parole diretto, cioè soggetto-verbo-oggetto, corrispondendo dunque all’andamento del pensiero. Implicitamente è l’argomento della chiarezza (la clarté), a proposito del quale però Charles de Brosses, storico, geografo e uomo politico che aveva viaggiato per l’Italia nel 1739-1740, scriverà: «La nostra lingua è solo chiara». Secondo lui la lirica italiana aveva il vantaggio, rispetto alla francese, di una lingua «più scorrevole, più sonora, più armoniosa», che «si permette un po’ più di inversioni, il che rende le sue costruzioni meno uniformi». Invece la lingua francese è, grazie alla sua chiarezza, «adatta alla storia, alla dissertazione, al poema drammatico».
Le lingue con inversioni si adattano a discorsi diversi da quelle senza. Per Denis Diderot, che sapeva l’italiano (e l’inglese), «il francese è fatto per istruire, spiegare e convincere: il greco, il latino, l’italiano, l’inglese per persuadere, commuovere e ingannare» (Lettre sur les sourds et les muets, 1751). Jean Le Rond d’Alembert, con Diderot ideatore dell’Encyclopédie, riconosce a ogni lingua i suoi vantaggi; e quanto all’italiano, scrive nelle sue Observations sur l’art de traduire: «Di tutte le lingue moderne coltivate dagli uomini di lettere, l’italiano è la più variata, la più flessibile», rispetto alla rigidità del francese. Per Voltaire, l’italiano è libero, come l’inglese, e ciò proprio grazie alle inversioni.
L’italiano rimaneva la «lingua del canto e [...] delle maschere» (Folena 1983: 221). Già a Jacques Davy, cardinale du Perron (1556-1618), che trovava la lingua francese la più adatta a rendere le cose come sono, fu ascritta l’affermazione che essa «non riesce nella commedia come invece fa l’italiano». Se a Davy questa idoneità come lingua della commedia sembrava un pregio della lingua italiana, secondo altri esprimeva un carattere nazionale poco serio. Così nel 1668 Roger de Rabutin, conte di Bussy, militare e scrittore, affermava che «il tedesco urla, l’inglese piange, il francese canta, l’italiano recita una farsa e lo spagnolo parla» (sui paragoni linguistici, cfr. Weinrich 1989).
Nel Ballet des nations, con il quale Molière conclude Le Bourgeois gentilhomme (1670), sono gli italiani che cantano, ma sono anche figure della commedia dell’arte (italiana) che fanno buffonate e capriole.
Se la lingua spagnola è vanitosa e altezzosa, scrive nel 1671 il Padre Bouhours, quella italiana al contrario è ridicola: «La maggior parte delle sue parole e delle sue frasi sanno un po’ di burlesco». Quest’effetto viene attribuito sia all’uso dei diminutivi, che Bouhours trova «sfrenato (folastre)», che alla frequenza delle desinenze in «-a, -o, -i e -e, che fanno una continua rima nella prosa». Variando anche lui il paragone delle lingue, Bouhours dice che grazie all’accento i francesi sono gli unici a parlare in senso proprio; a cantare sono questa volta gli asiatici, mentre i tedeschi rantolano, gli spagnoli declamano, gli inglesi fischiano e gli italiani sospirano (les Italiens soûpirent). Un altro gesuita, l’umanista René Rapin, trovava nel 1674 che «gli spagnoli hanno il genio di vedere il ridicolo delle cose […] e gli italiani, che sono per natura commedianti, lo esprimono meglio di noi: la loro lingua vi è più adatta della nostra, per via dell’aria faceta (air badin) che ha nel dire ciò che dice».
Andrebbe studiato se la particolare cantabilità della lingua italiana è un fatto fonetico o un pregiudizio culturale (➔ cantata, voce). Uno dei pochi punti in cui François Raguenet nel suo Parallèle des Italiens et des François en ce qui regarde la musique et les opéras (1702) ammise la superiorità degli italiani, era la lingua: «La lingua italiana ha un grande vantaggio sulla francese per essere cantata, con tutte le sue vocali ben pronunciate». Folena (1983: 219-234) parla addirittura di una «questione della lingua» per la musica, che raggiunse il suo culmine nella cosiddetta querelle des bouffons tra i seguaci dell’opera francese e di quella italiana (scoppiata in occasione della rappresentazione parigina del 1752 della Serva padrona di Pergolesi). I grandi illuministi presero partito per l’opera italiana: Jean-Jacques Rousseau scrisse nella Lettre sur la musique françoise (1753) che la musica migliore l’ha il popolo la cui lingua è più adatta a essa: «Se c’è in Europa una lingua adatta alla musica, è certamente la lingua italiana, poiché è una lingua dolce, sonora, armoniosa ... (douce, sonore, harmonieuse, et accentuée plus qu’aucune autre)».
