Immagine personale
Nel 20° sec. i ritrovati della scienza hanno acuito la sensibilità della persona verso la rappresentazione delle proprie sembianze. Le scoperte della fotografia e della pellicola cinematografica hanno determinato l’esigenza di proteggere l’immagine dell’individuo, alla quale il legislatore ha offerto positiva tutela attraverso norme costituzionali e norme ordinarie, del c.c. e della legge sul diritto d’autore (l. 22 apr. 1941 n. 633): attraverso tali misure, non si impedisce al consorzio degli uomini di prendere visione dei lineamenti di chi si offre allo sguardo dell’ambiente sociale che lo circonda, ma si vieta l’esposizione dei segni evocativi delle sembianze altrui che possano recare pregiudizio alla persona rappresentata. Talune questioni, tuttavia, sono state lasciate irrisolte e si pongono, con rinnovato vigore, al principio del 21° secolo.
Lo sfruttamento economico dell’immagine celebre
È di comune esperienza come l’immagine relativa alle persone celebri rappresenti un forte richiamo per il pubblico dei consumatori, le cui scelte commerciali sono condizionate dalla capacità suggestiva suscitata dall’associazione tra un prodotto o servizio e l’immagine del soggetto noto. Si discute, però, entro quali limiti sia consentito questo ‘sfruttamento economico’ dell’immagine altrui. Invero, l’ordinamento giuridico italiano riconduce ai fatti relativi all’immagine della persona conseguenze differenti, a seconda che questa sia, o meno, qualificabile come ‘nota’.
La legge sul diritto d’autore, la quale contempla talune delle ipotesi in cui «l’esposizione o la pubblicazione [dell’immagine altrui] è dalla legge consentita» (art. 10 c.c.), se da un lato prevede che «il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa» (l. 633/1941, art. 96, 1° co.), dall’altro stabilisce che «non occorre il consenso della persona ritratta quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà» (art. 97, 1° co.). La notorietà, dunque, implica un indebolimento della tutela assegnata al soggetto, il cui consenso non è necessario per la riproduzione della relativa immagine. Ma la stessa notorietà sembra determinare, altresì, una duplicazione di disciplina. L’analisi empirica della realtà economica induce l’interprete a domandarsi quale sia il motivo per cui, nonostante quanto statuito dalla legge sul diritto d’autore, nessuno pone in dubbio il fatto che lo sfruttamento economico dell’immagine relativa a una persona nota esiga il consenso di questa. Perché, al fine di trarre profitto economico dall’uso dell’immagine di personaggi famosi, è reputato necessario raccogliere il consenso di questi attraverso la stipulazione di onerosi contratti, che vengono variamente qualificati come di sponsorizzazione, di testimonial o di endorsement?
Se dal dato positivo emerge un indebolimento del profilo morale della tutela, gli studiosi del diritto e i giudici dei tribunali impiegano il concetto di notorietà per costruire una tutela del soggetto noto sotto il profilo economico. Su questa linea, la notorietà comporterebbe tanto un indebolimento della tutela morale, quanto un rafforzamento della tutela economica del soggetto (sulla base di studi condotti oltreoceano, si afferma che la notorietà indebolirebbe l’aspetto della privacy, facendo contestualmente emergere il profilo della publicity).
La tutela giuridica dell’immagine, tuttavia, parrebbe riferirsi esclusivamente al profilo morale; occorre chiedersi, allora, dove trovi fonte la tutela economica relativa all’immagine della persona nota.
Immagine e icona
La comprensione del fenomeno esige un preliminare sconfinamento nel campo della semiotica. Immagine è termine munito di pluralità di significati, che rinviano tutti a una metodica di rappresentazione, ossia a uno ‘stare per qualcosa’.
Altra, però, è la rappresentazione mentale, altra la rappresentazione sensibile: la prima è operata dall’intelletto, che procede da «una intuizione empirica prima avuta» (I. Kant, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, 1798; trad. it. 20076, p. 52); la seconda è attuata da segni materiali, capaci di sollecitare una percezione simile a quella che sarebbe stimolata da ciò che è rappresentato (U. Eco, Il segno, 1973, p. 56). Discorreremo, nell’un caso, di immagine mentale; nell’altro caso, di immagine sensibile.
Proprio l’uso, da parte del legislatore italiano, di vocaboli apparentemente riferibili ora a entrambe le forme di rappresentazione (immagine) ora alla seconda soltanto (ritratto, fotografia), determina l’esigenza – avvertita dagli studiosi del diritto già dagli anni Cinquanta del secolo scorso (P. Vercellone, Il diritto sul proprio ritratto, 1959, pp. 10 e sgg.) – di mantenere distinte le due categorie di immagine, pure nella consapevolezza che l’indagine è destinata a complicarsi con il passaggio dal terreno extragiuridico a quello giuridico, restio ad assegnare rilevanza a fenomeni umani che non siano suscettibili di tradursi in fatti materiali.
Per immagine mentale deve intendersi, attuando una scelta fra i diversi significati riconducibili al lemma immagine, la forma esteriore di un oggetto materiale, così come percepita con i sensi (Immagine, in La Piccola Treccani, 5° vol., 1995, ad vocem); questa rappresentazione è ‘mentale’ in quanto ha luogo nell’intelletto, che provvede ad associare l’immagine al concetto corrispondente (F. de Saussurre, Cours de linguistique générale, 1922; trad. it. 200012, pp. 21 e sgg. e pp. 83 e sgg.). Come l’immagine mentale, anche quella sensibile rappresenta un oggetto, che, tuttavia, è suscettibile di percezione soltanto indirettamente, riferendosi la «intuizione empirica» non già all’oggetto, bensì all’immagine sensibile che lo rappresenta. L’immagine sensibile induce una percezione avvertita come simile a quella stimolata dalla percezione diretta dell’oggetto rappresentato.
