Immersione subacquea
Inizialmente nata a scopi lavorativi o bellici, l'immersione subacquea è attualmente praticata soprattutto a livello sportivo o ricreativo, benché l'evoluzione delle tecniche di immersione abbia determinato la nascita di nuove tipologie di attività, quali l'archeologia subacquea, la biologia marina, la fotografia subacquea. L'immersione può avvenire in apnea o con l'impiego di una riserva d'aria. Entrambe le modalità possono determinare patologie anche gravi, qualora non vengano svolte in maniera adeguata.
sommario. 1. L'immersione in apnea. 2. L'immersione con autorespiratori ad aria. 3. Attrezzature per l'immersione. □ Bibliografia.
L'uomo esegue immersioni in apnea da più di 2000 anni. I raccoglitori di spugne dei mari della Grecia o quelli di perle del Golfo Arabico e dell'Oceano Indiano, i pescatori (o meglio, le pescatrici) ama dei mari del Giappone e della Corea hanno per secoli svolto l'immersione in apnea per mestiere. Oggi queste figure professionali sono quasi scomparse e sono state sostituite da altre, mentre si è imposta sempre più l'immersione in apnea condotta a scopi ricreativi o sportivi. Ciò ha reso maggiormente pressanti i problemi di sicurezza relativi a questa pratica, indubbiamente pericolosa se non viene svolta con l'accortezza e la preparazione dovute. È emersa inoltre la necessità di una migliore comprensione dei complessi fenomeni di adeguamento fisiologico che sono associati a tale attività. L'interesse dei fisiologi per lo studio dell'immersione in apnea può essere fatto risalire agli anni Cinquanta del 20° secolo; nel corso degli ultimi decenni, tuttavia, esso ha ricevuto nuovo impulso dal raggiungimento di tutta una serie di 'record di profondità' che hanno dimostrato come i limiti di tolleranza dell'organismo umano all'immersione in apnea fossero ben al di là di quelli che in passato, sulla base di teorie scientifiche rivelatesi almeno in parte errate, venivano considerati insuperabili.
L'immersione in apnea rappresenta un'attività di notevole interesse, in quanto comporta complessi fenomeni di adeguamento che sono associati all'interruzione volontaria della ventilazione polmonare, agli effetti della pressione idrostatica esercitata sull'organismo del soggetto immerso, all'esposizione all'ambiente acquatico, che predispone alla perdita di calore corporeo verso il mezzo fluido circostante, nonché all'impegno fisico spesso connesso all'immersione. I fenomeni di adeguamento fisiologico a questi stimoli si influenzano tra loro, rendendo il quadro ancora più complesso. La corretta lettura di tale quadro è utile sia per definire limiti e comportamenti di sicurezza durante le immersioni, sia per comprendere (e soprattutto prevenire) le manifestazioni patologiche, a volte gravi, associate alle immersioni, nonché per una migliore conoscenza di base delle capacità dell'organismo umano di adattarsi a modificazioni, talora estreme, delle condizioni ambientali. Mentre a livello del mare l'organismo è esposto a una pressione atmosferica pari circa a 760 mmHg, durante l'immersione in acqua tale pressione esterna aumenta in maniera lineare con la profondità, di circa 1 atmosfera (760 mmHg) ogni 10 m di profondità. I tessuti dell'organismo sono in gran parte composti di acqua, per cui sono incomprimibili e non risultano particolarmente sensibili all'aumento della pressione esterna, anche per pressioni molto elevate.
Il corpo umano è costituito, tuttavia, anche da 'cavità' contenenti gas, il cui volume dipende strettamente dalla pressione esercitata dall'esterno sull'organismo. Per i gas, infatti, la relazione tra pressione e volume è dettata dalla legge di Boyle: in condizioni di temperatura costante, il volume di un gas varia in maniera inversamente proporzionale alla pressione cui il gas è sottoposto. Tra le cavità dell'organismo contenenti gas, quelle maggiormente coinvolte dai fenomeni fisiologici di adeguamento all'immersione in apnea, e al tempo stesso le più importanti dal punto di vista dei rischi associati all'immersione, sono i polmoni e l'orecchio medio.
