IMMAGINE
L'uso del termine i. (e delle parole corrispondenti delle varie lingue moderne) in riferimento a opere medievali si è andato diffondendo solamente di recente in relazione ai procedimenti d'indagine di alcuni storici dell'arte (Belting, 1981; 1990, al seguito di una tradizione tedesca che ricorre al termine Bild; Camille, 1989; Wirth, 1989), ma anche degli storici che, da alcuni decenni, si impegnano a integrare le fonti visuali nella loro pratica di ricerca (Schmitt, 1987; Frugoni, 1993).Per Belting e gli altri autori citati, il Medioevo fu l'epoca dell'i., che precedette il tempo dell'arte. La nozione di arte, così come cominciò a imporsi nel Rinascimento, non era infatti pertinente al Medioevo: non esisteva allora alcuna finalità estetica autonoma, indipendente dalla realizzazione di edifici o di oggetti funzionali. Allo stesso modo, la nozione di artista non veniva distinta da quella di artigiano, se non in maniera molto parziale alla fine del periodo medievale: l'artifex medievale apparteneva alla categoria delle artes mechanicae, inferiore alle discipline intellettuali delle artes liberales, anche se questo non escludeva il riconoscimento del nome del creatore e talvolta del suo prestigio.La nozione di i. vuole essere quindi un modo per sfuggire all'anacronismo di applicare al Medioevo una categoria moderna di arte, inadeguata all'epoca medievale, malgrado l'equivoco creato dalla attuale modalità di fruizione delle opere in contesti museali o comunque al di fuori della loro originaria destinazione funzionale. L'uso di questa nozione presso alcuni autori può anche apparire come un tentativo per distaccarsi da un approccio estetico alle opere. Il termine i. consente infatti di dissociare meglio lo studio storico dal giudizio estetico e, in particolare, di riconoscere che opere mediocri possono presentare, dal punto di vista storico, lo stesso interesse di quelle che si considerano capolavori.L'uso della parola i. non è, tuttavia, privo di rischi. Sarebbe particolarmente dannoso se esso inducesse a far dimenticare la dimensione estetica delle opere. Infatti, anche se queste non erano dotate di quell'autonomia che sta alla base della nozione moderna di estetica, nel Medioevo esistevano certo un''attitudine estetica' e una nozione del bello che costituivano parte integrante della concezione delle i. e delle pratiche connesse (Schapiro, 1947; Baschet, Bonne, Schmitt, 1991). Un aspetto non trascurabile della efficacia delle i. si basa sulle loro qualità formali e sull'effetto che esse determinano. Quindi, se si può ritenere utile rinunciare a includere le opere medievali nella categoria dell''arte', è nondimeno necessario ammettere che in esse c'è arte - intesa come abilità, praticata a livelli variabili - ed è presente un valore formale, che contribuisce a conferire all'oggetto la forza che lo rende efficace.Il termine i. non deve, inoltre, condurre a isolare la rappresentazione dal suo supporto, perché ciò nuocerebbe alla individuazione della dimensione funzionale propria delle opere medievali. Non esiste, nel Medioevo, rappresentazione che non sia legata a un luogo o a un oggetto, esso stesso con una funzione (per lo più liturgica), così che evidenziare questo legame porterebbe a parlare di 'i.-oggetto' (Baschet, 1996). Allo stesso modo, il ricorso al termine i. non può autorizzare a isolare un'analisi della raffigurazione in termini di 'contenuto': bisogna, al contrario, sottolineare che la distinzione tra significati e forme deve essere ritenuta artificiosa e dannosa, come ogni separazione tra gli aspetti iconografici e gli aspetti ornamentali delle opere (Bonne, 1996).Una volta superati i rischi connessi al sostantivo i., si può riconoscere che esso gode di una legittimità forte, legata all'importanza del termine latino imago, una delle parole utilizzate nel Medioevo per designare le i. (in una lista che include anche pictura, effigies, species, vultus e nella quale si constata l'assenza di