Immagini di Venezia in Terraferma: nel '500 e primo '600
L'arco cronologico che dal primo Cinquecento conduce fin verso i decenni iniziali del secolo successivo, oggetto di questo volume, costituisce per molti aspetti un periodo cruciale per la storia della Repubblica di Venezia. In particolare, ed è quello che qui maggiormente ci interessa, anche e soprattutto per quanto concerne la sua dimensione di Stato territoriale, con trasformazioni profonde intervenute ad approfondire ed ampliare l'insieme dei rapporti tra capitale e province suddite dello "Stato da Terra". Progressivamente attenuata quella bipolarità di interessi che aveva fino ad allora accordato ai domini "da Mar" una sorta di tradizionale preminenza, indotta di contro ad un coinvolgimento sempre più massiccio in quella Terraferma soggetta, nelle campagne della quale i suoi patrizi più cospicui e influenti avevano preso a dirottare con sempre maggior entusiasmo ambizioni e ingenti disponibilità finanziarie, in tal modo sottratte ai commerci, e dalle risorse della quale andava nel contempo sviluppando una dipendenza ormai preponderante, Venezia proprio a partire dal XVI secolo portò infatti a compimento il suo processo di adattamento da potenza prevalentemente marittima e mediterranea a stato territoriale italiano, instaurando per forza di cose legami assai più diretti e articolati rispetto al passato con la realtà complessa dei territori sudditi (1).
Cominciarono pertanto così, per le città come per i borghi e i comuni rurali, per le aristocrazie urbane o signorili come per le altre componenti sociali di Terraferma, ad insorgere quei problemi e a dischiudersi quegli spazi, entrambi strettamente connessi al rinvigorirsi di una presenza statale non più prevalentemente nominale, che per i territori della Repubblica erano stati nei fatti rinviati di più di un secolo, e che dall'individuazione da parte veneziana della Terraferma come spazio chiave nell'orizzonte dei propri interessi venivano ora portati alla ribalta nella loro profonda e talora scabrosa consistenza. Ed è quindi evidente, in questo contesto in cui i rapporti e i contatti diretti tra governati e governanti si facevano via via più ampi e concreti, come proprio a partire dal XVI secolo assuma grande e in parte nuovo rilievo il problema dell'atteggiamento dei sudditi nei confronti della Serenissima Repubblica, delle opinioni su Venezia e sui Veneziani circolanti in Terraferma al di là dell'indirizzo della propaganda e della trattatistica ufficiali, tetragone nel confinare questi temi su uno sfondo indistinto contrassegnato da una vaga e sovente agiografica indeterminatezza.
Anche nel '500, nel secolo in cui il Dominio "da Terra" andava con tutta evidenza assumendo una preponderante importanza all'interno di quell'organizzazione statale che aveva nella città lagunare e nel suo patriziato il proprio centro, la Terraferma non raggiunse infatti nel dibattito politico quella rilevanza che veniva invece acquisendo in concreto. Certo, la diffusione del mito di Venezia, che nella sua fase precedente si era avvalsa di temi quali l'eccezionalità del sito, la libertà originaria o la necessità antiottomana della stessa nel quadro provvidenziale degli eventi, si colorò dal dopo Cambrai delle valenze e dei significati più propriamente politici dell'ideologia libertaria e repubblicana umanistico-rinascimentale (2). L'enorme distanza tra il centro lagunare e la Terraferma sottomessa non conobbe tuttavia alcun ridimensionamento, mantenendo quest'ultima le immutate sembianze di una sorta di appendice sottoposta e comunque ben distinta dalla città-stato dominante. Come nessun effettivo rilievo continuò ad essere dato ai territori soggetti nelle riflessioni sulla struttura e sull'organizzazione politico-istituzionale della Repubblica marciana, in una prospettiva che nei fatti non ha mancato di esplicare assai a lungo la sua condizionante valenza, riflettendosi, seppur con le dovute eccezioni, nella produzione storiografica di argomento veneto fin ben addentro al nostro secolo (3).
Solo negli ultimi decenni, com'è stato da più parti osservato (4), la Terraferma ha in realtà attirato con crescente frequenza l'attenzione e l'interesse degli studiosi, fino a perdere dal punto di vista storiografico la sua secolare subalternità e ad acquisire invece un ruolo di tutto rilievo negli studi dedicati alla Repubblica di Venezia. In questo capitolo, tenendo presenti e nel contempo mantenendo sullo sfondo anche per evidenti esigenze di spazio tutte le tematiche (economiche, politico-istituzionali, giuridiche o sociali) che hanno del resto già conosciuto significativi approfondimenti, ci si soffermerà pertanto a tentare di cogliere, negli scritti e soprattutto nelle vicende concrete, i caratteri di fondo della concezione di Venezia e dei Veneziani riscontrabile in Terraferma in questo fondamentale periodo, sottolineando e però tentando di trascendere le fluttuazioni che l'atteggiamento dei sudditi, tra momentanee adesioni e ripulse, conobbe nei confronti della Dominante.
Proprio a partire dal XVI secolo, è stato recentemente puntualizzato (5), prese avvio tra Venezia e le province soggette una fase di progressiva simbiosi destinata, tra differenze profonde e reciproci influssi, tra interessi contrastanti e pragmatici accomodamenti, a protrarre i suoi effetti anche oltre la caduta della Repubblica. Rivisitare questo rapporto alla luce delle considerazioni, degli atteggiamenti e delle aspettative dei sudditi, tentando di evidenziare quanto in questo senso traspare al di là delle immagini convenzionali dei rapporti gerarchici e della trattatistica ufficiali, rappresenta pertanto lo scopo principale di queste pagine.
"Serenissimo principe", "invittissima Repubblica", "inclito e pientissimo dominio", "glorioso e felicissimo imperio", "giusto e amorevole governo", "nobilissimi e benigni governanti", "città doviziosa e splendida". Queste, dopo le reticenze e gli imbarazzati silenzi del convulso periodo successivo alla disfatta di Agnadello, le immagini apologetiche e stereotipate che i documenti ufficiali ci tramandano lungo il Cinquecento circa i sentimenti e le opinioni dei sudditi di Terraferma nei confronti della Repubblica di Venezia, nella sua accezione più vasta di Stato territoriale, città dominante e patriziato quale ceto dirigente. Né, se si eccettuano taluni penetranti quanto sporadici approfondimenti, una realtà diversa riflettono per gran parte del secolo la pur vasta produzione degli storici municipali o le stesse relazioni dei rettori deputati al governo dei centri principali del Dominio (6). I Bergamaschi, assicurava ad esempio quasi commosso il capitano Giovanni Michiel nel giugno del 1555, "dove vedono spiegar li stendardi et odeno il nome da San Marcho, tuti fano segno de alegreza" (7). A Brescia, nel 1527, il podestà Nicolò Tiepolo aveva osservato "tale dimonstratione di affetto et fede, non con parole solamente ma cum gli effetti prompti, che maggiore da subditi sperare non si poria" (8); mentre Marc'Antonio Morosini, appena tornato nel dicembre del 1566 dall'aver ricoperto la carica di capitano a Verona, riferiva al "Serenissimo Principe" di aver "conosciuto in essa città una grande fideltà sì nelle attioni pubbliche come private, e questa fede non solamente è nella nobiltà, ma in tutto il resto di quel suo popolo devotissimo" (9). E se nel caso di Treviso, sostenevano quasi concordi il podestà Bartolomeo Capello nel marzo del 1577 e lo storico Giovanni Bonifacio qualche anno dopo, la devozione filoveneziana molto dipendeva dal pragmatico realismo di abitanti che "non essendo in fortuna tale che potessero alla libertà aspirare, bramavano di vivere in tal soggezione che, se non con gloria, almeno con tranquillità potessero le loro private sostanze sicuramente godere" (10), a Belluno la riverente "obedienza et ossequio alli Rettori" si spingeva fino all'usanza addirittura eccessiva, e comunque ambigua ed economicamente perniciosa, di "erigere statue di bronzo" ad imperitura memoria di chi aveva rappresentato in quei luoghi cotanto Dominio (11).
