Immagini di un mito
Come è definita Venezia nel 1500? Come un grosso agglomerato urbano, come un porto, una potenza mercantile e un centro economico, come la capitale d'un dominio coloniale e d'uno Stato di terraferma, come una città ricca e potente. Ma la combinazione, pur eccezionale, di queste diverse qualità non basta a spiegare l'immagine e l'influenza veneziane. Se si leggono i commenti dei contemporanei, Venezia, "trionfante", è una città unica, miracolosa. Ogni città-stato italiana si dice in realtà singolare, ma di tutte Venezia si dice, ed è detta, la più singolare. E, senza entrare nella competizione per la preminenza della propria immagine nella quale sono ingaggiate le città italiane del XV secolo, possiamo soltanto constatare che, nel caso di Venezia, vi è un coro quasi unanime, nel quale le rare voci discordanti, soffocate, non costituiscono che una curiosità. La stranezza del sito, la posizione della città sull'acqua, la sua formidabile ricchezza e la singolarità della sua storia istituzionale possono allora sembrare ispirazione e giustificazione dei ripetuti commenti sulla peculiarità veneziana. Tuttavia non è certo che si debba spiegare con tanta facilità lo stupore che Venezia provoca. Se si ricorre a criteri esplicativi moderni o persino contemporanei, si corre infatti il rischio di una spiegazione astorica della natura dell'originalità di Venezia.
Possiamo invece prendere in considerazione una scorciatoia per avvicinare la città e la sua immagine nei primi decenni del XV secolo e per penetrare in questo gioco dei riflessi di Venezia. Un corpus particolare di testimonianze favorisce tale approccio: le descrizioni che i pellegrini, imbarcatisi a Venezia per i Luoghi Santi, lasciano del loro passaggio nella città. Ci stupisce allora constatare come Venezia sia spesso tralasciata in questi testi, o meglio descritta con qualche commento laconico, nonostante che questi autori amino di solito arricchire i loro racconti di fatti strani e meravigliosi. E tuttavia la città resta comunque differente da tutte quelle traversate dai pellegrini durante il loro itinerario.
Come è definita questa alterità-unicità? Primo elemento significativo: in base al numero, alla folla di abitanti... Se si ragiona in termini puramente quantitativi, in termini di soglia demografica, Venezia è di sicuro una delle più grandi città dell'Occidente. Ma Milano, che molti di questi viaggiatori hanno attraversato, avendo preso la via padana, è almeno altrettanto grande (1). È tuttavia a Venezia che questi stranieri notano la calca e il parapiglia, persino nelle stradine più strette.
Secondo commento, più volte ripetuto: ai bordi della laguna i visitatori scoprono una città che pare loro più urbanizzata di tutte quelle conosciute o descritte strada facendo. Chiese, case, palazzi e ponti, canali e piazze, ma niente giardini, niente campagna vicina. La trama urbana è serrata, la densità umana considerevole e l'acqua separa "dalle foreste ombrose, dai campi gradevoli, dai prati verdeggianti" (2).
Terzo criterio, ripreso da un libro all'altro: la ricchezza della città. I testi redigono un vero e proprio inventario delle mercanzie e delle botteghe. Citano i broccati e i pesci, le spezie, la frutta e i gioielli. I monumenti esprimono, come i mercati o le toilettes femminili, l'abbondanza e le ricchezze. Venezia è la città dell'opulenza. E l'ammirazione di tutti i visitatori per questa profusione merita di essere analizzata. Si possono allora discernere diversi livelli di interpretazione. Queste enumerazioni dettagliatissime tessono sicuramente le lodi di una ricchezza a quei tempi inaudita. Ma, data la loro sensibilità per il diverso e l'esotico, sono analoghe a quelle che l'autore della Description du monde redigeva per descrivere l'Oriente meraviglioso.
Lo slittamento avviene così quasi naturalmente. Che il testo descriva i banchi di un mercato o la bellezza della decorazione di una basilica, alla fine insiste soprattutto sullo splendore e sull'insolito. Venezia è ricca perché è strapiena di ogni bene: merci e reliquie, marmi e chiese. Sono numerosi gli autori che spiegano retoricamente di non poter misurare o semplicemente rendere conto di questa profusione e tale abbondanza è considerata segno del favore divino. Ma essa sottolinea allo stesso tempo, per gli autori e per i lettori, l'ingresso in un mondo meraviglioso, in un altrove che l'immaginazione colora. Lo straniero scopre in questo modo la vastità degli scambi che, direttamente o indirettamente, legano Venezia a tutto il mondo conosciuto. Le relazioni di viaggio spiegano l'organizzazione commerciale, menzionano i convogli che partono o rientrano da Alessandria, Damasco, Beirut, Costantinopoli... Con lo stesso piacere e a dispetto dell'avanzata turca nel Mediterraneo orientale, enumerano le spoglie dell'Impero, del "quarto e della metà" della Romània, quegli orizzonti lontani che il porto e l'accumulo delle merci suggeriscono.
Serbiamo dunque all'inizio dell'analisi questi commenti, primi echi che la presenza di Venezia risveglia. La città in questi stessi decenni diffonde un'immagine di se stessa, che ha progressivamente costruito utilizzando i testi come fossero pietre. Quali sono le caratteristiche principali di tale immagine? E, domanda complementare, la ritroviamo chiara, leggibile, inalterata nelle descrizioni dei viaggiatori?
Sin dagli inizi dell'XI secolo le cronache cercano di dare un senso alla storia della città. Attraverso un racconto a più voci, esse creano un'immaginaria storia veneziana, che è in primo luogo una narrazione leggendaria e costantemente arricchita delle origini della città.
Dall'XI secolo è messa in moto la finzione storiografica. Giovanni diacono elabora il tema della duplice fondazione della città. Abbiamo dunque due Venezie. La prima, continentale, si stendeva dalla Pannonia al fiume Adda e la città di Aquileia ne era il centro. La seconda è quella che conosciamo, una serie di isole dalla posizione stupefacente, poiché situate tra i flutti, nel seno stesso del mar Adriatico. Il passaggio avviene dall'una all'altra. La popolazione ha abbandonato la prima per la seconda, fuggendo l'invasione longobarda (3).
Tra gli abbondanti materiali del Chronicon Gradense e del Chronicon Altinate si enucleano non meno di cinque versioni delle origini di Venezia (4). Una di esse parrebbe collegare l'installazione nel bacino lagunare all'invasione longobarda. Ma le altre quattro insistono unanimi sulla cesura provocata dall'invasione di Astila (5). Quanto al tema della colonizzazione troiana, già presente nell'opera di Giovanni diacono, l'Origo lo sviluppa, in particolare nei frammenti più tardi (6). Conosciamo bene l'estrema fortuna del mito della migrazione troiana, che conferisce origini antiche e gloriose a tutti i popoli i quali si attribuiscono tale progenitura, seguendo il modello romano. Il racconto storico veneziano, nel momento in cui la città inizia la sua ininterrotta ascesa politica ed economica, cattura un mito che accompagna, spiega e giustifica lo sbocciare delle ambizioni e il successo delle prime imprese egemoniche.
Attorno al tema centrale della duplicatio, delle due Venezie, la scrittura storica si addensa rapidamente. L'installazione nelle lagune procede, in ogni racconto, secondo cesure e cronologie lievemente differenti. Vi si innesta così anche il tema che fonda la concezione provvidenzialistica dell'esistenza di Venezia. La leggenda della predicazione di s. Marco ad Aquileia, databile alla fine del VI secolo o agli inizi del VII, è inserita nell'opera di Giovanni diacono (7).
Questi temi ritornano nel XIII secolo nelle cronache di Marco e di Martin da Canal (8). Inoltre la teoria della duplice origine si conserva sino alla fine del XV secolo, anche se la leggenda troiana, qui come nel resto d'Italia, è sottoposta alle critiche della nuova storiografia umanistica. Alcune perplessità rimettono in questione lo scenario delle origini, mai contestato durante i secoli precedenti. Ci si domanda allora se i primi fondatori di Venezia non siano stati i Galli (9).
Nel frattempo la spiegazione delle origini della città è ulteriormente complicata dalla datazione al 421 della fondazione di Rialto e dalle diverse tradizioni che circondano questa invenzione (10). La leggenda di s. Marco è parallelamente arricchita di dettagli e nuovi ornamenti.
