Immagini terroristiche
A quale delle sue immagini pensiamo quando utilizziamo o sentiamo pronunciare la parola «terrorismo»? Le vicende del millennio appena conclusosi ci suggeriscono alcuni eterogenei modelli: a) quello del terrorismo palestinese, attivo dagli anni Sessanta del 20° sec. (e manifestatosi poi in diversissimi tipi), a vocazione fondamentalmente nazionalistica e di matrice irredentistica (nella stessa nebulosa entrano moltissime altre fattispecie, come l’IRA nordirlandese o il terrorismo basco); b) quello del terrorismo rivoluzionario, che aveva avuto le sue prime manifestazioni già nell’Ottocento con il populismo russo, che fu poi condannato sia da V.I. Lenin sia da L.D. Trockij, e sarebbe rinato in dimensioni sconvolgenti negli «anni di piombo» italiani e tedeschi dell’ultimo quarto del Novecento; c) il «terrore» come strumento di governo, non tanto quello di Robespierre ma di I.V. Stalin, prima di essere riassunto da A. Pinochet in Cile o dal generale J.R. Videla in Argentina; d) da ultimo, ma oggi più importante di tutti, è comparso il terrorismo islamico e/o fondamentalistico che si è accanito contro le Torri gemelle di New York l’11 settembre 2001 totalizzando quasi tremila vittime in pochi minuti.
Questi modelli che possiamo ricondurre alla distinzione tra terrorismo interno e internazionale, e tra terrorismo di Stato e contro lo Stato, hanno caratterizzato fasi estremamente importanti della storia del sec. 20° e l’ultimo di essi ha addirittura impresso il suo marchio sul nascente sec. 21°, avvertendoci che politica e terrorismo sono strettamente intrecciati e talvolta addirittura inestricabili, connotando in tal modo lo scandalo dell’uso parossistico della violenza fisica al servizio di principi, valori e ideali pubblici e collettivi che, per definizione, dovrebbero potersi affermare pacificamente (ovvero: democraticamente). Ma ciò che ha reso possibile tutto questo è lo straordinario successo operativo dell’azione terroristica, ovvero il rendimento che ogni singola azione ha rispetto al costo della sua realizzazione: il terrorismo è diventato così la più grande «scorciatoia» (o corto circuito?) immaginabile per collegare un programma politico alla sua realizzazione, un ideale al suo conseguimento, un sogno alla realtà, pur in carenza della possibilità di dare vita a un grande movimento popolare e condiviso. Ciò vale tanto per il terrorismo di Stato quanto per quello contro lo Stato; ma mentre il primo già dispone, per definizione, del monopolio della violenza legittima e non dovrebbe utilizzarla al di fuori delle leggi, quello contro lo Stato si autopropone come l’unico possibile strumento – necessario e sufficiente – per scardinare un’istituzione tanto solida quanto uno Stato. Diremo allora che allo Stato il terrore serve esclusivamente per conservarsi, mentre il terrorismo contro lo Stato si fa portatore di un tipo di società nuovo e incompatibile con quello esistente.
Il terrorismo come strategia. Il primo sforzo che quindi deve essere compiuto di fronte a una tematica tanto complessa è distinguere nettamente e drasticamente le due dimensioni della «strategia» del terrorismo e della sua «giustificazione». Mentre nel primo caso entra in gioco un’analisi di tipo logico-strumentale, nel secondo decisiva è la moralità di colui che esprime il suo giudizio (ben più che quella di chi agisce da terrorista). Bisogna avere il coraggio, allora, di riconoscere al terrorismo delle straordinarie capacità di lotta, specie se ricollegate allo scopo connaturato dell’azione terroristica che non è – sia ben chiaro e a costo di apparir scandalosi nell’affermarlo – uccidere e distruggere, ma costringere e trasformare. In altri termini – e questa è la dimensione su cui il terrorismo è inconfondibile e in cui ogni analogia con la guerra si dimostra fallace – la strategia terroristica è per natura unilaterale perché non cerca un confronto, non mira direttamente alla sua propria vittoria, quanto alla «sconfitta» del nemico che è, di per sé stessa, la precondizione di quella che potrebbe poi essere la conquista del potere, o il successo. Ciò che non si è mai capito bene e manca nella stragrande maggioranza delle innumerevoli (migliaia e migliaia) ricerche sul terrorismo è il riconoscimento di questo suo meta-obiettivo: neppure bin Laden poteva immaginare che, facendo crollare le Torri gemelle, avrebbe distrutto la potenza statunitense; né è ignaro del fatto che neppure altri cento grattacieli abbattuti o altrettante ambasciate statunitensi fatte esplodere in giro per il mondo potrebbero determinare il trionfo del fondamentalismo che sogna. Tutte queste non saranno state altro che precondizioni, o passaggi obbligati di una «trasformazione» delle condizioni della lotta: di fronte a un nemico per definizione onnipotente (come l’autorità di uno Stato, tanto più se è il più ricco e armato del mondo) la strategia terroristica non è così cieca e ottusa da pensare di poterlo sconfiggere frontalmente. Sa che deve incidere sull’opinione pubblica internazionale, non tanto quella avversa quanto quella del «suo» mondo, galvanizzandola intanto che deprime quella del mondo avverso; deve risvegliare ed eccitare il suo pubblico mentre sfugge alla repressione delle istituzioni e si propone di mostrare l’intrinseca e strutturale violenza di queste ultime.