Ritmate sulle note della propaganda ufficiale, ingabbiate dalle rigide architravi di quel rilucente mito di Venezia alla cui edificazione peraltro non concorrevano direttamente (12), le opinioni dei sudditi, dall'Isonzo all'Adda, dai palazzi ai casoni di paglia, ci appaiono pertanto invariabilmente ed intimamente inclini alla più ferma e solo talvolta interessata fedeltà. Né ci soccorre in alcun modo l'analisi avvertita dei pur numerosi scritti di autori coevi, da Giannotti a Cavalcanti o a Botero, più o meno espressamente dedicati alla Repubblica marciana e alle sue strutture di governo (13). Opere, per non menzionare che le più note, certo diverse per motivazioni, argomentazioni e spessore; e tuttavia simili tra loro nel percorrere il solco idealizzante or ora tracciato da Gasparo Contarini nel suo De magistratibus et republica Venetorum, nell'indugiare insomma sulle istituzioni veneziane, per cogliere in esse una ormai esemplare sopravvivenza degli ideali repubblicani umanistico-rinascimentali o la perfetta rispondenza della struttura politica del governo misto agli ideali aristotelici, e nell'omettere invece qualsiasi riferimento all'effettivo scandirsi dei rapporti tra la città-stato e le sue province suddite. Quasi che la stringata affermazione del patriottico prelato veneziano - a veder suo quello marciano era l'unico dominio a reggersi non sulla forza ma sul consenso, e per le città di Terraferma null'altro aveva significato se non un recupero di libertà e una garanzia per la loro difesa - da sola avesse aprioristicamente e definitivamente risolto l'argomento, esentando chiunque dal soffermarvicisi oltre (14). E se da questi ci si avvicina ad altri autori più scopertamente apologetici, divulgatori instancabili delle magnificenze artistiche, politiche, culturali, ambientali e persino climatiche di Venezia quali Francesco Sansovino, Pietro Aretino o Andrea Marini (15), la celebrazione del centro lagunare si coniuga ancor più strettamente con la totale subordinazione delle città e delle province suddite, confermando ulteriormente quel senso di distacco e di alterità tra la capitale - isola geografica e politica - e la Terraferma sottomessa che né crescenti convergenze né progressivi assestamenti politici riusciranno mai del tutto a colmare, e che per qualcuno di loro si colorava addirittura di valenze etnico-antropologiche, data la differenza incolmabile esistente dalle origini tra una zona lagunare unica depositaria delle vestigia dell'antica civiltà e una Terraferma abitata da popoli "discesi da i barbari" (16).
Eppure si dovevano proprio ad approfondimenti autocritici, al livore esasperato delle polemiche interne di fronte al paventato disastro e alle riflessioni da esso suscitate, le osservazioni che solo qualche tempo prima, nei decenni a cavallo tra '400 e '500, avevano portato alla luce l'atteggiamento e le considerazioni dei sudditi verso governanti non sempre "pientissimi e benigni", ma talvolta numerosi, protervi e persino rapaci.
Con una sola e significativa eccezione friulana, quella di Jacopo da Porcia, che anzi anticiperà di qualche anno il filo conduttore delle riflessioni veneziane del periodo di crisi (17), fu infatti non tanto da parte dei sudditi di Terraferma, quanto piuttosto ad opera di alcuni patrizi veneziani, che si provvide in quegli anni a rendere pubbliche e in certo qual modo ufficiali le manchevolezze del governo marciano e l'esistenza di disaffezioni e di fondate ragioni di rimostranza da parte dei sudditi.
"Lux orta est in tenebris", era stato scritto in molti luoghi di Padova a commentare il crollo del dominio veneziano sotto i colpi dei collegati di Cambrai (18). A Vicenza era bastata la comparsa di uno sparuto drappello guidato da un fuoriuscito locale che millantava un improbabile mandato imperiale perché fossero divelti i simboli del potere marciano e "levate le insegne alemanne" (19). Né, con la sola eccezione di Treviso, diversamente era andata nelle altre città principali, da Verona a Brescia, da Bergamo a Crema (20). Annichiliti dalla repentina dissoluzione del loro Dominio, investiti dall'astio e dal risentimento che da ogni parte sembrava riversarsi sulla Repubblica (21), turbati dalla torva minaccia di un pontefice che aveva giurato di ridurli "tutti pescatori siccome foste" (22), ancor più colpiti dalle manifestazioni di giubilo che in molti luoghi dello "Stato da Terra" avevano accompagnato la precipitosa fuga di spauriti rettori e la sprezzante distruzione del leone alato, alcuni patrizi non avevano dunque mancato di ammettere pubblicamente l'esistenza nella Terraferma soggetta di atteggiamenti e propensioni inequivocabilmente ostili, spingendosi fino ad evidenziare le proprie responsabilità nel tentativo di cercare per essi una spiegazione plausibile.
Quantunque a sua volta privo di un senso unitario dello Stato, ed incline invece alla tradizionale prospettiva veneziana di considerare la Terraferma come un'appendice ben distinta dalla città-stato dominante, fin dal cadere del XV secolo Domenico Morosini, un patrizio che aveva ricoperto incarichi di sicuro rilievo nel governo della Repubblica, aveva composto un'opera - il De bene instituta re publica - nella quale traspariva un'attenzione in gran parte nuova verso la situazione e le aspirazioni dei sudditi, finendo per aprire squarci profondi nell'agiografica piattezza delle relazioni ufficiali. Troppi rettori, a suo dire, erano stati inviati da un capo all'altro del Dominio, accentuando nei sudditi un senso di oppressione via via accresciuto dalle manchevolezze e ruberie di cui costoro, sovente provenienti, specie per quanto riguardava il governo dei centri minori, da strati non proprio floridi del patriziato, si rendevano quasi fisiologicamente protagonisti. E soprattutto troppi gli acquisti fondiari dei Veneziani, troppe le ostentazioni di ricchezza e potere e le sopraffazioni per non suscitare quel profondo e radicato malcontento che doveva di lì a poco manifestarsi in tutto il suo clamore (23).
"Se avemo concità l'ira de Dio contra [era giunto ad affermare il doge Leonardo Loredan nell'aprile del 1513>, e venuti in odio ai nostri subditi per le pompe si feva e carete e altre cose no da zentilhomeni, come si soleva far, ma da signori, e vegnir a lite per confini" (24). E queste convinzioni autocritiche, dominanti anche negli scritti di Girolamo Priuli o Andrea Mocenigo e affioranti qua e là pure in quelli di Marin Sanudo (25), l'idea che si stessero scontando in quei frangenti errori ormai vecchi di un secolo, che ci si fosse insomma immersi fin dall'acquisto della Terraferma in una spirale in cui si era via via smarrita, con la vocazione prevalentemente marittima e mercantile, l'essenza stessa di Venezia, se da un lato significavano il riemergere di una corrente di pensiero che ancora si collegava al perentorio ammonimento "mare colere terramque postergare" del cancelliere ducale Raffaino Caresini verso la fine del '300 o alle orazioni antiespansionistiche del vecchio doge Tommaso Mocenigo nel secondo decennio del '400 (26), dall'altro rappresentavano anche la prima e assai sporadica occasione in cui si prendevano in considerazione, cercando per essi una non manieristica motivazione, i sentimenti dei sudditi nei confronti della Dominante, le loro aspettative e le loro insoddisfazioni, i loro aneliti di giustizia o le loro rivendicazioni di un maggior coinvolgimento nella vita politica e nelle istituzioni dello Stato.
Dalla fine dell'emergenza cambraica, dalla difficoltosa riestensione della sovranità marciana sulla totalità del proprio precedente Dominio, con la sola rinuncia a quelle terre di Romagna che avevano rischiato di pregiudicarne la conservazione, su questi temi sembra infatti calare il silenzio della restaurazione più completa. Ricostituito lo "Stato da Terra" e gradualmente ripristinata in esso un'apprezzabile normalità, sostanzialmente accantonati fedeltà e tradimenti, sacrificando la prima e scordando i secondi sull'altare della stabilità e della continuità politica (27), il tema complessivo dei rapporti tra province suddite e capitale, e di conseguenza tra governati e governanti, continuò a non figurare tra quelli frequentati dai sudditi, e venne del tutto scomparendo dalle riflessioni e dalle opere dedicate a Venezia e al suo Stato da parte di autori locali e commentatori estrinseci.
