IMMANUEL da Roma (Immanuel Romano, 'Immanu'el ben Šelomoh, 'Immanu'el ha-Romi, Manoello Giudeo, Manoello Romano, Emanuele Romano)
Nacque a Roma (più volte I., nelle sue opere, ricorda le proprie origini romane) presumibilmente intorno agli anni '70 del XIII secolo. Il padre si chiamava Šelomoh, aveva la qualifica di rabbino e apparteneva alla importante famiglia ebraica Zifronì, nome che indicava la provenienza da Ceprano, paese situato nel Lazio meridionale. La madre Giusta fu forse anche la madre di Jehudà da Roma, di cui G. sarebbe dunque non cugino bensì fratellastro (in ebraico aḥšeni). Nelle Maḥberot (in ebraico raccolte, quaderni), la più significativa tra le sue opere, I. ricorda anche un altro fratello, Daniel.
La cronologia relativa a I., a iniziare dalla sua data di nascita, è ancora piuttosto confusa. Nel ventisettesimo componimento delle Maḥberot I. ricorda un avvenimento del 1328 e in un altro luogo dello stesso testo afferma di avere sessanta anni e di non essere in buona salute. Guy Shaked, l'ultimo studioso a essersi occupato della biografia di I., posticipa di circa un ventennio la sua data di nascita, ponendola intorno al 1292, sulla base della considerazione che il riferimento al 1328 sarebbe presente all'interno della stessa maḥberet in cui I. parla di un viaggio che avrebbe compiuto in gioventù a Vienna. Questa datazione così bassa entrerebbe però in contraddizione, per esempio, con quanto si sa dei maestri che I. ebbe a Roma, e in particolare con Zeraḥyah ben Yiṣḥaq ben Šealti'el Ḥen (Gracian), che sarebbe stato attivo a Roma fino al 1291, quando I., secondo la ricostruzione di Shaked, o era appena nato o non lo era ancora. Ulteriori elementi relativi alla cronologia di I. - dato che anche la notizia del discepolato nei confronti di Zeraḥyah potrebbe indicare non una conoscenza diretta fra i due bensì solo l'utilizzo delle opere filosofiche del maestro da parte dell'allievo I. (e del suo stretto parente Jehudà da Roma) come principale fonte di studio - si possono trarre da altri testi, e in particolare da una tenzone fra i poeti Bosone da Gubbio e Cino Sighibuldi da Pistoia composta senz'altro dopo la morte di Immanuel. Di recente il sonetto di proposta è stato riconosciuto da Luca Carlo Rossi come attendibilmente da ascrivere a Cino da Pistoia, cosa che renderebbe impossibile datare la morte di I. successivamente al 1352 come fa Shaked: Cino morì infatti fra il 1336 e il 1337 e anche ipotizzare la sopravvivenza di Bosone fino a quella data sarebbe problematico dato che questi risultava già attivo come podestà di Arezzo nel 1266 e che le ultime notizie su di lui risalgono al 1316-17.
In gioventù I. studiò, oltre che con Zeraḥyah, anche con il medico Benyamin ben Jeḥiel e questo ha fatto ritenere ad alcuni che I. abbia esercitato la professione medica. Senz'altro a Roma compì studi rabbinici, testimoniati dalla intensa attività di commentatore di testi biblici e filosofici, mentre non sembra da ascrivere al primo periodo della sua formazione l'attività poetica.
I. sposò Ester figlia di Šemuel, rabbino della comunità ebraica di Roma, dalla quale ebbe almeno due figli, Mosè, che morì bambino e per la morte del quale I. compose un'elegia, e Šelomoh.
Non si sa con precisione quando e soprattutto perché I. lasciò Roma. Si sa però che i luoghi nei quali soggiornò dopo aver lasciato la sua città di origine furono luoghi in cui è attestata in quel periodo una presenza ebraica sempre crescente e spesso proveniente proprio da Roma: si tratta dei centri dell'Italia centrale di Fabriano, Gubbio, Perugia, Orvieto, Ancona, Camerino e, in ultimo, Fermo dove in vecchiaia mise insieme le Maḥberot. In questi luoghi, come ci attestano le stesse Maḥberot, I. visse probabilmente godendo della protezione di banchieri ebrei dediti anche agli studi, per le famiglie dei quali fu forse anche precettore. A testimonianza della fama che I. doveva aver raggiunto tra i contemporanei, nella prima delle Maḥberot il sar (principe o signore, protettore) di Fermo si rivolge a I. dicendogli: "Mi sono stupito nel conoscere la tua rettitudine, ho udito la fama della tua sapienza e che sei il primo tra gli abitanti nel regno di intelligenza e di scienza, e sei stato tra i primi esperti della Torah e della Testimonianza; ho udito alcuni dire che tu governi la mano dei solleciti nello studio e che perfezione grande tu sei per chi ama la Torah" (pp. 68-71).
I. si recò sicuramente anche a Verona, e fu in diretto contatto con la corte di Cangrande Della Scala, forse proprio negli anni in cui vi soggiornava anche Dante Alighieri.