qualsivoglia equivalente della nozione attuale di opera d'arte). È il termine imago quello che privilegiarono i teologi latini nelle trattazioni che essi dedicarono alle i. considerate globalmente (senza operare la distinzione tecnica tra imago e historia, cioè tra figura e scene narrative; Belting, 1981). Soprattutto, il termine imago apre, nella cultura medievale, una costellazione di significati estremamente ricca (Schmitt, 1996). Esso rimanda a uno dei fondamenti dell'antropologia cristiana, in quanto Dio creò l'uomo 'a sua i.' (ad imaginem) e 'a sua somiglianza' (ad similitudinem; Gn. 1, 26). I dibattiti sull'i. materiale si trovano dunque associati alla definizione dello stesso essere dell'uomo, come a quella della natura del Figlio, imago perfetta del Padre divino. D'altra parte, una connessione è ugualmente stabilita con la sfera della imaginatio, così come essa viene definita dai chierici, in particolare al seguito di s. Agostino. Le i. materiali possono così essere messe in relazione con le rappresentazioni mentali (che rientrano nella categoria della visio spiritualis), siano esse i. di sogno o visioni, le cui interrelazioni con le i. materiali svolgono un ruolo considerevole (Schmitt, 1994).
La società medievale, come altre del resto, dovette affrontare interrogativi quali la liceità delle i. e di quale tipo e per quali usi. Numerosi fattori inducevano, nel cristianesimo, a una forte resistenza nei confronti delle immagini. L'interdizione delle i. materiali figura nella Legge mosaica (Es. 20, 4), allo stesso modo in cui il giudaismo e l'Islam, rimasti in principio fedeli a questa esigenza aniconica, non mancarono di denunciare il carattere idolatrico delle pratiche cristiane dell'immagine. Questo costrinse gli autori cristiani a difendersi da una simile critica, soprattutto nei trattati antigiudaici che si moltiplicarono a partire dal sec. 12°, nonché a spingere lo spirito polemico al punto di ritorcere paradossalmente l'accusa di idolatria contro gli ebrei e i musulmani (Camille, 1989). Va aggiunto che il cristianesimo dei primi secoli diede prova, sotto molti aspetti, di una reale avversione per il visibile, assimilato, secondo la tradizione platonica, al dominio delle apparenze e dell'inganno, e dovette, per di più, adoperarsi per prendere le distanze dalle pratiche pagane legate all'immagine.I motivi di resistenza all'i. erano numerosi e, di fatto, il cristianesimo conobbe, durante tutta la sua storia, fasi di violenta denuncia delle i. ovvero di iconoclastia. La più intensa riguardò in primo luogo l'Oriente bizantino, che, nei secc. 8°-9°, alternò fasi di iconoclastia (v.) e di iconodulia. Il dibattito si svolse non senza ripercussioni in Occidente, dal momento che l'accoglimento delle decisioni del secondo concilio di Nicea, che nel 787 aveva ristabilito in Oriente il culto delle i., provocò un conflitto tra la corte carolingia e il papato (Nicée II, 1987). Il rifiuto imperiale di accogliere le decisioni del secondo concilio di Nicea condusse alla compilazione dei Libri Carolini (791-794), nei quali Carlo Magno e il suo entourage adottarono una posizione molto restrittiva riguardo alle i. (Nicée II, 1987; Wirth, 1989). I dibattiti si protrassero sotto il regno di Ludovico il Pio (814-840), in particolare tra il vescovo iconoclasta di Torino, Claudio (m. nell'827 ca.), e Giona, vescovo di Orléans (m. nell'844 ca.; Boureau, 1987). Inoltre, ondate iconoclaste si manifestarono periodicamente, spesso in concomitanza con movimenti ereticali, da quelli di Orléans e di Arras, all'inizio del sec. 11°, fino agli ussiti e infine alla Riforma protestante (Schmitt, 1987, pp. 286-287).Contraddistinto da una eredità ostile alla rappresentazione e travagliato da una tentazione iconoclasta il cristianesimo occidentale giunse nondimeno a riconoscere un ruolo molto importante alle immagini. Questa apertura si realizzò non tanto nel solco della teologia greca relativa all'icona (v.; Schönborn, 1976; Nicée II, 1987) quanto