La comune caratteristica di rinviare all’oggetto, rappresentato in virtù di proprietà in qualche modo corrispondenti a quelle dell’oggetto medesimo, ha indotto la letteratura a includere entrambe le forme di rappresentazione nella più ampia categoria delle icone. Così, fra i segni iconici sarebbero compresi non soltanto forme di rappresentazione sensibili, quali la fotografia e il ritratto, ma anche – sebbene vi siano, al riguardo, posizioni contrastanti fra gli studiosi – la stessa immagine mentale (C.S. Pierce, Collected papers, 1931-1935, paragrafi 2247 e sgg., ora parzialmente in C.S. Pierce, Semiotica. I fondamenti della semiotica cognitiva, testi scelti e introdotti da M. Bonfantini, L. Grassi, R. Grazia, 1980, con particolare riferimento alle pp. 132 e sgg.). Quest’ultima si distinguerebbe dagli altri segni in quanto la sua funzione rappresentativa, attuandosi sul piano intellettuale, sarebbe sprovvista di indole oggettiva.
Senza prendere posizione intorno alla polemica sull’iconismo, qualificheremo icone esclusivamente le immagini sensibili, ossia i segni materiali che si pongono come elementi intermedi tra un oggetto e i sensi dell’uomo, inducendo in capo a quest’ultimo un’impressione percettiva simile a quella provata in costanza del primo. In presenza di segni iconici, soltanto per via indiretta – ossia attraverso la lente di essi – e con un procedimento di secondo grado – ossia attraverso la rappresentazione contenuta nell’icona – l’uomo giunge ad associare ciò che è rappresentato al concetto corrispondente.
Icona e persona rappresentata
Dalle considerazioni che sono state svolte in precedenza, è possibile trarre qualche corollario.
L’immagine mentale relativa a una persona, in quanto idonea a determinare nella psiche altrui l’idea che la forma percepita è proprio quella di Tizio, e non di Caio o di Sempronio, non è disgiungibile dall’individuo che essa consente di distinguere. Diversamente, i segni iconici – quali ritratti o fotografie – volti a rappresentare la forma esteriore di una persona, provocando una percezione (simile, ma proprio per questo) differente rispetto a quella che sarebbe sollecitata al cospetto della persona rappresentata, sono tali in quanto disgiungibili da questa. La peculiare funzione rappresentativa dei segni iconici implica la loro alterità rispetto alla persona che essi consentono di evocare e, di conseguenza, la loro forza de-soggettivizzante: il passaggio dall’immagine ai segni conduce alla separazione della persona dall’opus che consente di evocarne la forma esteriore.
Ecco, allora, trovare soluzione il problema circa la rilevanza assegnata dal nostro ordinamento all’immagine mentale. Non disgiungibile dalla persona che essa rappresenta, l’immagine mentale assume rilievo nei limiti in cui l’individuo raffigurato sia contemplato da norme giuridiche: sotto questa luce, il tema dei diritti all’identità personale, alla riservatezza, all’onore e alla reputazione si intreccia con quello del diritto all’immagine personale, risolvendosi la disciplina degli uni sempre, anche, nella disciplina dell’altro.
Ed ecco pure trovare fondamento logico – in assenza di un’espressa disciplina legislativa – il carattere indisponibile dell’immagine personale, cui si ricollegano, secondo gli interpreti, il divieto di rinunziare ai relativi diritti e la loro natura imprescrittibile (P. Rescigno, Personalità (diritti della), in Enciclopedia giuridica, 23° vol., 1990, ad vocem).
Considerata quale rappresentazione intellettuale, l’immagine personale è indisponibile in quanto non suscettibile di dissociazione dal soggetto che essa identifica. Dell’immagine è possibile disporre soltanto attraverso i segni iconici della persona e nei limiti tracciati dal legislatore (D. Messinetti, Personalità (diritti della), in Enciclopedia del diritto, 33° vol., 1983, ad vocem).
Norme contenute nella legge sul diritto d’autore
I segni iconici rappresentativi dell’immagine personale trovano disciplina nella già citata legge sul diritto d’autore, che tutela i «Diritti relativi al ritratto» agli artt. 96 e sgg. (che secondo quanto previsto dall’art. 88, 1° co., hanno applicazione anche con riguardo alla «riproduzione, diffusione e spaccio della fotografia»).
Ai fini della nostra indagine viene in rilievo non già la creazione del ritratto quale titolo di acquisto del diritto d’autore (art. 6), bensì l’idoneità del medesimo a costituire oggetto di sfruttamento commerciale. Invero, i diritti individuati dagli artt. 96 e sgg. della legge sono «connessi all’esercizio del diritto d’autore» (come recita il titolo della sezione nella quale risultano inseriti): imputati a soggetti differenti dall’artefice dei segni iconici, essi limitano le prerogative concesse a quest’ultimo dalla legge sul diritto d’autore e provvedono a circoscrivere le modalità di sfruttamento commerciale del ritratto.
L’art. 96 non permette di esporre, riprodurre o mettere in commercio il «ritratto di una persona […] senza il consenso di questa» (o, successivamente alla morte della medesima – e sempre qualora non risulti una diversa volontà del defunto – senza il consenso dei suoi parenti più prossimi). La norma, al contempo, sancisce la disponibilità dei segni iconici e tutela, attraverso la disciplina di questi, la persona che l’immagine identifica. Per un verso, il ritratto è suscettibile di essere «messo in commercio»; per altro verso, esigendo il consenso della persona ritratta, il legislatore ne protegge la riservatezza, assegnandole il diritto di decidere quando possa farsi uso dei segni rappresentativi della propria immagine.
Esigenze di tutela della riservatezza, invece, ai sensi dell’art. 97, 1° co., non si avvertono, e «non occorre il consenso della persona ritratta», qualora «la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà».