Anche se il testo di Giovanni diacono conteneva già, a stadi di elaborazione diversi, la quasi totalità dei materiali, la costruzione della storia si fa qui per strati successivi che consolidano la leggenda delle origini. La cronaca di Andrea Dandolo deve soltanto cementare quest'ultima in un vero modello narrativo, racconto perfetto della storia compiuta (11). La scrittura del passato fluisce di conseguenza attraverso la produzione di una struttura immaginaria, unanimemente accettata. È chiaro che a Venezia la teoria della duplice origine avvalora, assieme a quella dell'antichità veneziana, il mito della libertà originaria della città. La cronaca di Giovanni diacono dota le comunità impiantate nella laguna dello spessore del tempo, di un passato che è esso stesso il lustro più importante. Essa sottolinea contemporaneamente la libertà delle popolazioni rifugiate sugli isolotti della laguna, poiché esse hanno rifiutato la barbarie e l'asservimento, e cancella i rapporti diretti tra la nova Venetia e l'Impero d'Oriente (12). E, nel XIII secolo, in perfetta sincronia con l'affermarsi della coscienza cittadina, le cronache sviluppano sino a dimensioni epiche i temi dell'antichità e dell'indipendenza originaria (13). Gli avvenimenti più importanti della congiuntura politica spiegano, a Venezia come nelle altre città, le tappe successive della produzione storiografica. Resta nondimeno che ogni racconto, come in un compendium obbligato, riparte dalla genesi veneziana. Mediante questo legame con il passato, ogni volta ribadito, Venezia si allinea a una preoccupazione di continuità, diffusa nella cultura del tempo.
Tuttavia la ricerca delle origini, per quanto sia a quel tempo comune, raggiunge a Venezia vette parossistiche. La città nuova, che si viene creando sul fango e sull'acqua, diviene più antica di Roma nel discorso storico. Questa ricerca di un passato inventato è spiegabile in base alla volontà di garantirsi l'onorabilità, necessaria per una città arricchitasi di recente, e al desiderio di darsi una patina di antichità, palese in una città che si stava costruendo su uno spazio vergine (14)? Senza dubbio, almeno in parte. In ogni caso sono importanti questa fabbricazione continua della leggenda della nascita, queste narrazioni, queste manipolazioni, che si arricchiscono reciprocamente, senza cesure durante tutto questo periodo. E sono numerosi gli esempi di tali operazioni, nelle quali il discorso storico è veramente il prodotto dei testi scritti e non corrisponde alla storia in quanto sequenza reale di avvenimenti.
Possiamo citare la leggenda della donazione del papa Alessandro III, ma la storia delle Marie, carica anch'essa di significati politici, costituisce una seconda esemplificazione del fenomeno. Le tradizioni sovrapposte sono talmente incrostate sui fatti che la storiografia più recente e più critica fa fatica a discernere questi ultimi. Dalla prima attestazione nella cronaca di Marco sino al Sansovino possiamo seguire, mediante un'analisi serrata, gli apporti dei vari cronisti: Lorenzo de Monacis, Giorgio Dolfin, Nicolò Trevisan, Marin Sanudo... In due secoli è forgiata la leggenda del rapimento delle fidanzate veneziane ad opera dei pirati. Essa illustra, grazie alla creazione di un vero e proprio mito delle origini, tutti i temi caratteristici della storia di Venezia: l'indipendenza originaria, l'unione di tutte le componenti della società e, ancora più precisamente, il dominio sul mare e l'espansione dei traffici (15).
Da allora è proprio un rapporto originale con il tempo che innerva la rappresentazione che Venezia ha e dà di se stessa.
La storia è dunque presentata come il commento dell'esistenza stessa della città. Essa spiega la sua sopravvivenza e la sua potenza lungo il corso dei secoli, nei flussi e riflussi della fortuna che racconta. E questo è ciò che devono ricordare quelli che esercitano l'autorità: non devono infatti dimenticare che sono stati scelti per rendere perenne la vocazione atemporale di una città che è sempre stata libera, unita e cristiana. Origini e tempo immaginari si coniugano quindi per dare al racconto storico veneziano la sua originalità, per conferire alla città le sue caratteristiche esistenziali. A Venezia il passato risorge continuamente, perché è in costante creazione, e permette di celebrare meglio l'esuberante potenza della città. È chiamato a testimoniare lo stato di grazia originario e i frutti progressivamente raccolti. Il tempo è qui sinonimo di progresso incessante, di gloria sempre accresciuta e di storia trionfante. L'idea di declino è impossibile.
Cadremmo proprio nella trappola preparata da questa letteratura veneziana se ignorassimo i legami delle cronache con le diverse fasi dell'evoluzione politica e sociale. Per esempio, l'Historia ducum, scritta sotto il dogado di Giacomo Tiepolo, celebra il prestigio e la saggezza dei dogi aristocratici contro l'ascesa dei popolari (16).
Quando inizia la seconda metà del XIII secolo, in quegli anni difficili nei quali i Genovesi fanno vacillare la potenza veneziana in Oriente, dove l'attività mercantile entra in crisi, le Estoires del da Canal illustrano la straordinaria fortuna di Venezia e promuovono, grazie a questa descrizione di una città nella quale abbondano tutti i beni, l'idea di un ritorno conquistatore al controllo dei traffici.
La scrittura della storia e la costituzione dell'immagine conoscono dunque tempi di accelerazione, ritmati dalle necessità interne ed esterne. Il tema della libertà originaria di Venezia è così rafforzato dal mito della donazione di Alessandro III. Il papa avrebbe riconosciuto la sovranità della città sull'Adriatico e rimesso al doge i trionfi, le insegne del potere dogale, per ringraziare Venezia dell'aiuto nella lotta contro l'imperatore Federico Barbarossa. Dal XIII secolo, sembra, alcuni elementi leggendari sono utilizzati per travestire la neutralità di Venezia durante la guerra del 1176 (17). Tuttavia la leggenda della donazione è probabilmente inventata tra la fine della guerra di Ferrara e gli inizi della lotta contro gli Scaligeri. Di fronte al montare dei sentimenti anti-veneziani, la leggenda di Alessandro III afferma la continua devozione cittadina alla Santa Sede e asserisce la legittimità della sovranità veneziana sul Golfo (18). Bonincontro de' Bovi, notaio della cancelleria ducale, elabora nel 1317 la prima versione dell'avvenimento. Gli affreschi che lo raffigurano sono mostrati per la prima volta nel 1319, nella cappella di S. Nicolò di Palazzo. Il rituale della processione ducale è definitivamente reso operante nel 1327 (19). La cronaca di Andrea Dandolo fa infine entrare questa sequenza leggendaria nella storia ufficiale (20). Formulata durante una fase di ridefinizione del regime politico, al tempo di una congiuntura diplomatica assai difficile, la leggenda di Alessandro III evidenzia l'indipendenza della città e giustifica l'egemonia adriatica mediante il dono dell'anello al doge.
Allo stesso modo il processo di identificazione mistica con il santo patrono inizia con il trasferimento delle reliquie di s. Marco e la loro conservazione nella cappella del palazzo Ducale (21). Il culto dell'Evangelista e l'affermazione politica di Venezia seguono uno sviluppo esattamente parallelo. La translatio segnava il progresso dell'indipendenza e dell'unità lagunari attorno a Rialto. Il miracolo dell'inventio rivelava il favore divino e rafforzava il patto della città con il santo patrono. Tuttavia sono proprio i secoli XIII e XIV che marcano l'apogeo della predestinazione di Venezia e accentuano i legami emblematici tra essa e il suo patrono (22). Grazie all'opera divulgativa dei testi di Marco e di Martin da Canal, il tema di s. Marco che sogna la laguna quale luogo del suo eterno riposo preannuncia profeticamente Venezia (23). Andrea Dandolo, che proprio a Rialto fa apparire l'angelo a s. Marco, pone la città sotto il segno della creazione divina. Al sogno del santo a proposito del luogo della sua sepoltura si aggiunge il messaggio dell'inviato divino: "Gli abitanti della terraferma si riuniranno qui per sfuggire le sventure e le persecuzioni religiose" (24). La città miracolosa nasce per difendere la fede. Venezia è profetizzata e predestinata.
Il tema della fede dei Veneziani esplicita di conseguenza la missione storica della città, espressione del rinnovamento della primeva alleanza tra Dio e Venezia. La cronaca di Giovanni diacono faceva senza dubbio balzare agli occhi l'immagine dell'aurea Venecia grazie alla descrizione della costruzione degli edifici sacri (25). Nel testo di Martin da Canal, laconico a proposito delle origini della città, la storia veneziana trova il vero atto di nascita nel trasferimento delle reliquie dell'Evangelista. Parallelamente la cronaca rappresenta una città piena di sacralità, descrivendo le processioni, le reliquie, il numero delle chiese e dei monasteri, la fede degli abitanti. Attraverso la complessità della storia diplomatica e militare, le cronache veneziane sottolineano dunque con costanza questo attributo essenziale, la fede dei Veneziani. I tentativi di da Canal, Sanudo, Torsello e Dandolo per giustificare la quarta Crociata e iscriverla nella legittimità cristiana costituiscono, per limitarci a un solo esempio, una perfetta illustrazione di questa dinamica narrativa e ideologica, basti pensare alla loro analisi di un impero greco abbandonato in mano agli eretici (26).