Lo stesso Andrea Mocenigo dovette proprio alle convinzioni poc'anzi espresse, ed ora considerate tutt'altro che consone all'indirizzo ufficiale, l'accantonamento dalla carica di pubblico storiografo della Repubblica (28); mentre da Gasparo Contarini a Paolo Paruta, passando in questo senso attraverso i decenni e un numero assai più vasto di autori, si diffuse e consolidò quel mito di Venezia che, per quanto concerne l'inclusione al suo interno dell'atteggiamento dei sudditi nei confronti della Serenissima Repubblica, si ricollegava ancora una volta - e anzi, dato il mutato panorama politico e il forzato abbandono da parte veneziana di ogni ulteriore ambizione espansionistica, con più forza e credibilità rispetto a prima - all'antico apologo della protectio regni e, di conseguenza, all'immagine tradizionale del sovrano saggio, giusto garante di pace, riparatore dei torti e protettore paterno e disinteressato di tutti i sudditi, dai nobili ai contadini, dai ricchi borghesi ai popolani, già diffusa dal governo veneto nel suo Dominio di Terraferma nel corso del Quattrocento (29).
È su questi contenuti fondamentali, la cui propagazione era stata demandata durante il primo secolo di dominazione tanto alla pubblica storiografia quanto a lapidi ed epigrafi apparse ad adornare palazzi pubblici e piazze di centri grandi e piccoli del Dominio (30), che gran parte delle testimonianze ufficiali convergono nel corso del '500 nel caratterizzare l'essenza e la preponderante funzione del governo veneto e nel motivare, filtrandone in questa prospettiva sentimenti e propensioni, il generale e pressoché consequenziale gradimento dei sudditi nei suoi confronti. E "convenevole ad un giustissimo Principato come è questo", argomentava ad esempio con enfasi il patrizio Francesco Tagliapietra, riferendo in senato nel luglio del 1567 circa la fulgida immagine del dominio veneto che si era adoperato a propagandare presso i sudditi durante il periodo trascorso a Brescia in qualità di podestà, tenere "in sé raccolti i soi soggetti con pari affetto come i propri figlioli, essendo questa opinione de gli antichi filosofi, chel Principe ben instituito procura molto più il commodo et il bene de suoi sudditi chel suo proprio, insomma è comune padre de tuti loro" (31).
Ed ecco pertanto che i Bergamaschi, lo assicurava convinto nel maggio del 1525 l'appena rientrato podestà Lorenzo Venier, manifestavano concordi "tanto contento et se troveno sì ben esser governati che ogni dì ringraziano Idio di trovarsi soto la felicissima instantia di questo Stado, et questa è comun opinion quasi de tuti, chi per la afection grandissima porta a questo Stado et chi etiam per commodo proprio" (32). Mentre dal canto suo la popolazione bresciana, sottolineava con implacabile consequenzialità Francesco Tagliapietra nella sua succitata relazione, non poteva che fare continua mostra "de conoscer bene la grandezza et potere di questo Stato, il buono et savio governo di Vostra Serenità, et d'esserle fidelissima et molto devota, perché di continuo sentono il beneficio grande che hanno sotto la dolce ombra di questo felicissimo Impero, poiché godono già tanti anni in soma pace et quiete i beni et facultà loro mercè del buono et savio governo de Vostra Serenità" (33).
Pace, giustizia e tranquillità, fine dell'instabilità politica foriera di odi di fazione e rancori interni, saldezza e sicurezza sociale. Sono queste, rappresentate e celebrate nei dipinti di un palazzo Ducale non più solo sede del potere statale, ma quasi centro irradiante armonia e giustizia realizzate (34), le prerogative principali che fanno di Venezia e del suo ceto dirigente un insieme caratterizzato da una quasi divina perfezione e del loro il più auspicabile, felice e giusto dei domini. Ed ecco quindi i solerti rettori, talora affiancati da letterati e storici municipali, raccogliere da un capo all'altro della Terraferma soggetta e trasmettere nella capitale svariate ed indubitabili prove della più ferma e grata affezione, sovente con tale entusiasmo da palesare oltre ogni dubbio il loro effettivo intendimento, volto non tanto a dar conto con completezza e precisione degli orientamenti e delle propensioni dei sudditi, quanto piuttosto ad inscenare, mediante un'univoca e aprioristica interpretazione del loro sentire, un'autoglorificante apologia di una Serenissima Repubblica il cui nome "è così celebre et grande quanto de alcun'altra che fosse giammai", e il cui dominio "è tenuto [...> il più giusto governo che hoggidì si ritrovi tra cristiani et per la inconcussa iustitia che administra Vostra Serenità et per le tante illustrissime et singolarissime virtù le quali risplendono intorno al suo nobilissimo animo" (35). Cosicché bisognerà attendere gli scritti di un dichiarato avversario della crescente influenza del mito di Venezia come Jean Bodin per assistere non solo alla demitizzazione della formula del governo misto e degli ideali libertari e repubblicani ad essa connessi, ma anche ad un'effettiva ripresa del tema relativo ai rapporti tra Stato e sudditi del Dominio, per vedere rammentare le tutt'altro che edificanti disaffezioni del dopo Agnadello, per veder insomma scomporre quell'artificiosa piattezza della fedeltà filoveneziana che era tornata ad uniformare storiografia e trattatistica ufficiale (36), al punto di consentire al capitano e vice podestà Pietro Sanudo di lodare ufficialmente il "bonissimo" animo della città e del contado di Padova nell'autunno del 1571, proprio in un periodo in cui i sentimenti antiveneziani avevano indotto il locale ceto dirigente a spingere il proprio altrimenti sterile risentimento fino ad ordire un vero e proprio complotto in combutta con gli Spagnoli (37).
Sappiamo molto, in realtà, circa la diffusione, la recezione e le caratteristiche dell'idea di Venezia in Italia, in Inghilterra o nei Paesi Bassi, disponendo in tal senso di indagini storiografiche accurate e puntuali (38). Assai poco, se si escludono appunto i decenni a cavallo tra '400 e '500 - anni peraltro di adesioni e ripulse spesso immediate, di schieramenti e pronunciamenti più contingenti che meditati -, sappiamo invece delle opinioni circa Venezia e il suo Dominio realmente presenti in Terraferma, nei territori che dal principio del '400 erano entrati a far parte integrante dello Stato che la città lagunare aveva ritenuto di dover costituire dapprima nel proprio entroterra, e poi nei territori "di là dal Mincio".
Gli stessi anni del conflitto cambraico, a ben vedere, non ci offrono infatti da questo punto di vista informazioni e spunti sicuramente attendibili. Numerosi osservatori di indubbio prestigio, Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini i più noti, avevano bensì rilevato a più riprese, talora con non poco stupore, gli innumerevoli episodi in cui il lealismo filoveneziano di popolari e contadini si era contrapposto alla manifesta ostilità delle aristocrazie nobiliari (39). Sarebbe tuttavia eccessivo tracciare in base a ciò una netta demarcazione politica e ideale, in termini di gradimento o rifiuto nei confronti di Venezia e della sua sovranità, tra le diverse componenti sociali di Terraferma; come altrettanto eccessivo sarebbe del resto, su di un simile fondamento, attribuire ad esse convincimenti e posizioni del tutto trascendenti la dimensione per molti versi congiunturale di quel concitato periodo.