a) Modificazioni a livello polmonare
Come accennato in precedenza, la pressione idrostatica esercitata sulla cassa toracica aumenta linearmente con l'aumentare della profondità. Ciò significa che a una profondità di 20 m, una pressione di 3 atmosfere (una attribuibile alla pressione atmosferica alla superficie dell'acqua, le altre alla profondità) si trasmette attraverso la gabbia toracica ai gas contenuti nei polmoni, che devono pertanto (secondo la legge di Boyle) ridurre il loro volume a 1/3 rispetto a quello con il quale il soggetto aveva iniziato l'immersione. In altri termini, un soggetto che abbia iniziato l'immersione in apnea con un volume polmonare pari alla propria capacità polmonare totale (cioè il volume d'aria presente nei polmoni al termine di un'inspirazione massima), a 20 m di profondità deve ridurre il proprio volume polmonare di 2/3: se la capacità polmonare totale del soggetto è di circa 6 l, a 20 m di profondità il volume del polmone deve ridursi fino a circa 2 l. La capacità del sistema toracopolmonare di diminuire il volume del polmone senza incorrere in danni tessutali è tuttavia limitata; infatti, la gabbia toracica, pur essendo nel complesso una struttura piuttosto elastica, è costituita anche da strutture rigide, che se vengono sottoposte a sollecitazioni meccaniche eccessive possono andare incontro a deformazioni irreversibili e a rotture. A lungo si è ritenuto che questo fenomeno avrebbe costituito un limite invalicabile per quanto riguarda la massima profondità raggiungibile dall'uomo durante un'immersione in apnea. In particolare, si pensava che il sistema toracopolmonare non avrebbe consentito di raggiungere volumi polmonari inferiori a quelli corrispondenti al cosiddetto volume residuo (cioè il volume d'aria presente nei polmoni al termine di un'espirazione massima). I fisiologi calcolarono dei valori massimi di profondità in base al rapporto capacità polmonare totale/volume residuo.
Tali valori massimi di profondità erano compresi, in funzione delle due variabili (capacità polmonare totale e volume residuo, che possono presentare significative differenze da soggetto a soggetto), tra i 30 e i 50 m. Si riteneva che, oltre tali valori massimi di profondità, il sistema toracopolmonare non sarebbe più riuscito a compensare (riducendo il volume polmonare) l'aumento della pressione esterna, per cui si sarebbe creato uno squilibrio tra pressione all'interno dei polmoni e all'esterno della gabbia toracica, con conseguenze gravissime per l'integrità tessutale e funzionale del sistema. I fisiologi furono però smentiti dagli atleti, che a partire dagli anni Settanta del 20° secolo iniziarono a superare i limiti massimi di profondità indicati senza subire significativi danni a livello polmonare (attualmente i limiti massimi di profondità durante immersione in apnea superano abbondantemente i 100 m). Di fronte all'evidenza dei fatti che sconfessava le loro teorie, i fisiologi furono costretti a trovare, a posteriori, una spiegazione. Venne avanzata l'ipotesi (e in seguito fu anche possibile misurare e dimostrare sperimentalmente il fenomeno ipotizzato, pur con una certa approssimazione) che durante l'immersione in apnea si verifichi il cosiddetto blood shift, cioè un significativo afflusso di sangue nel torace, in conseguenza del fatto che la pressione idrostatica esterna determina una ridistribuzione del sangue circolante dalla periferia verso il torace.
Grazie al volume di sangue del blood shift (che secondo alcune misure potrebbe raggiungere valori pari fino a circa 1 litro), i polmoni dell'apneista riuscirebbero a raggiungere volumi sensibilmente inferiori a quello residuo, senza tuttavia determinare deformazioni eccessive delle strutture della gabbia toracica. La pressione idrostatica esercitata sulle pareti del torace durante l'immersione si trasmette ai gas contenuti negli alveoli polmonari, influenzando gli scambi dei gas respiratori (ossigeno, O₂, e anidride carbonica, CO₂) tra gli alveoli e i capillari polmonari (cioè a livello della cosiddetta membrana alveolocapillare). Occorre, a questo punto, definire il concetto di pressione parziale di un gas: in una miscela di gas (come l'aria che respiriamo) la pressione parziale di un dato gas è calcolabile moltiplicando la pressione totale della miscela per la frazione molare del gas all'interno della miscela stessa. Per es., nell'aria ambiente, circa il 21% dei gas presenti è costituito da O₂. A livello del mare, dove la pressione totale dei gas nell'aria ambiente (pressione atmosferica) è all'incirca di 760 mmHg, la pressione parziale di O₂ (pO₂) sarà pari al 21% di 760, e cioè a 160 mmHg. Gli scambi dei gas respiratori tra sangue e alveoli polmonari avvengono per diffusione, processo che è sostanzialmente regolato dalle differenze di pressione parziale dei gas ai due lati della superficie di scambio, in questo caso costituita dalla membrana alveolocapillare. Il gas, cioè, diffonde attraverso la superficie di scambio, passando dal sito con pressione parziale più elevata al sito con pressione parziale più bassa. Il processo va avanti fino a quando si raggiunge una condizione di equilibrio tra le pressioni parziali del gas ai due lati della superficie di scambio.