È necessario, allora, fermare un punto. Nelle ipotesi in cui la «persona ritratta» sia ‘nota’, il legislatore, per motivi di interesse pubblico, decide eccezionalmente di abbassare, fino a eliminare, la soglia del quantum di sé che essa può rifiutarsi di offrire all’esterno, rendendo il ritratto suscettibile di esposizione, riproduzione o commercio anche senza il consenso della persona la cui immagine è rappresentata. Questa possibilità non è venuta meno, trovando solo alcuni limiti, con l’entrata in vigore del Codice in materia di protezione dei dati personali (d. legisl. 30 giugno 2003 n. 196). La notorietà determina il massimo grado di separazione della persona dai segni che consentono di evocarne le forme.
Norme del Codice della proprietàindustriale
Il nuovo Codice della proprietà industriale (d. legisl. 10 febbr. 2005 n. 30, di seguito anche cod. propr. ind.) parrebbe contraddire le conclusioni che sono state appena enunciate.
Definito il marchio d’impresa come segno suscettibile di essere rappresentato graficamente (art. 7 cod. propr. ind.), tale Codice consente di registrare come marchi anche i «ritratti di persone», stabilendo tuttavia che essi «non possono essere registrati […] senza il consenso delle medesime e, dopo la loro morte», senza il consenso dei parenti più prossimi (art. 8, 1° co., cod. propr. ind.).
Non escludendo la necessità del consenso nelle ipotesi in cui la persona ritratta sia ‘nota’, il Codice della proprietà industriale sembrerebbe derogare l’art. 97 della legge sul diritto d’autore. Perché del ritratto di una persona ‘nota’ possa farsi uso da parte di un soggetto differente da quello la cui immagine è rappresentata, la legge sul diritto d’autore non pretende il consenso di quest’ultimo; il Codice della proprietà industriale, diversamente, esige tale consenso tutte le volte che del ritratto voglia procedersi alla registrazione come marchio: l’omesso consenso della persona ritratta impedisce la registrazione (art. 8, 1° co., cod. propr. ind.) e, di conseguenza, la facoltà di fare «uso esclusivo» dei segni iconici come marchio (art. 20, 1° co., cod. propr. ind.).
Assenza del carattere della novità
L’indagine circa l’ambito di applicazione della disciplina sul ritratto enunciata nelle due leggi impone un ulteriore approfondimento delle norme contemplate dal Codice della proprietà industriale. Accanto all’omesso consenso della persona ritratta, esso enuncia altre circostanze ostative alla registrazione del segno iconico come marchio, fra le quali l’assenza del carattere della novità.
Tale carattere è escluso laddove il segno, del quale si chiede la registrazione come marchio, sia identico o simile «a un segno già noto» – a livello non «puramente locale» – «come marchio» anche non registrato e «possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico» (art. 12 cod. propr. ind.). Colui il quale si proponga di registrare come marchio i segni iconici rappresentativi della figura personale altrui, ancor prima di ottenere il consenso della persona ritratta, deve accertare che questi segni non siano già noti come marchi, quantunque ‘di fatto’; che essi, cioè, non siano già presenti sul mercato e capaci di «distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese» (art. 7).
La notorietà del segno iconico come marchio ‘di fatto’, peraltro, comporta una conseguenza ulteriore rispetto all’impedimento alla valida registrazione da parte di soggetti diversi dal preutente. Essa determina, in capo a quest’ultimo, il diritto di agire in giudizio, ai sensi dell’art. 2598, 1° co., n. 1, del c.c., contro chiunque faccia impiego di segni che possono creare confusione con i prodotti e con l’attività del preutente (Cartella 2006), o addirittura, secondo taluni, il diritto all’uso esclusivo del segno: trovando estensione – a maggior ragione con l’entrata in vigore del Codice della proprietà industriale, il cui art. 2, innovando la precedente disciplina, sancisce la protezione dei «segni distintivi diversi dal marchio registrato» – ai marchi non registrati la disciplina prevista per i marchi registrati (Sena 2006).
La rilevanza assegnata dal nostro ordinamento al marchio cosiddetto di fatto induce a tornare al rapporto tra le disposizioni dettate in tema di marchi e quelle previste dalla legge sul diritto d’autore. Il discorso porta, inevitabilmente, a una stringente alternativa. O i segni rappresentativi della figura relativa alla persona celebre sono sempre marchi (vuoi registrati, vuoi ‘di fatto’), e allora non vi è più spazio perché trovi applicazione l’art. 97, 1° co., della legge sul diritto d’autore; oppure tali segni sono suscettibili di essere qualificati come marchi soltanto in alcune ipotesi, e allora l’art. 97, 1° co., e le norme sui marchi (registrati o ‘di fatto’) sono destinati a conservare autonoma considerazione.
Nel primo caso, le norme che tutelano il marchio difficilmente consentirebbero di giustificare l’uso della «riproduzione dell’immagine» senza il consenso della persona ritratta, e l’art. 97, 1° co., della legge sul diritto d’autore sarebbe in contrasto con le temporalmente successive disposizioni del Codice della proprietà industriale. Nel secondo caso, l’uso dei segni iconici rappresentativi della figura relativa alla persona celebre dovrebbe reputarsi consentito finché tali segni non fossero qualificabili come marchi.
Tanto l’una quanto l’altra soluzione implicano una risposta alla medesima domanda: quando il ritratto della persona nota si fa marchio?
Uso imprenditoriale del marchio
Il problema si colloca in quello, più ampio e di stretta attualità, circa la tutela riservata al marchio dal nostro ordinamento, il quale – alla luce degli interventi legislativi successivi al 1992 – parrebbe proteggerne, accanto alla tradizionale funzione indicativa, la funzione ‘suggestiva’ o ‘attrattiva’.