piuttosto nell'ambito della posizione moderata assunta dalla Chiesa romana, basata in larga misura sulle concezioni di papa Gregorio Magno (590-604), che costituiscono uno dei fondamenti essenziali delle concezioni occidentali dell'immagine. Non è superfluo precisare che l'esame attento della questione induce a respingere la definizione dell'i. medievale come 'Bibbia degli illetterati', luogo comune che deve molta della sua fortuna a Mâle (1898) e che ha potuto valersi abusivamente dell'autorità di Gregorio Magno. Questa formula ha goduto di un prestigio immeritato e ha impedito di percepire correttamente il significato dell'i. nella società medievale, le sue funzioni e le pratiche connesse.Nella sua lettera al vescovo iconoclasta Sereno di Marsiglia (600), Gregorio afferma la funzione istruttiva delle i.: esse consentono agli illetterati di comprendere la storia sacra ("in ipsa legunt qui litteras nesciunt"; Registrum epistolarum, XI, 10) e sono pertanto un sostituto del testo - in quanto rientrano in un'analoga operazione di 'lettura' -, anche se svalutate dall'identità subalterna dei suoi destinatari (idiotae, imperitus populus). Nella stessa ottica, ma in un contesto sociale trasformato, le i. vennero di buon grado qualificate, a partire dal sec. 12°, come litteratura laicorum (o litterae laicorum; Onorio Augustodunense, Gemma animae, I, 132; PL, CLXXII, col. 586). Occorre anche notare che questo riferimento alle lettere, in una cultura fortemente segnata dall'oralità - come accade per lo meno fino al sec. 12° - può rinviare sia alla sua forma vocale sia alla sua forma scritta (Camille, 1996).È necessario, soprattutto, fare attenzione ai dettagli del pensiero di Gregorio Magno e tenere conto del contesto preciso del suo intervento, in particolar modo la prospettiva che impose l'impegno di conversione dei pagani (Kessler, 1985). La lettera a Sereno non costituiva una esposizione sistematica, ma una risposta che tendeva a difendere l'i. in un contesto ostile. È questo che indusse il pontefice a legittimare l'i. accostandola alla fonte di verità riconosciuta da tutti: la Sacra Scrittura e i testi sacri. Conviene, d'altronde, ampliare il concetto che si ha in generale della funzione detta pedagogica delle i., in quanto Gregorio non attribuisce loro esplicitamente la virtù di insegnare di per sé le verità sante a coloro i quali non ne avrebbero alcuna idea (Chazelle, 1990); d'altra parte, pur insistendo essenzialmente sulla funzione di istruzione che l'i. poteva contribuire ad assolvere, Gregorio non si limitava a questo unico aspetto e dava inizio all'affermazione di altre funzioni delle immagini. Egli insisteva in particolare sul fatto che l'i. poteva suscitare un sentimento di compunzione (ardorem compunctionis), che conduceva lo spirito verso l'adorazione della Trinità. Gregorio innestava a questo punto il riconoscimento di una dimensione affettiva nel rapporto con le i. destinato a svilupparsi nel corso del Medioevo. Questo accadeva, del resto, in una interpolazione del sec. 8°, aggiunta alla lettera inviata da Gregorio Magno all'eremita Secondino, nella quale il desiderio di contemplare l'i. santa era paragonato al sentimento amoroso (Registrum epistolarum, app. 10).Sviluppando alcuni degli aspetti tracciati da Gregorio, la teologia medievale dell'i., essenzialmente a partire dal sec. 12°, si caratterizzava per una triade funzionale (Duggan, 1989), in particolare in Onorio Augustodunense, Pietro Lombardo (m. nel 1160), Sicardo vescovo di Cremona (m. nel 1215), Bonaventura da Bagnoregio (1217 ca.-1274), Tommaso d'Aquino (1224 ca.-1274), Guglielmo Durando (1230 ca.