Normalmente, in un soggetto a riposo che respira aria ambiente a livello del mare, la pressione parziale di O₂ nell'aria alveolare (pAO₂) è pari circa a 100 mmHg, mentre nel sangue (venoso, cioè povero di O₂) che entra nel capillare polmonare la pO₂ è approssimativamente di 40 mmHg. Esiste pertanto una differenza di pressione di circa 60 mmHg che spinge l'O₂ dall'alveolo al sangue del capillare polmonare. Al termine del capillare polmonare la pressione parziale di O₂ del sangue si è equilibrata con quella alveolare e il sangue è pertanto diventato arterioso, cioè ben ossigenato. Uno scenario simile (anche se i valori pressori sono diversi) vale anche per la CO₂, che segue tuttavia il percorso inverso, cioè passa normalmente dal sangue del capillare polmonare all'alveolo (per essere poi eliminata nell'ambiente con la ventilazione polmonare). Durante un'apnea 'a secco' (cioè in una condizione in cui la ventilazione polmonare è interrotta, e il soggetto si trova 'in aria', cioè esposto alla pressione atmosferica), pAO₂ diminuisce progressivamente in funzione del tempo, in quanto è interrotto il ricambio di aria relativamente ricca di O₂ proveniente dall'ambiente, e l'O₂ viene continuamente trasferito dall'alveolo al capillare. Il risultato della riduzione di pAO₂ è che l'ossigenazione del sangue del capillare polmonare diviene sempre meno efficiente. Nell'immersione in apnea, d'altro canto, il quadro è completamente diverso. La pressione idrostatica esercitata sul torace e trasmessa agli alveoli determina infatti un aumento di pAO₂, progressivo con l'aumentare della profondità, che mantiene molto efficiente sia il passaggio dell'O₂ dall'alveolo al capillare polmonare sia l'ossigenazione del sangue (anche se la ventilazione polmonare è interrotta).
Questo effetto, utile fin quando l'apneista discende o rimane in profondità, diventa tuttavia pericolosissimo durante la fase di risalita. In questa fase, infatti, la riduzione progressiva della pressione idrostatica esercitata sul torace determina un'altrettanto progressiva espansione del volume polmonare e diminuzione di pAO₂. Dal momento che la ventilazione è interrotta, e quindi l'apporto dell'O₂ dall'ambiente all'alveolo è impossibile, pAO₂ si riduce in maniera marcata, e può raggiungere valori così bassi da risultare inferiori a quelli della pressione parziale di O₂ del sangue del capillare polmonare, determinando in tal modo un passaggio di O₂ nella direzione opposta a quella normale: il gas passa cioè dal sangue capillare all'alveolo. Ciò significa che, invece di ossigenarsi nel polmone, il sangue perde O₂ a livello polmonare. Il fenomeno avviene in genere, come già detto, durante la fase di risalita (anche da immersioni di pochi metri di profondità) e la deossigenazione sanguigna che ne deriva è particolarmente marcata negli ultimi metri, in quanto è proprio in questa fase che la pAO₂ raggiunge i suoi valori più bassi. L'ipossia del sangue arterioso può avere effetti negativi molto gravi a livello del sistema nervoso centrale e può causare perdita di coscienza e sincopi, anche senza alcun sintomo premonitore. Se l'apneista non viene immediatamente assistito, mediante interventi di respirazione artificiale, le conseguenze possono essere drammatiche. Gli effetti della pressione idrostatica esterna sulle pressioni parziali dei gas alveolari riguardano anche la CO₂ che, come ricordato in precedenza, in condizioni normali diffonde dal capillare polmonare all'alveolo.