Si deve in altri termini dire che il terrorismo è la strategia di lotta di chi è «debole» e non dispone di una potenza militare o comunque materiale da poter schierare in campo, a differenza di un gruppo guerrigliero (come i vietcong) o degli insorti in una guerra di liberazione nazionale che agiscono in quanto soggetto collettivo. La segretezza e la clandestinità, le difficoltà organizzative, le esigenze del reclutamento e della dissimulazione impediscono il sorgere di una «classe rivoluzionaria» o di una vera e propria «avanguardia combattente» (sia detto incidentalmente, perché non è questo il luogo per discuterne, ma proprio questo aspetto è ciò che determina la storica inevitabile sconfitta di qualsiasi strategia terroristica). Si potrebbe concludere che mentre il terrorismo non è sempre guerra, la guerra può comprendere al suo interno anche il terrorismo (tant’è vero che viene definito «terroristico» quel bombardamento nel quale manca la reciprocità d’azione, come quello di Dresda nel febbraio 1945).
Giustificare il terrorismo? Il terrorismo ha a che fare più con i simboli che non con le pratiche: se ha da dire qualche cosa, ciò avviene sul piano dei principi o dei valori, non dei fatti. Nulla sarebbe più fuorviante che ritenere che il terrorista sia puramente e semplicemente un fanatico esaltato imbevuto di falsi idoli (ciò può valere per il singolo kamikaze indottrinato, ma non per la figura del «terrorista in buona fede»). Semmai, il problema è quello di delinearne la personalità tipica. Mille volte nella storia, siamo già stati costretti a ritirare l’appellativo quando abbiamo visto che chi aveva compiuto azioni altrimenti definite terroristiche era poi assurto alla carica di premier o era stato fregiato del premio Nobel per la pace come fu per M. Begin (ma ciò vale per E. De Valera, dapprima «terrorista» e poi «statista» e presidente della Repubblica sudirlandese), cosicché appare più saggio adottare la posizione che (invero un po’ provocatoriamente) scelse Y. ‛Arafat quando, il 13 novembre 1974, si presentò all’Assemblea generale dell’ONU fingendo di avere un ramoscello d’ulivo in una mano e nell’altra un fucile, chiedendo all’intera comunità internazionale di dire quale dei due essa voleva che egli fosse. Chiamare «per nome» il terrorista risulta così più facile e rassicurante che non procedere con una definizione astratta o lessicografica per cogliere l’essenza di un fenomeno che sfugge a tutte le connotazioni che non siano di condanna, cosicché «definire» finisce per consistere in un «giudicare». È terrorista chi perde, eroe nazionale chi vince.
Lo «scandalo» del terrorismo è principalmente il fatto che degli esseri umani siano usati come mezzi e strumenti materiali nelle mani della sua strategia: e ciò vale per gli esecutori delle azioni, ma anche – e semmai piuttosto – per i destinatari. I primi sono come dei «messaggi» che i secondi devono «diffondere» e «trasmettere». Possiamo essere indifferenti ai primi, ma tra i secondi troviamo, senza ombra di dubbio, le società occidentali, i loro rappresentanti politici, le loro classi dirigenti. Ciò significa che si profila lo scontro tra terrorismo e Stati democratici, sulla natura dei quali, e sui loro meriti, non possiamo flettere, specialmente perché sconfiggere la democrazia è proprio l’obiettivo finale e decisivo del terrorismo, che sa che essa non può contrastarlo con le sue stesse armi, perché la sua democraticità si degraderebbe, e se si rifugiasse soltanto nella repressione non ne verrebbe mai a capo e anzi lo nutrirebbe. Ma una politica segreta non può vincere contro una società democratica libera e aperta ed è su questo piano esclusivamente che quest’ultima l’avrà vinta: con il dibattito, la discussione, la confutazione, senza violenza, senza abdicare alla sua civiltà giuridica, ma illustrando la sua capacità di controllarsi e correggersi, di accettare le sconfitte parziali e provvisorie e di lavorare non violentemente per raggiungere risultati moralmente superiori a quelli cui può tendere il terrorista.
L’insensatezza del terrorismo. Purtroppo non possiamo prevedere le mosse dei terroristi e le loro scelte strategiche; proprio in ciò sta la forza connaturata a tale pratica: l’unica cosa di cui possiamo essere certi non è tanto se il terrorismo colpisca o colpirà soggetti innocenti o rappresentanti di istituzioni democratiche o altro, perché la sua scelta violenta e parossistica consiste, in generale, nel colpire spietatamente chi non ha la possibilità di difendersi. L’obiettivo strategico non è mai un soldato o un poliziotto bensì un capo politico o l’insieme delle persone ospitate da un grattacielo, che producono un effetto-clamore immenso e irrefrenabile fino a farci piombare nel terrore, appunto, mentre il terrorista rischia, per così dire, molto meno: sa che lo Stato (democratico) non può ricorrere allo stragismo (cesserebbe di esser democratico) né alla guerra, che non intercetta sul piano strategico il terrorismo, e quindi non lo può contrastare con armi e tecniche che sarebbero totalmente inadatte.
Che il fondamentalista che è dentro ciascun terrorista ci sconcerti e ci spaventi non deve farci dimenticare tuttavia che se ogni terrorismo è un fondamentalismo, non ogni fondamentalismo è terroristico. Di una cosa infine possiamo essere certi e cioè che, se non vince subito, un movimento terroristico è destinato alla sconfitta: questa è una piccola legge storica che deve comunque aiutarci a comprendere che la vittoria contro il terrorismo è esclusivamente nelle mani della politica democratica. Il problema è forse che di democrazia nel mondo finora ce ne è meno di quanto crediamo o vorremmo.
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