Certo, con l'avvento del Dominio veneto orgogliosi esponenti di schiatte le cui origini affondavano molto addietro nei tempi si erano ritrovati nella condizione, di sudditi appunto, che molti di loro sentivano angusta, umiliante e assai stretta. E la sostanziale preclusione veneziana all'integrazione nelle strutture di governo delle aristocrazie soggette non contribuiva poi ad attenuare quel latente risentimento già di per sé innescato dal disciplinamento e dalle limitazioni che la sottomissione ad un superiore potere avrebbe comunque finito per comportare. Mentre per popolari e comitatini la sola presenza dell'autorità sovrana impersonificata dalla nuova entità statale già di per sé dischiudeva invece speranze e ambizioni in precedenza rigidamente precluse. Lo Stato regionale veneto si era tuttavia dimostrato sin da principio assai rispettoso nei confronti degli assetti istituzionali e dei rapporti di forza riscontrati nelle province annesse, limitando bensì in taluni dei loro aspetti più scopertamente degenerativi abusi e sopraffazioni a danno dei "poveri sudditi", ma nei fatti ratificando e consolidando con ulteriori autonomie, franchigie e privilegi un predominio nobiliare che nelle sue varianti urbane o signorili era rimasto pressoché inalterato, e basando anzi su di esso il proprio progressivo assestamento. Sicché non si palesarono in quei frangenti opposte e programmatiche predisposizioni a sottrarsi da un lato a un giogo pernicioso ed oppressivo e a sostenere dall'altro chi aveva apportato tangibili ed altrimenti inimmaginabili benefici.
"Soto lo Imperio [commentava con lucido realismo Girolamo Priuli> speravanno aver molte exentioni et iniunctione, privilegi, comodi et piaceri, come etiam godonno et fruiscono et hanno le terre franche dela Germania" (40). E fu dunque questa opportunità offerta dagli eventi, molto più che un consapevole progetto politico, ad indurre le aristocrazie di Terraferma a ripudiare la sovranità veneziana, a "dubitare" allo stesso modo "grandemente della potentia francese" (41) e a pronunciarsi invece pressoché compatte in favore di quell'augusto sovrano che, universale e remoto per definizione, pareva garantire autonomie e privilegi ancora maggiori di quelli in precedenza assicurati dalla pur prodiga Serenissima Repubblica. Come fu del resto soprattutto il timore di questi stessi esiti ad indurre i popolari e ancor più le popolazioni rurali a schierarsi a favore del governo veneto, autorità sovrana che, se non poteva proprio vantare nei loro confronti grandi meriti o eccessive benemerenze, rappresentava pur sempre un superiore centro di potere e mediazione, l'unico argine concepibile all'altrimenti assoluto predominio nobiliare.
La momentanea dissoluzione del potere centrale, fino ad allora pur sempre in grado di esercitare una funzione mediatrice capace di circoscrivere ed attutire i contrasti incanalandoli in una dimensione più propriamente istituzionale, aveva insomma portato alla luce i profondi e irrisolti conflitti di classe che permeavano la totalità delle province suddite. Ed è a questo scenario di aperto scontro sociale, in cui il lealismo o la ribellione nei confronti di Venezia costituivano tutt'al più uno sfondo indistinto, che occorre pertanto fare riferimento per comprendere ed interpretare nella sua effettiva portata il diverso atteggiamento delle componenti sociali di Terraferma durante il periodo bellico; specie se si considera che ambizioni, speranze, adesioni e ripulse smarrirono senz'altro il loro vigore di fronte ad un rapido ritorno alla normalità.
Privati di quel sostegno statale al cui supporto avevano ambiziosamente sperato di poter rinunciare, i ceti dirigenti di Terraferma, patriziati urbani o aristocrazie signorili, avevano oltretutto dovuto assistere al ridimensionamento dei loro poteri locali, scossi e minacciati dall'incalzare di comitatini e popolani che non avevano davvero esitato a pregiudicarne prerogative ed interessi, fino ad addivenire a sommarie giustizie (si pensi all'incendio del castello di Sterpo o alla "crudel zobia grassa", per non citare che i più noti tra gli esempi friulani (42)) o addirittura a penetrare in quegli altrimenti inaccessibili santuari del potere nobiliare che erano da tempo diventati i consigli cittadini. Sicché la restaurazione marciana, giunta ben presto a ristabilire ordine e gerarchie, contribuì subito ad assopire di molto le velleità indipendentistiche dei ceti privilegiati e a ricondurre ad essere soprattutto tali le fervide speranze degli "umilissimi subditi".
Ottenuto di perorare con successo in senato il ristabilimento di quei diritti di decima che i marcheschi distrettuali della Valle dell'Agno avevano disconosciuto alla sua casata durante la guerra, l'influente patrizio vicentino Giangiorgio Trissino, che dal canto suo in quegli stessi frangenti aveva spinto il proprio spregio della sovranità veneziana all'impudente eccesso di seguire in Germania l'imperatore Massimiliano, non dimostrò davvero alcuna ritrosia ad abiurare le precedenti inclinazioni e a riconoscere senz'altro che le "leggi divine" della Repubblica "non sono frutto dell'umano intelletto ma sono state inviate da Dio" (43). I capi riconosciuti della famiglia da Porto, potenti concittadini dell'illustre umanista che non avevano neppure atteso la fine del conflitto cambraico per riporre le insegne "alemanne" e rinalberare quelle marciane, non mancarono poco dopo di rinunciare a nome dell'intera casata ai numerosi privilegi imperiali di cui erano stati insigniti pur di dimostrare la loro definitiva sottomissione ad un solo "felicissimo Dominio" (44). E con questi altri e diversi esempi si potrebbero addurre, tutti comunque concordi nell'evidenziare, relativamente alla concezione di Venezia e della sua sovranità da parte dei sudditi, che gli unici incontrovertibili risultati del periodo cambraico furono in fondo rappresentati dall'ulteriore consolidamento, proprio perché fondato sulla persistenza di speranze e aspettative in gran parte tuttora inappagate, della devozione marchesca per quanto riguarda popolari e contadini, e dalla pattizia ma sostanziale accettazione della superiore sovranità marciana, rafforzata dal definitivo abbandono di ogni ambizione indipendentistica a fronte del sostegno e dei rinnovati privilegi statali, per quanto concerne invece patriziati e aristocrazie signorili.
Non che venissero del tutto a mancare manifestazioni di proterva alterigia da parte di qualche nobile suddito: Nicolò Loschi, a Padova per studiare diritto, discorrendo tra una lezione e l'altra dei suoi legittimi governanti aveva pensato bene di dichiarare pubblicamente, nel luglio del 1531, che "l'è un gran peccato che tanta nobiltà de zentilhomeni padoani, vicentini e trevisani siano sottoposti a questi barcharolli" (45). Né che queste ostentazioni di pretesa superiorità araldica, la cui importanza veniva forse accentuata dalla durezza delle ritorsioni statali l'impudente scolaro era stato condannato dal consiglio dei dieci a 5 anni di relegazione a Capodistria, e tra i membri del temuto consesso c'era anche chi avrebbe desiderato deportarlo a vita o addirittura impiccarlo "in Piazzetta" (46) -, si limitassero poi ai soli sfoghi verbali o alla composizione di proverbi e stornelli, giacché dall'Isonzo all'Adda le schiatte più illustri facevano a gara, tra l'occhiuto sdegno del governo centrale, nel coltivare e soprattutto ostentare fraterni rapporti con prestigiosi sovrani stranieri, dal canto loro tutt'altro che restii ad assecondare, con titoli onorifici, benefici o incarichi militari talvolta di grande rilievo, le aspirazioni tradizionalmente proprie al loro ceto (47). Mentre non mancava neppure chi, come il conte friulano Girolamo da Porcia, descrivendo nel 1567 la sua Patria mancasse di evocare con nostalgia i tempi andati in cui, mediante il Parlamento, la sua e le altre schiatte castellane la reggevano in "forma di Repubblica", rilevando del resto con chiarissima avversione i continui acquisti fondiari dei patrizi della Dominante e rivolgendosi di continuo ad essi col sin troppo ossequioso appellativo di "Signori veneziani" (48). Si trattava tuttavia di ostentazioni atte tutt'al più a sottolineare la scarsa integrazione tra patriziato lagunare e aristocrazie soggette nelle istituzioni statali, il distacco tuttora presente tra governanti e governati, tanto restii questi ultimi a riconoscere la loro condizione da cercare sterili e ormai anacronistiche rivalse sul piano dell'antichità del lignaggio e delle aderenze prestigiose o su quello della rievocazione nostalgica. In nessun caso, se si eccettua forse il particolare e già ricordato caso di Padova, di manifestazioni in grado di esprimere un orientamento schiettamente e risolutamente antiveneziano da parte dei ceti dirigenti sudditi, gruppi privilegiati in realtà assai ben disposti ad avvalersi della via via più approfondita conoscenza dei meccanismi di potere vigenti nella capitale e della persistente preponderanza locale per suffragare in concreto gran parte dei propri interessi. In fondo neppure di escludere una sorta di affezione e comunque di interiorizzazione del dato di fatto di interpretare un ruolo di sicura preminenza all'interno di una tanto celebrata Repubblica, di costituire in ogni caso per essa un imprescindibile punto di riferimento.