-1296). La funzione di istruzione era la prima giustificazione delle i. (ad instructionem); la necessità di conservare la memoria delle cose sante ne costituiva una seconda. Infine, se Onorio Augustodunense considerava la necessità di conferire alla chiesa una ornamentazione degna di Dio come una funzione specifica (che si potrebbe qualificare estetico-liturgica), la maggior parte degli autori preferiva insistere su una funzione emozionale, attraverso la quale l'i. stimolava l'animo del fedele alla devozione. Essi generalmente sottolineavano che questo sentimento era suscitato più facilmente da ciò che si vedeva che dalle parole che si sentivano ("Tertio ad excitandum devotionis affectum qui ex visis efficacius incitatur quam ex auditis"; Tommaso d'Aquino, III Sent., IX, 1, 2).La triade funzionale costituiva un'amplificazione significativa rispetto alle concezioni di Gregorio, ma non era sufficiente a spiegare le grandi trasformazioni che la teologia occidentale dell'i. conobbe nel 12° e 13° secolo. La nozione di transitus, ripresa dalle concezioni greche, vi svolgeva un ruolo centrale: le i. erano annoverate tra le cose visibili che permettevano di elevarsi verso le realtà invisibili: secondo Ugo di San Vittore (m. nel 1141), "per rerum visibilium similitudinem in rerum invisibilium speculationem sublevamur" (Commentarii in Hierarchiam coelestem S. Dionysii Areopagitae; PL, CXLV, col. 941). Ma fu senza dubbio l'abate di Saint-Denis, Suger (1081 ca.-1151), che spinse ancora più lontano questa concezione anagogica dell'i. e dell'ornamentazione e che si applicò a metterla in opera nel rinnovamento della propria basilica. Qualunque sia l'importanza esatta del pensiero dello pseudo-Dionigi in Suger, gli scritti di quest'ultimo, e in modo particolare il De administratione, testimoniano una concezione di ispirazione molto 'greca' dell'anagogia: essa conduce ad affermare che le opere d'arte contribuiscono a trasportare lo spirito umano verso le sfere celesti e, al tempo stesso, ad ammettere pienamente il valore estetico connesso alla loro materialità (Bonne, 1994; Kessler, 1996).Presso gli autori scolastici, d'altra parte, la nozione di imago si sviluppò progressivamente (Wirth, 1996). Per giustificare il culto dell'i. gli scolastici ripresero una formula di Basilio di Cesarea, detto il Grande (330 ca.-379), conosciuta attraverso Giovanni Damasceno (m. nel 749), secondo la quale l'onore reso all'i. transita verso il prototipo che essa rappresenta (per es. Tommaso d'Aquino, Summa theol., III, 25, 3). Ma, soprattutto, essi qualificarono le forme di culto suscitato dall'i. in termini sempre più valorizzanti. La distinzione, classica nei dibattiti orientali, tra latria, culto riservato solo a Dio, e la dulia (o proskýnesis), culto reso alle i. come alle altre cose sacre, si annullava specialmente in Alberto Magno (m. nel 1280) e in Tommaso d'Aquino. Il culto reso all'i. diventò indistinguibile dal culto reso al prototipo, di modo che Tommaso d'Aquino poté fare un passo decisivo e affermare che l'i. di Cristo merita la latria, esattamente come Cristo stesso ("eadem reverentia exhibeatur imagini Christi et ipsi Christo"; Summa theol., III, 25, 3). L'i. religiosa d'Occidente e le pratiche connesse trovarono in tal modo la loro piena giustificazione teologica.Nel corso del Medioevo le concezioni occidentali dell'i. subirono, non senza dibattiti e conflitti, importanti evoluzioni. La sola menzione di una funzione di carattere istruttivo - che semplificava in eccesso il pensiero di Gregorio Magno - e, a maggior ragione, il ricorso all'espressione perniciosa, forgiata a posteriori, di 'Bibbia degli illetterati' sarebbero insufficienti a dare conto di tale sviluppo. È necessario anche aggiungere che sarebbe ingannevole considerare i discorsi sull'i. come riflessi fedeli degli usi effettivi - quali che siano le influenze reciproche che è possibile ipotizzare tra pratiche e teorie. La storia delle i. è anche quella dello sviluppo delle pratiche alle quali esse erano associate.