Durante l'immersione in apnea, d'altro canto, l'aumento della pressione parziale di CO₂ nell'aria alveolare fa sì che tale pressione superi il valore della pressione parziale del gas nel sangue del capillare polmonare; per tale motivo si assiste a un passaggio inverso di CO₂, che si attua dall'alveolo al capillare polmonare. La buona ossigenazione del sangue arterioso durante la discesa, la permanenza in profondità e gran parte della risalita sono pericolose anche perché riducono la 'fame d'aria' dell'apneista, cioè lo stimolo a riprendere la ventilazione polmonare. Quest'ultima è infatti parzialmente regolata dalla pO₂ nel sangue arterioso (paO₂): al di sotto di una certa soglia, tanto più bassa è la paO₂ tanto maggiore è lo stimolo a ventilare. I valori elevati di paO₂ nel corso dell'immersione sono pertanto pericolosi, in quanto l'apneista non avverte stimoli alla ventilazione di natura ipossica e rischia di rimanere sul fondo in condizioni di perfetto benessere per periodi di tempo eccessivi, tali da metterlo in condizioni di pericolo durante la successiva fase di risalita. Il rischio è ulteriormente aggravato se l'immersione in apnea è stata preceduta, come spesso avviene, da un periodo di iperventilazione (cioè di aumento di ventilazione polmonare) volontaria. L'iperventilazione determina infatti un aumento dell'eliminazione di CO₂ a livello polmonare, con conseguente riduzione della pressione parziale di CO₂ nell'aria alveolare (pACO₂) e nel sangue arterioso (paCO₂).
Quest'ultima è la principale variabile che regola la ventilazione polmonare: al di là di un valore soglia, tanto più alta è la paCO₂ tanto più intenso è lo stimolo a ventilare (e viceversa). L'iperventilazione prima dell'immersione pertanto, riducendo la paCO₂, ritarda il punto in cui, durante la successiva immersione, lo stimolo a ventilare rappresentato dall'aumento della paCO₂ (conseguenza dell'attività metabolica del soggetto, nonché del passaggio inverso di CO₂ dall'alveolo al capillare durante la fase di discesa e di permanenza in profondità) diviene efficace. Anche questo fenomeno può contribuire a ritardare pericolosamente l'inizio della risalita. Si è osservato un parallelismo in un gruppo di apneisti di profondità e in mammiferi e uccelli acquatici che per procurarsi il cibo eseguono immersioni in apnea di diverse profondità e durata. È noto da tempo che varie specie di mammiferi e di uccelli acquatici manifestano alcuni interessanti adattamenti fisiologici all'immersione in apnea, che comprendono, tra l'altro, una marcata bradicardia (riduzione della frequenza cardiaca) e una vasocostrizione periferica (riguardante in particolare il distretto muscolare) durante le immersioni (fenomeni compresi nel cosiddetto diving reflex), nonché una diminuita sensibilità ventilatoria all'aumento della CO₂ nell'aria inspirata e nel sangue.
La vasocostrizione periferica viene interpretata come una strategia volta a limitare, durante l'immersione, l'utilizzazione di O₂ da parte dei muscoli scheletrici, preservando l'O₂ disponibile per il fabbisogno di organi vitali come il cuore e il cervello, che possono andare incontro a una significativa compromissione funzionale e a danni, anche irreversibili, in condizioni di carenza di O₂. La riduzione della frequenza cardiaca durante l'immersione avrebbe il compito di limitare il fabbisogno di O₂ del cuore, contribuendo in tal modo a prevenire la comparsa di squilibri tra fabbisogno e apporto di O₂ dell'organo. La ridotta sensibilità alla paCO₂ avrebbe invece lo scopo di prolungare la durata dell'apnea, ritardando il 'punto di rottura' della stessa, associato in genere a determinati livelli di paCO₂. Studi condotti su di un gruppo di apneisti, detentori di record di profondità in apnea compresi tra 70 e 101 m, hanno evidenziato anche in questi soggetti fenomeni di adattamento del tutto simili a quelli descritti nei mammiferi e negli uccelli acquatici (Ferretti et al. 1991; Ferrigno et al. 1991; Grassi et al. 1994). Tuttavia l'esiguità della campionatura, ossia il numero limitato di individui esaminati, e l'omogeneità, ossia il fatto che si trattava di membri della stessa famiglia, non consentono di determinare se tali modificazioni siano effettivamente l'espressione di fenomeni di adattamento fisiologico o piuttosto di una predisposizione genetica alle immersioni in apnea.