Fu soprattutto nell'orizzonte mentale dei ceti più deboli, urbani e ancor più distrettuali, che il combinarsi di speranze e aspettative assai di rado appagate con l'incessante propagazione governativa del mito del giusto e savio governo dette vita ad una concezione irriducibilmente e sovente aprioristicamente positiva di Venezia e del suo Dominio. "Baggiani", spiegava l'ormai quasi integrato Bortolo al cugino Renzo, erano definiti con orgoglioso compatimento dai Bergamaschi coloro i quali non avevano avuto in sorte la fortuna di essere sudditi dello Stato di San Marco (49). E quasi mistica sembra poi l'immagine di Venezia e del suo governo che traspare dalle suppliche con cui i "poveri subditi" di Terraferma partecipavano instancabili al proprio onnipresente, onnipotente e purtroppo non onniscente "Serenissimo Principe" le soperchierie e gli abusi di cui erano quotidianamente vittime, con una fiducia a tal punto tetragona da non essere scossa neppure dalla constatazione del ruolo di tutto rilievo interpretato nei loro racconti da potentissimi patrizi veneziani da un lato ormai in gran parte assimilati, per interessi e comportamenti, alle tradizionali aristocrazie terriere, ma dall'altro pur sempre membri di spicco di quel governo centrale alla cui protezione facevano appello (50). Nondimeno, anche molti "principalissimi subditi", nobili e privilegiati di varia natura che se adottavano la forma della supplica per comunicare con "Sua Serenità" era invariabilmente per lamentare vere o presunte infrazioni a privilegi e poteri ormai assurti a diritti, erano tutt'altro che immuni dall'avvertire il fascino ambiguo eppure imperioso della capitale, dal rapportarsi comunque ad essa come al centro del proprio mondo.
Certo, agli occhi dei ceti dirigenti di Terraferma l'immagine di Venezia e del suo patriziato riacquistava di colpo i caratteri espliciti della più prosaica concretezza; cosicché persino il momento propizio per avanzare istanze e rivendicazioni, come si evince dalla corrispondenza trasmessa nei luoghi di provenienza dai nunzi residenti nella capitale, era accuratamente scelto a seconda della presenza o meno nelle magistrature statali competenti di un sufficiente numero di patrizi di cui ci si fosse preventivamente assicurato il favore (51). Ma anche un piccolo principe come Bartolomeo Colleoni, che pure aveva impegnato molte energie nel costituire per sé e per gli eredi una compatta signoria locale il più possibile immune da disciplinamenti e controlli statali, al momento del trapasso aveva tuttavia preteso, con l'erezione di una statua, di eternare la sua memoria in piazza San Marco, proprio nel cuore politico e religioso di quella città alla cui superiore sovranità si era sovente mostrato recalcitrante (52). E a maggior ragione nei decenni successivi, andate via via rarefacendosi smisurate ambizioni e velleità indipendentistiche, a tale intima soggezione non si sottrassero pertanto, mostrandosi sensibili alle lusinghe della capitale o coltivando con cura rapporti sempre più stretti col suo patriziato, altri sudditi a loro volta di indubbio rilievo.
Del tutto persuaso che nel costante esercizio delle armi e nella fedeltà filomarciana poggiassero, così come ne erano derivate, le fortune della sua famiglia, nel 1546 il conte e giusdicente veronese Alessandro Pompei era giunto per esempio a dettare una precisa clausola testamentaria, rigorosa nell'escludere da ogni diritto successorio chi tra i suoi cinque figli avesse osato brandire le armi al servizio di "alcun Principe externo" (53). E a questo ancora una volta altri episodi si potrebbero aggiungere, tutti allo stesso modo in grado di evidenziare anche nei ceti privilegiati sudditi la preponderanza di un atteggiamento di fondo improntato certo ad una concezione pattizia e contrattualistica di Venezia e del suo Dominio, ma tuttavia permeato di una via via crescente attrazione centripeta.
Nei decenni a cavallo tra '500 e '600, caratterizzati dalla progressiva preminenza assunta nell'ambito delle magistrature governative da un gruppo di patrizi animato da una concezione ben altrimenti vigorosa della sovranità statale e delle prerogative ad essa spettanti, si verificarono bensì numerosi momenti di aperta tensione tra la Dominante e i principali tra i sudditi. La strisciante erosione, tra gli altri, di un privilegio ambito e fondamentale tuttora detenuto dai ceti dirigenti di Terraferma quale quello dell'amministrazione della giustizia, intrapresa dal governo centrale mediante le delegazioni ai reggimenti periferici o l'avocazione diretta alle magistrature della capitale di un novero sempre più vasto di cause (54), e più in generale la tendenza statale ad affermare e soprattutto esercitare con ben altra fermezza rispetto al passato le proprie competenze sovrane, provocarono per forza di cose strenue resistenze e reazioni assai risentite da parte di chi individuava in tali orientamenti una palese violazione di taciti accordi ritenuti intangibili. E tutto ciò non mancò pertanto di riflettersi in un'immagine di Venezia in quei frangenti alquanto intorbidita.
Non erano pochi nella nobiltà veronese, doveva ad esempio ammettere preoccupato il capitano Girolamo Corner nel maggio del 1612, "quelli che volentieri mutarebbono fortuna, dicendo che sia bella cosa essere almeno sudditi dei maggiori Principi del mondo", al punto che non si poteva più nemmeno provare "meraviglia se si sentono molti licentiosamente dire che la Republica teme più di veronesi che non fanno essi di lei et molt'altre parole odiosissime e superbe" (55). E non solo in tali manifestazioni di dichiarata opposizione si esplicava la torva ostilità con cui dai nobili consessi e dai centri di potere di Terraferma si guardava in quei frangenti a Venezia, poiché ad esse bisogna aggiungere gli ambigui ma ancor più eversivi atteggiamenti individuali di chi, come i feudatari bresciani conti Gambara o come non pochi castellani friulani, si incaponì per interi decenni a differire, con la cerimonia d'investitura, quell'atto formale di sottomissione al Dominio veneto ribadito fin dalla legge feudale del 1586 come il primo ed imprescindibile dei suoi doveri (56). Senza dimenticare poi che a ribadire la specificità della Terraferma e delle sue tradizioni contro i tentativi di assimilazione e omologazione veneziani concorsero anche, in un ambito nodale come quello del diritto, giuristi e uomini di legge non del tutto estranei alle istituzioni statali. Come il coneglianese Latino del Colle, che nel 1618 aveva dato alle stampe un breve trattato in cui, riprendendo la controversa questione se quello della Dominante dovesse o meno intendersi diritto comune per tutti i territori soggetti, non solo ribadiva la validità giuridica, del resto formalmente mai disconosciuta da Venezia, degli statuti ad impronta romanistica vigenti in Terraferma, ma negava altresì possibili integrazioni tra sistemi a tal punto antitetici (57).