L'esaltazione dell'unicità del sito prolunga la stessa analisi di una storia provvidenziale quando nel XV secolo declinano le leggende della predestinazione urbana. Se Dio non designa più esplicitamente le lagune come luogo dell'installazione veneziana, egli comunque protegge l'avventura della città. Poiché Venezia è nata e si è sviluppata là dove nessun'altra città è stata costruita, essa si afferma come la città "alla quale Dio porse la sua soccorrevole mano" (27). Una concezione provvidenzialista sottende l'interpretazione della propria storia da parte dei Veneziani. Dal tema della predestinazione a quello del miracoloso sviluppo di una città sempre libera, fino a Quattrocento inoltrato - malgrado il modificarsi del racconto storico - questa concezione trionfa. Essa poggia e si radica davvero su una immagine urbana: quella di una città in cui trionfano l'ordine e la bellezza.
Attorno al centro, attorno a S. Marco, è realizzata l'icona urbana. La città stessa si presenta come il commento e la spiegazione della storia che essa offre alla lettura e alla conoscenza. Non c'è discontinuità tra il suo ordinamento e la scrittura di una storia che è soltanto riscrittura del raddoppiamento o dello sdoppiamento. L'analisi può così procedere dal più segreto al più visibile - dal palazzo Ducale allo spazio urbano, rappresentato e confidato allo sguardo nella sua totalità - per distinguere i campi e i supporti della rappresentazione, i loro modi di funzionamento e i loro destinatari. Si rivela allora la perfetta convergenza dei messaggi.
Primo adeguamento al discorso storico: una complessa iconografia esalta nel palazzo Ducale le caratteristiche e i meriti di Venezia. L'episodio della pace di Venezia, nella sua raffigurazione mitica, costituisce così una tessera di primaria importanza, in perfetta corrispondenza cronologica con la falsificazione dell'avvenimento operata nei testi scritti. Sin dal 1319, proprio nei decenni che vedono la fabbricazione della historia di Alessandro III, è presa la decisione, come è stato notato, di decorare la cappella di S. Nicolò con un ciclo di affreschi che rappresentino i fatti principali. Trent'anni più tardi la stessa tematica è ripresa. A partire dal 1365 la sala del maggior consiglio è decorata con scene che illustrano la versione veneziana del conflitto tra il papa e l'imperatore e il ruolo di Venezia. Gli affreschi si dividono lo spazio nella sala, seguendo la scansione di undici capiteli (29). Senza entrare nei dettagli degli episodi costitutivi di ciascuna delle scene principali, notiamo il loro enunciato chiaramente pedagogico. Venezia conduce la difesa "fidei catholice et sancta matre ecclesie". Il principe veneziano vi guadagna le "quedam regalia insignia", la spada, l'anello, ecc., concessegli dal papa (30).
La decorazione lega i membri del maggior consiglio alla gloria della città. Vero e proprio programma di governo essa consiglia e avverte mediante i suoi enunciati politico-mitologici: legittima un'élite e un sistema politico che garantiscono la durata gloriosa della città.
Bisogna d'altronde sottolineare come, agli inizi del XV secolo, un pittore vegli ufficialmente al restauro degli affreschi danneggiati. In seguito, nel corso dello stesso secolo, i più grandi artisti veneziani ridipingono, nell'ambito di due interventi successivi, le scene rovinate senza rimedio (31). L'impresa prosegue nel corso del XVI secolo, secondo una lotta ininterrotta contro l'acqua e l'umidità. È allora affidata a Tiziano, Tintoretto, Veronese, Pordenone. Gli stili e le maniere cambiano, ma la continuità della decorazione è garantita da questa successione di talenti al servizio dell'autocelebrazione di Venezia. Il grande incendio del 1577 distrugge tutto. La nuova decorazione della sala lascia spazio alla raffigurazione della quarta Crociata e della guerra di Chioggia. Tuttavia un intero ciclo è riservato alla pace di Venezia. Non vi è alcun dubbio che il ricordo di questi avvenimenti venga sfruttato in più di una occasione a seconda delle relazioni spesso conflittuali tra Venezia e il papato. Tuttavia, al di là delle oscillazioni della congiuntura diplomatica, questi affreschi, la cui leggibilità deve essere sempre preservata, servono all'istituzione della città cristiana, libera e sovrana.
È ancora il registro della continuità del potere e della sovranità veneziana che la serie cronologica dei ritratti dei dogi, posti nella stessa sala del maggior consiglio, celebra a beneficio di quelli che detengono tale autorità (32). La realizzazione di questi ritratti inizia significativamente verso la metà del XIV secolo, quando le riforme istituzionali della fine del secolo precedente hanno organizzato la spartizione del potere tra i più potenti e la divisione dell'autorità politica all'interno di una comunità dirigente, definita in quanto tale (33). Il doge è chiaramente visto come emanazione di questa comunità, colui nel quale si realizza l'unione della città al santo patrono e a Dio, grazie alla scelta delle principali famiglie e mediante l'investitura e l'incoronazione (34). Prima della metà del XVI secolo la figura del doge non appare mai quale elemento costitutivo di complesse allegorie politiche, come invece accadeva nelle raffigurazioni dei signori di altri Stati territoriali italiani.
Sul piano figurativo questa iconografia non propone perciò tanto l'idea astratta del potere, quanto mette l'accento su una comunità cristiana diretta dai suoi membri migliori, su una concezione provvidenzialistica del destino di questa comunità. Essa definisce il luogo della politica e, nello spazio in cui si decidono gli affari della Repubblica, si rivolge soltanto a un pubblico ristretto. Tuttavia il suo scopo principale è quello di sottolineare e rappresentare nel centro della città l'elezione divina di questo spazio. Le diverse espressioni della storia mitica di Venezia coincidono dunque perfettamente, sia nella forma scritta che in quella iconografica. Se si passa dall'interno all'esterno, dalle immagini segrete a quelle che si leggono sulla facciata del Palazzo, gli elementi della decorazione rafforzano la coerenza di questo corpus. Il leone di S. Marco, rappresentato in modo diverso sulla Basilica, serve anche quale simbolo quasi esclusivo della signoria dei Veneziani nella decorazione del palazzo del governo. Il leone del santo patrono eclissa tutte le altre raffigurazioni, ad eccezione della personificazione di Venezia ad opera di Filippo Calendario alla metà del XIV secolo (35). E sino al XVI secolo tutti i programmi iconografici lo scelgono perché sul suo libro dischiuso si decifrano le parole fondatrici della praedestinatio.
Spazio ultimo ed anche il più aperto, la piazza di S. Marco svela infine la presenza reale della città. Bisogna attendere il XV secolo perché la rappresentazione iconografica privilegi, nel mostrare Venezia, la riva sud, quella di S. Marco, perché il disegno del paesaggio monumentale della Piazzetta, costruito sopra il bacino di S. Marco, serva a identificare la città intera, malgrado qualche interferenza dell'immaginario (36). Allora, però, l'iconografia si limita a sanzionare una lenta evoluzione, quella che, malgrado la dualità dei centri veneziani e la divisione delle funzioni tra Rialto e S. Marco, accentua gradualmente la supremazia di quest'ultimo.
A Venezia lo spazio pubblico si forma con la civitas. Nell'isola di S. Marco, nel secondo decennio del IX secolo, il palazzo Ducale si erge di fronte al bacino lagunare, mentre la Basilica è costruita come un prolungamento del Palazzo. La storia della morfogenesi della Piazza mostra, a partire dalla fine del XII secolo, la formazione di uno spazio dalle dimensioni inaudite nel paesaggio urbano del tempo e che assume nell'organismo cittadino funzioni civili, sacrali e festive, centrali. In uno stesso luogo si sovrappongono i centri politico e religioso, nonché una parte dell'attività economica, visto che il bacino di S. Marco serve come spazio portuale (37). Se l'essenziale dell'organizzazione di quest'area rimane praticamente immutato sino all'inizio del XVI secolo, una serie di lavori coinvolge la riva e la Piazza nei primi decenni del XIV. Dalla lettura degli atti pubblici che ordinano queste realizzazioni risalta come tali cambiamenti siano spiegati rifacendosi al senso dello scenario urbano e alla vocazione estetica di S. Marco. Gli stranieri sbarcano su questa riva. Venezia si mostra loro attraverso il varco della Piazzetta.
La natura politica dell'estetica urbana è, per la prima volta, identificata formalmente. Essa era stata sino ad allora implicita: si era espressa mediante le dimensioni inusuali della Piazza e la bellezza e la ricchezza dei monumenti, o le erano state preferite la ricerca della comodità e della viabilità, che avevano guidato le realizzazioni anteriori. Ormai tutte queste preoccupazioni funzionali fanno parte di un progetto definito con chiarezza: la vocazione all'ordine della città. Il mito della città provvidenziale si avvera come elemento conduttore rispetto all'ordinamento stesso dello spazio, alla gestione dello spazio urbano. L'estetica urbana diviene un dovere per gli uomini, una ricerca di partecipazione all'opera divina, poiché essa mira a fare di Venezia una città la cui organizzazione è conforme all'idea della città celeste, o almeno le si avvicina il più possibile.