L’abrogazione della norma che, istituendo un vincolo inscindibile tra il segno distintivo del prodotto e l’impresa produttrice, non consentiva di cedere il marchio senza l’azienda e la contestuale introduzione della possibilità di trasferire o concedere in licenza anche non esclusiva il marchio per alcuni soltanto dei prodotti o servizi in relazione ai quali esso è stato registrato (art. 23 cod. propr. ind. e artt. 17 e 22 del regolamento CE n. 40/1994 del 20 dic. 1993, sul marchio comunitario, di seguito pure reg. marchio com.), l’introduzione della disposizione che consente anche a chi non sia imprenditore di registrare il marchio (art. 19 cod. propr. ind. e art. 5 reg. marchio com.), e, ancora, la riserva di registrazione, in capo all’«avente diritto», di una serie di nomi o segni definiti «notori» (art. 8, 3° co., cod. propr. ind.), hanno condotto gli studiosi a reputare il marchio tutelato, oggi, «non più soltanto come indicatore di provenienza», ma, in generale, «come portatore di un messaggio» che può risultare «del tutto indipendente dall’uso del segno stesso come marchio e addirittura preesistente al suo uso» (Galli 1996, p. 147).
Su questa linea, il marchio, svuotato del significato «di garanzia indiretta di costanza qualitativa che esso presentava per i consumatori» (Galli 1996, p. 140) – non più «in grado di contare neppure sul fatto che tutti i prodotti che in un dato momento si trovano in circolazione con un certo marchio abbiano la stessa provenienza imprenditoriale, poiché niente esclude che essi siano stati realizzati in tempi diversi e sotto la responsabilità di diversi imprenditori» (p. 141) – sarebbe tutelato per le proprie capacità attrattive: dinanzi all’impiego di segni idonei a richiamare alla mente del pubblico i messaggi suggestivi propri del marchio, quest’ultimo troverebbe tutela a prescindere dall’uso, anche in funzione distintiva, che di tali segni fosse fatto.
Il dato positivo, tuttavia, sembra condurre a una diversa soluzione. Il rilievo assegnato dal legislatore alla funzione suggestiva non può portare a negare che il segno assume la qualifica di marchio, e come tale riceve tutela, soltanto laddove esso sia idoneo a «distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese» (art. 7 cod. propr. ind. e art. 4 reg. marchio com.) e sia destinato, o da destinarsi, a un uso imprenditoriale (art. 19 cod. propr. ind.; v. P. Spada, La registrazione del marchio: i «requisiti soggettivi» tra vecchio e nuovo diritto, «Rivista del diritto commerciale», 1993, 2, pp. 435 e sgg.).
L’assenza di tale capacità distintiva determina la nullità del marchio (art. 25, lett. a, cod. propr. ind. e art. 7, 1° co., lett. a, reg. marchio com.); allo stesso tempo, l’uso del marchio posteriore che – insieme alla tolleranza del titolare del marchio anteriore uguale o simile – ne consente la «convalidazione» è soltanto quello distintivo dei «prodotti o servizi» dell’impresa (art. 28 cod. propr. ind. e art. 53 reg. marchio com.); il diritto conferito al titolare del marchio in conseguenza della registrazione è quello di «vietare ai terzi» l’uso di segni – identici, simili, affini e, in taluni casi, anche non affini al marchio – in funzione distintiva di «prodotti o servizi» dell’impresa (art. 20 cod. propr. ind. e art. 9 reg. marchio com.); ancora, l’uso che salva il marchio registrato dalla decadenza, e che quando decettivo proprio con la decadenza risulta sanzionato, è soltanto quello relativo ai «prodotti o servizi» per i quali il marchio è stato registrato (artt. 26, lett. b e c, 14, 2° co., lett. a, e 24, 1° co., cod. propr. ind. e art. 50, 1° co., lett. a e c, reg. marchio com.).
È vero, dunque, che i segni muniti di funzione ‘suggestiva’ o ‘attrattiva’ sono suscettibili di essere registrati come marchi anche da chi non sia imprenditore; è parimenti vero, tuttavia, che l’uso del segno come marchio è, ancora oggi, un uso imprenditoriale, idoneo, cioè, a identificare e distinguere i prodotti e i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese. E anche i segni ‘suggestivi’ o ‘attrattivi’ – che consentono al marchio di acquistare «efficacia penetratrice» e divenire «strumento per raggiungere e attirare la clientela in relazione al prodotto individuato» (T. Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali, 19572, p. 352) – sono soggetti alle regole poc’anzi indicate.
Il personaggio celebre potrà anche registrare il proprio ritratto, ma la privativa persisterà se, e soltanto se, del segno iconico registrato sarà fatto uso come marchio, ossia un uso in funzione distintiva di prodotti o servizi dell’impresa, e fin tanto che tale uso non sarà interrotto per il quinquennio previsto dagli artt. 24, 1° co., cod. propr. ind. e 50, 1° co., lett. a, reg. marchio com. (P. Spada, La registrazione del marchio: i «requisiti soggettivi» tra vecchio e nuovo diritto, «Rivista del diritto commerciale», 1993, 2, pp. 435 e sgg.).
Segno evocativo e identificazione del prodotto
Il profilo evidenziato traccia una netta distanza tra il ritratto cui ha riguardo la legge sul diritto d’autore, e il ritratto cui ha riguardo il Codice della proprietà industriale. Ai sensi di quest’ultima disciplina normativa, il segno viene in rilievo in quanto capace di rappresentare non già solo l’immagine di una persona, bensì tale immagine collegata a un prodotto o servizio, che il segno è idoneo a distinguere.
Il ritratto che si fa marchio è segno polisemico, perché munito di duplice contenuto semantico: esso rappresenta sì le forme della persona, ma la ‘supera’, permettendo di selezionare, all’interno di una classe di beni o servizi, una sottoclasse individuata in funzione della provenienza di tali beni o servizi da una certa impresa anziché da altre.