b) Modificazioni a livello dell'orecchio medio
Un altro distretto corporeo interessato dai problemi di volume/pressione dei gas durante l'immersione in apnea, con conseguenze a volte molto significative per la salute e la sicurezza dell'apneista, è costituito dall'orecchio esterno/orecchio medio. La membrana timpanica separa il meato acustico esterno dalle complesse strutture anatomiche dell'orecchio medio, che è a sua volta collegato, attraverso le tube uditive, alla faringe, cioè alle vie aeree superiori. In condizioni normali, ossia quando il soggetto è esposto all'aria ambiente e non è sottoposto a modificazioni improvvise di altezza, ai due lati della membrana timpanica la pressione è quella atmosferica. Le tube uditive sono un canale molto sottile (diametro minimo di circa 2 mm, per una lunghezza di circa 4 cm) e sono a volte collabite. Durante l'immersione la superficie esterna della membrana timpanica è esposta alla pressione idrostatica, che aumenta con l'aumentare della profondità. Se le tube uditive sono collabite, la pressione dell'aria contenuta nell'orecchio medio può non riuscire a equilibrarsi con la pressione dell'aria contenuta nelle vie aeree superiori che, come si è rilevato in precedenza, aumenta anch'essa in funzione della profondità, in conseguenza della riduzione del volume polmonare.
L'aria contenuta nell'orecchio medio risulta cioè funzionalmente 'isolata' rispetto alle vie aeree superiori, mentre è anatomicamente separata dalla membrana timpanica dall'ambiente esterno. Il risultato di tutto ciò è che a cavallo della membrana timpanica si determina una differenza di pressione (più alta alla superficie esterna, più bassa a quella interna), i cui effetti sono la deformazione della membrana stessa, il rischio di rottura, la comparsa di dolore e conseguenze cliniche potenzialmente molto gravi. Per ovviare a ciò l'apneista deve compiere, a intervalli regolari durante la fase di discesa, manovre di compensazione volte a 'riaprire' le tube uditive, cioè a ristabilire la comunicazione tra vie aeree superiori e orecchio medio, e quindi a ripristinare l'equilibrio pressorio ai due lati della membrana timpanica. Può essere sufficiente una semplice deglutizione, oppure è necessario ricorrere alla manovra descritta da G. Odaglia (1985) che consiste nel provocare una diminuzione del volume del cavo orofaringeo cui consegue un aumento di pressione nella retrofaringe, meccanismo che si ottiene chiudendo il naso e portando la lingua in alto e indietro. Infine, può essere praticata la manovra del Valsalva che consiste in un'espirazione forzata a naso e glottide chiusi. Questa, peraltro, determina un aumento della pressione intrapolmonare, per cui vi si deve ricorrere in ultima istanza, qualora risultino inefficienti le manovre precedentemente descritte.
Tali manovre di compensazione possono essere difficili o del tutto vane in presenza di processi infiammatori, anche banali, a carico delle vie aeree superiori, in quanto l'edema tessutale e l'infiammazione delle mucose delle vie respiratorie possono rendere problematica o addirittura impossibile l'apertura delle tube uditive. È appunto per questo motivo che le immersioni in apnea sono controindicate quando si manifestino processi infiammatori, pur lievi, delle vie aeree superiori. Anche senza arrivare alla rottura della membrana timpanica, deformazioni ripetute di tale membrana possono condurre, con il passare del tempo, a fenomeni infiammatori cronici e conseguente perdita, parziale o completa, della capacità uditiva. I fenomeni sopra descritti sono simili, anche se di segno diverso, a quelli che avvengono durante ascese rapide di quota (per es., in auto, in funivia, in aereo). In questi casi lo squilibrio pressorio tra i due lati della membrana timpanica è attribuibile alla riduzione della pressione atmosferica, effetto della salita in quota. Anche in queste condizioni improvvisi dolori oppure sensazioni fastidiose all'orecchio indicano la necessità di ristabilire l'equilibrio pressorio ai due lati della membrana, ripristinando la comunicazione tra orecchio medio e vie aeree superiori attraverso l'apertura delle tube uditive (ciò è in genere possibile eseguendo semplici manovre, come uno sbadiglio).
c) Effetti della temperatura
Immersioni prolungate possono anche determinare importanti problemi di termoregolazione. La temperatura dell'acqua alla quale l'organismo umano immerso non perde né guadagna calore per conduzione tra la cute e l'acqua (cioè la temperatura termoneutra) è di 35 °C, ed è quindi sensibilmente superiore rispetto a quella riscontrabile, anche in corrispondenza dei mesi più caldi, nel mare o nell'oceano. Durante l'immersione in acqua, pertanto, l'organismo umano perde progressivamente calore. Tale perdita è ovviamente tanto più marcata quanto più bassa è la temperatura dell'acqua. L'ipotermia (cioè la riduzione della temperatura corporea) che può conseguire a un'eccessiva perdita di calore rappresenta un significativo pericolo, in quanto può compromettere la funzione di organi e apparati essenziali. Il problema può essere naturalmente risolto, o per lo meno notevolmente attenuato, con l'utilizzazione di mute protettive (v. oltre: Attrezzature per l'immersione).
