Immagine
immàgine s. f. – Nel 20° secolo i ritrovati della scienza hanno acuito la sensibilità della persona verso la rappresentazione delle proprie sembianze. Le scoperte, prima della fotografia e della pellicola cinematografica, poi della rete telematica, hanno determinato l’esigenza di proteggere l'i. individuale, cui il legislatore ha offerto positiva tutela attraverso norme costituzionali e norme ordinarie: non impedendo al consorzio degli uomini di prendere visione dei lineamenti di chi si offre allo sguardo dell’ambiente sociale che lo circonda, ma vietando l'esposizione dei segni evocativi delle altrui sembianze che possano recare pregiudizio al soggetto rappresentato.
Diritto. – Qualora l’immagine personale sia «esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione» della persona o dei suoi congiunti – sancisce l’art. 10 del Codice civile – «l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni». La disciplina dei limiti in cui è ammesso l’uso dell’altrui i. personale – o, meglio, dei segni iconici capaci di evocarla – è affidata a norme che tutelano l’interesse a non vedere rappresentate le proprie sembianze, così come quello a sfruttarne commercialmente i segni evocativi. Vengono in rilievo, in particolare, la legge sul diritto d’autore (22 aprile 1941, n. 633), il Codice in materia di protezione dei dati personali (d. lgs. 30 giugno 2003, n. 196), e il Codice della proprietà industriale (d. lgs. 10 febbraio 2005, n. 30). Le prime due discipline, ciascuna con le tecniche proprie dell’epoca di emanazione, offrono protezione, anzitutto, all’interesse individuale a non rivelare la propria figura e, con essa, la propria identità. Prestando il consenso all'esposizione, alla riproduzione, al commercio (art. 96, l. 633/1941) e, più in generale, al trattamento dei segni evocativi della propria i. (art. 23, d. lgs. 196/2003), ogni individuo determina l’ambito del proprio riserbo. L’interesse tutelato è intrinsecamente congiunto al soggetto che ne risulti titolare e racchiuso in un diritto che si mostra logicamente inalienabile – dunque idoneo a circolare soltanto qualora sia una norma a consentirlo – poiché la sua tutela implica un costante riferimento alle mutevoli determinazioni del soggetto cui esso è imputato. Per altro verso, in ragione dell’interesse generale, in talune ipotesi il legislatore decide eccezionalmente di abbassare, fino a eliminare, la soglia del quantum di sé che l’effigiato può rifiutarsi di offrire all’esterno, restringendo l’area del riserbo e rendendo il ritratto suscettibile di trattamento anche senza il consenso della persona la cui i. sia evocata; come accade, per esempio, qualora la «persona ritrattata» sia nota o rivesta un pubblico ufficio, oppure ricorrano «necessità di giustizia o di polizia» o «scopi scientifici, didattici o culturali», oppure la riproduzione sia collegata ad accadimenti «di interesse pubblico o svoltisi in pubblico» (art. 97, primo comma, l. 633/1941); o come accade in relazione al trattamento dei dati da parte di soggetti pubblici (artt. 18 e seguenti, d. lgs. 196/2003), o al trattamento dei dati provenienti da fonti conoscibili da chiunque (art. 24, lettera c, d. lgs. 196/2003), o, ancora, al trattamento effettuato nell’ambito dell’attività giornalistica o di manifestazione del pensiero (artt. 136 e seguenti, d. lgs. 196/2003). Le disposizioni previste dal codice della proprietà industriale in relazione alla registrazione dei «ritratti di persone» come marchi (art. 8) assegnano protezione a interessi differenti da quelli appena considerati. Perché possa farsi uso dell’icona personale in funzione distintiva di prodotti o servizi dell’impresa, il legislatore esige sempre il consenso dell’effigiato, anche qualora la diffusione del ritratto non determini alcuna violazione del diritto al riserbo. È come se il consenso, previsto dall’art. 8 del d. lgs. 30/2005, postulasse la già avvenuta soluzione del problema relativo ai limiti della riservatezza (v. privacy). La norma non si preoccupa di accertare se la diffusione dei segni iconici determini una lesione dell’interesse, facente capo all’effigiato, a non vedere rappresentate le proprie sembianze; essa, diversamente, ha riguardo all’interesse del soggetto a sfruttarne economicamente i segni evocativi: interesse che trova tutela soltanto nel momento in cui la riproduzione della i. si fa marchio. Se il diritto alla riservatezza nasce insieme con l’individuo e trova definizione attraverso le modalità con le quali quest’ultimo decida di mostrarsi all’esterno o sia costretto a farlo, il valore economico della i. appartiene al suo titolare nelle sole ipotesi in cui dell’icona personale sia fatto uso in funzione distintiva. Posto che i segni evocativi sono idonei ad assumere la qualifica di marchio nei limiti in cui sia rispettata la sfera del riserbo, l’uso di essi per distinguere prodotti o servizi dell’impresa ne determina uno sfruttamento economico, il cui potere di disposizione è rimesso dal legislatore all’effigiato. Ma proprio perché l’uso dell’icona personale come marchio è ammesso soltanto all’esterno dell’area riservata, per lo sfruttamento economico della i. non si pone il problema di tutelare il mutevole interesse dell’individuo alla omessa rappresentazione della propria figura e della propria identità: non vi è alcun diritto che, come quello alla riservatezza, risulti logicamente inalienabile dall’individuo in quanto legato alle sue variabili determinazioni. Con il corollario che – sempre nei limiti in cui sia rispettata la sfera del riserbo – il diritto di fare uso dell’icona personale come marchio deve reputarsi perfettamente idoneo alla circolazione.