L'ordine e la bellezza di piazza S. Marco prefigurano dunque le qualità dell'intera città. Nei commenti del tempo tutta la politica urbanistica veneziana si presenta come il simbolo e il pegno dell'armonia. La città esprime l'ordine, perché, fondamentalmente, ha saputo dominare il fango e l'acqua. La forma urbis, immagine perfetta della città trionfante, simboleggia agli occhi di tutti la ricchezza, la potenza e l'elezione divina. Guardare la Piazza, scena aperta nella quale sono rappresentate le virtù e le qualità veneziane, equivale ad osservare il meraviglioso della città. Il concetto di comunicazione è dunque valorizzato chiaramente e i Veneziani ne fanno un uso pienamente cosciente. La gloria della loro città si afferra grazie allo sfavillìo dello spazio, la riuscita di una politica simboleggiata nel miracolo della pietra.
I criteri che i Veneziani propongono per giustificare l'alterità/unicità della loro città sono dunque i seguenti. La loro città è antica, grande e potente. Dominante, è la capitale di uno Stato e di un Impero. Tutte queste qualità, però, discendono dalla prima sfida vinta, il faccia a faccia, favorito da Dio, della città contro le lagune. La potenza veneziana riposa su queste prime fondamenta: le risposte che l'istanza politica ha saputo dare ai molteplici obblighi di costruzione dello spazio urbano. Tutto il resto è un sovrappiù: la durata e la conservazione, la pace e l'equilibrio, la ricchezza e la saggezza. Poiché è stata creata e ordinata in mezzo alle acque, la città è la più sorprendente creazione di tutto il creato. In quanto tale essa si definisce come ammirevole. Essa si rappresenta dunque, nello scritto e nell'immagine, come eccezione e come miracolo.
Occorre sottolineare allora, mi sembra, l'originalità accentuata della riflessione in cui la città si rispecchia. Venezia si presenta come una città piuttosto che come porto, potenza mercantile militare e politica. Tale sistema di definizioni non è evidente di per sé. Si possono evocare i testi contemporanei redatti a Genova, Firenze o Milano in cui piazze, strade e monumenti fungono piuttosto da ornamenti, prodotti della ricchezza o della buona amministrazione. Poiché la città, nell'incastro delle pietre, nel suo ornato e nella sua bellezza, traduce e illustra la storia stessa di Venezia ed è in sé e per sé il segno della divina elezione, i Veneziani pensano alla loro città come a quella che è l'imitazione più ravvicinata e più riuscita del modello perfetto e cioè della città di Dio.
Ora, cosa constatiamo? Nel XV secolo, alcune delle asserzioni costitutive di questo racconto storico, certi elementi di questa raffigurazione filtrano attraverso le descrizioni dei viaggiatori, prova della potenza e della dinamica straordinarie di quest'immagine di Venezia.
I racconti dei pellegrini tedeschi, inglesi e francesi testimoniano in effetti una teoria delle origini, che, quali che siano le versioni, prova l'antichità della città. Bernard de Breydenbach ci mostra una doppia leggenda delle origini, quando descrive il sito. Ricorda dapprima la fondazione troiana della Venezia continentale, poi narra la seconda fondazione della città nel sito lagunare e la spiega con la discesa di Attila (38). Le conseguenze di questa duplicatio sono chiare. Le origini troiane di Venezia spazzano via la gloria di Roma, che è stata fondata soltanto da pastori. La preminenza veneziana è assicurata, poiché la città esisteva prima della fondazione di Roma.
Il mito delle origini appare di nuovo nella relazione di un compagno di viaggio di Breydenbach (39). La data della fondazione della città è stabilita e l'anteriorità di Venezia su Roma è quindi di nuovo provata. Per quanto affermi di aver trovato la sua fonte nelle vecchie cronache, questo pellegrino tedesco dà prova di particolare audacia nel ricostruire gli inizi della città. Fondata 1107 anni prima della nascita di Cristo, Venezia precederebbe dunque Roma di ben 428 anni. Inoltre questo autore contrappone il lustro dei borghesi troiani, sbarcati sulle coste adriatiche, all'oscurità dei pastori che hanno fondato Roma.
Secondo commento, anch'esso centrale in questi racconti di viaggio: la città antica è una città da sempre libera. Tutti gli Itinerari del XV secolo riprendono infatti, pur con qualche variazione, il tema della donazione del papa Alessandro III (40). Per ringraziare Venezia del suo aiuto nella lotta contro l'imperatore Federico Barbarossa, il papa avrebbe riconosciuto la sovranità veneziana sull'Adriatico e donato al doge i trionfi, le insegne del potere ducale (41).
Ci troviamo dunque di fronte a una doppia teoria delle origini. La prima prova l'antichità della città mediante il tema della duplicatio e garantisce la longevità di Venezia grazie a questa doppia creazione. La leggenda di Alessandro III sviluppa invece il tema dell'indipendenza veneziana e giustifica la potenza egemonica della città.
Terzo tema, ripetuto in diversi racconti: Venezia è una città pia. L'affermazione, nei testi della seconda metà del XV secolo, esula dai commenti tipici del genere letterario dell'Itinerario del pellegrino, quali, ad esempio, l'enumerazione esaustiva delle reliquie da venerare o la descrizione senza lacune delle innumerevoli e belle chiese che si trovano nella città. La si ritrova infatti, quasi identica, nel testo di Commynes, ambasciatore francese (42). Essa acquista inoltre in alcune opere una tonalità spiccatamente politica. Tutti i Veneziani danno prova di devozione estrema. Venezia costituisce il "bastione della Cristianità" contro il Turco. Il Wey è forse l'autore che sviluppa con più vigore il motivo della città che vigila a difesa della Cristianità. La visita dell'Arsenale gli permette di glorificare la città combattente: "Ed essi vi fanno le galee per la difesa della nostra fede"; "E le sale sono piene d'armi di ogni sorta per la difesa della nostra fede" (43). Ma l'affermazione ritorna di frequente: "Per la difesa della fede si erge come un muro o fortezza di gran potere e potenza contro i pagani e i saraceni" (44).
In questi racconti non manca l'interesse per le forme di governo veneziane. Tale interesse genera in alcuni testi persino una vera e propria analisi istituzionale. La realtà dei poteri del doge è, in questo caso, afferrata con precisione e i suoi limiti sono definiti con esattezza (45). Ancora Wey redige una presentazione quasi perfetta della gerarchia dei poteri, delle principali cariche e dignità della Repubblica. Il suo racconto della morte del doge Pasquale Malipiero e dell'elezione del successore, Cristoforo Moro, è un resoconto esatto e rigoroso, nonostante fosse difficile scriverlo a partire dalla moltiplicazione dei gesti politici e delle cerimonie rituali. Sono spiegate, per esempio, tanto le tappe dell'intronizzazione del nuovo doge, quanto gli itinerari che conducono il principe dalla sua casa al palazzo Ducale, dal palazzo alla Basilica. La descrizione dei meccanismi elettorali prova inoltre che è stato approfondito il funzionamento stesso del regime politico (46). Altri autori rilevano in maniera più generale l'equilibrio che a loro sembra caratterizzare la città (47). Tutti mettono in evidenza come sia terribile la giustizia, tanto più in quanto è eguale per tutti (48).
Tuttavia in questi testi nessun sistema di causalità collega le forme istituzionali alla durata e alla riuscita veneziana. Se vi è una spiegazione del successo di Venezia, esso è attribuito piuttosto alla fede della città. La benevolenza divina ricompensa la devozione veneziana. Il commento di Commynes esemplifica un discorso unanime, persino ripetitivo in modo singolare: "È la città più trionfante che io abbia mai visto, quella che si governa più saggiamente e dove è più solenne il servizio di Dio. E, per quanto mi possa sbagliare, credo che Dio li aiuti perché essi servono reverentemente la Chiesa" (49). Il funzionamento equilibrato delle istituzioni si spiega dunque, allo stesso titolo della ricchezza e dell'estetica urbana, come effetto del favore di Dio. Di conseguenza, nel funzionamento della giustizia, gli autori degli Itinerari scoprono meno la forza delle istituzioni secolari che una perfetta sottomissione alla legge di Dio. Nessuno a Venezia può infatti peccare impunemente. Inoltre nel governo della città l'equilibrio dei consigli non è che un semplice strumento per far meglio trionfare la legge cristiana. La Repubblica "non governa né con il sangue né con l'oro, i favori o i doni" (50).
Il corpus dei racconti dei pellegrini della seconda metà del XV secolo rivela dunque quanto il discorso storico veneziano sia capace d'influenzare, persino di modellare, le testimonianze sulla città. In questi testi troviamo molti riferimenti a guide e interpreti, numerosi incisi che mostrano come la fonte informativa sia un veneziano. Tutte queste menzioni provano che l'immagine proposta da questi testi è costruita a Venezia e da Venezia. La città si rivela capace di canalizzare la visita, di offrire proprie risposte alle domande che la scoperta del suo spazio suscita nei forestieri. Essa sfrutta il potenziale rappresentato dall'afflusso regolare di centinaia di visitatori. Traendo ulteriore profitto dal successo di questi racconti, destinati a essere stampati in grandi tirature, la città trasforma il pellegrinaggio in strumento d'azione al servizio della propria immagine, quella di una Repubblica libera, prospera, potente e indistruttibile, perché cristiana (51).