L’ambito di applicazione dell’art. 97 della legge del diritto d’autore comincia così a delinearsi. La norma disciplina il segno evocativo dell’immagine nella sua idoneità commerciale, ma non distintiva di un prodotto o servizio. In tutte le ipotesi in cui, senza identificare un prodotto merceologico, si limita a rappresentare l’immagine di una persona nota, il segno iconico, monosemico, è suscettibile di esposizione, riproduzione o commercio indipendentemente dal consenso della persona ritratta. L’immagine di un personaggio celebre consentirà forse di incrementare le vendite relative alla rivista periodica sulla quale essa risulti occasionalmente pubblicata, ma non è certamente idonea a distinguere tale rivista (e le altre della sua sottoclasse) dagli altri prodotti editoriali appartenenti alla classe delle riviste periodiche.
Diversamente, l’impiego del ritratto relativo a un noto sportivo per pubblicizzare taluni servizi di ausilio agli studi permette di distinguere quei servizi erogati dall’impresa che fa impiego di tale ritratto dagli altri, del medesimo tipo, presenti sul mercato. Allo stesso modo, la riproduzione dell’immagine relativa a un artista celebre, che indossa determinati capi di abbigliamento, rende questi riconoscibili, da parte del pubblico presso il quale i segni iconici trovino diffusione, come provenienti da una determinata impresa anziché da altre. Ancora, la raffigurazione caricaturale o stilizzata dei tratti somatici di un volto – che, in base a particolari caratteristiche, sia in grado di determinare una percezione simile a quella che sarebbe sollecitata dall’individuo a cui il volto appartiene – può essere idonea a identificare i prodotti sui quali essa risulti apposta come provenienti da una certa impresa e, quindi, a distinguerli dagli altri disponibili sul mercato.
In tutte queste ipotesi i segni iconici risultano impiegati in funzione distintiva: essi inducono un’impressione percettiva ‘simile’ a quella provata in presenza della persona rappresentata, ma con lo specifico fine di identificare un determinato prodotto o servizio come proveniente da una certa impresa, differenziandolo dagli altri rinvenibili sul mercato. Ed è esclusivamente in queste ipotesi che si può parlare di uso del ritratto come marchio.
L’impresa rilevante
Nell’indagine circa l’idoneità del ritratto a essere usato come marchio si presentano come ineludibili due ulteriori questioni. Quale sia il concetto di impresa, i cui prodotti il segno, che voglia assumere la qualifica di marchio, deve essere idoneo a distinguere; e se il consenso della persona ritratta, e degli altri soggetti indicati all’art. 8 cod. propr. ind., debba esigersi anche per l’uso del marchio non registrato.
Muoviamo dal primo problema, la cui soluzione consente di individuare i soggetti che, secondo il Codice della proprietà industriale, devono ottenere il consenso delle persone raffigurate nel ritratto per essere ammesse all’uso, o comunque alla registrazione, di questo come marchio.
Il progressivo accoglimento, nella legislazione di derivazione comunitaria, di una nozione di impresa più estesa di quella ricavabile dall’art. 2082 c.c. (ai sensi del quale «è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi»), è posto in luce dalla recente dottrina e attestato da una copiosa giurisprudenza. Anche laddove non si voglia condividere l’orientamento che, introducendo la locuzione impresa concorrente per designare l’impresa destinataria delle norme dettate in tema di concorrenza e di proprietà intellettuale (Bertani 2000), reputa applicabile il diritto dei marchi «non solo a chi eserciti un’impresa ex art. 2082 c.c., ma più in generale a chiunque svolga un’attività economica esposta alla competizione» (M. Bertani, Imprese sportive e concorrenza, «AIDA», 2003, 24, p. 42), deve porsi adeguata attenzione, da un lato, al concetto di organizzazione dell’attività economica intermediaria tra fattori della produzione e accesso al prodotto o servizio, dall’altro, al carattere economico dell’impresa. Requisiti, quello dell’organizzazione e quello dell’economicità, i quali concorrono – insieme al requisito della professionalità – a individuare le attività produttive cui può essere riconosciuta la qualifica di impresa.
L’organizzazione, intesa come coordinamento di strumenti della produzione, è oggi soggetta – oltre che a forme sempre più evolute di decentramento (Spada 2004) – a un oggettivo processo di ‘sublimazione’ (Spada 2004), dovuto all’informatizzazione delle attività manuali e intellettuali, che ha segnato il passaggio alla società postindustriale. La ‘sublimazione telematica’ riduce la necessità di ordinare cose e persone per la produzione di beni o servizi, senza tuttavia escludere la rilevanza del profilo organizzativo, almeno fino a quando l’attività sia riferibile a una struttura distinta dal singolo individuo e per questo capace di assegnare all’impresa, nei rapporti con i terzi, un rilievo, in un certo modo, impersonale (Angelici 2002).
Per altro verso, il carattere economico dell’impresa non coincide con lo scopo lucrativo dell’attività da essa svolta ed è segnato anche da elementi differenti dal prezzo di cessione dei beni e di prestazione dei servizi. Invero, la compatibilità tra qualificazione imprenditoriale dell’attività economica e assenza di finalità lucrativa è evidenziata dalla giurisprudenza, sulla linea di una precisa scelta legislativa. È imprenditoriale tanto l’attività delle società di persone e di capitali (art. 2247 c.c.), quanto, per es., l’attività delle cooperative (art. 2511 c.c.) e degli enti pubblici (art. 2093 c.c.), sebbene le une possano agire, per dettato costituzionale, «senza fini di speculazione privata» (art. 45 Cost.), e gli altri possano essere invitati, dalle rispettive leggi istitutive, a perseguire scopi differenti da quello di lucro. Così come è imprenditoriale l’attività svolta dalle imprese sociali (disciplinate dal d. legisl. 24 marzo 2006 n. 155), che l’ordinamento consente di qualificare come tali proprio in quanto sia loro estranea la finalità lucrativa.