È evidente che le i. medievali erano destinate tutt'altro che ai soli laici, come testimonia il fatto che erano spesso collocate in luoghi riservati ai chierici o in libri che soltanto essi utilizzavano. In una chiesa come Saint-Martin a Nohant-Vicq (dip. Indre) le pitture murali romaniche si concentrano nel coro, ampiamente celato agli sguardi dei laici, mentre, allo stesso tempo, i muri della navata erano ricoperti da un semplice intonaco privo di rappresentazioni. Senza dubbio, la diatriba di Bernardo di Chiaravalle (v.) contro le figurazioni che distraggono i monaci dalla loro meditazione tendeva a ristabilire una distinzione tra i luoghi destinati ai soli chierici e le chiese aperte ai laici, per le quali Bernardo ammetteva l'utilità delle i. (Apologia ad Guillelmum, XII); ma questo atteggiamento restrittivo riguardo alle i. era, in questa epoca, raro e i suoi effetti poco durevoli. L'uso abbondante delle iscrizioni nelle i. dimostra, tuttavia, che non si può contrapporre troppo decisamente il mondo dei laici, che avrebbero avuto spontaneamente familiarità con le i., all'universo dei chierici, che accedevano senza mediazione alle verità della Sacra Scrittura (Kessler, 1989). Le opere medievali, infine, mostrano spesso un carattere estremamente dotto e, anche se potevano produrre un effetto forte su un pubblico laico, la loro piena comprensione richiedeva una cultura scritturale e teologica che solo i chierici possedevano. Nel De admnistratione (XXXII) Suger riconosceva che il significato profondo delle opere che ornavano il coro della sua basilica non era accessibile che ai letterati più acuti (Bonne, 1994).Bisogna, d'altra parte, sottolineare che gli usi cultuali dell'i. si svilupparono in Occidente molto prima di quanto non farebbe pensare l'evoluzione delle concezioni teoriche. I secc. 9°-10° segnarono un primo impulso: nonostante le teorie restrittive elaborate in ambiente imperiale, alcune testimonianze lasciano intuire l'esistenza di pratiche devozionali legate alle i., sicuramente riservate ai monaci o a personaggi d'eccezione, ma già straordinariamente evolute, come nel caso della Vita sanctae Maurae, redatta da Prudenzio di Troyes (m. nell'861; Castes, 1990; Schmitt, 1994, pp. 435-441). Un cambiamento molto significativo si può collocare nel corso del sec. 10°, con la ricomparsa di opere a tre dimensioni, spesso sotto la forma di statue-reliquiario. La legittimazione di queste opere di un tipo nuovo, la cui prossimità agli idoli dei pagani non poteva non creare qualche difficoltà, provocò talvolta il ricorso a racconti di visioni, come nel caso della Maestà della Vergine della cattedrale di Notre-Dame a Clermont-Ferrand (dip. Puy-de-Dôme), apparsa prima in sogno all'abate Robert de Mozat (Schmitt, 1994, pp. 441-447). In altri casi era la presenza di reliquie all'interno della statua ad assicurarne la sacralità e a conferirle la propria legittimità. La più celebre di queste opere è la Maestà di s. Fede in Sainte-Foy a Conques (Alvernia), le cui tradizioni cultuali sono particolarmente conosciute. Come in altri casi simili, alcune di queste pratiche poterono essere sospettate di idolatria dai chierici più intransigenti. È in questo modo che il monaco Bernardo di Angers giudicò inizialmente le forme di devozione che egli aveva scoperto a Conques, prima di essere convinto egli stesso della virtù della Maestà di s. Fede, al punto di comporre la raccolta dei suoi miracoli (1007-1029 ca.; Liber miraculorum sancte Fidis). La statua, scintillante di oro e di gemme, era la meta del pellegrinaggio e la causa principale dello sviluppo dell'abbazia. È presso di essa che si accalcavano i malati, avidi di guarigioni; è essa che guardavano, colpiti dal fascino del suo sguardo; è ai suoi piedi che dormivano nell'attesa che la santa si manifestasse. La Maestà poteva anche essere portata in processione per affermare i diritti dell'abbazia sulle sue proprietà, punire coloro che li contestavano, oppure in tutte le occasioni in cui gli interessi monastici ne esigevano la mobilitazione.Si comprende la valutazione iniziale di Bernardo di Angers, così come anche l'interrogativo moderno sulla pertinenza di una distinzione tra le pratiche cristiane dell'i. e quelle che gli autori cristiani denunciano, negli