La questione del rapporto fra I. e Dante è forse la più dibattuta della biografia di Immanuel. Una storia della questione, dai primi pronunciamenti a favore della conoscenza fra i due all'analisi delle posizioni dei più scettici e di chi negava la possibilità che si fossero frequentati, è in Battistoni (1999), che propende decisamente non solo per accogliere l'ipotesi secondo la quale i due si sarebbero direttamente conosciuti, e che anzi sarebbero stati amici, ma anche per identificare con Dante il personaggio di nome Daniele che accompagna I. nel viaggio tra l'inferno e il paradiso oggetto dell'ultima maḥberet.
Gli estremi cronologici all'interno dei quali collocare presumibilmente la morte di I. si possono considerare il 1328, anno ricordato all'interno delle Maḥberot, e il 1336-37, periodo in cui morì Cino da Pistoia.
Due sono le principali tipologie di opere in cui I. si esercitò: il commento ai testi sacri e le composizioni poetiche. I. scrisse anche un trattato grammaticale, il Sefer Boḥan, conservato manoscritto presso la Biblioteca Palatina di Parma (codd. De Rossi 396 e 809) e un trattato, il Sefer be-viur Ṣurat ha-otioth, andato perduto, sul significato mistico della forma delle lettere dell'alfabeto ebraico.
I commenti composti da I. coprono pressoché tutto l'insieme dell'Antico Testamento. Dopo aver esposto il significato letterale del testo, che comprende anche osservazioni di tipo grammaticale ed etimologico, I. tratta del suo significato allegorico, spingendosi talvolta anche ad affrontarne il significato mistico. Per la composizione dei suoi commenti I. ha usato le conoscenze che gli provenivano dalla sua formazione rabbinica nonché alcune nozioni, soprattutto di carattere filosofico, che ha tratto dagli scritti di Jehudà da Roma. In particolare, ha dimostrato Sermoneta, nel Commento alla Genesi I. ha usato il Commento all'opera della creazione di Jehudà da Roma.
I commenti sono conservati manoscritti presso il Fondo De Rossi della Biblioteca Palatina di Parma (un elenco è in Immanuel Romano, Scholia in selecta loca Psalmorum ex ined. eius commentario, a cura di G.B. De Rossi, Parma 1806, pp. 17 s., e in Busi, pp. 153 s.) e sono stati pubblicati in: P. Perreau, Commento sopra il Pentateuco…, in Archiv für wissenschaftliche Erforschung des Alten Testament, I (1869), pp. 363-384; F. Michelini Tocci, Il Commento di Emanuele Romano al capitolo I della Genesi, Roma 1963; Scholia in selecta loca Psalmorum, cit.; Commento sopra i Salmi, a cura di P. Perreau, Parma 1879-84; P. Perreau, Intorno al Commento inedito… sopra Giobbe, in Mosè, V (1882), pp. 108-113, 150-155, 179-184, 216-221, 251-257, 291-295, 359-365; VI (1883), pp. 11-15, 79-83, 156-160, 225-229, 297-307; VII (1884), pp. 10-13, 41-47, 121-125, 176-180, 237-241, 309-314 (riassunto in italiano del testo ebraico); Commento ai Proverbi, Napoli, Yosef ben Ya'aqov Aškenazi Gunzenhauser, 1487 (Indice generale degli incunaboli [=IGI], E32); Commento sopra il volume di Rut…, a cura di P. Perreau, Parma 1881; S.B. Eschwege, Der Kommentar des Immanuel ben Salomon zum Hohenliede 4-27, Frankfurt a.M. 1908; Comento sopra il libro di Ester… trascritto e pubblicato da Pietro Perreau…, Parma 1880.