Un'evoluzione dell'immersione in apnea è rappresentata dall'impiego di autorespiratori ad aria, grazie ai quali il subacqueo può aumentare sia la profondità sia la durata della permanenza in acqua. Esistono pericoli per la salute anche in questo tipo di immersioni; essi sono tuttavia minori rispetto a quelli dell'immersione in apnea, purché vengano rispettate precise norme nelle varie fasi dell'immersione. I problemi derivanti dalla diminuzione della temperatura dell'acqua e dall'aumento della pressione a livello timpanico sono gli stessi che si presentano per l'apneista. L'impiego di mute permette di migliorare la termoregolazione e, per quanto riguarda la seconda evenienza, la maggiore disponibilità di aria e, conseguentemente, la possibilità di aumentare il tempo di immersione consentono di attuare in maniera più agevole le manovre per la compensazione descritte in precedenza. Il subacqueo, grazie ai dispositivi che caratterizzano gli autorespiratori ad aria, respira aria erogata a pressione ambiente. Vengono quindi a mancare le problematiche relative alle modificazioni degli scambi gassosi di O₂ e CO₂ che attengono all'apneista. Se da un lato il poter respirare aria a volontà anche sott'acqua consente di compiere attività (lavorative o ricreative) pure in un ambiente che non è quello abituale, dall'altro questo stesso vantaggio può determinare gravi problemi a colui che se ne avvale. Infatti per la legge di Henry i gas che compongono l'aria respirata vengono assorbiti dall'organismo in base alla differenza di pressione parziale che esiste nella miscela gassosa alveolare, da un lato, e nel sangue del capillare polmonare, dall'altro, nonché nel sangue dei capillari periferici e nei diversi tessuti dell'organismo. L'azoto, gas metabolicamente inerte, vale a dire che non viene utilizzato dall'organismo, è presente nell'aria in quantità considerevole, pari a circa il 79% del volume dell'aria. A mano a mano che la pressione aumenta, esso si scioglie nel sangue e nei tessuti in misura notevole con un andamento esponenziale verso la saturazione. In seguito, nel momento della risalita, vale a dire quando l'organismo viene decompresso e la pressione ambientale diminuisce, l'azoto tende a liberarsi ritornando in forma gassosa.
Se la riduzione della pressione non è graduale e regolamentata in maniera corretta, si formano bolle di azoto nei tessuti e nel sangue; queste possono confluire andando a formare bolle di dimensioni sempre maggiori che possono arrestarsi a livello dei capillari polmonari da dove cedono gradatamente azoto agli alveoli. Quando sono troppo numerose, rappresentano un ostacolo emodinamico con segni di insufficienza respiratoria e circolatoria. Le piccole bolle che giungono nel versante arterioso della circolazione determinano fenomeni ischemici soprattutto a carico del sistema nervoso (paraparesi, paraplegie, emiparesi, alterazioni funzionali degli sfinteri, compromissione della coscienza), dell'apparato locomotore (dolori ai muscoli e alle articolazioni accompagnati da sintomi generali anche gravi), del polmone (tosse, senso di oppressione respiratoria, fino all'insufficienza respiratoria), della cute (ecchimosi o macchie diverse e formazione di bolle nel tessuto sottocutaneo con prurito) e del sistema linfatico (localizzazione rara, dolore e gonfiore di gruppi di linfonodi con linfedema). Al fine di prevenire le insorgenze patologiche (malattia da decompressione), è necessario che il subacqueo rispetti determinate regole nell'esecuzione della sua immersione soprattutto per quanto concerne la risalita. Questa deve avvenire a una velocità non superiore ai 10 m/s. Secondo una regola empirica, non bisogna risalire più velocemente delle bolle d'aria emesse con l'aria espirata.