Pur nella loro rilevanza, si trattava tuttavia di dinamiche tutt'altro che irriconducibili al quadro generale in precedenza tratteggiato. Di contrasti che se da un lato riproponevano l'irrisolta alterità tra un corpo sovrano esclusivamente veneziano e ceti dirigenti locali esclusi dalla direzione dello Stato e arroccati a difesa di prerogative e privilegi particolaristici (si pensi in questo senso al periodo dei maggiori conflitti col papato e all'Interdetto decretato da questi nel 1606: nel contempo il momento di più ferma affermazione della propria autorità sovrana da parte della Repubblica e quello di maggior distacco con province e popolazioni soggette costrette a sostenere il peso di una vertenza perniciosa, per lo più non condivisa e comunque assai poco compresa (58)), dall'altro confermavano però l'ormai definitivo consolidamento di un legame certo strutturalmente conflittuale, in quanto fondato su pretese e interessi mai del tutto assimilabili, ma in ogni caso solido e reciprocamente ineludibile.
"Tutta la nobiltà [testimoniava il capitano di Vicenza Nicolò Pizzamano proprio nel 1603> serve volentieri li rettori non solo per creanza, ma per loro commodo, perché si vanno insinuando nella gratia di quelli, con che si fanno lecito di dimandar tutte le cose" (59). E a maggior ragione dagli anni Trenta del '600, di molto smussati i contrasti in virtù di un graduale rientro, con la perdita d'influenza dei loro più convinti assertori, delle istanze più scopertamente accentratrici manifestate dalla Dominante nei decenni precedenti, i sentimenti nei confronti dei governanti anche dei più influenti tra i governati presero alquanto ad ammorbidirsi, fino ad indurre il nobile di origini friulane Pompeo Caimo, docente allo Studio di Padova, a fornire in assoluto uno dei primi contributi mai offerti da un suddito di Terraferma alla ripresa e alla propagazione del mito di Venezia, che nel suo Parallelo Politico [...>, dato alle stampe nel 1627, diveniva sotto ogni riguardo la migliore tra le Repubbliche, degna senz'altro di essere anteposta "a qualunque altra" comprese "le antiche" (60).
Con ciò, occorre puntualizzare, non erano destinate a svanire voci di aspro e talora sprezzante dissenso: nel 1636 i rettori di Verona avevano ad esempio ritenuto di dover informare il consiglio dei dieci circa le deprecabili ed incorreggibili abitudini dei conti Lucio e Girolamo Cappella, persino monotoni nel sostenere pubblicamente, a Verona e soprattutto nella loro giurisdizione di Salizzole, che "i Signori Venetiani sono peggio dei turchi, tiranni che scorticano li poveri sudditi e non sano governar o sono corrotti, vitiosissimi, buoni da niente che i popoli si doveriano solevarli contro" (61). I "popoli" dei distretti soggetti dal Dominio veneziano avevano tuttavia già ottenuto il formale riconoscimento delle proprie istituzioni rappresentative (62), e i "poveri subditi" proprio a quello stesso "Serenissimo Principe" continuavano in ogni caso a rivolgersi per arginare i soprusi di questi e di altri potentati locali; mentre anche tra costoro i più erano ormai disposti a riconoscere al governo veneto, come il patrizio vicentino Vincenzo Negri nel 1648, che "se la plebe non perdé il rispetto al privato, la riverenza al pubblico, questo si riconosce per un puro effetto della vostra pietà" (63). Gli uni e gli altri, pur con interessi, sentimenti e motivazioni contrastanti, in fondo inclini ad identificare in quello marciano, se non proprio una patria, almeno un Dominio caratterizzato da punti di riferimento storici, sociali, politici e religiosi collettivi e concreti, uno Stato comune con la caleidoscopica Venezia per pochi vicina e per molti lontana, per tutti comunque assisa a capitale.
1. Per la preponderanza dei domini "da Mar" nell'orizzonte mentale dei Veneziani fino al '500 e per la svolta successiva cf. Alberto Tenenti, The Sense of Space and Time in the Venetian World of the Fifteenth and Sixteenth Centuries, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 17-46 (trad. it. Il senso dello spazio e del tempo nel mondo veneziano dei secoli XV e XVI, in Id., Credenze, ideologie, libertinismi tra medioevo ed età moderna, Bologna 1978, pp. 75-118). Per gli aspetti più propriamente economici di questo maggior rilievo via via assunto dalla Terraferma - effetti delle scoperte geografiche, problemi annonari, aumento della pressione fiscale - si vedano in particolare Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961, pp. 240 ss.; Maurice Aymard, Venise, Raguse et le commerce du blé pendant la seconde moitié du XVIe siècle, Paris 1966; e il recente lavoro di Luciano Pezzolo, L'oro dello Stato. Società, finanza e fisco nella Repubblica veneta del secondo '500, Venezia 1990. È poi importante sottolineare che i primi decenni del secolo, sotto il dogado di Andrea Gritti, furono caratterizzati da progetti di riforme giuridico-amministrative di grande rilievo, che evidenziavano proprio la sempre maggior rilevanza assunta dallo "Stato da Terra" nell'ambito degli interessi della Repubblica, e i suoi tentativi di adeguarsi a questo progressivo mutamento prospettico: Gaetano Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 293 ss.
2. Su questi temi soprattutto Franco Gaeta, L'idea di Venezia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1981, pp. 565-641.
3. Fino ai lavori di Marino Berengo, La società veneta alla fine del Settecento. Ricerche storiche, Firenze 1956; G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, e soprattutto Angelo Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Bari 1964, l'immagine ricorrente di Venezia era infatti quasi esclusivamente quella di una repubblica marittima. Da allora si sono sviluppati dibattiti e ricerche (cf. ad esempio le recensioni al citato volume di Angelo Ventura di Gaetano Cozzi, "Critica storica", 5, 1966, pp. 126-130 e Alberto Tenenti, "Studi storici", 7, 1966, pp. 401-408), anche se più recenti e importanti ricerche sottolineano ancora, e fin dal titolo, la preponderanza delle vicende marittime: Frederic C. Lane, Venice. A Maritime Republic, Baltimore-London 1973 (trad. it. Storia di Venezia, Torino 1976).
4. Le più recenti messe a punto sono quelle di Angelo Ventura, Introduzione a Dentro lo "Stato Italico". Venezia e la Terraferma fra Quattro e Seicento, a cura di Giorgio Cracco - Michael Knapton, Trento 1984, pp. 5-15 e Gherardo Ortalli, Terra di San Marco: tra mito e realtà, in AA.VV., Venezia e le istituzioni di Terraferma, Bergamo 1988, pp. 9-21.
5. Gaetano Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto. Governanti e governati nel Dominio di qua dal Mincio nei secoli XV-XVIII, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 508 ss. (pp. 495-539).
6. Gino Benzoni, La storiografia e l'erudizione storico-antiquaria. Gli storici municipali, ibid., pp. 90-93 (pp. 67-93).
7. Relazioni dei rettori veneti in terraferma, a cura dell'Istituto di storia economica dell'Università degli Studi di Trieste, I-XIV, Milano 1973-1979: XII, Podestaria e Capitanato di Bergamo, p. 35.
8. Ibid., XI, Podestaria e Capitanato di Brescia, p. 13.
9. Ibid., IX, Podestaria e Capitanato di Verona, p. 47.
10. Giovanni Bonifaccio, Historia di Trevigi [1591>, Venezia 17442, p. 379. Per il giudizio di Bartolomeo Capello, persino sprezzante nel definire i trevigiani "homeni che non sano far bene et non ardiscono far male", cf. invece Relazioni dei rettori veneti, III, Podestaria e Capitanato di Treviso, p. 63.
11. Ibid., II, Podestaria e Capitanato di Belluno. Podestaria e Capitanato di Feltre, pp. 55-56.
12. Nel senso che tranne qualche rarissimo caso, quale quello del bergamasco Francesco Bellafini, De origine et temporibus urbis Bergomi, Venetiis 1532 (trad. it. Libro de l'origine e tempi, Bergamo 1555), nessun suddito di Terraferma contribuì con proprie opere alla diffusione di quel mito di Venezia nella propagazione del quale si distinsero invece soprattutto autori fiorentini dell'ambiente repubblicano e antimediceo. Sull'argomento si veda Felix Gilbert, La costituzione veneziana nel pensiero politico fiorentino, in Id., Machiavelli e il suo tempo, Bologna 19772, pp. 115-167. Su questa "infatuazione democratica" per Venezia cf. anche F. Gaeta, L'idea di Venezia, pp. 601 ss.