Dunque, qualora si neghi che ogni produzione di beni o di servizi sia di per sé economica e si reputi quest’ultimo aggettivo munito di autonomo significato nell’ambito dell’art. 2082 c.c., esso dovrà intendersi rivolto a escludere dalle attività imprenditoriali, non già quelle sprovviste di scopo di lucro, bensì quelle inidonee a compensare i costi affrontati per la cessione dei beni e la prestazione dei servizi. Il metodo economico, prescritto dall’art. 2082 c.c., si risolve nella capacità rimunerativa dei fattori della produzione (Spada 2004).
Così, potrà anche reputarsi – attribuendo al termine organizzazione un significato giudicato da taluni ormai inattuale – che l’artista e lo sportivo famosi, i quali eseguano prestazioni di carattere individuale e non siano lavoratori subordinati, svolgendo attività assimilabili a quella del professionista intellettuale, siano immuni dallo statuto dell’imprenditore e non possano fare uso del proprio ritratto come marchio distintivo dell’attività esercitata (il c.c. mantiene il professionista intellettuale estraneo al diritto dell’impresa, almeno finché l’attività che egli esercita non sia elemento di un’ulteriore attività, di per sé provvista di carattere imprenditoriale).
Ma sarà difficile negare tale uso ai personaggi celebri, la cui attività sia ‘autointermediata’ (P. Spada, Attività artistiche e sportive e diritto dell’impresa, «AIDA», 1993, pp. 87-96), le cui prestazioni, cioè, postulino un’attività organizzativa che coinvolga i personaggi medesimi insieme ad altri soggetti, assumendo carattere metaindividuale. Si pensi ai gruppi di artisti erogatori di prodotti o servizi imputabili non a singole persone, ma agli enti cui l’iniziativa collettiva di queste sia capace di dare luogo; o a singoli artisti o sportivi, la cui attività sia percepita come proveniente da ‘personaggi’, costruiti con l’ausilio di soggetti e mezzi capaci di spersonalizzare i prodotti o i servizi erogati. Si pensi, ancora, a quanto accade in taluni sport, quale il tennis, dove i migliori giocatori del circuito sono inseriti in una struttura composta di soggetti – allenatore, fisioterapista, psicologo, agente, responsabile della comunicazione – senza il contributo dei quali la prestazione sportiva non potrebbe essere eseguita e che, anzi, inducono a non imputare esclusivamente all’atleta l’iniziativa relativa all’erogazione della prestazione: è l’agente, il quale svolge funzioni manageriali, a negoziare il compenso che lo sportivo riceve per partecipare a uno o ad altro torneo e a decidere, di regola insieme all’allenatore, nei confronti di chi sarà erogata la prestazione sportiva.
In tutti questi casi, il legame che unisce il lavoro dei singoli artisti o sportivi celebri e l’erogazione dei prodotti o servizi risultanti da tale lavoro, passa attraverso l’attività di soggetti ulteriori, attività capace di escludere l’identificazione di chi assume l’iniziativa di erogare la prestazione con chi esegue il lavoro e, dunque, di sottrarre il soggetto, raffigurato nel ritratto che sia usato come marchio, all’immunità concessa dal legislatore al professionista intellettuale.
Certamente, poi, il ritratto dei personaggi celebri dovrà reputarsi suscettibile di essere usato come marchio da chi, indipendentemente dalle forme di rimunerazione dei fattori della produzione, svolga un’attività di ‘eterointermediazione’, come scrive Paolo Spada nel suo articolo citato in precedenza, tra questi ultimi e l’accesso ai singoli prodotti o servizi: di intermediazione, cioè, realizzata da soggetti diversi dalle celebrità raffigurate, le cui prestazioni, se presenti, costituiscono un mero fattore della produzione.
Sotto questa luce, non soltanto le società con scopo di lucro, ma anche le federazioni sportive e gli altri enti organizzati ai quali sia estranea la finalità lucrativa potranno registrare il ritratto della persona nota come marchio distintivo dei prodotti (quali magliette o altri indumenti) e servizi offerti (quali l’insegnamento dell’arte o della pratica sportiva, la partecipazione a competizioni sportive, l’organizzazione di eventi artistici o sportivi), misurando il carattere economico della propria attività – oltre che attraverso il prezzo versato a titolo di corrispettivo per la cessione dei prodotti e l’esecuzione dei servizi – anche, per es., attraverso l’incremento del numero degli iscritti o della raccolta pubblicitaria. Tale registrazione, tuttavia, non potrà prescindere dal consenso della persona ritratta e degli altri soggetti indicati dall’art. 8 del Codice della proprietà industriale.
Uso del ritratto come marchio non registrato
Viene allora in rilievo la seconda questione sopra enunciata. Se, cioè, lo stesso consenso debba esigersi, oltre che per la registrazione del ritratto come marchio, anche ai fini del semplice uso del medesimo in funzione distintiva di prodotti o servizi dell’impresa.
La tutela del soggetto raffigurato nell’icona sembra agevole nelle ipotesi in cui il ritratto sia già usato come marchio, registrato o ‘di fatto’, dallo stesso soggetto o con il suo consenso. Ove il ritratto sia segno distintivo di prodotti o servizi imputabili all’impresa dell’individuo celebre o di altri da questo autorizzati, l’interesse a che di esso non sia fatto uso per distinguere prodotti o servizi diversi sarà garantito, anche senza l’ausilio dell’art. 8 cod. propr. ind., attraverso la tutela del marchio registrato e del marchio non registrato.
Quale soluzione, tuttavia, qualora la celebrità non abbia già fatto uso come marchio del proprio ritratto e soggetti non autorizzati se ne valgano come segno distintivo non registrato dei propri prodotti o servizi? Deve in questi casi esigersi il consenso, prescritto dall’art. 8, 1° co., cod. propr. ind., ai fini della registrazione?