Il contributo più originale I. lo ha però senz'altro dato allo sviluppo della letteratura ebraica postbiblica con la sua opera principale, le Maḥberot. Si tratta di un testo composito, strutturato in ventotto capitoli in cui si alternano prosa e versi, che furono composti da I. in periodi diversi e raccolti insieme nella vecchiaia, nel periodo in cui I. soggiornò a Fermo. L'occasione della raccolta viene narrata dallo stesso autore nell'introduzione all'opera: "mentre i miei giorni declinavano alla sera e dalla maturità ero passato alla vecchiaia, fui come uccello che dal nido fugga; e a Fermo, nella Marca fui, là dove incontrai cortesi uomini di fede, che nel regno di conoscenza e sapienza dimoravano […] E dopo il banchetto di Purim accadde […] e a dimorare in rigoglioso prato ci adunammo; e lì i nostri libri distendemmo e le nostre anime colse il desiderio di dire soltanto poesie e prose fiorite" (Maḥberet prima, ed. 2002, p. 23): durante questa adunata alcuni declamarono dei versi di I. attribuendosene la paternità e un sar, probabilmente il protettore di I., lo consigliò di raccogliere tutti i versi da lui composti in un unico libro: "Vieni e raccogli delle tue poesie e delle tue prose ogni schiera, e le parole della tua esultanza, dalla più grande alla più piccola, raccoglile in un libro, scrivi parole di gioia, poiché io ho visto il libro del rav Yehudah Harizi, che egli colmò di poesie e prose impresse di gran forza, e di sentenze sempre nuove che ignoravano gli antichi" (ibid., pp. 27-29). In questo brano è chiaramente indicata l'ascendenza letteraria delle Maḥberot: il poeta ebreo spagnolo Jehudà al Harīzī, vissuto un secolo prima di I., fu tra i principali scrittori di maqamot, genere tipico della letteratura araba medievale mutuato nella letteratura ebraica proprio da al Harizi, in cui si alternano prosa e poesia in stili diversi. Nei ventotto capitoli che compongono le Maḥberot i temi sono i più diversi: dall'autobiografismo della prima maḥberet, dedicata al destino inteso come scorrere ineluttabile del tempo e all'impotenza dell'autore personaggio nei confronti di questa forza divina, si giunge all'ultima, in cui l'autore stesso si fa giudice di chi è vissuto prima di lui e dei suoi contemporanei destinandoli per l'eternità alle pene dell'inferno o alla beatitudine del paradiso. Il rapporto di quest'ultima maḥberet con la Commedia dantesca sembra essere evidente, anche considerando che, come prima si ricordava, è stato ipotizzato che la guida del viaggio di I. nei regni oltremondani possa essere proprio Dante. Più imponente è però il debito che I. ha contratto con la tradizione poetica ebraica precedente, nella quale si inserisce rispettandone sostanzialmente i temi e lo stile, in cui prevale l'uso insistito di citazioni bibliche, ma nella quale propone anche innovazioni, soprattutto di tipo metrico con l'adattamento dell'endecasillabo e della forma sonetto alla lingua ebraica. L'editio princeps delle Maḥberot, che furono anche messe all'Indice, fu pubblicata a Brescia nel 1491 da Geršom Soncino (IGI, E40); l'edizione di riferimento è stata curata da D. Jarden (Gerusalemme 1957). In traduzione italiana sono disponibili due versioni della maḥberet 28 (Inferno e paradiso di Emanuele di Salomone della famiglia Sifronitide, versione poetica dall'ebraico di S. Seppilli, Ancona 1874, e Immanuello Romano, L'inferno e il paradiso, a cura di G. Battistoni, Firenze 2000) e una traduzione della Maḥberet prima (Il destino), a cura di S. Fumagalli - M.T. Mayer, Milano 2002.
I. compose anche alcune poesie in italiano, forse più di quelle che ci sono state tramandate dagli antichi manoscritti, che denotano un certo grado di confidenza con i poeti italiani a lui contemporanei. Il rapporto poetico più significativo, che alla lettura dei testi sembrerebbe indicare anche una certa considerazione reciproca, se non vera e propria amicizia, è senz'altro quello con Bosone da Gubbio, al quale I. inviò un sonetto in occasione della morte di Dante ("Io, che trassi le lagrime del fondo"); Bosone rispose con il sonetto "Duo lumi son di novo spenti al mondo". Altri tre sonetti trattano della natura di amore ("Amor non lesse mai l'Ave Maria") e dell'indifferenza nei confronti della passione politica o religiosa ("Io steso non mi conosco, ogn'om oda" e "Se san Pietro e san Paul da l'una parte"); tutti e tre i sonetti presentano però un laicismo e una tolleranza di fondo che non possono essere letti riduttivamente come una forma di opportunismo da parte di un poeta che aveva senz'altro bisogno di protezione dalle autorità politiche delle città nella quale si trovava a dimorare.
Tra le poesie italiane di I. il testo più significativo è senz'altro il Bisbidis, un componimento assimilabile al genere della frottola scritto dopo il 1312, ossia dopo l'inizio del soggiorno presso la corte veronese di Cangrande. Il Bisbidis è strutturato in 53 quartine di senari e il titolo, che nel manoscritto bolognese che lo tramanda si trova nella forma Bisbio, è mutuato dalla trentesima quartina nella quale sono riportati, in forma onomatopeica, i discorsi della donne di corte: "Bis bis bis, - bisbidìs disbidìs, / bisbisbidis - udrai consigliare". La frottola descrive la corte veronese di Cangrande, che l'autore afferma nel testo di aver raggiunto dopo un lungo peregrinare, soprattutto attraverso l'evocazione dei suoni che in essa più frequentemente si possono ascoltare e che sono riprodotti con l'uso insistito dell'onomatopea. Nella corte si possono udire e vedere macchine da guerra con i loro soldati e donne impegnate in feste e in tresche; la corte è luogo di dispute dotte e di declamazione di poesie, di cacce e di banchetti e tutto questo è rappresentato da I. in uno stile che ha fatto considerare il Bisbidis un'interessante manifestazione di espressionismo linguistico delle origini. Tutte le poesie italiane di I. sono pubblicate in Poeti giocosi del tempo di Dante, a cura di M. Marti, Milano 1956, pp. 315-327, ma si ricorra anche, per i sonetti, a Debenedetti.
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