13. Donato Giannotti, Libro de la Republica de Vinitiani [1540>, Venezia 1564; Bartolomeo Cavalcanti, Degli ottimi reggimenti delle Repubbliche, Venezia 1571; Giovanni Botero, Relatione della Republica Venetiana, Venetia 1605. Su questi temi rinvio comunque a Federico Chabod, Venezia nella politica italiana ed europea del Cinquecento, in AA.VV., La civiltà veneziana del Rinascimento, Firenze 1958, pp. 29-55; Franco Gaeta, Venezia da "Stato misto" ad aristocrazia "esemplare", in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 437-494; Angelo Ventura, Scrittori politici e scritture di governo, ibid., 3/III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1981, pp. 513-563 e a Gino Benzoni, Gli affanni della cultura. Intellettuali e potere nell'Italia della Controriforma e barocca, Milano 1978, pp. 26 ss.
14. Gasparo Contarini, De magistratibus et republica Venetorum libri quinque, Parisiis 1543 (trad. it. La Republica, e i Magistrati di Vinegia, Vinegia 1544) Per la composizione di quest'opera e di quella su citata del Giannotti, entrambe risalenti al terzo decennio del '500, d'obbligo il rimando a Felix Gilbert, The Date of the Composition of Contarini's and Giannotti's Books on Venice, "Studies in the Renaissance", 14, 1967, pp. 172-184. Nel 1591, quando si stabilì di riunire con chiare finalità apologetiche diversi scritti su Venezia e gli ordinamenti repubblicani, si decise di ripubblicare l'edizione italiana dell'opera di Contarini, seguita, tra gli altri, proprio da scritti di Donato Giannotti e Bartolomeo Cavalcanti: Gasparo Contarini, Della Republica et Magistrati di Venetia, Venetiis 1591. Sul Contarini cf. ora Gigliola Fragnito, Gasparo Contarini. Un magistrato veneziano al servizio della cristianità, Firenze 1988, nonché il volume collettaneo Gasparo Contarini e il suo tempo, a cura di Francesca Cavazzana Romanelli, Venezia 1988.
15. Francesco Sansovino, Delle cose notabili che sono in Venetia [1556>, Venetia 1583; Id., Venetia città nobilissima et singolare descritta in Xiiii libri, Venetia 1581; Pietro Aretino, Lettere, a cura di Sergio Ortolani, Torino 1945; Id., Cortegiana, in Id., Teatro, a cura di Giorgio Petrocchi, Milano 1971, pp. 155 ss. (pp. 93-217); Andrea Marini, Discorso sopra l'aere di Venezia, in Antichi scrittori d'idraulica veneta, IV, a cura di Arnaldo Segarizzi, Venezia 1923, pp. 1 ss. Si sofferma su questi autori anche F. Gaeta, Venezia da "Stato misto", pp. 459-462.
16. F. Sansovino, Delle cose notabili, p. 6.
17. Iacobi Purliliarum [Jacopo Da Porcia> De reipublicae Venetae administratione domi et foris liber, Treviso 1492. Per notizie sull'autore rinvio a Aldo Mazzacane, Lo stato e il dominio nei giuristi veneti durante il "secolo della terraferma", in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 607-612 (pp. 577-650).
18. Erano più di mille, secondo Leonardo Amaseo, i luoghi di Padova in cui il 1° giugno del 1509 era apparsa questa scritta. Cf. Gregorio e Leonardo Amaseo-Giovanni Antonio Azio, Diarii udinesi dall'anno 1508 al 1541, "Monumenti Storici pubblicati dalla Regia Deputazione di Storia Patria", ser. III, 2, 1884-1885, p. 86.
19. Cronica che comenza dall'anno 1400, a cura di Domenico Bortolan, Vicenza 1889, pp. 16 ss. Su Leonardo Trissino, patrizio vicentino che dopo essere stato bandito per omicidio era stato accolto presso la corte imperiale, si veda Domenico Bortolan, Leonardo Trissino celebre avventuriero, "Nuovo Archivio Veneto", 3, 1892, pp. 5-46. Per queste vicende cf. comunque Sergio Zamperetti, Poteri locali e governo centrale in una città suddita d'antico regime dal dopo Cambrai al primo Seicento, in AA.VV., Storia di Vicenza, III/1, L'età della Repubblica veneta, Vicenza 1989, pp. 67-80 (pp. 67-113).
20. Soprattutto A. Ventura, Nobiltà e popolo, pp. 167-168 e Innocenzo Cervelli, Machiavelli e la crisi dello Stato veneziano, Napoli 1974.
21. Cf. Nicolai Rubinstein, Italian Reactions to Terraferma Expansion in the Fifteenth Century, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 197-217. Si veda anche F. Gaeta, L'idea di Venezia, pp. 583 ss.
22. Si tratta, com'è noto, della frase attribuita a Giulio II, sul cui ruolo in questi frangenti si è soffermato di recente Gaetano Cozzi, Politica, società, istituzioni, in Id.-Michael Knapton, Storia della Repubblica di Venezia, I, Dalla guerra di Chioggia alla riconquista della terraferma, Torino 1986 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII/1), pp. 91-95 (pp. 3-271),
23. Domenico Morosini, De bene instituta re publica, a cura di Claudio Finzi, Milano 1969. Su quest'opera si veda in ogni caso Gaetano Cozzi, Domenico Morosini e il "De bene instituta re publica", "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 405-458.
24. Cit. in G. Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto, p. 5 10.
25. Sull'argomento cf. Franco Gaeta, Storiografia, coscienza nazionale e politica culturale nella Venezia del Rinascimento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 76 ss. (pp. 1-91) e Id., L'idea di Venezia, pp. 598-600.
26. Per l'esortazione del Caresini a coltivare il mare e a lasciare stare la terra cf. Raphaini De Caresinis [Raffaino Caresini> Chronica a. 1343-1388, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 2, 1923, p. 58. Gli inviti alla pace invano rivolti da Tommaso Mocenigo al "Procurator zovene" Francesco Foscari, destinato di lì a poco a succedergli nella carica dogale, sono riportati in Marin Sanuto, Vitae ducum Venetorum, in R.I.S., XXII, 1733, col. 945.
27. A. Ventura, Nobiltà e popolo, pp. 244-273; Sergio Zamperetti, I piccoli principi. Signorie locali, feudi e comunità soggette nello stato regionale veneto dall'espansione territoriale ai primi decenni del '600, Venezia 1991, pp. 225 ss.; Giuseppe Del Torre, Venezia e la terraferma dopo la guerra di Cambrai. Fiscalità e amministrazione (1515-1530), Milano 1986, pp. 179-198.
28. Un'analisi del lavoro di Andrea Mocenigo, Bellum Cameracense, Venezia 1525, in F. Gaeta, Storiografia, coscienza nazionale, pp. 76-78.
29. Su questi temi Mario Sbriccoli, Crimen laesae maiestatis. Il problema del reato politico alle soglie della scienza penalistica moderna, Milano 1974, p. 64.
30. G. Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto, p. 496. Utilissima, per un'ampia ricognizione di queste iscrizioni, la consultazione di Marin Sanuto, Itinerario per la terraferma veneziana nell'anno MCCCCLXXXIII, a cura di Rawdon Brown, Padova 1847 (riprod. anast. Milano 1981), alquanto sollecito a descriverle e riportarle ogniqualvolta vi si imbatteva: cf. ad esempio pp. 94, 116, 128 e 150 per quelle relative rispettivamente a Rovereto, Noale, Motta e Pirano.