altri, come idolatre (Camille, 1989; Schmitt, 1990). Certo, non è difficile ammettere che pratiche come quelle cui dava luogo la Maestà di s. Fede - di cui si hanno per i secoli seguenti molteplici testimonianze - suggeriscono una ridefinizione della nozione di i.: questa non è soltanto 'rappresentazione', è anche 'presenza' di una forza soprannaturale. In compenso non si può pensare che i fedeli arrivassero necessariamente ad adorare l'i. materiale, come se fosse realmente la persona santa che essa rappresentava. Certamente, accadeva che alcuni chierici denunciassero nei semplici laici una simile confusione tra l'i. e il suo prototipo, ma questo fatto va considerato il punto di vista sprezzante di una fascia sociale d'élite piuttosto che una testimonianza affidabile sulla devozione dei fedeli (Wirth, 1989). Va ammesso piuttosto che l'i. manteneva rapporti stretti con il suo prototipo, come dimostrano i miracoli da essa compiuti. Nell'immaginario del devoto essa poteva confondersi temporaneamente con il prototipo, come testimoniano i numerosi racconti nei quali l'i. si anima, parla, si mette a sanguinare o a piangere, come anche nel caso delle visioni del tipo di quella attribuita a s. Bernardo, che riceve tra le sue braccia Cristo disceso dal crocifisso (Corrado di Eberbach, Exordium magnum Cisterciense). Nelle situazioni cultuali occorre considerare che la virtù dell'i. consisteva nell'assicurare una mediazione, nel mettere in comunicazione con l'universo celeste. Piuttosto che suscitare nei fedeli l'idea che l'i. 'era' Dio (o il santo), si può ritenere che l'importante fosse che l'i. era 'abitata' da lui: una delle sue dimore, che egli talvolta visitava o che poteva anche disertare. In questa ottica, l'efficacia dell'i. si riferiva meno alla sua materialità che al rapporto tra l'oggetto visibile e l'universo invisibile con il quale metteva in contatto. In ogni caso, numerose testimonianze inducono a riconoscere che alcune i. potevano essere ritenute di grande 'potenza', in primo luogo quando si attribuiva loro la capacità di compiere miracoli.Prototipi delle i. miracolose, le i. acheropite, non fatte da mano umana, appartenevano in un primo momento alla tradizione orientale, ma svolsero un ruolo importante anche in Occidente: è il caso della Veronica conservata a S. Pietro in Vaticano a Roma - il cui culto si sviluppò a partire dal pontificato di Innocenzo III (1198-1216; Belting, 1981; 1990) - o, ancora, del Volto Santo del duomo di S. Martino a Lucca. Tranne questi casi eccezionali, le i. miracolose erano in genere associate inizialmente alle reliquie, come nel caso di s. Fede; in seguito si constata, nel corso del Medioevo, uno 'slittamento' dalle reliquie verso le i.: il soccorso della Vergine e dei santi poteva essere ottenuto attraverso l'i., senza che l'efficacia di quest'ultima fosse sostenuta dalla presenza di reliquie (Vauchez, 19882, pp. 519-529). Queste pratiche non si limitavano alle statue cultuali, ma si estesero poco a poco ai pannelli dipinti (a volte trasportabili, come quello del beato Pietro di Lussemburgo applicato sul ventre della principessa di Borbone per salvarla da un parto difficile; Vauchez, 19882, p. 529), come alle pitture murali. La captazione della potenza dell'i. poteva avvenire attraverso la vista, il tatto o, talvolta, anche tramite l'ingestione di frammenti raschiati via; lo scopo ricercato era il più delle volte la guarigione, la regolazione degli imprevisti climatici, la protezione dagli assalti del maligno, dalla malattia o dalla morte improvvisa, come nel caso delle immense effigi di s. Cristoforo, la cui visibilità favoriva la positiva realizzazione di questo ultimo compito (Rigaux, 1987; 1996). Tali usi apotropaici delle i. sono da avvicinare alle pratiche riguardanti oggetti come gli amuleti (v.), che avevano tuttavia un carattere più individuale. Si segnala, infine, che questa potenza accordata alle rappresentazioni non concerneva soltanto le figure divine o sante: l'i. del diavolo (v.) rischiava spesso di essere associata a forme di presenza minacciosa del nemico, come testimoniano gli atti di aggressione perpetrati contro di essa.Oltre ai casi estremi delle i. alle quali si attribuiva una potenza che poteva arrivare fino al miracolo, è necessario insistere sull'estrema diversificazione delle funzioni assunte dalle i. nella società medievale. L'analisi di questi processi deve essere condotta con prudenza, sottolineando le interazioni tra le differenti funzioni ed evitando di includere ciascuna i. in una categoria troppo rigida (Fonctions, 1996). Le i. erano investite di funzioni cultuali e liturgiche, in rapporto sia all'adempimento dei sacramenti fondamentali sia ai riti che li accompagnavano. Esse svolsero un ruolo importante nella devozione monastica, nella mistica e, poi, alla fine del Medioevo, nelle pratiche devozionali dei laici, in particolare quando la preghiera davanti all'i. divenne, nel sec. 13°, un mezzo per ottenere indulgenze (v. Figurazioni devozionali). Le i. assolvevano però anche funzioni politiche o sociali: esse potevano esprimere la coesione di determinati gruppi, dalla comunità parrocchiale fino alla Chiesa universale, passando attraverso confraternite, ordini religiosi o gruppi sociali; esse servivano da emblemi alle istituzioni o ai poteri organizzati. D'altra parte, e in modo più conflittuale, esse costruivano gerarchie, rivendicavano forme di legittimità politica (quando si trattava di raffigurare l'i. dei sovrani o, anche, quella del potere comunale), esprimevano rapporti di forza (per es., tra il papa e l'imperatore) o di dominio (tra chierici e laici).La storia degli usi delle i. nell'Occidente medievale è dunque la storia di una progressiva espansione, sia pur con ritmi differenti a seconda delle regioni: Roma e l'Italia, per es., erano caratterizzate a evidenza da una tradizione più favorevole alla loro diffusione. Dopo avere sfiorato il rifiuto iconoclasta, il cristianesimo occidentale concesse alle i. ruoli sempre più rilevanti e diversificati, che trovarono in parte riscontro nell'evoluzione della teologia. I secc. 9°-10° prepararono la diffusione delle forme artistiche dopo l'anno Mille, mentre i secc. 13°-14° videro moltiplicarsi tanto le i. private di devozione, sia su legno e su avorio sia nei manoscritti, quanto nuovi generi di i. pubbliche, per es. le pale d'altare (Belting, 1981; 1990) o ancora le decorazioni profane negli edifici civili, specialmente in rapporto a usi giudiziari dell'i. (Ortalli, 1996).Questa diversificazione delle funzioni e degli usi condusse a un notevole sviluppo della produzione di opere e a una sensibile espansione dell'universo delle i., anche se la misura di questo fenomeno non è affatto paragonabile all'eccessivo consumo visuale che caratterizza l'odierna civiltà dell'immagine. Tuttavia, nel corso dei secoli del Medioevo, il cristianesimo si costituì poco a poco come vera religione dell'i., unica eccezione tra i grandi monoteismi.
Bibl.:
Fonti. - Gregorio Magno, Registrum epistolarum, a cura di D. Norberg, in Corpus Christianorum Lat., CXLA, 1982, pp. 873-876, 1104-1111; Libri Carolini sive Caroli Magni Capitulare de imaginibus, a cura di H. Batsgen, in MGH. Conc., II, suppl., 1924; Bernardo d'Angers, Liber miraculorum sancte Fidis, a cura di L. Robertini, Spoleto 1994; Suger, De administratione, in E. Panofsky, Abbot Suger on the Abbey Church of St. -Denis and its Art Treasures, Princeton 1946, pp. 40-81 (trad. it. Suger abate di Saint-Denis, in id., Il significato delle arti visive, Torino 1962, pp. 107-145); Bernardo di Chiaravalle, Apologia ad Guillelmum Abbatem, in id., Opera, III, Tractatus et opuscula, a cura di J. Leclercq, H.M. Rochais, Roma 1963, pp. 61-108: 104; Corrado di Eberbach, Exordium magnum Cisterciense sive Narratio Cisterciensis Ordinis, a cura di B. Griesser, Roma 1961, pp. 102-103.