Persino le inversioni, da tanti francesi considerate uno svantaggio dell’italiano, per il canto furono considerate un vantaggio; ad es., dallo stesso Rousseau per il quale «le inversioni della lingua italiana favoriscono molto più la buona melodia che non l’ordine didattico della nostra lingua». E Rousseau vede chiaramente che musicalità e idoneità alla musica sono due cose diverse. Nell’Essai sur l’origine des langues precisa: «Nemmeno la lingua italiana, al pari della francese, è in sé una lingua musicale. La differenza sta solo nel fatto che l’una si presta alla musica, e l’altra no». E Diderot nella Querelle nel Neveu de Rameau (del 1760-1772 circa) ammira «con quale facilità, quale flessibilità, quale mollezza, l’armonia, la prosodia, le ellissi, le inversioni della lingua italiana si prestino all’arte, al movimento, all’espressione, alle evoluzioni del canto (tours du chant) e al valore misurato dei suoni», mentre la lingua francese sarebbe «rigida, sorda, gravosa, pesante, pedantesca e monotona (raide, sourde, lourde, pésante, pédantesque et monotone)».
Il poeta inglese Joseph Addison, che aveva soggiornato in Italia dal 1701 al 1705, nei suoi Remarks trovava che i poeti italiani erano doppiamente avvantaggiati rispetto a quelli inglesi o francesi, perché gli italiani, oltre alla «celebrata fluidità (smoothness) della loro lingua» posseggono un linguaggio poetico diverso da quello della prosa, che fa sì che anche «l’opera italiana raramente scada a povertà di linguaggio (poorness of language), ma, dentro la mediocrità e usualità dei pensieri (meanness and familiarity of the thoughts), abbia qualcosa di bello e sonoro nell’espressione». La questione della lingua per la musica, che preoccupava tanto i francesi, interessava infatti anche gli inglesi, per es., Thomas Gray, altro poeta che aveva viaggiato in Italia nel 1739-1741 e che, in una sua lettera del 9 settembre 1763, spiegava a Francesco Algarotti la passione degli inglesi per la musica italiana: «Sarei felice di scambiare le lingue con l’Italia», giacché l’inglese «mantiene troppo del suo carattere originale barbaro (barbarous original) per adattarsi alla composizione musicale». In Germania Johann Georg Keyssler alla domanda «perché la lingua italiana sia più cantabile di altre lingue», trovava la risposta, condivisa da molti cantanti italiani e non italiani, nella «quantità di vocali nelle quali terminano anche tutti i suoi sostantivi». Che l’italiano fosse più adatto alla musica delle altre lingue era sostenuto anche da Johann Christoph Schwab, professore di filosofia a Stoccarda, secondo cui (1785) l’italiano sarebbe rimasto «per la sua soavità e per la bella letteratura degli italiani una lingua ancora per molto tempo diffusa in tutta l’Europa e specie per la musica italiana amata da tutti». Se il poeta Heinrich Heine, scrivendo da Lucca nel 1828, parlò della Opernsprache degli italiani, avrà avuto in mente i due significati della parola composta: «lingua per l’opera» e, più ironicamente, «lingua da opera».
La lingua italiana è spesso stata trovata facile da imparare. Così il gallese William Thomas, autore della prima grammatica italiana vera e propria in Inghilterra (Principal rules of the Italian grammar, 1550), nella dedica, scritta a Padova nel 1548, dice che, mentre il greco e il latino richiedono un lungo studio, «l’italiano si impara facilmente e in breve tempo». Non stupisce che fossero soprattutto tedeschi, abituati a una morfologia più complessa di quella italiana, a trovare l’italiano facile. Così nel prologo a una grammatica italiana per le scuole tedesche (1674) Matthias Kramer parla della lingua italiana come di una «lingua superiore alle altre, facile da imparare e diventata ormai quasi indispensabile (fast unentbehrlich) per tutto il commercio umano». Un secolo più tardi Johann Jakob Volkmann, le cui Historisch-Kritische Nachrichten von Italien, uscite nel 1770-1771, erano la guida che portava con sé Goethe, tenta anche una spiegazione:
La lingua italiana è normalmente considerata facile da imparare velocemente (geschwind zu lernen), innanzitutto perché ha molto in comune con la lingua latina e deriva da questa, poi, perché non conosce né sillabe mute, non pronunciate, come in francese, né quelle consonanti accumulate delle lingue settentrionali.
Ma questo giudizio non senza fondamento linguistico viene subito relativizzato dall’esperienza: «Però quando si vuole capire e parlare, ci si trovano ciononostante molte difficoltà, l’espressione si blocca, e si fa fatica ad andare avanti».
Johann Wolfgang von Goethe, ricordando come doveva studiare latino nella stessa stanza in cui la sorella Cornelia studiava italiano, osserva: «Avendo presto finito i miei compiti e dovendo pure rimanere seduto, stavo a sentire […] e arrivai a capire molto velocemente l’italiano, che mi sembrava una divertente deviazione (eine lustige Abweichung) dal latino». Il poeta e professore americano Henry Wadsworth Longfellow, che fece due viaggi in Europa e trascorse il 1828 in Italia, scrisse in una lettera a casa che l’italiano gli sembrava «molto facile da leggere e non molto difficile da capire quando viene parlato», solo che, avendo imparato prima lo spagnolo, la grande somiglianza tra le due lingue lo confondeva. Un altro americano, William Dean Howells, scrittore e critico importante per la storia della letteratura americana e, dal 1861 al 1865, console americano a Venezia, pubblicò molti libri di viaggio e fece delle osservazioni anche sulla lingua italiana che, a suo dire, avrebbe il vantaggio, a confronto con l’inglese, di essere «logica nella compitazione e facile nella pronuncia (logically spelled and easily pronounced)». Ovviamente il trovare una lingua facile dipende anche dalla lingua materna di chi impara; che l’italiano sia relativamente facile per altri europei risulta da studi linguistici moderni (Zimmer 1989).