Poiché i testi dei pellegrini non fanno che diffondere una griglia leggendaria, progressivamente creata a Venezia, vi dovrebbe dunque essere una quasi perfetta corrispondenza tra l'immagine della città fissata dalle cronache e dalle storie cittadine e i suoi riflessi nei racconti stranieri. Così apposto, il filtro dell'interpretazione veneziana della storia cittadina dovrebbe bastare a far sì che, agli occhi dei visitatori, Venezia appaia come una città diversa da tutte le altre. Ciò è senza dubbio vero, ma non basta. Sono all'opera anche altri elementi che spiegano come questi visitatori siano presi di ammirazione e stupore. In primo luogo interviene infatti lo scenario urbano: la città, miracolo di pietra.
Nel suo scenario e nella sua disposizione la città agisce in profondità come un appello all'immaginazione. Ed è proprio in questo che essa è unica ed esemplare. Le raffigurazioni dei forestieri e quelle dei Veneziani si concatenano alla perfezione, se uno segue questa interpretazione. Inoltre proprio in questo modo acquistano un senso preciso i criteri oggettivi di apprezzamento, che abbiamo in un primo tempo enucleato nei racconti dei viaggiatori.
Per tutti scatta l'immagine di una civiltà totalmente urbana, poiché Venezia è il solo agglomerato cittadino nettamente diviso dalla sua periferia e dalla campagna. Al termine di un portentoso movimento di crescita e di conquista del suolo la città raggiunge quasi alla fine del XV secolo i limiti del sito: le acque la contornano di un limite che colpisce molto di più di qualsiasi cinta muraria. Ma questa immagine è anche quella di una città perfetta perché cresce, bella e prospera grazie alle sue magistrature, in mezzo al fango e agli acquitrini (53).
Venezia è inoltre immagine di città perdute o sempre più inaccessibili e distanti. Gerusalemme si allontana. Alla fine del XV secolo la rotta marittima è sempre più insicura. Soprattutto si inaridisce lo slancio dei pellegrini. Senza pretendere di rimpiazzare o di eguagliare la città santa, Venezia annuncia e afferma nel suo spazio un po' della presenza di Gerusalemme (54). La topografia urbana si sforza di riprodurre alcuni siti e monumenti della città ombelico del mondo: per esempio, sulla riva di S. Giovanni in Bragora è costruito un Santo Sepolcro. Egualmente, una volta che Costantinopoli è conquistata, Venezia si dichiara pronta a prenderne l'eredità e a concludere così una translatio imperii iniziata da tempo. Nei suoi cantieri, a S. Michele o a S. Maria dei Miracoli, adotta allora uno stile apertamente neo-bizantino (55).
Tuttavia Venezia è anche e soprattutto immagine di tutte le città, poiché i visitatori scoprono qui la confluenza di tutti i beni e tutte le stranezze del mondo. La sensibilità dei pellegrini, segnalata sin dall'introduzione di questo saggio, verso la ricchezza e le sue componenti brillanti ed esotiche rivelava già una parte della fascinazione esercitata da questa città-mondo. Le cupole e gli ori di S. Marco e di S. Zaccaria formano uno scenario sorprendente, lungo la riva del porto, là dove si scaricano e si ammassano le mercanzie, là dove i forestieri passano e ripassano. C'è dunque persino un sovrappiù di segni in questo spazio centrale, in seno al centro veramente simbolico della stessa città. Descrivendo l'oro e i mosaici, il porfido e la serpentina, le ricchezze che sfavillano, i visitatori dipingono l'immagine di una città di abbondanza, fanno filtrare il mito di Venezia, terra promessa.
L'immagine veneziana si arricchisce dell'immagine di una città modello, esempio per tutte le altre città, ma anche dei riflessi di città reali o immaginarie. Essa funziona soprattutto come simbolo e tabernacolo, poiché il favore e la presenza di Dio al centro stesso di questo spazio urbano spiegano l'esistenza e le qualità della città. E questo appello di un immaginario dei luoghi urbani, questa definizione di una città microcosmo del mondo e delle forze materiali e spirituali che la compongono, spiegano senza dubbio lo splendore dell'immagine veneziana nei testi del tempo.
Queste raffigurazioni mi sembrano di conseguenza determinanti per tentare di avvicinare l'eccezionalità di Venezia, sentita e vista come irriducibile a ogni paragone con le altre grandi città dell'epoca. Dalla fine del XV secolo infatti l'immagine della città-modello vacilla, si avvia un processo di desacralizzazione di quest'immagine e tutta la storia di Venezia tende a organizzarsi attorno al suo nuovo successo, quello statuale. Allora inizia il corso del mito costituzionale di Venezia. La città, il suo ordine e il suo scenario passano in secondo piano, eclissati da un'altra immagine, quella della Repubblica dei Veneziani.
Possiamo rintracciare le attestazioni di una precoce ammirazione per la concordia sociale e le istituzioni veneziane (56). Le cronache di Enrico Dandolo e di Pietro Giustiniani forniscono alcuni esempi di un'analisi favorevole del ruolo dei nobili nella storia cittadina. I testi di Benintendi Ravignani e di Rafaino Caresini costituiscono esempi nettissimi di un tentativo di dimostrare la superiorità della linea politica veneziana in un momento nel quale si sviluppa la prima leggenda nera della città (57). Ma la vera mitizzazione delle strutture costituzionali veneziane data al XV secolo. I suoi legami con le nuove esigenze storiografiche devono quindi essere identificati.
L'opera De Republica Veneta di Pier Paolo Vergerio è composta verso il 1412 (58). Lorenzo de Monacis che scrive tra il 1421 e il 1428 il De gestis, moribus et nobilitatis civitatis venetiarum sviluppa il tema dell'aequitas veneziana, di una longevità fondata sulla forza delle leggi contro i tentativi di sovversione tirannica (59). Alcune date principali contrassegnano in seguito la storia culturale della seconda metà del XV secolo. Le reazioni alla politica continentale di Venezia e alla sua espansione in Terraferma suscitano la risposta veneziana. Flavio Biondo sceglie di illustrare la storia e la libertà dei Veneziani. Il De gestis Venetorum è redatto nel 1454 e Biondo ottiene la cittadinanza veneziana come ricompensa (60). Lorenzo Zane propone nel 1456 a Lorenzo Valla di scrivere una storia di Venezia, ma il progetto non va in porto (61). Ludovico Foscarini propone la creazione di un posto di storico ufficiale e spera di affidarlo a Biondo, ma anche questo progetto fallisce. La redazione del De origine di Giustinian avviene tra il 1477 e il 1489 e coincide in parte con gli anni tesi della guerra di Ferrara. Bernardo Giustinian compone la prima storia omogenea dell'identità veneziana durante i peggiori momenti dell'interdetto decretato da Sisto IV (62). Tuttavia la storiografia pubblica inizia veramente con Marc'Antonio Sabellico che insegna alla scuola di S. Marco.
Per quanto il loro autore non ottenga la carica di storico ufficiale, i libri delle Rerum venetarum, completati dal De situ e dal De Venetis magistratibus, divengono un modello per la storia veneziana. Sabellico muore nel 1506; la Repubblica decide nel 1515 di dargli un successore. I dieci l'anno seguente affidano questo incarico ad Andrea Navagero. Lo storico ufficiale della Repubblica sarà un patrizio. Navagero muore senza aver pubblicato niente. Lo sostituisce Pietro Bembo.
Negli ultimi anni del XV secolo le opere analitiche, le riflessioni e i trattati sul governo e sull'organizzazione di Venezia si moltiplicano contemporaneamente a queste storie generali, che comunque analizzano i fondamenti della libertà e la saggezza delle leggi veneziane. Sabellico pubblica il De Venetis magistratibus a Venezia nel 1488. Il De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, dedicato da Sanudo al doge Agostino Barbarigo nel 1493, presenta nell'ultima parte una descrizione pratica delle istituzioni veneziane. Per quanto il testo non assimili esplicitamente a Venezia il modello di repubblica ideale che elabora, la costruzione teorica del De bene instituta re publica di Domenico Morosini è vicina, in molti punti, al sistema istituzionale veneziano. Egli formula tuttavia alcune critiche severe (63). Se questa linea concettuale trionfa nel secolo successivo, i suoi fondamenti teorici sono già fermamente istituiti alla fine del XV secolo.