Nullità del marchio
La fattispecie del marchio nullo è prevista dall’art. 25 cod. propr. ind., ai sensi del quale «il marchio è nullo: […] c) se è in contrasto con il disposto dell’art. 8». Si tratta di chiarire se l’omesso consenso, e la conseguente nullità del marchio, incidano soltanto sul diritto di esclusiva conferito dalla registrazione (art. 2569 c.c., art. 20 cod. propr. ind. e art. 9 reg. marchio com.), ovvero, più in generale, sul diritto di fare uso tout-court del marchio. Soltanto in quest’ultima ipotesi lo sfruttamento economico dell’immagine celebre, attraverso il ritratto che si fa marchio, sarebbe precluso in assenza del consenso del soggetto raffigurato. Tuttavia è l’altra soluzione che, a prima vista, parrebbe mostrarsi maggiormente compatibile con la rubrica dell’art. 25 del Codice della proprietà industriale.
La nullità, quale forma di invalidità, si limita a denunciare uno scarto tra essere e dover essere dell’atto negoziale. Essa è conseguente a un giudizio di adeguatezza o non adeguatezza a un’ipotesi normativa: non è un effetto giuridico, bensì l’atto nella sua mancata conformità allo schema legislativo. Il giudizio di nullità presuppone una condotta approvata, ma si astiene dal condannare il comportamento tenuto con modalità difformi, rendendolo soltanto incapace di fare perseguire al soggetto agente il risultato sperato. Non una sanzione, dunque – questa sì effetto giuridico, ossia conseguenza che l’ordinamento rannoda all’accadere di un fatto – ma una valutazione di inutilità dell’atto, il quale, quantunque munito di rilevanza, può essere idoneo a produrre soltanto effetti che, rispetto a quelli propri dell’atto valido, si pongono come marginali ed eventuali.
Orbene, proprio perché esige un comportamento negoziale – ossia una previsione programmatica dei termini entro i quali è destinato a svolgersi l’effetto giuridico stabilito da una norma – la nullità non può essere riferita al marchio in sé considerato. La locuzione marchio nullo è munita di senso esclusivamente qualora l’invalidità sia riferita a un atto, relativo al marchio, contenente attese che essa risulti capace di frustrare. Conferendo il potere di «ottenere una registrazione per marchio d’impresa» (art. 19), il Codice della proprietà industriale mostra di approvare un certo comportamento, del quale, attraverso la previsione della nullità del marchio «in contrasto con il disposto dell’art. 8» (art. 25), disciplina le modalità di esercizio.
L’art. 25 cod. propr. ind. postula il potere di compiere l’atto giuridico della registrazione e, nel caso di omesso consenso del soggetto raffigurato nel ritratto, sottrae tale atto alle conseguenze tipiche previste dal legislatore. Tale inefficacia si traduce nella mancata costituzione, in capo all’agente, dei «Diritti conferiti dalla registrazione»: ossia del diritto «di fare uso esclusivo del marchio» – diritto «di esclusività», secondo il tenore dell’art. 2569 c.c. – con le modalità indicate dall’art. 20 del Codice della proprietà industriale.
Marchio registrato nullo e marchio ‘di fatto’
Così concepita, tuttavia, la nullità del marchio per mancanza di consenso non si mostra idonea a rendere imperseguibile il risultato atteso da colui che abbia domandato la registrazione. Tanto più ove si tenga conto della peculiare disciplina prevista dal Codice della proprietà industriale con riguardo ai segni ‘suggestivi’ o ‘attrattivi’, qual è il ritratto personale: in questi casi, fra i requisiti di validità dell’atto di registrazione figura anche il consenso dei soggetti raffigurati – e, nelle diverse ipotesi contemplate dall’art. 8 cod. propr. ind., degli altri aventi diritto – perché lo scopo perseguito dal registrante, e approvato dal legislatore in presenza di tale consenso, è, in primo luogo, quello di sfruttare la capacità evocativa dei segni al fine di attirare i consumatori in relazione ai prodotti individuati.
Colui il quale domandi la registrazione ambisce alla titolarità del diritto di uso esclusivo del marchio: ossia del diritto di fare libero impiego del marchio – «nella fabbricazione o commercio di prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo consenso» (art. 19, 1° co., cod. propr. ind.) – e «di vietare ai terzi, salvo il proprio consenso, di usare nell’attività economica» segni identici o simili a esso (art. 20 cod. propr. ind.). La nullità di cui all’art. 25 cod. propr. ind., però, non parrebbe pregiudicare né l’uso né l’esclusiva – o, in ogni caso, il diritto di pretendere, da parte della generalità dei consociati, l’astensione dal compimento di atti di concorrenza sleale che ingeneri confusione.
Il marchio nullo per «contrasto con il disposto dell’art. 8» presenta le medesime caratteristiche del marchio non registrato. Intanto può predicarsi la nullità della registrazione di un marchio, in quanto questo sia qualificabile come tale; in quanto, cioè, il segno oggetto di registrazione sia suscettibile di essere rappresentato graficamente, sia volto a «distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese» (art. 7 cod. propr. ind. e art. 4 reg. marchio com.) e sia destinato, o da destinarsi, a un uso imprenditoriale (art. 19 cod. propr. ind.). La nullità della registrazione per omesso consenso del soggetto raffigurato implica la qualificazione del ritratto come marchio; qualificazione che sta prima della registrazione e prescinde da questa. Sicché la mancata riconduzione di effetti all’atto giuridico della registrazione non dovrebbe pregiudicare la tutela, apprestata dal legislatore al marchio non registrato che abbia assunto una notorietà qualificata; tutela assai simile a quella collegata dall’ordinamento alla registrazione del marchio.