Letteratura critica. - E. Mâle, L'art religieux du XIIIe siècle en France, Paris 1898; M. Shapiro, On the Aesthetic Attitude in Romanesque Art, in Art and Thought. Issued in Honour of Dr. Ananda K. Coomaraswamy, London 1947, pp. 130-150 (trad. it. Sull'atteggiamento estetico nell'arte romanica, in id., Arte romanica, Torino 1982, pp. 3-32); C. von Schönborn, L'icône du Christ. Fondements théologiques élaborés entre le I et le IIe Concile de Nicée (325-787), Fribourg 1976; H. Belting, Das Bild und sein Publikum im Mittelalter. Form und Funktion früher Bildtafeln der Passion, Berlin 1981 (trad. it. L'arte e il suo pubblico. Funzione e forme delle antiche immagini della Passione, Bologna 1986); M. Camille, Seeing and Reading: Some Visual Implications of Medieval Literacy and Illiteracy, AHist 8, 1985, pp. 26-49; H.L. Kessler, Pictorial Narrative and Church Mission in Sixth-Century Gaul, in Pictorial Narrative in Antiquity and the Middle Ages, Studies in the History of Art 16, 1985, pp. 75-91; Nicée II 787-1987. Douze siècles d'images religieuses, "Actes du Colloque international Nicée II, Paris 1986", a cura di F. Boespflug, N. Lossky, Paris 1987; A. Boureau, Les théologiens carolingiens devant les images religieuses. La conjecture de 825, ivi, pp. 247-262; J.C. Schmitt, L'Occident, Nicée II et les images du VIIIe au XIIIe siècle, ivi, pp. 271-301; O. Rigaux, Usages apotropaïques de la fresque dans l'Italie du Nord au Ve siècle, ivi, pp. 317-331; A. Vauchez, La sainteté en Occident aux derniers siècles du Moyen Age d'après les procès de canonisation et les documents hagiographiques (BEFAR, 241), Roma 19882 (1981); M. Camille, The Gothic Idol. Ideology and Image-Making in Medieval Art, Cambridge 1989; L. Duggan, Was Art Really the Book of Illiterate?, Word and Image 5, 1989, pp. 227-251; H.L. Kessler, Diction in the ''Bibles of the Illiterate'', in World Art: Themes of Unity in Diversity, a cura di I. Lavin, " Actes of the XXVIth International Congress of the History of Art, Washington 1986", London-Univ. Park 1989, II, pp. 297-308; J. Wirth, L'image médiévale. Naissance et développements (VIe-XVe siècle), Paris 1989; H. Belting, Bild und Kult. Eine Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst, München 1990; A. Castes, La dévotion privée et l'art à l'époque carolingienne: le cas de Sainte-Maure de Troyes, CahCM 33, 1990, pp. 3-18; C.M. Chazelle, Pictures, Books, and the Illiterate: Pope Gregory I's Letters to Serenus of Marseilles, Word and Image 6, 1990, pp. 138-153; G. Didi-Huberman, Devant l'image, Paris 1990; J.C. Schmitt, Les idoles chrétiennes, in L'idolâtrie (Rencontres de l'Ecole du Louvre), Paris 1990, pp. 107-119; J. Baschet, J.C. Bonne, J.C. Schmitt, Les images médiévales (quatre notes critiques), Annales. Economies, sociétés, civilisations 46, 1991, 2, pp. 335-380; C. Frugoni, Francesco e l'invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto, Torino 1993; J.C. Bonne, Pensée de l'art et pensée théologique dans les écrits de Suger, in Artistes et philosophes: éducateurs?, "Table ronde du Centre G. Pompidou, Paris 1994", a cura di C. Descamps, Paris 1994, pp. 13-50; J.C. Schmitt, Rituels et récits de vision, in Testo e immagine nell'Alto Medioevo, "XLI Settimana di studio del CISAM, Spoleto 1993", Spoleto 1994, I, pp. 419-459; Fonctions et usages des images dans l'Occident médiéval, "Actes du Colloque, Erice 1992", a cura di J. Baschet, J.C. Schmitt, Paris 1996; J. Baschet, Introduction: l'imageobjet, ivi; J.C. Schmitt, Imago: l'image et l'imaginaire, ivi; J. Wirth, Structure et fonctions de l'image chez saint Thomas d'Aquin, ivi; M. Camille, The Gregorian Definition Revisited: Writing and the Medieval Image, ivi; D. Rigaux, Réflexions sur les usages apotropaïques de l'image peinte, ivi; H. L. Kessler, The Function of Vitrum Vestitum and the Use of Materia Saphirorum in Suger's St. Denis, ivi; J. C. Bonne, Formes et fonctions de l'ornemental dans l'art médiéval (VIIe-XIIe siècle), ivi; G. Ortalli, La rappresentazione politica e i nuovi confini dell'immagine nel secolo XIII, ivi.J. Baschet