L'emulazione della Repubblica fiorentina gioca molto chiaramente un ruolo importante. Le celebri analisi di Hans Baron hanno studiato la nascita del nuovo umanesimo e i suoi legami con la congiuntura politica e diplomatica (64). Esse hanno dimostrato la novità radicale dell'opera di Leonardo Bruni all'inizio del XV secolo. Ci limiteremo qui a ricordarne alcune constatazioni principali. La Laudatio comprende un'analisi della costituzione fiorentina che differisce radicalmente dagli elenchi di uffici che alcune laudes medievali contenevano. Vero studio ragionato, tende a dimostrare che le istituzioni repubblicane hanno resistito alla prova dello scontro contro i Visconti. Così facendo, essa alimenta la nuova tradizione degli studi istituzionali. Senza ricostruire la genesi degli scambi, degli imprestiti e delle opposizioni tra le due città, è possibile far notare un esempio particolarmente significativo di interazione (65). La traduzione dell'Historia del populo fiorentino di Bruni è pubblicata nel 1476 a Venezia. La redazione del De origine di Bernardo Giustinian è dunque concepita senza dubbio come almeno parziale risposta a questo testo (66).
I nuovi orientamenti storiografici si inseriscono ancora largamente nel processo di trasformazione delle strutture culturali veneziane operante durante tutto il XV secolo. Di questo processo la creazione delle differenti scuole veneziane o i tentativi, finalmente riusciti, del patriziato per trovare chi avrebbe scritto la storia della città non costituiscono che alcuni esempi. Venezia ricorre ad altri umanisti per magnificare la longevità della propria indipendenza contro le voci di quegli umanisti che invece l'accusano di distruggere la libertas italiana con la sua politica espansionistica (67).
Il tema della libertà originaria di Venezia, come quello della sua antichità, sono sviluppati a sazietà nelle prime cronache, mentre subiscono una flessione nelle opere umanistiche. Adesso si pensa che siano state le strutture costituzionali a favorire e assicurare lo sviluppo di questa libertà e, allo stesso tempo, a spiegare e garantire la conservazione di Venezia.
Il confronto con la storia romana conosce dunque una fortuna enorme. La duplicatio, la filiazione con la Venezia continentale, mirava, lo si è visto, a compensare la giovinezza di Rialto. È, però, il XV secolo che sistematizza le conseguenze di questa fondazione mitica. La longevità di Venezia è maggiore di quella di Roma. Il paragone tra i fondatori di Venezia e di Roma va a vantaggio della prima città. Contro quelli che deridono la nobiltà veneziana, aristocrazia di una città di pescatori e di mercanti, Paolo Morosini descrive le ondate immigratorie dei nobili che popolarono Venezia e lega i due concetti di nobiltà e di libertà (68).
Gli scritti più tardi perpetuano questo paragone storico, che la stabilità di Venezia rende ancora più trionfalista, in un momento nel quale il paesaggio politico italiano si modifica e la libertà italiana finisce. La storiografia veneziana si discosta così da quella fiorentina. I Dialogi e la Laudatio di Bruni impongono una rilettura del passato fiorentino. L'antica interpretazione che attribuiva a Cesare la fondazione di Firenze è abbandonata a vantaggio della rivendicazione di un'origine pre-imperiale della città (69).
Il cancelliere Salutati elabora la tesi della fondazione ad opera dei veterani di Silla. La respublica romana ha generato Firenze. La città nasce dal popolo romano senza essere stata macchiata dalla tirannia e dai disordini imperiali. Essa rivendica a questo titolo la difesa della libertà, suo bene legittimo, contro i despoti. Ma per quanto Firenze si dipinga così come una nuova Roma, essa riconosce comunque il peso dell'eredità romana. Venezia nega invece ogni affiliazione: essa è un'altra Roma che Roma non ha generato.
I trattati umanistici ricompongono dunque i diversi elementi costitutivi della storia mitica di Venezia. I temi della libertà, della durata, persino dell'equilibrio e della concordia, creati e sviluppati nelle cronache, gravitano ormai attorno a un asse maggiore: le istituzioni veneziane. Tutte le qualità di Venezia discendono dall'eccellenza della sua costituzione. Le successive generazioni dei patrizi umanisti legittimano in questo modo, mediante la politica della loro città, il regime aristocratico che è stato progressivamente instaurato a partire dalla fine del XIV secolo.
Se la fortuna dell'analisi costituzionale veneziana aumenta ancora durante l'età moderna, l'elogio politico nasce nel XV secolo, basato sulla produzione teorica locale e sulla riflessione che la natura del regime lagunare provoca nelle altre città italiane. In un tale processo di ridefinizione possiamo sicuramente discernere gli impulsi della nuova storiografia umanistica. La carta dell'Italia si trasforma. Le signorie organizzano vasti Stati territoriali. I circoli umanistici si interrogano sulle cause della decadenza di Roma. Gli scritti locali in ogni città partecipano alla lotta condotta dalle principali potenze dell'Italia centro-settentrionale. Per quanto siano presenti questi fattori esogeni non devono essere secondo me sopravvalutati. Ognuno degli scritti che compongono il nuovo modello costituzionale si lega evidentemente a una congiuntura particolare, alla ricerca di finalità precise. Ma assieme, desacralizzando l'immagine, essi fondano una vera e propria rivoluzione. Le trasformazioni del vocabolario sono a questo proposito significative. I testi in precedenza parlavano di "Venezia" o della "città di Venezia"; potevano anche menzionare il "Comune di Venezia", quando designavano uno stadio particolare dell'evoluzione politica. Trattati e atti pubblici usano invece adesso il termine di "Repubblica". Le forme del regime politico rendono conto della totalità dell'essenza urbana.
Alla fine del XV secolo la desacralizzazione è all'opera. Non ha certo ancora eliminato gli elementi antichi della storia provvidenziale e della riuscita mitica di Venezia. I temi possono essere ancora intrecciati, talvolta nello stesso autore. Ma questa desacralizzazione cerca di ordinare la storia della città attorno a una nuova riuscita, quella dello Stato. Il mito costituzionale non può dunque ridursi alle sole mutazioni della congiuntura diplomatico-militare, all'evoluzione generale del pensiero politico contemporaneo. La sua formazione durante il XV secolo spiega e giustifica anche la razionalizzazione progressiva del potere politico patrizio e la sua aumentata potenza. Essa rinvia al disimpegno graduale della politica come sfera autonoma. Così facendo, questa nuova immagine, proposta come modello, tende a ricostruire in maniera diversa la solidarietà della comunità in una città che non è più tanto voluta da Dio, quanto realizzata e ordinata dagli uomini.
Alla fine del XV secolo la desacralizzazione progressiva dell'immagine di Venezia getta le fondamenta del mito politico (70). Le crisi degli inizi del XVI secolo sono in seguito determinanti. Esse provocano l'evoluzione del regime politico veneziano, una volta superato lo choc. Esse spiegano la vera dinamica del mito, poiché il modello della longevità veneziana alimenta analisi e confronti (71). L'esempio veneziano nutre dunque la riflessione teorica (72). E un'abbondante bibliografia ne misura l'influenza in Italia, in Inghilterra e in Polonia durante l'epoca moderna: Venezia e l'educazione politica dell'Europa (73). La storia dell'immagine veneziana e quella dei suoi riflessi cominciano allora una nuova carriera.
Come spiegare allora il successo dell'immagine veneziana, la sua luce brillante che lascia in ombra le città rivali, attraverso i molteplici riflessi che se ne possono afferrare? Venezia si afferma come la città stessa della rappresentazione, perché controlla nei testi e nell'organizzazione urbanistica tutti gli enunciati e li trasforma in un discorso univoco che ripete e rende esplicito il proprio successo mitico. Rappresentazione dapprima della città miracolosa, della città modello creata, ingrandita, ricca e potente, libera e pacifica, grazie al mai smentito favore divino. Rappresentazione di uno Stato, quando il potere a partire dal XV secolo inizia il suo processo di desacralizzazione. E sempre, attraverso la strutturazione di queste immagini, la città dice di trovare e imporre la verità della sua storia... Dall'immagine della città trionfante a quella della Repubblica modello, in un'evoluzione continua capace di superare i diversi incidenti storici, la storia di Venezia si confonde, attraverso queste progressive messe in scena, con quella del potere della rappresentazione.
Traduzione di Matteo Sanfilippo
1. Maria Ginatempo - Lucia Sandri, L'Italia delle città. Il popolamento urbano tra Medioevo e Rinascimento (secoli XIII-XVI), Firenze 1990.
2. Fratris Felicis Fabri Evagatorium in Terrae Sanctae Arabiae et Egypti peregrinationem, a cura di Conrad D. Hassler, Stuttgart 1843-1849.
3. La cronaca veneziana del diacono Giovanni, in Cronache veneziane antichissime, a cura di Giovanni Monticolo, I, Roma 1890; Giovanni Monticolo, Intorno agli studi fatti sulla cronaca del diacono Giovanni, "Archivio Veneto", 15, 1878, pp. 1-45; Id., La cronaca del diacono Giovanni e la politica di Venezia sino al 1009, ibid., 25, 1888, pp. 1-27; La cronaca veneziana di Giovanni Diacono, versione e commento del testo a cura di Mario de Biasi, I-II, Venezia 1988.
4. Origo civitatum Italiae seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), a cura di Roberto Cessi, Roma 1933; Gina Fasoli, I fondamenti della storiografia veneziana, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, Pp. 11-44.