Per talune immersioni, caratterizzate da una permanenza a una data profondità (comunque non superiore ai 50 m) per un tempo non superiore a un preciso limite in rapporto alla profondità (curva di sicurezza), non è necessario effettuare soste di decompressione, anche se è buona norma osservare sempre una sosta di tre minuti a 3 m di profondità prima di risalire in superficie. Per altre immersioni, caratterizzate da un rapporto tempo/profondità che esce dai confini della curva di sicurezza, sarà obbligatorio effettuare delle soste di decompressione a diverse profondità (in genere a 6 e a 3 m) per tempi ben precisi prima di risalire (tappe di decompressione). Queste regole sono contenute nelle tabelle di decompressione ideate per la prima volta da P. Bert e J.S. Haldane, poi rielaborate dagli esperti della marina militare americana (US Navy standard air tables) e in seguito (restrittivamente) da A.A. Bülmann. Qualora un subacqueo andasse incontro a malattia da decompressione, è di fondamentale importanza trasportarlo il più velocemente possibile in un centro iperbarico, specializzato nella terapia di questa tipologia di incidenti, possibilmente somministrandogli ossigeno. Sotto stretto controllo medico il paziente verrà ricompresso artificialmente in camera di decompressione al fine di sciogliere le bolle di azoto; successivamente e gradualmente verrà decompresso fino a livello atmosferico. In genere questo tipo di trattamento, associato in vario modo all'ossigenoterapia, si è rivelato estremamente utile nel trattamento dell'embolia gassosa; tuttavia, non sempre gli esiti coincidono con la guarigione completa, soprattutto nei casi di più grave entità. A pressioni elevate possono inoltre manifestarsi altri disturbi, come stato di euforia, ebbrezza, lentezza dei riflessi fino alla perdita di coscienza.
Tali fenomeni, detti narcosi d'azoto o ebbrezza di profondità, scompaiono non appena viene iniziata la risalita, ma si aggravano se viene protratta la permanenza o aumentata la profondità. Sono causati dall'aumento della pressione parziale di azoto che legandosi con l'ossigeno forma il protossido d'azoto, un gas anestetico. Anche l'ossigeno, qualora la sua pressione parziale si elevi al di sopra di un livello soglia (1,5 bar), diviene tossico per i tessuti. Questo limita la possibilità di immersione con autorespiratori ad aria alla profondità di 80 m. Nel caso in cui durante la risalita il subacqueo per le più disparate cause (broncospasmo, brusca erogazione di gas ad alta pressione, esecuzione di una manovra di Valsalva ecc.) ometta di respirare in modo regolare e continuo, si può verificare un brusco aumento del volume di aria intrapolmonare con conseguente aumento della pressione da questa esercitata. Avviene così una sovradistensione polmonare con possibile rottura degli alveoli polmonari e comparsa di fenomeni di embolia gassosa e pneumotorace.
Per l'immersione in apnea il subacqueo utilizza un equipaggiamento di base composto di pinne, maschera e aeratore. Le pinne sono costituite da una scarpetta in gomma morbida, da una pala in materiale plastico più o meno rigido o, in particolari tipi, in fibra di carbonio; per l'apnea sono preferibilmente utilizzate pinne a pala stretta e lunga (6-7 cm), per una spinta più efficace. La maschera, il cui corpo può essere di gomma o silicone, deve avere una sagomatura che contenga il naso al suo interno e ne permetta la presa per eseguire la manovra della compensazione; deve contenere il minor volume di aria possibile e a questo scopo sono preferite le maschere con doppio cristallo, in quanto aderiscono maggiormente al volto; i due cristalli devono essere complanari per evitare una visione distorta. L'aeratore (o respiratore) è costituito da un tubo in gomma munito di un boccaglio morbido generalmente di silicone, di lunghezza e diametro tali da non ostacolare la respirazione e nel contempo evitare un eccessivo aumento del volume morto tracheobronchiale. Per limitare al massimo la dispersione di calore del corpo immerso in acqua viene utilizzata la muta; ne esistono vari tipi, studiati per le diverse esigenze: mute umide, semistagne e stagne. Per l'apnea viene impiegata in genere la muta umida, che permette l'ingresso di una minima quantità d'acqua. È generalmente in due pezzi, pantalone e giacca provvista di cappuccio, costituita di neoprene, di spessore variabile (in genere non oltre i 5 mm). Può essere completata da calzari e guanti dello stesso materiale. Si utilizza inoltre una cintura zavorrata con fibbia a sgancio rapido per compensare la spinta idrostatica positiva della muta.