È vero che non vi è uniformità di opinioni circa l’applicabilità al marchio non registrato della disciplina propria del marchio registrato, e che, ancora oggi, vi è chi reputa i diritti, connessi all’uso del marchio ‘di fatto’, fondati sulle norme in tema di concorrenza sleale: sicché, il marchio nullo sarebbe destinatario di effetti parzialmente diversi da quelli connessi al marchio validamente registrato. È parimenti vero, tuttavia, che, pure accogliendo quest’ultimo indirizzo, alla dichiarazione di nullità del marchio, successiva al mancato consenso del soggetto in esso raffigurato, sarebbero ricondotti effetti tali da non impedire all’utente di perseguire comunque il principale vantaggio atteso dalla registrazione: ossia la possibilità di sfruttare economicamente l’immagine celebre.
La disciplina prevista dal legislatore in tema di ritratti di persone trova spiegazione proprio nella circostanza che lo scopo perseguito con la registrazione è quello di sfruttare il carattere evocativo dei segni per attirare i consumatori. La possibilità di pervenire a questo risultato anche in assenza del consenso prescritto dall’art. 8 cod. propr. ind. rende legittimo il sospetto di un’eterogenesi dei fini delle disposizioni previste in tema di nullità del marchio.
Uso illecito del ritratto come marchio
Per fugare il dubbio, occorre indagare se il Codice della proprietà industriale contenga disposizioni capaci di affiancare alla nullità una sanzione.
Se il legislatore valutasse l’uso del marchio registrato nullo come atto illecito, al diniego di tutela si cumulerebbe una sanzione repressiva. Nel caso di omesso consenso del soggetto raffigurato nel ritratto, la registrazione, nulla, sarebbe sottratta alle conseguenze previste dal legislatore; ma all’uso del marchio registrato nullo conseguirebbe una sanzione repressiva.
È necessario, al riguardo, richiamare l’art. 21, 3° co., cod. propr. ind., che pone il divieto «di fare uso di un marchio registrato dopo che la relativa registrazione è stata dichiarata nulla, quando la causa della nullità comporta la illiceità dell’uso del marchio». In quest’ultima ipotesi, dove il legislatore qualifica l’uso del marchio registrato nullo come illecito – rendendo così l’agente destinatario delle sanzioni civili di cui all’art. 124 cod. propr. ind. – deve includersi la nullità del marchio per omesso consenso del soggetto raffigurato nel ritratto.
Il primo comma dell’art. 14, cod. propr. ind., rubricato «Liceità», stabilisce, infatti, alla lettera c, che non possono essere registrati come marchi d’impresa «i segni il cui uso costituirebbe violazione di un altrui diritto d’autore, di un diritto di proprietà industriale o altro diritto esclusivo di terzi». Ebbene, non soltanto il ritratto, quale segno distintivo, deve reputarsi racchiuso nell’espressione «proprietà industriale» (art. 1 cod. propr. ind.) e il diritto a esso relativo – di cui, ai sensi dall’art. 8, 1° co., cod. propr. ind., è titolare il soggetto raffigurato –, quantunque acquistato non «mediante registrazione» bensì in uno degli «altri modi previsti» dal Codice, deve qualificarsi «di proprietà industriale» (art. 2, 1° co., cod. propr. ind.), ma, più in generale, come può qualificarsi il diritto – assegnato dall’art. 8, 1° co., cod. propr. ind. alla persona raffigurata – di escludere altri dalla registrazione del ritratto come marchio, se non come diritto esclusivo?
Il mancato consenso del soggetto raffigurato (art. 8, 1° co., cod. propr. ind.) è una causa di nullità (art. 25 cod. propr. ind.) che «comporta la illiceità dell’uso del marchio» (art. 21, 3° co., cod. propr. ind.), dal momento che tale uso costituirebbe violazione di un altrui diritto esclusivo (art. 14, 1° co., lett. c, cod. propr. ind.).
Peraltro, la circostanza che il divieto d’uso, di cui al 3° co. dell’art. 21, abbia espresso riguardo al solo marchio registrato nullo, non impedisce di qualificare illecito, in assenza del soggetto raffigurato, anche l’uso del ritratto come marchio ‘di fatto’.
Se il fine, perseguito da colui che si proponga di registrare un ritratto come marchio, è quello di avvalersi della capacità suggestiva del segno per attirare i consumatori in relazione a determinati prodotti o servizi, allora il diritto di escludere altri dalla registrazione si traduce, in primo luogo, nel potere di decidere a quale prodotto o servizio associare la riproduzione dell’immagine. Per tale ragione il consenso, di cui all’art. 8 cod. propr. ind., deve intendersi riferito non già solo alla registrazione, bensì anche all’uso del marchio.
È il titolare dell’immagine che ha sindacato esclusivo sull’associazione (della riproduzione) di essa a un determinato prodotto o servizio; diritto esclusivo che, in presenza di un uso del ritratto come marchio senza il consenso dell’individuo raffigurato, risulta leso, contestualmente integrando una delle ipotesi contemplate dal più volte richiamato art. 14, 1° co., lett. c, cod. propr. ind. e la fattispecie descritta dall’art. 21, 2° co., cod. propr. ind., ai sensi del quale «non è consentito usare il marchio in modo […] da ledere un altrui diritto di autore, di proprietà industriale, o altro diritto esclusivo di terzi».
Il consenso, di cui all’art. 8, 1° co., cod. propr. ind., dunque, si configura non soltanto come requisito positivo dell’atto relativo alla registrazione (a sua volta costitutivo di un diritto di esclusiva in capo al registrante), ma anche come requisito negativo di un atto illecito: esso impedisce che all’uso di un ritratto come marchio, sia questo registrato o ‘di fatto’, l’ordinamento colleghi una sanzione repressiva. Trovando in questi limiti disciplina, nel nostro ordinamento positivo, lo ‘sfruttamento economico’ dell’immagine relativa alle persone celebri.
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