5. Antonio Carile - Giorgio Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978.
6. Ibid.; Antonio Carile, Le origini di Venezia nella tradizione storiografica, in AA.VV., Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 135-166.
7. Non si affronta in questo testo il problema della lotta tra i patriarcati di Grado e di Aquileia e del ruolo che la leggenda di s. Marco giocò in questo lungo conflitto.
8. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. XI. 124; Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972. La leggenda troiana è particolarmente sviluppata in queste due cronache, anche se con qualche sfumatura differente. Nel testo di Marco ritroviamo i tre motivi della colonizzazione troiana, della predicazione di s. Marco e delle invasioni, che, da Attila ai Longobardi, spingono ondate successive di emigranti verso il rifugio delle lagune: v. Antonio Carile, Aspetti della cronachistica veneziana nei secoli XIII e XIV, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, pp. 75-126.
9. Per un esempio di questi dubbi: "La città di Venetia [...] havé principio [...] Alcuni voglia da Galli Cisalpini, altri da Troiani i quali furono populi Paphlagonii venuti con Antenor in Italia" (Marin Sanudo il Giovane, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, ovvero La città di Venetia [1493-1530], a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980).
10. L'opera cui fare riferimento resta Vittorio Lazzarini, Il preteso documento della fondazione di Venezia e la cronaca del medico Jacopo Dondi, "Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 75, 1915-1916, pt. II, pp. 1263-1281. Fino agli inizi del XIV secolo la scelta del 421 quale data di fondazione di Venezia è soltanto un'aggiunta nelle cronache, un elemento supplementare che complica ulteriormente la storia della nascita di Venezia. Spetta ad Andrea Dandolo il merito di aver ristabilito la coerenza cronologica degli avvenimenti: Andreae Danduli Chronica per extensum descripta, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958; Girolamo Arnaldi, Andrea Dandolo, doge cronista, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, pp. 127-252; Id.-Lidia Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 287-291 (pp. 272-337). Il passaggio dalla cronaca alla storia basata sull'esame critico delle fonti non altera immediatamente questo attaccamento all'età mitica di Venezia. Marin Sanudo sostiene così la data di fondazione del 421 contro Flavio Biondo: v. Gaetano Cozzi, Marin Sanudo il giovane: dalla cronaca alla storia, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, pp. 333-358.
11. A. Carile-G. Fedalto, Le origini di Venezia, pp. 115-116.
12. G. Fasoli, I fondamenti della storiografia veneziana, pp. 19-23. Per una tappa successiva nella descrizione della libertà originaria di questi isolotti lagunari, possiamo fare riferimento alla cronaca di Marco; cf. Giorgio Cracco, Il pensiero storico di fronte ai problemi del Comune veneziano, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1970, pp. 45-74.
13. V., ad esempio, AA.VV., La coscienza cittadina nei comuni italiani medievali del Duecento, Atti dell'XI convegno di studi sulla spiritualità medievale, Todi 1972.
14. O quasi... Non tratteremo qui del problema delle origini di Venezia, dei rapporti degli scavi a Torcello e del dibattito suscitato dall'opera di Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, I-II, Milano 1983.
15. Elisabeth Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse". Espaces, pouvoir et société à Venise à la fin du Moyen Âge, I, Roma 1992, pp. 561-566.
16. G. Cracco, Il pensiero storico di fronte ai problemi del Comune veneziano, pp. 46-50.
17. Sulla pace di Venezia, v. Paolo Brezzi, La pace di Venezia del 1177 e le relazioni tra la Repubblica e l'impero, in AA.VV., Venezia dalla prima crociata alla conquista di Costantinopoli del 1204, Firenze 1965, pp. 51-70.
18. Questa cronologia è ben dipanata da Gina Fasoli, Nascita di un mito, in AA.VV., Studi storici in onore di Gioacchino Volpe, I, Firenze 1958, pp. 473-475 (pp. 445-479).
19. Edward Muir, Civic Ritual in Renaissance Venice, Princeton 1981 (trad. it. Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984), pp. 103-119.
20. Per questo testo e i diversi sviluppi della sequenza prima di questa cronaca, v. l'appendice di Giovanni Monticolo a Marin Sanudo, Le vite dei Dogi, a cura di Giovanni Monticolo, in R.I.S.2, XXII, 4, 1900-1911, pp. 340, 370, 455, 485, 520. Per la redazione ad opera di Castellano da Bassano di un poema in esametri latini su questo soggetto, v. G. Arnaldi-L. Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana, p. 286.
21. Per la translatio cito soltanto la bibliografia essenziale: Nelson Mccleary, Note storiche ed archeologiche sul testo della "Translatio sancti Marci", "Memorie Storiche Forogiuliesi", 27-29, nrr. 10-12, 1931-1933, pp. 233-264. Per i legami di questo episodio con una cronologia abbastanza generale, cf. Hans C. Peyer, Stadt und Stadtpatron im mittelalterlichen Italien, Ziirich 1955; Antonio Niero, I santi patroni, in Il culto dei santi a Venezia, a cura di Silvio Tramontin, Venezia 1965, pp. 75-98; Silvio Tramontin, San Marco, ibid., pp. 41-73; Id., Realtà e leggenda nei racconti marciani veneti, "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 35-58; Patrick Geary, Furta Sacra: Thefis of Relics in Centrai Middle Ages, Princeton 1978, pp. 108-III.
22. Si noti come la cronaca di Giovanni diacono sia assai laconica sulla translatio. Cf. G. Fasoli, I fondamenti della storiografia veneziana, p. 24.
23. Antonio Niero, Questioni agiografiche su San Marco, "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 3-27.
24. Andreae Danduli Chronica, p. 10.
25. G. Fasoli, I fondamenti della storiografia veneziana, p. 29.
26. Antonio Carile, La cronachistica veneziana (secoli XII-XIV) di fronte alla spartizione della Romania nel 1204, Firenze 1969, pp. 172-182. Per le profezie sulla presa di Costantinopoli, cf. Agostino Per-'Fusi, Le profezie sulla presa di Costantinopoli (1204) nel cronista veneziano Marco (c. 1292) e le loro fonti bizantine (Pseudo Costantino Magno, Pseudo Daniele, Pseudo Leone il Saggio), "Studi Veneziani", 21, 1979, pp. 13-46.
27. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 16, c. 128.
28. Ibid.
29. Wolfgang Wolters, Storia e politica nei dipinti di Palazzo Ducale. Aspetti dell'autocelebrazione della Repubblica di Venezia nel Cinquecento, Venezia 1987, pp. 162-165.
30. Agostino Pertusi, "Quedam regalia insignia". Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il Medioevo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 3-123. V. anche E. Muir, Civic Ritual, pp. 103 ss. Questi trionfi sono portati in occasione delle principali processioni pubbliche: le andate del doge. Essi sottolineano l'indipendenza del potere veneziano.
31. W. Wolters, Storia e politica nei dipinti di Palazzo Ducale, pp. 166-167: Antonio Veneziano, Pisanello e Gentile da Fabriano nel 1422, Gentile e Giovanni Bellini. Alvise Vivarini, Vittore Carpaccio e Pietro Perugino tra la fine del XV secolo e gli inizi del XVI.
32. Tranne la damnatio memoriae che concerne Martin Faliero.
33. V. al proposito Frederic C. Lane, The Enlargement of the Great Council of Venice, in Florilegium Historiale. Essays Presented to Wallace K. Ferguson, a cura di John G. Rowe-W.H. Stockdale, Toronto 1971, pp. 236-274. Per un'interpretazione differente della serrata, cf. Guido Ruggiero, Modernisation and the Mythic State in Early Renaissance Venice: The Serrata Revisited, "Viator", 10, 1979, pp. 245-256; Gerhard Rosch, Der venezianische Adel bis zur Schliessung des Grossen Rats. Zur Genese einer Führungsschicht, Sigmaringen 1989.
34. Sui riti propiziatori dell'elezione, v. Gina Fasoli, Liturgia e cerimonia ducale, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, I, 1, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1973, pp. 261-295.
35. W. Wolters, Storia e politica nei dipinti di Palazzo Ducale, pp. 223-227.
36. Gian Domenico Romanelli, Venezia tra l'oscurità degli inchiostri. Cinque secoli di cartografia, introduzione al catalogo Venezia, piante e vedute, a cura di Susanna Biadene, Venezia 1982.
37. Per l'affermazione di Rialto come centro economico principale e per i suoi rapporti con S. Marco, cf. E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", pp. 165-194.
38. Bernard De Breydenbach, Le saint Voiage et pèlerinage de la cité Saincte de Hierusalem, s.l. 1489.
39. Siegmund Feyerabend, Reyssbuch dess heyligen Lands das ist ein grundtliche Bescreibung aller und jeder Meer und Bilger fahrten zum heyligen Lande, Frankfurt-am-Main 1584, p. 52.