Come misura preventiva di sicurezza il subacqueo porta un coltello. Molte delle attrezzature necessarie per l'apnea possono essere impiegate anche per l'immersione con autorespiratore, seppure con differenti caratteristiche specifiche. Si usano pinne generalmente di lunghezza media a pala più larga e mediamente più rigida; esistono anche pinne a scarpetta non intera ma con cinghiolo regolabile, che vanno indossate con appositi calzari dotati di suola. La maschera può essere di volume maggiore, e in questo caso possono essere utilizzate maschere con più ampio campo visivo. Le mute per immersioni con autorespiratore devono offrire una migliore protezione contro il freddo, tenendo conto delle profondità operative e dei tempi di permanenza notevolmente maggiori. Lo spessore è dunque superiore a quello delle mute da apnea (oltre i 5 mm). Le mute umide possono essere in due pezzi, con cerniera; le mute dette semistagne sono comunque mute umide, nelle quali sono adottati particolari accorgimenti (cerniera stagna posta lungo le spalle) per ridurre al minimo l'ingresso dell'acqua. Esistono inoltre in commercio mute stagne, che hanno tuttavia un impiego limitato (per lo più immersioni professionali in ambienti particolarmente freddi) e raccomandato a subacquei esperti: hanno una conformazione che consente una tenuta stagna (calzari incorporati, apposite guarnizioni ai polsi e al viso) e sono collegate alla presa di bassa pressione dell'erogatore per potervi immettere o scaricare aria attraverso un'apposita valvola, avendo così anche una funzione equilibratrice dell'assetto. Vengono naturalmente utilizzati guanti e calzari; la zavorra varia in relazione al tipo di equipaggiamento adottato. L'autorespiratore ad aria (ARA) è composto fondamentalmente di una o più bombole e di un erogatore. La riserva, utile a fornire un adeguato preavviso dell'esaurimento dell'aria, va cadendo in disuso, essendo stata soppiantata dall'impiego del manometro, che dà in ogni momento la condizione di carica della bombola. In particolari attività professionali, ove sia richiesta un'elevata profondità di esercizio, le bombole vengono caricate con miscela gassosa diversa dall'aria, per evitare i problemi connessi con un'eccessiva pressione parziale dell'ossigeno e dell'azoto. Le miscele generalmente usate sono costituite da elio e ossigeno oppure da elio, ossigeno e azoto o da idrogeno e ossigeno. L'erogatore è un dispositivo atto a ridurre la pressione del gas contenuto nella bombola al valore ambiente.
Nel 1942 J.-Y. Cousteau e É. Gagnan realizzarono il primo erogatore detto monostadio, in quanto la riduzione di pressione bombole/ambiente avveniva in un'unica fase. Questo è stato successivamente sostituito dall'erogatore bistadio, in cui la riduzione di pressione avviene in due tempi, tramite il primo stadio, montato sulla rubinetteria della bombola, e il secondo stadio, provvisto di boccaglio. Il primo stadio è dotato di alcune uscite: ad alta pressione, esclusivamente per il manometro (che indica il valore della pressione nella bombola), e a bassa pressione, alle quali si collega la frusta per il giubbetto ad assetto variabile (GAV) ed eventualmente un secondo stadio supplementare. Nell'immersione con ARA è previsto l'uso di un GAV, che serve a mantenere un assetto costante indipendentemente dalla profondità (l'aumento di pressione induce la diminuzione di spessore della muta, variando l'assetto idrostatico del subacqueo) tramite l'immissione e lo scarico di aria. Allo scopo di definire i dati necessari all'immersione, si è diffuso l'uso del computer da immersione. Esso rileva con esattezza in ogni momento dati quali profondità, tempo, velocità di risalita, e permette quindi un calcolo più preciso dei tempi di decompressione. Proprio per questo motivo il suo impiego è raccomandato a subacquei già esperti, in quanto la definizione dell'immersione tramite l'uso delle tabelle permette un margine di sicurezza maggiore rispetto a variabili soggettive o contingenti.
Esistono inoltre in commercio computer collegati all'ARA mediante un trasmettitore, i quali, registrando anche i dati relativi alla velocità di ventilazione, forniscono ulteriori informazioni relativamente all'aria residua e ai tempi di decompressione. Per chiunque pratichi attività subacquea con autorespiratori è indispensabile seguire un corso di addestramento. Questo fornisce una base teorica riguardante le modificazioni che intervengono nell'organismo del subacqueo, le regole per effettuare un'immersione in sicurezza e la preparazione per fronteggiare eventuali emergenze. Alla fine del corso viene rilasciato un brevetto senza il quale all'estero non è possibile effettuare immersioni.
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