31. Relazioni dei rettori, XI, p. 95.
32. Ibid., XII, p. 3.
33. Ibid., XI, p. 96.
34. Wolfgang Wolters, Storia e politica nei dipinti di Palazzo Ducale. Aspetti dell'autocelebrazione della Repubblica di Venezia nel Cinquecento, Venezia 1987. Cf. anche Gino Benzoni, Introduzione a Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di Id.-Tiziano Zanato, Milano-Napoli 1982, pp. XIX ss. (pp. I-XCVIII).
35. Il passo è tratto dalla su citata relazione del podestà di Brescia Francesco Tagliapietra: cf. Relazioni dei rettori, XI, p. 96.
36. F. Gaeta, Venezia da "Stato misto", pp. 447-454; G. Benzoni, Gli affanni della cultura, p. 39.
37. Relazioni dei rettori, IV, Podestaria e Capitanato di Padova, p. 68. Per la congiura antiveneziana, peraltro mai sfociata in azioni concrete, cf. Marino Berengo, Venezia e Padova alla vigilia di Lepanto, in AA.VV., Tra latino e volgare. Per Carlo Dionisotti, a cura di Gabriele Bernardoni Trezzini, Padova 1974, pp. 27-65.
38. Si vedano soprattutto Franco Gaeta, Alcune considerazioni sul mito di Venezia, "Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance", 23, 1961, pp. 58-75 e Id., Venezia da "Stato misto ", pp. 478 ss.
39. A. Ventura, Nobiltà e popolo, pp. 167 ss.; Felix Gilbert, Venice in the Crisis of the League of Cambrai, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 274-296; I. Cervelli, Machiavelli e la crisi. Anche tra i Veneziani qualcuno rilevava queste propensioni, giungendo ad affermare che "era molto meglio havere li contadini propitii per essere magior numero cha li cittadini": cf. Girolamo Priuli, I diarii, in R.I.S.2, XXIV, 3, vol. IV, a cura di Roberto Cessi, 1938-1941, p. 320.
40. Ibid., p. 15.
41. Ibid.
42. Peri fatti di sangue del 27 febbraio 1511, culminati com'è noto con il saccheggio dei palazzi di Udine e con l'uccisione dei principali castellani della parte "strumiera", nonché per altri episodi relativi a quel periodo, rinvio alla recente ricostruzione di Liliana Cargnelutti, Antonio Savorgnan e l'insurrezione del 1511, in AA.VV., I Savorgnan e la Patria del Friuli dal XIII al XVIII secolo, Udine 1984, pp. 121-125.
43. Giangiorgio Trissino, Orazione in difesa de' diritti di decima ne' comuni della valle dell'Agno, Vicenza 1881. Sul volubile umanista v. Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o monografia di un letterato nel secolo XVI, Vicenza 1878.
44. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Parti comuni, reg. 11, c. 168: la lettera era dell'ottobre 1536.
45. Cit. in Francois Dupuigrenet Desroussilles, L'Università di Padova dal 1405 al Concilio di Trento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, p. 637 (pp. 607-647).
46. Per la sentenza, del 20 aprile 1532, A.S.V., Consiglio dei Dieci, Parti criminali, reg. 5, c. 101 v.
47. Basta scorrere le missive inoltrate dai rettori veneziani (cf. ivi, Consiglio dei Dieci, Lettere rettori) per cogliere la diffusione di tali atteggiamenti e la rilevanza addirittura eccessiva ad essi attribuita dalle autorità veneziane. Anche nelle loro relazioni conclusive i rettori non mancavano di segnalare poi le propensioni per la Spagna, la Francia o l'Impero di molti nobili sudditi, oppure di stigmatizzare i legami sin troppo stretti dei Veronesi con la corte di Mantova o dei Rodigini con quella di Ferrara: cf. ad esempio Relazioni dei rettori, rispettivamente VII, Podestaria e Capitanato di Vicenza, p. 152, XI, p. 253, IX, pp. 193-194, e VI, Podestaria e Capitanato di Rovigo, pp. 11, 31, 82 e 99.
48. Girolamo Da Porcia, Descrizione della Patria del Friuli, con l'utile che ne cava il Serenissimo Prencipe e con le spese che ne fa [1567>, Udine 1897.
49. Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni, in Id., Opere, a cura di Riccardo Bacchelli, Milano-Napoli 1953, p. 650 (pp. 395-959).
50. A.S.V., Collegio, Risposte di fuori, passim. Per la diffusione della proprietà fondiaria veneziana si veda Daniele Beltrami, La penetrazione economica dei veneziani in terraferma. Forze di lavoro e proprietà fondiaria nelle campagne venete dei secoli XVII e XVIII, Venezia-Roma 1961. Molti patrizi veneti detenevano oltretutto giurisdizioni signorili o feudali (cf. S. Zamperetti, I piccoli principi, specie pp. 269 ss. e 314 ss.), e in possesso o meno di questi privilegi particolaristici ostentavano sempre più spesso titoli nobiliari e atteggiamenti da veri e propri signorotti locali: cf. Gaetano Cozzi, Venezia, una Repubblica di principi?, "Studi Veneziani", n. ser., 11, 1986, pp. 139-157.
51. Cf. ad esempio Vicenza, Biblioteca civica Bertoliana, Archivio Torre, Lettere dei nunzi, per l'interessantissima corrispondenza dei residenti vicentini a Venezia.
52. Per i desideri testamentari del condottiero, il monumento equestre realizzato da Verrocchio fu però collocato non in piazza S. Marco, ma in campo SS. Giovanni e Paolo: cf. Michael E. Mallet, Colleoni, Bartolomeo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVII, Roma 1982, p. 18 (pp. 9-19). L'argomento è stato tuttavia ripreso da Gino Benzoni, Venezia e Bergamo: implicante di un dominio, "Studi Veneziani", n. ser., 20, 1990, p. 43 (pp. 15-58). Sull'ampia signoria che Colleoni seppe costituirsi nel Bergamasco, e sui suoi rapporti con il governo veneto, rinvio a S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 181-186.
53. A.S.V., Senato Terra, reg. 34, c. 119 r. Sui Pompei e la loro giurisdizione di Illasi, nel Veronese, cf. comunque S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 147, 232, 235, 265-268, 284, 285, 292, 295, 296, 307, 308, 344, 354 e 355.
54. V. soprattutto Claudio Povolo, Aspetti e problemi dell'amministrazione della giustizia penale nella Repubblica veneta secoli XVI-XVII, in Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I, Roma 1980, pp. 155-258.
55. Relazioni dei rettori, IX, pp. 193 e 195.
56. S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 333 ss.
57. Latino Del Colle, Quod iuris communis appellatione non veniat absolute statutaria Sanctio Serenissimae Urbis Dominantis, non obstante re iudicata, Conegliano 1618. Su questo opuscolo, e sulle sue implicazioni, cf. G. Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani, p. 352 n. 13 e Claudio Povolo, Il Giudice Assessore nella Terraferma Veneta, in L'Assessore. Discorso del Sign. Giovanni Bonifaccio in Rovigo MDCXXVII, a cura di Claudio Povolo, Pordenone 1991, pp. 5-38.
58. Gaetano Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958. Si veda in proposito anche quanto scrive G. Benzoni, Gli affanni della cultura, pp. 45 ss.
59. Relazioni dei rettori, VII, p. 152.
60. Pompeo Calmo, Parallelo politico delle republiche antiche, e moderne, in cui coll'essame de' veri fondamenti de' governi civili si antepongono li moderni agli antichi, e la forma della Republica Veneta, a qualunque altra forma delle Republiche antiche, Padova 1627. Si sofferma su quest'opera Maria Luisa Doglio, La letteratura ufficiale e l'oratoria celebrativa, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 174-175 (pp. 163-187).
61. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Lettere rettori, b. 220, c. 151.
62. Sergio Zamperetti, I "sinedri dolosi". La formazione e lo sviluppo dei Corpi territoriali nello stato regionale veneto tra '500 e '600, "Rivista Storica Italiana", 99, 1987, pp. 269-320 e bibliografia ivi riportata.
63. Cit. in Claudio Povolo, Da una città suddita dello stato veneziano, "Società e Storia", 40, 1988, p. 270 (pp. 269-293).