40. Così Pietro Casola, Pierre Barbatre, William Wey, Georges Lengherand, l'Anonimo del 1480, ecc.
41. Sono descritti da William Wey (The Itineraries of William Wey [...] to Jerusalem [...] and to James of Compostelle, London 1857, p. 88), da Georges Lengherand (Voyage de Georges Lengherand, mayeur de Mons en Hainaut, à Venise, Rome, Jérusalem, Mont Sinaï et le Kayre, 1485-1486, a cura del marchese di Godefroy Meniglaise, Mons 1861, p. 45) e da Denis Possot (Le voyage de la Terre sainte composé par maître Denis Possot, a cura di Charles Schefer, Paris 1890, p. 92).
42. "E fu molto meravigliato di vedere [...] tanti campanili e tanti monasteri [...] Ed è cosa strana di vedere delle chiese così belle e così grandi [...]" (Philippe De Commynes, Mémoires, Paris 1942, p. 865).
43. The Itineraries of William Wey, p. 85.
44. B. De Breydenbach, Le saint Voiage.
45. "E tiene il detto dogato per tutta la sua vita, se non trovano qualcosa per la quale debba essere destituito"; "senza i maggiorenti non può fare alcuna cosa" (Voyage à Jérusalem de Philippe de Voisins, seigneur de Montaut, a cura di Philippe Tamisey de Larroque, Paris 1883, p. 18).
46. The Itineraries of William Wey, pp. 84-88.
47. S. Feyerabend, Reyssbuch, p. 52.
48. "Per molto poco fanno morire le persone, tanto importanti quanto misere, tanto della città quanto forestiere" (Charles Schefer, Le Voyage de la saincte cyté de Hierusalem avec la description des lieux, ports, villes, citez et aultres passaiges, fait l'an mil quatre cens quatre vingtz. Recueil de voyages et de documents pour servir à l'histoire de la géographie depuis le XIIIème siècle jusqu'à la fin du XVlème siècle, Paris 1882, p. 15).
49. P. De Commynes, Mémoires, p. 865.
50. Descriptio Terrae Sanctae et regionum finitarum auctore Borchardo monacho germano, familiae Dominicanae [...]. Item itinerarium hierosolymitum Bartholomei de Saligniaco equitis, Magdeburg 1587.
51. La sola lettura di Georges Atkinson, La littérature géographique française de la Renaissance. Répertoire bibliographique, Paris 1927, prova la grande diffusione di questi testi.
52. Vovaue de Georues Lenuherand. p.33.
53. "E fu molto meravigliato di vedere l'aspetto di questa città e un così gran numero di case, tutte in mezzo all'acqua" (P. De Commynes, Mémoires, p. 865)
54. Lionello Puppi, Verso Gerusalemme, Roma-Reggio Calabria 1982.
55. Manfredo Tafuri, La "nuova Costantinopoli". La rappresentazione della "renovatio" nella Venezia dell' Umanesimo (1450-1509), "Rassegna. Problemi di Architettura dell'Ambiente", 9, 1982, pp. 25-38.
56. G. Arnaldi-L. Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana, pp. 272-337, per l'esempio della cronaca di Rolandino.
57. Franco Gaeta, Storiografia, coscienza nazionale e politica culturale nella Venezia del Rinascimento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 11-12 (pp. 1-91).
58. David Robey-John E. Law, The Venetian Myth and the "De Republica Veneta" of Pier Paolo Vergerio, "Rinascimento", ser. II, 15, 1975, pp. 3-59.
59. F. Gaeta, Storiografia, p. 17.
60. Felix Gilbert, Biondo, Sabellico and the Beginnings of Venetian Official Historiography, in Florilegium Historiale. Essays Presented to Wallace K. Ferguson, a cura di John G. Rowe-W.H. Stockdale, Toronto 1971, pp. 275-293; Gaetano Cozzi, Cultura, politica e religione nella "pubblica storiografia" veneziana del '500, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 5-6, 1963-1964, pp. 215-294.
61. Gianni Zippel, Lorenzo Valla e le origini della storiografia umanistica a Venezia, "Rinascimento", 7, 1956, pp. 93-133.
62. Patricia H. Labalme, Bernardo Giustiniani: A Venetian of the Quattrocento, Roma 1969.
63. Domenico Morosini, De bene instituta re publica, a cura di Claudio Finzi, Milano 1969; per il commento di questa edizione e l'analisi dell'opera di Morosini, cf. Gaetano Cozzi, Domenico Morosini e il "De bene instituta re publica", "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 405-458. Uno studio del programma di Morosini si trova in Margaret L. King, Venetian Humanism in an Age of Patrician Dominante, Princcton 1986 (trad. it. Umanesimo e patriziato a Venezia nel Quattrocento, Roma 1989), p. 150, che sottolinea, come Cozzi, l'intenzione critica di Morosini.
64. Hans Baron, The Crisis of Early Italian Renaissance: Civic Humanism and Republican Liberty in an Age of Classicism and Tyranny, Princeton 19662.
65. Id., The Anti-Florentine Discourses of the Doge Tomaso Mocenigo (1414-1423): Their Date and Partial Forgery, "Speculum", 27, 1952, pp. 323-342.
66. F. Gaeta, Storiografia, pp. 47-49.
67. Per la seconda e la terza generazione di umanisti a Venezia, v. M.L. King, Venetian Humanism.
68. Paolo Morosini, Defensio venetorum ad Europae principes contra obtrectatores, in Giuseppe Valentinelli, Bibliotheca manuscripta ad S. Marci Venetiarum, I-VI, Venezia 1868-1876: III, pp. 189-229.
69. Hans Baron, The Crisis, pp. 62-64.
70. La crisi fiorentina alimenta dalla fine del XV secolo una serie di analisi che paragonano le due città: v. Renzo Pecchioli, Il "mito" di Venezia e la crisi fiorentina intorno al 1500, "Studi Storici", 3, 1962, pp. 451-492, e Angelo Baiocchi, Venezia nella storiografia fiorentina del Cinquecento, "Studi Veneziani", n. ser., 3, 1979, pp. 203-281. Per l'opposizione a Venezia, per esempio, di Machiavelli, cf. Felix Gilbert, Machiavelli e Venezia, "Lettere Italiane", 21, 1969, pp. 389-398.
71. Federico Chabod, Venezia nella politica italiana ed europea del Cinquecento, in AA.VV., La civiltà veneziana del Rinascimento, Firenze 1958, pp. 27-55. Lo studio di Franco Gaeta, Alcune considerazioni sul mito di Venezia, "Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance", 23, 1961, pp. 548-575 ha rappresentato la prima tappa importante di questa analisi. V. inoltre Lester J. Libby, Venetian History and Political Thought after 1509, "Studies in the Renaissance", 20, 1973, pp. 7-45; Felix Gilbert, Venice and the Crisis of the League of Cambrai, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1974, pp. 274-292.
72. Così il Dialogus de Republica Venetorum del fiorentino Donato Giannotti (in Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae, a cura di Johannes Georgius Graevius, V/1, Lugduni Batavorum 1722, coll. 1-124). Si v. anche Felix Gilbert, The Date of the Composition of Contarini's and Giannotti's Books on Venice, "Studies in the Renaissance", 14, 1967, pp. 127-184. Il De Magistratibus et Republica Venetorum del veneziano Gasparo Contarini è pubblicato nel 1543 e ristampato nel 1544, 1547, 1589 e 1592 a Parigi, Basilea e Venezia. Questo trattato ebbe un grande successo, testimoniato anche dalle traduzioni italiana e francese e dalle loro rapide riedizioni: cf. Des magistratz et République de Venise composé par Gaspar Contarini, tradotto da Jean Charrier, Paris 1544 (e Lyon 1557); tra le versioni italiane possiamo citare quelle veneziane del 1544, 1564 e 1591. Per limitarsi a un solo esempio, ma significativo, i 6 libri della République di Jean Bodin assegnano un ruolo molto importante a Venezia. Il suo Stato è "aristocratico, ma condotto in modo armonioso". Pur non rappresentando la forma più perfetta di regime politico, raggiunta soltanto dalla monarchia ereditaria, la Repubblica di Venezia riesce a conciliare istituzioni diverse, associando elementi popolari a un governo aristocratico. La Repubblica "bella e fiorente" vi trova il pegno della sua "conservazione". V. Les Six Livres de la République de Jean Bodin, Paris 1577, p. 751; cf. inoltre Pierre Mesnard, L'essor de la philosophie politique au XVIème siècle, Paris 19512, p. 516.
73. V., tra gli altri: A. Baiocchi, Venezia nella storiografia fiorentina, pp. 203-281; William J. Bouwsma, Venice and the Defence of Republican Liberty: Renaissance Values in the Age of Counter Reformation, Berkeley 1968 (trad. it. Venezia e la difesa della libertà repubblicana. I valori del Rinascimento nell'età della Controriforma, Bologna 1977); Id., Venice and the Political Education of Europe, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1974, pp. 445-466. Per una sintesi bibliografica, cf. Gino Benzoni, Panoramica su Venezia (secc. XVI e XVII), "Critica Storica", 13, 1976, pp. 128-158.