Considerando che di solito i giudizi si basavano sulla lingua parlata, non sempre è chiaro di quale varietà si trattasse. Molti stranieri condividevano, o adottavano, la posizione degli stessi italiani secondo i quali l’italiano migliore è parlato a Firenze. Altri avevano la riserva della ➔ gorgia toscana e al toscano di Firenze preferivano quello di Siena, o citavano il detto italiano della «lingua toscana in bocca romana». I dialetti meridionali erano poco apprezzati, al pari di quelli settentrionali; in particolare, ci si beffava del genovese, considerato una brutta mescolanza di italiano e francese, e del bergamasco. L’unico altro dialetto, oltre il toscano e il romanesco, generalmente apprezzato era il veneziano, e ciò per ragioni non solo foniche ma anche socioculturali (per maggiori dettagli sulla percezione dei dialetti cfr. Serianni 1999).
Fin dal Settecento la bellezza della lingua italiana era un luogo comune. Consapevole di questo cliché, Thomas Mann fece dire all’impostore Felix Krull nel romanzo omonimo, dopo che il direttore d’albergo Stürzli lo ha chiamato a sé per sapere se parla italiano:
In quello stesso momento diventai italiano e invece di sussurrante raffinatezza fui preso dal più focoso temperamento. Allegramente si levò in me quanto avevo […] mai sentito di suoni italiani, e mentre muovevo la mano davanti alla faccia con le punte delle dita chiuse, d’un tratto divaricandone tutt’e cinque le dita, mi misi a parlare con voce tonante e a cantare. E continuando in italiano: «Ma Signore, che cosa mi domanda? Son veramente innamorato di questa bellissima lingua, la più bella del mondo. Ho bisogno soltanto d’aprire la mia bocca e involontariamente diventa il [sic] fonte di tutta l’armonia di quest’idioma celeste. Sì, caro signore, per me non c’è dubbio che gli angeli nel cielo parlano italiano. Impossibile d’imaginare [sic] che queste beate creature si servano d’una lingua meno musicale ...».
Folena, Gianfranco (1983), L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche del Settecento, Torino, Einaudi.
Serianni, Luca (1999), Lingue e dialetti d’Italia nella percezione dei viaggiatori sette-ottocenteschi, in Italia e Italie. Immagini tra Rivoluzione e Restaurazione. Atti del convegno di studio (Roma, 7-9 novembre 1996), a cura di M. Tatti, Roma, Bulzoni, pp. 25-51.
Stammerjohann, Harro (1990-1997), L’italiano giudicato, rubrica in «Italiano & oltre» (5, 1990, p. 241: Che ne dicevano gli spagnoli; 6, 1991, p. 30: L’italiano di Carlo; p. 81: La lingua della seduzione; p. 114: La rivincita francese; p. 186: La lingua capricciosa; p. 234: I complimenti di Voltaire; 7, 1992, p. 35: L’ordine degli enciclopedisti; p. 78: La lingua musicale; p. 116: Lode alla vocalità; p. 172: I francesi tra Firenze e Siena; p. 228: Da Stendhal a Cooper; 8, 1993, p. 107: Americani in Italia; p. 168: Il console americano; p. 247: Il dialetto invertebrato; p. 303: L’italiano alla corte inglese; 9, 1994, p. 41: Un certo Moryson; p. 171: Inghilterra, fine ’500; p. 242: Cloth vs. silk; p. 298: Inadatta al sublime; 10, 1995, pp. 176-178: Lodi alla bellezza fonica e lingua dei laputiani; pp. 305-307: Gli ultimi inglesi e i primi tedeschi; 11, 1996, pp. 58-59: Da Mozart a Heine; pp. 96-97: Dalla guida di Goethe; pp. 184-185: Johann Wolf;gang von Goethe; 12, 1997, pp. 56-62: In viaggio attraverso gli italiani; pp. 168-176: Giudizi d’oggi).
Weinrich, Harald (1989), Aneddoti linguistici su Carlo V, in Id., Vie della cultura linguistica, Bologna, il Mulino, pp. 185-195 (ed. orig. Wege der Sprachkultur, Stuttgart, Deutsche Verlags-Anstalt, 1985).
Zimmer, Rudolf (1989), Sprachtypologische Überlegungen zu einer gesamteuropäischen Zweitsprache, in Variatio linguarum. Beiträge zu Sprachvergleich und Sprachentwicklung. Festschrift zum 60. Geburtstag von Gustav Ineichen, hrsg. von U. Klenk, K.-H. Körner & W. Thümmel, Wiesbaden - Stuttgart, Steiner, pp. 319-332.